7 luglio 1944: le donne salvano Carrara

Il 7 luglio del 1944, nelle strade di Carrara, compare un bando di sfollamento: il comando tedesco ordina che di lì a due giorni venga evacuata la città, a esclusione delle famiglie degli operai impiegati nell’Organizzazione Todt che stanno fortificando le difese della futura Linea Gotica occidentale. Le forze di occupazione vogliono una città deserta, che non dia problemi amministrativi né di ordine. Soprattutto, vogliono fare il deserto attorno alle prime forme nascenti del movimento partigiano. Le cose, però, non andranno secondo i piani delle autorità nazifasciste: a fermarle saranno le donne di Carrara.

La città apuana, in quel momento, ospita migliaia di sfollati provenienti dai territori limitrofi: la zona costiera tra La Spezia e Marina di Massa, infatti, deve restare sotto il controllo tedesco per respingere eventuali sbarchi delle forze alleate. Alle spalle di Carrara, inoltre, il naturale catenaccio delle Alpi Apuane viene individuato come elemento strategico: una difesa naturale per stabilire l’ultimo baluardo contro l’avanzata dell’esercito di liberazione. Così, da settembre del ‘44 ad aprile del ‘45, il fronte si stabilirà lungo la Linea Gotica.

Nei mesi precedenti i comandi nazisti ordinano di «pulire» il territorio dalla presenza di civili, per trasformarlo in una gigantesca no man’s land che consenta alle loro truppe di muoversi liberamente, ricevere rifornimenti e approntare le difese. E’ la strategia della «terra bruciata», che oltre alle stragi porta anche una lunga serie di ordini di evacuazione: per la Provincia di Apuania si tratta di prelevare e trasferire oltre duecentomila persone verso la bassa padana; per la popolazione significa lasciare tutto ciò che non si riesce a racchiudere in un’unica valigia.

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Francesca Rola con i partigiani della “Ulivi”

La Resistenza apuana, in quel momento, è ancora in stato embrionale: il movimento partigiano ha messo radici dapprima nelle colline dell’alta Lunigiana, ideale rifugio per le tattiche della guerriglia; sui monti di marmo, invece, si vanno formando i primi gruppi ancora disorganizzati ma che, già il 14 luglio, riusciranno ad assaltare con successo la caserma di polizia del «Colombarotto», nel pieno centro di Carrara. Non hanno ancora, però, la forza di scendere in città, assumerne il controllo e costringere il nemico a scendere a patti, cosa che avverrà qualche mese dopo, l’11 novembre del 1944. In altri termini, in quel momento non possono essere i partigiani della formazione garibaldina «G. Ulivi» a salvare Carrara fermando il piano di evacuazione.

L’occasione, però, può essere propizia per due motivi: saggiare la forza e la capacità organizzativa del nemico, per vedere se è davvero in grado di deportare decine di migliaia di persone in un solo giorno; verificare la presa popolare del movimento resistenziale sui cittadini carraresi. Il Cln e i Gruppi di difesa della donna (Gdd) cominciano a mobilitarsi: appaiono per le strade di Carrara dei volantini che invitano gli apuani alla disobbedienza. Si attiva anche un passaparola che sfugge alle maglie della polizia fascista: «non abbandonare la città» è la parola d’ordine che corre di casa in casa. Il giorno previsto per lo sfollamento, il 9 luglio, passa senza che accada nulla e il movimento prende corpo e coraggio: all’avanguardia c’è un ristretto nucleo composto da militanti come Ilva Babboni, Francesca Rola, Sandra Gatti, Nella Bedini, Renata Bacciola, Lina Boldi, Lina Del Papa, Dorina Mazzanti, Mercede Menconi, Odilia Brucellaria, Renata Brizzi. Preparano cartelli con scritte «Noi non vogliamo sfollare» o «Non ci muoviamo dalla città»: l’obiettivo è una grande dimostrazione davanti al comando tedesco.

La mattina dell’11 luglio, un martedì, qualcosa si muove. Le militanti vanno per le vie e le case a chiamare a raccolta le donne di Carrara. Attorno alle 9.30 si ritrovano nella Piazza delle Erbe dove si tiene il mercato ortofrutticolo. Serve un gesto, qualcosa che coinvolga le altre donne che tengono le ceste del mercato, provenienti perlopiù da Massa e Montignoso, e che trasformi un piano ristretto in una manifestazione di popolo: rovesciano le ceste. Un atto spregiudicato e, al contempo, simbolico: la donna che rovescia e rovina del cibo è un attacco diretto al suo ruolo nella società di quegli anni, e il tutto avviene non nell’intimità del nucleo familiare, né tra un ristretto nucleo di avanguardiste. Il rovesciamento, non solo delle ceste ma del ruolo della donna, avviene alla luce del sole, ben visibile a tutti e ottiene lo scopo prefissato. Il corteo, ora composto da centinaia di donne e ragazzi, compie un altro passaggio cruciale: lascia lo spazio pubblico femminile per definizione, il mercato, e si dirige verso la via Garibaldi (odierna via 7 luglio) per invadere un luogo pubblico-militare esclusivamente maschile, il comando tedesco. Questo è presidiato da soldati nazisti e militi fascisti repubblicani che, immediatamente, sbarrano i due ingressi alla strada con mezzi pesanti precludendo tutte le vie di fuga. Le manifestanti, cui si mescolano partigiani in borghese con le armi nascoste sotto dei camici lunghi, urlano, cantano, si sdraiano a terra e si scagliano contro i soldati nemici che gli puntano contro le armi – tra cui due mitragliatrici – pronti a far fuoco. Alcune vengono arrestate e tradotte in caserma, ma la loro furia non si ferma e, infine, l’ordine di evacuazione viene sospeso.

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Il murale che Carrara ha dedicato a Francesca Rola

Nei mesi successivi saranno emanati altri bandi di sfollamento in rapida successione, coi Gdd pronti a riprendere la contestazione. In ottobre saranno effettivamente evacuate Massa e Montignoso, con circa ventimila profughi che si riverseranno su Carrara, accolti in ogni spazio che la città può offrire tra cui abitazioni private, magazzini, fondi commerciali, cinema e teatri. La città apuana, però, non verrà più sfollata, consentendo al movimento partigiano di mettere salde radici e trovare sostegno nella popolazione, fino a divenire una delle forme resistenziali meglio organizzate del territorio.

La rivolta di Piazza delle Erbe rimane nella memoria come momento di emancipazione collettiva. Le donne carraresi, da quel momento, si sentono protagoniste dei destini non solo di un nucleo familiare, ma di un intero popolo. Non si tratta di «Resistenza civile» come qualcosa di diverso e complementare a quella partigiana e armata, né di allargare il concetto alla forma plurale delle «Resistenze» per comprenderne la variante di genere; si tratta, invece, dell’atto fondante della Resistenza apuana.

Articolo pubblicato nel luglio del 2015.




Gli anarchici apuani di fronte alla Grande Guerra

Nelle settimane precedenti allo scoppio del conflitto mondiale i rapporti fra le forze della sinistra avevano assunto nella provincia apuana caratteri di vero e proprio antagonismo. Nel continuo gioco di contrasti e di ricomposizione delle alleanze che attraversava da anni l’organizzazione operaia, il ‘blocco rosso’ aveva infatti conosciuto una spiccata curvatura antisocialista, complici alcuni avvenimenti che avevano finito per alimentare tensioni fra le diverse tendenze fino a ridurne il potenziale sovversivo temuto dalle autorità. I sospetti di un larvato supporto degli anarchici al trionfo repubblicano nel voto comunale di Carrara del luglio 1914 si erano saldati con l’eco di furibonde accuse di parte socialista in occasione dell’elezione a deputato del repubblicano Eugenio Chiesa, impostosi nel novembre del ’13 per poche schede sul leader del PSI massese Francesco Betti. Sommate alla crescente insofferenza verso gli eccessi sindacalisti dell’anarchico Alberto Meschi, che con la Camera del lavoro carrarese era stato fra i protagonisti del congresso fondativo dell’USI del 1912, le polemiche elettorali contribuirono così a determinare nella calda estate del ’14 una dolorosa scissione nel movimento operaio con la creazione a Massa di un nuovo organismo camerale confederale da parte dei socialisti. I contrasti fra gli scissionisti da un lato e gli anarchici e i repubblicani dall’altro, sfociati in diversi casi in scontri anche mortali, non si attenuarono neppure di fronte ai problemi sollevati dall’avvento della guerra, con la prosecuzione fino al termine dell’anno di feroci dispute. Una scia di risentimenti che si saldava con la pesantissima crisi di un settore come quello marmifero che da luglio dovette fare i conti anche con il blocco dei commerci prodotto dal conflitto, capace di mettere in ginocchio l’economia di una realtà dipendente per intero dalle attività estrattive.

Se all’annuncio della dichiarazione di guerra austriaca tali divisioni non impedirono la convocazione a Carrara di un «grande comizio contro la guerra» su basi unitarie in cui il sindaco Eumene Fontana intervenne con il compagno di partito Edgardo Starnuti, il socialista Alberto Malatesta, il sindacalista Tullio Masotti e Meschi, la mobilitazione dei primi giorni costituì comunque un episodio isolato e fino all’anno nuovo seguì  una sostanziale stasi di iniziative pubbliche di segno antinterventista.

Dopo il consolidarsi della dichiarazione governativa di neutralità (3 agosto), la conseguente separazione dal campo dei contrari alla guerra dell’interventismo di sinistra si materializzò localmente nella torsione verso l’intervento dell’intero stato maggiore repubblicano: sulla scia del deputato Chiesa l’amministrazione comunale si associò senza incertezze alla posizione sancita dai vertici del partito. Gli anarchici dal canto loro tardarono a costruire iniziative spiccatamente antinterventiste e apparvero impegnati in maggior misura in azioni contro la gravissima crisi economica o in vertenze aperte dal periodo anteriore al conflitto che impedivano per il momento di far emergere in maniera chiara la tematica antibellica, anche perché ad esse continuavano spesso a partecipare, dietro la comune copertura della CdL carrarese, gli stessi repubblicani. Un’opposizione diretta ispirata ai principi antiautoritari e antimilitarsisti propri della contestazione libertaria alla guerra, pur non del tutto assente, si limitava a qualche sporadica dichiarazione alla stampa militante dei circoli più noti, mancando di momenti di presenza scenica pubblica destinati invece, in una terra proletaria come quella apuana, alla protesta di stampo economico. Anche il foglio della CdL «Il Cavatore», fondato da Meschi nel 1911 come organo camerale, dopo un’editoriale di condanna allo scoppio del conflitto interamente giocato sul filo di un acceso antipatrottismo, tenne verso il tema una linea defilata e quasi disinteressata. Mentre l’impegno di segno neutralista da parte dei socialisti apuani non era venuto mai meno e aveva continuato ad intensificarsi in parallelo con la politica del partito, i ritardi nel processo di affermazione di un’opposizione frontale e propriamente politica al conflitto da parte degli anarchici apuani non hanno risparmiato talora a Meschi sospetti di titubanze e ambiguità, parzialmente accreditati in passato anche dal maggior storico del movimento operaio apuano Lorenzo Gestri; ove si tengano tuttavia in debito conto le posizioni parallelamente assunte a livello nazionale dall’USI e dal suo leader Armando Borghi, il caso di altre realtà camerali sovversive con forti componenti interventiste e le difficoltà del  movimento libertario nei primi drammatici mesi della neutralità italiana, gli atteggiamenti assunti dall’“uomo di pietra” finiscono invero per non essere privi di una loro coerenza, chiaramente riaffermata peraltro anche dall’intensa azione da lui svolta nelle ultime settimane prima dell’ingresso italiano nei combattimenti, in cui spicca fra l’altro un intenso tour accesamente antimilitarista destinato a toccare in aprile molte località della Toscana tirrenica.

Del resto con l’avvio del 1915 lo stesso atteggiamento degli anarchici parve risentire positivamente di quel processo di maggiore definizione della propaganda attiva sul tema del conflitto iniziato in ambito libertario dalla fine dell’anno e culminato nel convegno nazionale pisano contro la guerra del 24 gennaio, che vide una folta partecipazione di gruppi  apuani. In sede di discussione Meschi, illustrata la disperata situazione economica carrarese, si dimostrò fra i più oltranzisti, giungendo a ventilare «la proposta di un moto insurrezionale immediato». A testimoniare il mutato clima, furono avviate manovre preparatorie destinate a sfociare in un’iniziativa della sua CdL che suonerà come un’applicazione decisa degli strumenti d’azione indicati dall’ordine del giorno finale antiguerresco approvato a Pisa in cui si era auspicato fra l’altro l’inizio di agitazioni e movimenti contro gli effetti economici del conflitto quali mezzi utili ad alimentare nel popolo uno spirito rivoluzionario capace di opporsi ai rischi di guerra e di sostenere un eventuale sciopero generale insurrezionale. Dopo che a fine febbraio la CdL approvò un ordine del giorno che, denunciato il peggioramento della crisi, non escludeva gravi agitazioni e per la prima volta, accanto ai soliti attacchi al governo, non risparmiava critiche al comune, il 10 marzo ricorreva allo strumento forte dello sciopero generale, accompagnato da un comizio in piazza Alberica. Anche se la piattaforma prescelta sembrava perpetuare ancora una volta l’ambiguità di precedenti iniziative, enfatizzando più le conseguenze sul tessuto economico locale del conflitto (disoccupazione e caro viveri) che le ragioni di fondo che le producevano e ammettendo ancora una volta la partecipazione del sindaco al pubblico comizio (poi vietato), la giornata si tradusse in una grande protesta antimilitarista di massa; come avrebbe sintetizzato il corrispondente dell’«Avvenire Anarchico» lo sciopero che «doveva essere per la disoccupazione si è cambiato in una imponente manifestazione contro la guerra». Gli slogan della folla, i cartelloni issati e confiscati e i manifesti affissi fin dal mattino non lasciarono dubbi sul significato politico assunto dall’iniziativa, sfociata rapidamente in una clima insurrezionale con urla di «Abbasso la guerra», sassaiole, cariche di soldati a cavallo e comparsa di barricate nelle vie del centro storico; 5 appartenenti alla forza pubblica rimasero feriti causando il conseguente arresto nelle ore successive di alcuni militanti anarchici.

Tale giornata, che finì per divenire il momento di maggiore mobilitazione avvenuto nella provincia apuana nei mesi della neutralità italiana rappresentò uno spartiacque, e con le divisioni lasciate sul campo costituì un momento di chiarificazione politica, con una marcata e non più ricomposta spaccatura, anche da parte anarchica, con i repubblicani. Del resto se l’amministrazione repubblicana si impegnò a condannare con un manifesto il tentativo di assoggettare la protesta ad una discussione «vana e pericolosa», privilegiando un tema che rompeva l’unità e la concordia, con l’intensificarsi, come in gran parte del paese, di una spirale di scontri di piazza sulla questione del conflitto i mutati equilibri divennero ancor più evidenti; così ad esempio militanti libertari parteciparono con i socialisti alla contestazione organizzata contro il parlamentare Chiesa, giunto in città la sera del 17 aprile con l’accusa di essere un «deputato interventista di un Collegio neutralista», e conclusasi a colpi di randello e con una ventina di arresti e diversi feriti. O ancora furono parte attiva nel boicottare il ‘maggio radioso’ degli interventisti carraresi, il cui tentativo di tenere una dimostrazione ufficiale a sostegno dell’ingresso in guerra sotto la statua di Mazzini con l’immancabile caricatura di Giolitti fu impedito e sopraffatta dall’arrivo di circa 450 neutralisti armati di bastone.

E tuttavia la percepibile avversione popolare alla guerra aveva a lungo faticato a trovare un coerente sbocco politico, anche per le divisioni fra libertari e socialisti che, a differenza di altre realtà, resero difficili momenti ufficiali di vera protesta unitaria, per quanto confinati ad un terreno di lotta legalitario quale quello imposto dal PSI e subito dagli anarchici. Pure questo aspetto, oltre alle urgenze quotidiane di una crisi economica gravissima e alla natura essenzialmente sindacale e proletaria del movimento anarchico locale, parve pertanto contribuire ad un neutralismo più sociale che politico, destinato a infondere alla protesta contro la guerra un profilo che finì per intrecciarsi in modi non sempre codificabili con problemi come la disoccupazione ed il carovita.

 

Marco Manfredi ha conseguito nel 2005 il titolo di Dottore di Ricerca presso l’Università di Pisa. Dal 2007 al 2009 è stato borsista postodottorato al Dipartimento di Scienze della Politica dell’Università di Pisa, mentre dall’anno accademico 2009-2010 è stato Professore a contratto di Storia Contemporanea. I suoi interessi di studio riguardano in prevalenza la storia politica e la storia della cultura del primo Ottocento e la storia delle classi subalterne, con particolare attenzione al movimento anarchico. A quest’ultimo riguardo ha vinto nel 2007 la Borsa di ricerca Pier Carlo Masini con il progetto di ricerca Linguaggio, simbologia, rituali. La cultura dei militanti anarchici in età giolittiana, e nel 2006 la Borsa di ricerca Lorenzo Gestri.
Ha scritto il capitolo su Massa Carrara nel volume curato da Cammarosano, Abbasso alla guerra!

Articolo pubblicato nel maggio 2015.




Il caso “Facio”, il comandante partigiano ucciso dai suoi compagni

E’ l’alba del 22 luglio 1944: ad Adelano di Zeri una scarica di colpi di fucile rompe il silenzio di queste vallate dell’alta Lunigiana fra Toscana, Liguria ed Emilia. Dante Castellucci, il comandante partigiano «Facio», comunista e garibaldino, è morto: ha solo 24 anni ma è già un eroe della lotta contro tedeschi e fascisti. Eppure a fucilarlo non sono i soldati nemici, ma un gruppetto di partigiani della IV Brigata Garibaldi della Spezia. Il suo accusatore è Antonio Cabrelli «Salvatore», di oltre vent’anni più anziano, che ha imbastito contro «Facio» un processo-farsa dalla condanna già scritta, portandolo davanti a un improvvisato tribunale di guerra per i reati di tradimento e sabotaggio.

Quella di «Facio» è una storia di vita, per quanto breve, capace di attraversare e vivere da protagonista grandi temi ed eventi del Novecento italiano. Calabrese, nato nel 1920 a Sant’Agata di Esaro, con la famiglia emigra ancora bambino nel Nord-Pas de Calais, nella stessa città in cui vivono grandi antifascisti italiani come Ermindo Andreoli e i fratelli Gino ed Eusebio Ferrari. I Castellucci rientrano in patria all’alba della Seconda Guerra mondiale e Dante viene chiamato alle armi nell’esercito italiano: spedito sul fronte prima in Francia e poi in Unione Sovietica, il 25 luglio del 1943 si trovava in permesso per convalescenza. Da intellettuale autodidatta scrive, dipinge, suona il violino. Entra in contatto con le famiglie antifasciste emiliane dei Sarzi e dei Cervi, organizzando con esse le prime forme di Resistenza. Divenuto il braccio destro di Aldo Cervi, nel dicembre del 1943 viene arrestato assieme ai sette fratelli ma, fingendosi un soldato straniero, viene rinchiuso nel carcere parmense della Cittadella dal quale riesce ad evadere pochi giorni prima della fucilazione dei compagni a Reggio Emilia. I sospetti del Pci reggiano, che emette una circolare di arresto nei confronti di Castellucci, lo spingono a entrare in contatto col Cln di Parma, dove il dirigente comunista Luigi Porcari lo manda alle dipendenze del Battaglione garibaldino «Picelli» comandato da Fermo Ognibene «Alberto». In Lunigiana, «Facio» si rende protagonista di ripetuti attacchi alle postazioni nemiche, guadagnandosi in breve tempo la fiducia dei compagni e la stima delle popolazioni civili ancora oggi riscontrabile presso i testimoni dell’epoca, fino a divenire Comandante del battaglione dopo la morte di Ognibene. Il 17 marzo 1944 «Facio» fa il suo ingresso nel mito resistenziale con la battaglia del Lago Santo: chiuso in un rifugio con otto uomini male armati, resiste oltre ventiquattr’ore, senza perdite, all’accerchiamento di oltre cento soldati nazifascisti; alla fine i nemici contano decine di morti e feriti e sono costretti alla ritirata ordinata. La battaglia di Lago Santo ricopre il «Picelli» di un alone di leggenda e «Facio», con Fermo Ognibene caduto in battaglia due giorni prima, ne diventa il comandante.

Dante Castellucci Facio in un'immagine di scena nel periodo in cui recita col teatro dei Sarzi

Dante Castellucci in un’immagine di scena nel periodo in cui recita col teatro dei Sarzi

Il battaglione interpreta benissimo le tattiche della guerriglia, compiendo attacchi fulminei e spostando continuamente la propria posizione. Disorienta i comandi nazifascisti, convinti di trovarsi di fronte a una formazione composta da centinaia di uomini. Tutela l’incolumità della popolazione civile, perché senza fornire un punto di riferimento territoriale, non concede la possibilità della rappresaglia nazista. Il «Picelli» è anche un esperimento politico e sociale, come nei dettami della lotta partigiana che ha il fine di rovesciare ruoli e costumi della società fascista. Il comandante vive e agisce alla pari dei suoi uomini, li guida in azione, siede a mensa con loro e si serve sempre per ultimo, rinunciando spesso alla propria razione, ed è l’ultimo a usufruire del vestiario ricevuto da un lancio o sottratto al nemico. Quando Laura Seghettini, pontremolese appena uscita dal carcere fascista, entra a far parte del battaglione, non viene destinata al ruolo di staffetta o di aiutante, ma diventa partigiana combattente fino ad assumere il ruolo di vice-comandante. Per poche settimane, Laura sarà anche la compagna di «Facio»: i due già progettano una sorta di «matrimonio in brigata», ma la vita in quei mesi corre troppo veloce.

foto segnaletica di antonio cabrelli_da Archivio centrle dello Stato_Casellario politico centraleAntonio Cabrelli «Salvatore», nominato da «Facio» commissario politico di un distaccamento del «Picelli», intende proseguire la sua scalata ai vertici del movimento partigiano spezzino: ha progettato la costituzione di una brigata garibaldina che faccia capo alla federazione comunista della Spezia e ai comandi liguri, ma il «Picelli» dipende ancora da Parma, cui «Facio» deve tutto. «Salvatore», così, sottrae il distaccamento «Gramsci» dalle dipendenze del «Picelli», lo trasforma in brigata e se ne autoproclama commissario politico. Per portare a termine il suo piano, deve sbarazzarsi dell’ostacolo più grande, rappresentato dal «brigante calabrese», come lo chiama lui: tra i due corrono lettere infuocate con accuse e minacce reciproche; Dante Castellucci sfugge a un agguato tesogli a tradimento; «Salvatore», allora, agisce con l’inganno.

La mattina del 21 luglio 1944 «Facio» viene chiamato al comando della brigata appena fondata da «Salvatore», con la scusa di chiarire la questione di alcuni materiali sottratti a un aviolancio. Convinto di dover affrontare solo un’accesa discussione, si fa accompagnare da due uomini fidati. Appena giunto nella sede del comando, il comandante del «Picelli» viene disarmato, aggradito e picchiato da Cabrelli, che ha imbastito un tribunale di guerra nel quale è, al contempo, accusatore e giudice. Poche ore dopo «Facio» viene condannato a morte per i reati di furto, sabotaggio e tradimento.

L’ultima notte la passa con «Laura», che nel frattempo lo ha raggiunto, sorvegliato da uomini della IV Brigata che a un certo momento gli offrono la via di fuga: «non sono scappato dai fascisti, non scapperò dai compagni» sono le parole di Dante Castellucci. Verga alcune lettere alla famiglia e agli amici emiliani. Scherza, com’è nel suo carattere, racconta qualche barzelletta e riesce pure a dormire un poco, come racconta «Laura».

Alle prime luci del 22 luglio viene prelevato e portato davanti al plotone d’esecuzione: è lui stesso a esortare i partigiani che non trovano il coraggio di sparargli addosso. Con «Facio» muore una delle più interessanti ed efficienti espressioni che il movimento partigiano aveva espresso fino ad allora.

Luca Madrignani (Carrara, 1977), dottore di ricerca presso l’Università di Siena, assegnista presso l’Insmli, collabora con l’Istituto Storico per la Resistenza e l’Età Contemporanea Apuana; si occupa di Didattica della Storia nella scuola. Ha pubblicato saggi e articoli sul primo dopoguerra italiano e le origini del fascismo; l’ordine pubblico e la violenza politica; la Storia della Resistenza e il movimento partigiano. E’ in corso di stampa per Il Mulino il volume Il Caso-Facio. Eroi e traditori della Resistenza.

Articolo pubblicato nel luglio 2014.




Maria Moriconi (1922-2010)

Maria Moriconi

Figlia di anarchici, nasce a Massa nel 1922. Racconterà che durante il fascismo il padre, mutilato della prima guerra mondiale, quando ha bevuto troppo va in Piazza Aranci inneggiando all’anarchia. Maria dunque respira fin da piccola in famiglia lo spirito della libertà come un valore da conquistare.

Dopo l’8 settembre, poco più che ventenne, sale ai monti con il fratello che è ufficiale di Marina ed a Trieste ha disertato ritornando a casa; essendo ricercato dai fascisti si dà alla macchia. Da qui la decisione di Maria alla quale il padre prova ad opporsi. Affermerà di aver fatto questa scelta con convinzione anche pensando a quanto avevano sofferto i loro genitori a causa della dittatura.

Con il nome di battaglia “Maura” inizia la sua vita di partigiana. Mentre il fratello deve stare nascosto, lei scende in campagna con ceste capienti; insieme ad un’amica, Ernestina, si recano dai contadini e talvolta, facendo finta di passare al mulino a Poggioletto a prendere qualche chilo di farina per preparare il pane, nascondono nelle ceste le munizioni. Non di rado, al ritorno, incontrano i tedeschi; quando hanno risalito la strada, superando i controlli, i compagni scendono a liberarle del pesante fardello. A volte è incaricata di andare a controllare dove siano le postazioni nemiche: quando li incontra si ferma a scherzare con i soldati tedeschi, affermando di essere una ragazza che va a scuola a Romagnano e cercando di carpire loro delle informazioni. Vive insieme ai partigiani, fra i quali altre tre donne, in una grotta a Brugiana, che ricorderà come un luogo sereno; al mattino scende per eseguire i compiti che le sono affidati o si muove con loro per delle azioni, anche lei armata.

Nel paese di Bergiola vive la mamma col suo ultimo figlio Giovannino (1940) e i due bambini del fratello, che cucina per la formazione. Durante l’eccidio di Bergiola (16 settembre 1944) la donna è colpita da una mitragliatrice a una gamba: portata a Carrara, muore senza che i figli possano accompagnarla all’ospedale perché ricercati.

Come ricorderà, dopo la Liberazione deve affrontare i pregiudizi di chi la giudica per essere stata, da giovane donna, in montagna con i partigiani. Anche il marito le è ostile, influenzato dalla famiglia, ma poi si riconciliano. È riconosciuta partigiana combattente della 3a compagnia del Gruppo “Minuto”, facente parte del Gruppo patrioti apuani.

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🟪Intervista realizzata da Pina Menconi e Isa Zanzanaini il 13 maggio 1994, in Comitato provinciale per le celebrazioni del cinquantenario della Resistenza – Commissione provinciale pari opportunità, A Piazza delle Erbe! L’amore, la forza, il coraggio delle donne di Massa-Carrara, Massa-Carrara, Amministrazione provinciale di Massa Carrara, 1996, pp. 144-7.

In Brugiana la vita per me era bella, io dico la verità, che sono mai stata bene come lassù, perché ero libera, facevo tutto quello… andavo dove mi mandavano, la mattina, ritornavo il dopo pranzo, sempre così. C’era da stare attenti. Si stava… come dire? C’era da lottare, però lassù, e a Bergiola Foscalina, era una vera meraviglia. Noi abitavamo proprio in Brugiana; si veniva lì a Bergiola perché c’erano i negozi, le famiglie, ci stava mia mamma, mia cognata con dei bambini: cosi, perché mio fratello aveva due figlioli; mia mamma faceva da mangiare e poi eravamo dentro una grotta, e ce ne portava da mangiare ai miei due nipotini, a mia cognata; nella grotta ci stavano i bimbi, era bella, e loro stavano lì. C’erano anche i bimbi del Corsaro, che ce n’aveva due; poi c’era una signora che stava qui, li ce n’aveva tre; li avevamo messi tutti lì. Li curava mia cognata, e poi c’era una signora anziana: funzionava da asilo. Io stavo proprio coi partigiani, perché dovevo portare le munizioni, se c’era un attacco, da una parte all’altra… s’andava su al forno, attraverso le montagne… A stare a pensare… Insomma, lo dico sempre, mi sono divertita, perché sparavo, andavo in cerca del mangiare, andavo da tutte le parti. […] Quando è stato l’attacco, quando hanno tutto bruciato quella gente a Bergiola Foscalina, al posto di mio fratello è toccato a mia mamma, poverina; perché lei andava a fare da mangiare e poi ce ne portava: eravamo a Bergiola. Lei era lì, e l’hanno mitragliata a una gamba, e dopo è morta. È morta a Carrara: la sera a mezzanotte io e un’altra signora siamo andate a prenderla, a mezzanotte perché loro erano su a Bergiola Foscalina, i tedeschi e i fascisti, e mitragliavano. Dopo l’abbiam portata a Carrara, e a Carrara è morta. Loro la curavano perché volevano mio fratello. La sera che hanno [colpito] la mia mamma, era andata a fare i castagnacci. Quando siamo scese a mezzanotte, venivamo giù da Bergiola Foscalina e mentre siamo lì, m’ha chiamato, dice: “Maura!”. Dico: “Cosa c’ è?”. Dice: “I castagnacci sono qui, però la gamba ce l’ho in mano”. E allora, piano piano, abbiamo dovuto riportare tutti via i bimbi, li abbiamo portati a Bergiola; poi abbiamo preso una porta, e ci abbiamo messo su mia mamma, e poi siamo venuti, piano piano siamo venuti in giù.




Mercede Menconi (1926-2014)

Mercede Menconi (©️Archivio familiare; ISRA)

Mercede Menconi cresce in una famiglia antifascista di idee repubblicane nella frazione di Avenza. Da bambina assiste alle frequenti perquisizioni che la polizia compie presso la sua abitazione e a quella dei suoi nonni e alle angherie che questi subiscono, maturando un precoce e sentito antifascismo. Insieme ad altre ragazze di Avenza inizia a frequentare la casa di Gino Menconi,1 stringe un forte legame con Nella Bedini, fidanzata di Menconi, e, a nemmeno diciotto anni, entra a far parte dei Gruppi di difesa della donna aderendo all’ideologia comunista.

Non si tira indietro di fronte a qualsiasi richiesta, dal fare delle calze a maglia per i partigiani al portare delle armi; è in continuo movimento sprezzante del pericolo, quasi sempre accompagnata da una o due amiche con cui condivide tutto.

In un’intervista racconterà di aver utilizzato vari stratagemmi per compiere le sue azioni, come nascondere nelle trecce comunicati da portare ai partigiani, occultare armi in un materasso fingendosi sfollata o, fermata su un’ambulanza che trasporta un partigiano ferito, far credere piangendo di avere la mamma in pericolo di vita.

Organizza la partenza di piccoli gruppi di donne, così da non creare sospetti, da Avenza verso Carrara in occasione della rivolta dell’11 luglio 1944 a cui lei stessa prende parte. Episodio questo che contribuirà a far ottenere alla città di Carrara, il 12 gennaio 2007, la Medaglia d’oro al merito civile. Si legge infatti nella motivazione: “Le donne carraresi offrirono un ammirevole contributo alla lotta di Liberazione organizzando una coraggiosa protesta contro l’ordine delle forze di occupazione tedesche di sfollamento della città”. Nel settembre dello stesso anno ha l’incarico di portare dei farmaci sopra Massa, sul Monte Brugiana, dove si trova ferito a morte il partigiano Enzo Petacchi.2

Durante la sua attività di staffetta conosce il gappista Bruno Orsini (Pippo) che sposerà. A guerra finita vive con grande soddisfazione la possibilità di votare, ma rimane delusa dall’atteggiamento del PCI, che non valorizza la presenza femminile nelle sezioni del partito. Questo non le impedisce di portare avanti il suo impegno, perché ha sempre sostenuto che le donne possono fare politica ovunque, nei negozi, in autobus o per strada, semplicemente parlando con la gente. È riconosciuta partigiana combattente.

Note

1Il comandante partigiano Gino Menconi (Avenza 1899), ucciso a Bosco di Corniglio (Parma) il 17 ottobre 1944, fu insignito della Medaglia d’oro al valor militare alla memoria.

2Enzo Petacchi (Livorno 1912), rimasto ferito nel corso dell’attacco al presidio tedesco di Castagnola di Massa, morì il 27 settembre 1944 sul Monte Brugiana dove era stato trasportato.

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Donne nella Resistenza, a Carrara” (1986), Frammento della IV puntata di “C’era una volta gente appassionata, viaggio nella Resistenza toscana



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Intervista realizzata da Pina Menconi e Isa Zanzanaini il 27 aprile 1994, in Comitato provinciale per le celebrazioni del cinquantenario della Resistenza – Commissione provinciale pari opportunità, “A Piazza delle Erbe! L’amore, la forza, il coraggio delle donne di Massa-Carrara”, Massa-Carrara, Amministrazione provinciale di Massa Carrara, 1996, pp. 112-3.

Col tempo ci siamo organizzate, son venute tante di quelle persone, perché da soli, è inutile… Abbiamo cominciato che gli amici venivano per casa e dicevano: “Vai a Carrara, vai a prendere questi volantini, vai da sola?” “No, c’è una mia amica, ha detto che vuol venire con me” “Sì, sì”. Era gente fidata, ragazze bravissime, del posto. Andavamo sempre in coppia, in tre, in due, facevamo finta (perché la vita scorreva normale) di andare o all’annonaria, o di qua o di là. A una a una venivano da sole, io non chiamavo nessuno. Quando mi dicevano: “Vai in quei posto?” “Sì che ci vado”, e allora dicevo: “Ciao ragazze, ci vediamo più tardi”; e loro dicevano: “Se vuoi vengo anch’io a farti compagnia”; ecco, succedeva così. Io non ho mai chiamato nessuna e nemmeno le altre, non sono state spinte da me o da un’altra: sentivano quello che sentivo io. Si allargava a macchia d’olio. Chi andava da una parte, chi da un’altra, eravamo sempre in movimento, non esisteva il lavorare di più o di meno, esisteva di prestarsi: ci chiamavano e eravamo sempre pronte. Andavamo a piedi via Fiorino, via Nazzano: se avevamo sete tutti ci davano da bere, tutti se avevano un pezzo di pane se lo levavano anche dalla bocca, per darcelo; se dicevo: “A l’è tutt ‘1 dì ch’a son ‘n zir, a son stracca morta”; “Tieni, toh ti manca qualcosa, vuoi qualcosa?”. Si andava a cercare il latte nei campi, dalla gente che aveva le mucche, per darlo ai bambini. C’erano due fuoriusciti di Firenze, che abitavano dalla Ilva Babboni, e si doveva andare a prendere e a riferire notizie. Poi c’era chi andava alle formazioni, alla Partaccia, al distaccamento Petacchi, anche dal “Memo”;1 ci mettevano i biglietti nelle trecce a me, alle mie amiche, a mia sorella; facevamo finta di andare negli stabilimenti a prendere il sale, e invece andavamo a prendere, a dire o a riportare le risposte. È cominciata così, fino al punto poi di andare proprio a portare armi. […]
La prima volta che ho toccato delle armi mi avevano mandato al cimitero, dove dovevo incontrare una donna con un cappotto blu che si chiamava Amelia. Io e una mia amica eravamo andate con qualche fiore striminzito, per far finta di essere in visita a qualche morto, e io la chiamavo Amelia, per farmi sentire da quell’altra. Infatti era lì, ci salutammo e lei mi consegnò un pacchetto con due pistole.
Una volta uno mi disse di caricarmi in testa delle armi avvolte nei materassini. Siccome c’era gente che andava e veniva, sfollati che andavano sui monti, io facevo finta di essere una sfollata. Sono andata fino alla tranvia, con un partigiano che mi aiutava, andava avanti, facendo finta di niente. Siamo scesi in piazza Farini: questo qui mi ha aiutato a scaricare, come se fossi stata sfollata; io ho portato il carico fino all’ospedale. Poi se l’è caricato lui e m’ha mandato avanti, dicendo: “Se vedi qualcuno canta, qualunque canzone, che io conosco la tua voce e pianto lì tutto”. Infatti è successo: abbiamo incontrato i Maimorti; io ho cantato e lui è sparito. Poi siamo tornati indietro a prendere le armi.




Assunta Del Freo (1919-2004)

Assunta Del Freo, nata a Montignoso l’8 novembre 1919 e morta il 1° agosto 2004, è una delle undici donne riconosciute partigiane combattenti nella Compagnia Montignoso, della quale è membro effettivo dal 1° maggio al 31 dicembre 1944.

Assunta Del Freo (©️Archivio famigliare; ISRA)

Tra i suoi ruoli vi è quello di supporto logistico, ovvero di trasporto viveri, messaggi, informazioni ed armi. Assunta è coraggiosa, consapevole e pronta ad affrontare i pericoli presenti sui sentieri montani, spesso battuti da pattuglie tedesche. Quando deve svolgere una missione lascia suo figlio Giuseppe, di soli cinque anni, ad una compaesana, Francesca Edifizi, che di anni ne ha quattordici, affinché si prenda cura di lui. Racconterà ai figli che un giorno, scesa dai colli di Montignoso per dirigersi verso Antona a consegnare il carico destinato alla banda, viene fermata da una pattuglia tedesca nei pressi del ponte d’Arola. I militi la molestano, ma lei riesce a non perdere il controllo e continua per la sua strada con la sua cesta sul capo, evitando una perquisizione che avrebbe permesso di scoprire le armi nascoste sotto la frutta.

La Compagnia Montignoso è incorporata nel Gruppo patrioti apuani, nato il fra il giugno e il luglio del 1944 dalla riorganizzazione di parte del gruppo “Mulargia” dopo l’eccidio di Forno del 13 giugno. Dislocata sui monti sopra Massa e Montignoso e comandata da Pietro Del Giudice, la formazione si distingue da molte altre sia perché è strutturata sul modello dell’organizzazione militare, sia perché rifiuterà sempre il commissario politico, qualificandosi dunque come autonoma da tutti i partiti. I Patrioti apuani riescono, anche grazie alle donne partigiane, a superare due grandi rastrellamenti: uno di fine agosto 1944 e uno tra la fine di novembre e l’inizio di dicembre, restando attivi fino alla Liberazione. Al momento della ripresa dell’offensiva alleata contro la Linea Gotica, il 5 aprile 1945, il loro contributo è fondamentale per lo sfondamento del fronte.

Assunta Del Freo

Altro ruolo delle donne apuane, e non solo montignosine, nella Resistenza è quello di attraversare gli impervi passi di montagna per andare verso la Garfagnana e l’Emilia e scambiare sale e corredi con farina e cibo, che si caricano in spalla e riportano a casa.

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🟥Relazione del Comando Gruppo partigiani di Montignoso, il comandante Francesco Orlandi, 24 giugno 1946 ( in Archivio AISRT, Fondo Resistenza armata in Toscana, b. 3, f. Massa Carrara, s.f. Gruppo patrioti apuani, Gruppo Partigiani Montignoso/Comando)

Le partigiane del Gruppo furono di gran giovamento e dimostrarono, oltre che gran patriottismo un indiscusso coraggio. A loro vennero affidate le missioni più difficili e più pericolose e le portarono felicemente a termine. Accompagnarono partigiani, li aiutarono in casi difficili a mettersi in salvo, trasportarono per loro armi, munizioni e viveri. Proprio a loro i partigiani devono essere riconoscenti perché attraverso difficoltà di ogni sorta superarono tutti gli sbarramenti tedeschi della zona per portare notizie preziosissime e molte volte quel pane che i partigiani sognavano anche la notte. Durante i rastrellamenti furono queste donne che mantennero il collegamento fra le formazioni, che portarono gli ordini, che salvarono importanti e segretissimi documenti. Furono esse che, passando attraverso i posti di blocco tedeschi, portarono tempestivamente gli ordini di movimenti che rappresentarono spesso la salvezza di interi reparti




Francesca Rola (1915-2010)

Francesca Rola con i partigiani della formazione “Ulivi” (Archivio ISRA)

Appartenente a una famiglia di commercianti di Fossola, una frazione di Carrara, fin dall’avvento del regime si schiera nelle file dell’antifascismo aderendo al Partito comunista, costretto ad entrare in clandestinità. Quando anche a Carrara si costituiscono i “Gruppi di difesa della donna e per l’assistenza ai combattenti per la libertà”, creati a Milano nel novembre del 1943, vi aderisce subito. Il compito di questa organizzazione consiste nell’avvicinare le donne alla lotta di liberazione, portare volantini, stampa clandestina e tenere i collegamenti tra le varie formazioni partigiane. Ovviamente quest’attività espone molto le donne che vi aderiscono e Francesca subisce anche un arresto a Parma.

Dopo la scarcerazione continua la sua attività sia in città che “ai monti”, come è solita dire, diventando partigiana combattente della formazione garibaldina “Giuseppe Ulivi”; sarà anche insignita della Croce di guerra al valor militare.

Francesca Rola è tra le protagoniste di un “unicum” nella storia della Resistenza italiana, la rivolta dell’11 luglio 1944. Il 7 luglio il Comando tedesco di Carrara fa affiggere un bando in cui si ordina che entro la sera del 9 la città venga evacuata e la popolazione sia avviata verso Sala Baganza, in provincia di Parma. L’iniziativa risponde a una più complessa strategia, che intende “liberare” un’ampia fascia di territorio per facilitare il completamento della Linea Gotica recidendo ogni collegamento fra la popolazione e le bande.

I Gruppi di difesa della donna, di concerto con il CLN e i GAP, organizzano una protesta contro il bando di sfollamento. L’11 luglio centinaia di donne, armate di cartelli con scritto “Non abbandoneremo la città” e “Non vogliamo sfollare”, si recano davanti al comando tedesco cantando e protestando, con la conseguenza di far revocare l’ordine. Questo episodio, che si può considerare anche un esempio di resistenza civile, ha un valore centrale nella Resistenza apuana, perché infonde un nuovo slancio al movimento partigiano carrarese che nelle settimane successive si strutturerà in più ampie formazioni.

Francesca Rola

Nel 2013, a tre anni dalla sua morte, in Piazza delle Erbe a Carrara, luogo dal quale è partita la protesta delle donne del luglio 1944, è stato realizzato un grande murale che la ricorda.

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🟪Intervista a FRANCESCA ROLA, in L. Antonelli, “Voci dalla storia. Le donne della Resistenza in Toscana tra storie di vita e percorsi di emancipazione”, Pentalinea, 2006, pp. 423 e 426

Ho cominciato l’attività di staffetta subito, da quando poi ci buttarono giù la casa ancora meglio allora eravamo ancora più spinti. Una volta io e altre donne abbiamo anche portato via tre partigiani dall’opsedale, stavano andando le SS a prenderli, d’accordo con il dottore li abbiamo portati giù sulle spalle, meno male che c’era un piano solo. I tre partigiani erano Roberto Vatteroni, Pelliccia e Rosamunda di Massa.
[…] Qualcuno aveva paura, ma io gli ho detto: -Volete tenere i vostri negozi, venite con noi -. Eravamo in mezzo al fuoco, ma ci siamo riuscite, o si son presi paura oppure il Prefetto li avrà convinti, ma poi erano quelli della Wehrmacht, non erano quelli delle SS, se erano quelli delle SS non ti salvavi.
Avevano tutti le armi, c’erano i cannoni, addirittura io mi son messa davanti a un cannone: -Sparate pure se volete sparare -.
Una mia amica mi diceva; – Francesca vieni via che ti ammazzano -. -Non importa voi andate avanti intanto, vediamo se son buoni di sparare -.

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🟧Intervista realizzata da Pina Menconi e Isa Zanzanaini il 2 maggio 1994, in Comitato provinciale per le celebrazioni del cinquantenario della Resistenza – Commissione provinciale pari opportunità, A Piazza delle Erbe! L’amore, la forza, il coraggio delle donne di Massa-Carrara, Massa-Carrara, Amministrazione provinciale di Massa Carrara, 1996, pp. 117-8.

Murales a Carrara dedicato a Francesca Rola

Io coi partigiani c’ero entrata perché c’era mio fratello, mio cognato, quell’altro mio fratello; eravamo in diversi noi su, eh […]. E poi il forno di mio fratello era a disposizione dei partigiani; c’era un buco nel forno di mio fratello, e dentro a quel buco c’era la macchina ciclostile, c’erano le munizioni, lì c’era tutto… son andati anche a bombardare il forno di mia cognata, le han dato degli schiaffi a mia cognata, poverina, che ha abortito, era di sette mesi e ha perso il bambino; dov’è suo marito, dov’è suo marito; e lui, con Giosué Tanzi, eran rinchiusi dietro a tutte quelle macchine lì: se combinazione li vedevano, buttavano all’aria tutta la casa, tutto quel palazzo lì lo buttavano all’aria. Invece han buttato due bombette, piccole, han rotto i vetri, hanno spaventato un po’ la gente e basta. Noi non c’eravamo, perché di notte, capisci, loro venivano in giù a vedere, a far le perquisizioni nelle case. Io prima stavo nel Viale, poi me l’hanno buttata giù la casa, perché han detto che era la casa dei partigiani, e l’han buttata a terra completamente, rasa al suolo, la mia e quella dei Pisani, tutti e due. Allora sono andata a casa di mio fratello, quello che aveva il forno, però ero ai monti, più ai monti che giù.

Io ero nei Gruppi di difesa della donna: c’era la Bedini, la Nella, c’era la Ilva, la Pelliccia, sua sorella, c’era sua cognata, poi c’era sua zia; poi c’era la Gatti, c’era la Elena. Le più in vista, diciamo, erano loro. Poi quando ci fu la mattina delle donne del 7 luglio, ce n’erano tante, perché allora siamo andate a prenderle tutte; le vai a prendere tutte a casa, vengono fuori, escono, no, fuori: se non vuoi andar via, se non vuoi fare evacuare Carrara, porta via tutti: venite un po’ fuori, uscite fuori, no! Noi eravamo presenti alle riunioni per quello che dovevamo fare, presentare; più di tutti è stata la Ilva, il più l’ha fatto lei, ha fatto tanto, tantissimo; lei, e poi c’era la Carla, sua sorella, che ha fatto tanto anche lei. La Renata Bacciola, la Dina, quella lì della Fabbrica, la Elena, la Lavagnini… insomma, praticamente, poi eravamo tutte assieme, chi aveva più responsabilità e chi aveva meno responsabilità, capito, però eravamo tutte una mischia, diciamo, praticamente eravamo tutte nella mischia. A organizzare i gruppi eravamo una trentina, una ventina, una trentina c’eravamo senz’altro. C’erano anche repubblicane, democristiane, eravamo tutte assieme. Le più coraggiose quel giorno lì si presentavano davanti al comando tedesco, oppure anche davanti ai carri armati: io per esempio, ho una fotografia che non riesco a trovare davanti a un carro armato, che la Renata, povera donna, povera Renata, la sento ancora: “O Franca, vieni via che ti sparano!” “E se mi sparano, in fondo sono una, se mai muoio io, o ragazze, ma siete sceme, bisogna farsi vedere d’aver paura? Io non ho paura, io sto ferma qui davanti: dimmi che sparano, provino a sparare – e intanto li guardavo loro, no? nel muso – provino a sparare, per vedere se son capaci di sparare”. E non ci si muoveva davanti a quel carro armato, che era vicino lì. Poi siamo andate in piazzetta, a buttare all’aria tutto perché venissero tutte via con noi; abbiamo fatto chiudere le scuole, abbiam fatto chiuder tutto, i negozi, tutto, perché abbiam detto: “Qui è il giorno che bisogna evacuare, bisogna andar via; se volete andar via… Se volete andar via state lì, se non volete andar via, venite con noi”. E son venuti con noi.

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🟩Francesca Rolla, staffetta partigiana e donna della rivolta di Piazza delle Erbe a Carrara – Intervista a Francesca Rolla (1915-2010) staffetta partigiana della Brigata Garibaldi “Gino Menconi”, formazione “Ulivi” e donna della rivolta di Piazza delle Erbe a Carrara, del 7 luglio 1944. Intervista a cura di Archivi della Resistenza, registrata il 30 dicembre 2009

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🟧Donne nella Resistenza, a Carrara – Frammento della IV puntata di ‘C’era una volta gente appassionata, viaggio nella Resistenza toscana’, un film di Luigi Faccini, produzione: Italia, 1986; con la collaborazione di Istituto Storico della Resistenza di Firenze, ANPI, Comuni di Piombino, Firenze, Carrara. Il film è suddiviso in quattro capitoli: La battaglia di Piombino, Firenze I e Firenze II, Carrara.

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🟥 Testimonianza di Giulia Galleni, allora quindicenne e anche lei staffetta, ha rotto un silenzio durato decenni, arricchendo inoltre la narrazione dei fatti di Carrara con ulteriori dettagli ed altri episodi accaduti nelle vicinanze (Credits: https://museonazionaleresistenza.it)



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Laura Seghettini (1922-2017)

Laura Seghettini (particolare)

Nata nel 1922 a Pontremoli e rimasta orfana di madre in tenera età, cresce nella famiglia materna, insieme a nonni e zii; viene così educata all’antifascismo dagli adulti di casa, socialisti e comunisti. Laura ricorderà che nelle serate familiari anche i giovanissimi partecipano alle conversazioni con il solo ordine di non riferire all’esterno nulla di quanto si sia ascoltato.

Giovanissima le viene affidato talvolta l’incarico di portare ad alcuni compagni il giornale clandestino “L’Unità”, essendo più facile per lei, ragazza, passare inosservata. Il nonno e uno zio, Michele, imprenditori edili, pagano questa loro posizione ostile al regime con la disoccupazione. E quando lo zio sceglie di emigrare in Libia, Laura, che ha ormai ottenuto il diploma magistrale, lo accompagna e lavora negli uffici dell’azienda. Nel Paese africano ascolta i giudizi negativi sul fascismo, sulle atrocità commesse dagli italiani e le previsioni di una sconfitta nella guerra appena iniziata, vista l’inadeguatezza dell’esercito. Rientrata a Pontremoli, mentre riferisce queste considerazioni ad un amico in un prestigioso bar cittadino, le sue parole sono ascoltate da un milite fascista; è condotta negli uffici del partito dove per punizione le viene somministrato l’olio di ricino: un’umiliazione pubblica, per di più a una donna poco più che ventenne.

Laura Seghettini a Parma nella manifestazione dopo la Liberazione (Archivio ISRA)

Da quel momento la sua esistenza è segnata; non appena in città si manifesta un qualche dissenso contro il regime, lei viene indicata tra i responsabili. Arrestata, rimane per un mese nel carcere di Pontremoli. Una seconda volta è condotta al carcere di Massa, un’esperienza che la sconvolge: l’ambiente è sudicio, vi aleggiano segni di violenza. Non riesce a mangiare e nemmeno a dormire. Di quel periodo ricorderà solo la compagnia di una donna arrestata perché il figlio non si è presentato alla chiamata alle armi.

Laura si ripromette allora di non ritornare più in carcere, ma continua a far arrivare abbigliamento e cibo agli amici che per non arruolarsi sono saliti ai monti. Quando, nella primavera del 1944, è informata di un arresto imminente, senza indugio sceglie la stessa via, sulle montagne a nord di Pontremoli, all’estremità settentrionale della Toscana. Il gruppo a cui si aggrega è il Battaglione “Guido Picelli”, da poco guidato da un giovane calabrese, Dante Castellucci, nome di battaglia “Facio”. Il comandante non accoglie di buon grado la presenza di una donna, ma gli amici di Laura lo informano sulla sua vicenda e alla fine viene accettata. Fra i due inizia una storia d’amore, interrotta da un evento drammatico: a seguito di tensioni sorte tra i partigiani, dopo un processo farsa Facio viene fucilato il 22 luglio 1944.

Laura e i compagni ne sono fortemente turbati; sceglie insieme ad altri di spostarsi nell’Appennino parmense e di aggregarsi alla 12ª Brigata Garibaldi “Fermo Ognibene”, di cui verrà nominata vicecommissario per il suo impegno e la sua forza morale. Una foto la ritrae mentre cammina sorridente, nelle prime file con i comandanti, tra due ali di folla per le strade di Parma nella manifestazione che celebra la Liberazione.

Nel 1945 stende un memoriale sulla vicenda di Facio, su cui scende progressivamente il silenzio per l’impossibilità di avere giustizia, associata al timore che quell’episodio possa macchiare la storia della lotta di liberazione. Negli ultimi anni, anche grazie alle sue memorie, essa è finalmente tornata alla luce.

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🟥Laura Seghettini, Al vento del Nord. Una donna nella lotta di liberazione, a cura di Caterina Rapetti, Roma, Carocci, 2006, pp. 26-27.

Per il vitto, qualcuno andava a volte a prelevare qualche vitello nei paesi vicini; cucinieri erano il Corsaro (Nello Leoncini) e Giorgio Marini, fratello di Vito. Accendevano il fuoco e mettevano a bollire in un calderone la carne che, non frollata, ne usciva più dura di come vi fosse entrata. Spesso si saltava il pasto e allora cercavamo i frutti del sottobosco, fragole e mirtilli, o qualche fetta di pane e di pattona3 che le donne di Guinadi o di Cervara ci mandavano o ci offrivano quando passavamo nei paesi.

Laura Seghettini (Foto Walter Massari)

Credo che nessuno di noi si sia mai sognato di mangiare una cosa che gli era stata data, se non dividendola con gli altri. Ricordo, infatti, che una volta due tornarono con una crescente4; fu consegnata a Facio che l’affettò in modo così sottile che le fette sembravano ostie, e ne prendemmo una per uno. Quando ci si riuniva per mangiare, mentre chi aveva dei compiti li eseguiva, gli altri si disponevano in gruppo per ascoltare la lettura dei fogli di partito che Facio ed El Gato avevano con sé.

Accadeva, talvolta, che qualcuno raccontasse gli avvenimenti di cui era stato protagonista […].

Alcuni si recavano nei paesi, la sera, a sentire Radio Londra e tornavano portando informazioni che commentavamo in piccoli gruppi. Ricordo la notizia dei bombardamenti di Roma e di Milano e quella dello sbarco di Anzio che ci fece illudere che stesse per finire la guerra, mentre per noi invece iniziava.

Al lume di candela o sotto la luna si cantava sottovoce e qualcuno suonava il flauto. Facio aveva con sé un violino che gli era stato regalato; questo ha fatto scrivere che fosse un maestro d’orchestra. Studente di filosofia, era, credo, soltanto un discreto dilettante, ma in una radura tra i faggi era facile sembrare maestri.

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🟧Stralcio da un’intervista realizzata da Isa Zanzanaini il 15 maggio 1994, in Comitato provinciale per le celebrazioni del cinquantenario della Resistenza – Commissione provinciale pari opportunità, A Piazza delle Erbe! L’amore, la forza, il coraggio delle donne di Massa-Carrara, Massa-Carrara, Amministrazione provinciale di Massa Carrara, 1996, p. 162.

E per quello che mi riguarda, come donna, io debbo dire che sono stati meravigliosi, questi ragazzi, perché mai una parola sconveniente, anzi. Io ricordo, un giorno, venivo giù per un pendio e giù in fondo c’era una ventina di ragazzi che cantavano, canzonacce di caserma; uno, che sembrava tra l’altro un tedesco, sa, proprio grande e grosso, un gigante. Mi vide con la coda dell’occhio e io ho sentito che: “Ehi! Pst! Zitti, ch’a ghe la Laura!”. E mi fece molto piacere. Io gli sono passata vicino, gli ho detto: “Ehi, biondo!” e l’ho scaruffato un po’ in testa. “Eh! Quel ch’a i vo’, a i vo’!”. Quello che ci vuole ci vuole! Sì, è proprio un ricordo meraviglioso.

In quel periodo io ho conosciuto tante ragazze, tante. Anche donne di una certa età. E io so che era un lavoro molto rischioso. Rischioso il nostro, che andavamo a fare le azioni, ma molto più rischioso quello della staffetta, perché poteva essere presa in qualsiasi momento. Quindi, io ho ammirazione anche per queste, che poi sono state qualificate patriote, anziché partigiane combattenti; ma in realtà, tutto il lavoro fatto, compiuto da noi, aveva alla base il lavoro di queste donne.

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Parma, 9maggio 1945, sfilata dei partigiani

🟩Intervista a LAURA SEGHETTINI, in L. Antonelli, “Voci dalla storia. Le donne della Resistenza in Toscana tra storie di vita e percorsi di emancipazione”, Pentalinea, 2006, p. 445.

Quindi lei è stata in formazione? Per quanto tempo?
Fino all’agosto del ’45, un anno, perché poi c’è stata una vicenda, l’uccisione del comandante Facio, io per un po’ sono stata ancora con il battaglione in zona, poi dopo essere andata in missione per il battaglione internazinale, comandato da Gordon Lett, un ufficiale inglese, mi sono portata via un Distaccamento. […] Io in formazione combattevo con le armi, ho sempre cercato di non acchiappare persone, ho comandato anche azioni, io sono stata Commissario di Brigata, ma Comandante sempre militare del Distaccamento Comando della Brigata, Per cui io ho avuto due qualifiche alla fine dal Distretto militare, come sottotenente e come capitano.

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🟪Testimonianza di Laura Seghettini per gli Archivi della Resistenza.

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🟥Marcello Flores racconta la vita di Laura Seghettini – Trasmissione di Rai Radio3 ‘Belle storie. Donne e uomini nella Resistenza’.



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🟧Intervista a Laura Seghettini (www.testeparlantimemorie900.it)