La svastica sul Giglio.

La mattina dell’11 settembre 1943 le truppe naziste entrano a Firenze. La città viene occupata senza colpo ferire. Il generale Chiappi Armellini, responsabile della sua difesa, si arrende mentre le truppe dell’ex alleato circondano e occupano le caserme fiorentine, arrestando i militari. Rapido e tragico epilogo delle ore convulse successive alla diffusione del messaggio del capo del governo, generale Badoglio, la sera dell’8 settembre. Appena avuto notizia dell’armistizio il Comitato interpartito delle forze antifasciste aveva richiesto al generale Chiappi Armellini di distribuire le armi alle forze antifasciste, ma questi si era rifiutato, ligio alle direttive militari, assicurando al tempo stesso la difesa della città. Ma i deboli tentativi di resistenza si erano immediatamente spenti, sia al passo dell’Abetone dove era stata inviata una batteria priva di armamenti adeguati, sia al passo della Futa dove si verifica l’unico scontro fra militari italiani e tedeschi in provincia di Firenze e dove era presente il capitano Carlo Nannoni che avrebbe poi assunto il comando della terza Brigata Rosselli e sarebbe morto combattendo per la liberazione di Firenze. Subito dopo la resa il Comando militare italiano, mentre i nazisti prendono possesso del Comando di Corpo d’Armata in piazza San Marco dove stabiliranno il proprio comando, ordina a ufficiali e soldati di restare o presentarsi alle rispettive caserme; ma molti erano già riusciti a fuggire, sottraendosi alla cattura, potendo contare sul sostegno della popolazione civile che li nasconde e protegge, realizzando così la prima forma di resistenza civile contro l’occupazione. Particolarmente facilitati sono i militari presenti nella caserma della Zecca sul lungarno grazie a un condotto sotterraneo che consente a molti di scappare sul greto del fiume. Oltre alle caserme sono immediatamente occupati due importanti realtà militari quali l’Istituto farmaceutico militare a Castello e l’Istituto geografico militare. Secondo i rapporti tedeschi sono circa 20.0008 settembre 1943: il disarmo e la deportazione degli Internati militari italiani.

La rapida occupazione di Firenze a parte delle forze germaniche si inserisce all’interno della più ampia strategia con cui assumono queste il controllo di tutta la regione all’indomani dell’8 settembre, all’interno delle strategie generali delle forze del Reich e in relazione alla peculiare rilevanza del nostro territorio. La Toscana ha infatti una specifica importanza nello schieramento delle forze naziste come snodo strategico nei collegamenti infrastrutturali fra le regioni del nord e Roma con tutta l’area centro-meridionale; ruolo che manterrà fino all’estate del 1944. Inoltre, dal settembre del ’43, la costa tirrenica assume una centralità assoluta dopo la perdita da parte dei nazisti delle principali grandi isole (Corsica e Sardegna), a fronte dei rischi di sbarchi e attacchi nemici. Una rilevanza che, peraltro, spiega l’intensa successione di attacchi aerei da parte anglo-americana sulle province toscane, in particolare sui sistemi stradali, ferroviari, oltre che sui principali nuclei industriali, accentuando le dinamiche che già avevano interessato in particolare Livorno nei mesi precedenti.
La presenza tedesca si struttura quindi, nelle settimane successive, parallelamente al costituirsi del governo della Repubblica sociale da parte dei fascisti nei vari territori, in due gruppi amministrativi: la Militarkommandantur 1003 con sede a Firenze – che interessa le province di Firenze, Siena, Arezzo e Forlì – e la 1015 di stanza a Lucca – comprendente le province di Lucca, Pistoia, Apuania, Pisa e Livorno – città quest’ultima presidiata dalla Wehrmacht e fatta evacuare fin dal mese di ottobre per la sua rilevanza strategica – (le cui relazioni sono fonti essenziali per lo studio di quei mesi); mentre la provincia di Grosseto viene posta sotto il controllo della M. di Viterbo.

Fin dalle prime settimane successive all’armistizio, le autorità naziste si pongono come la nuova autorità, riempiendo il palese vuoto di potere, come attestato dalle numerose direttive che sono emanate immediatamente e promosse dalla stampa, tutte legittimate da Le leggi di guerra germaniche in vigore nel territorio italiano emanate il 14 settembre. Il 17 il comando supremo nazista emana pene severissime, sino alla morte, per chi ruba o distrugge armi o strumenti bellici, così come per chi presta aiuto ai prigionieri di guerra anglo-americani fuggiti dagli ex campi di prigionia fascisti a seguito dell’8 settembre (minaccia che non limita un’azione solidale portata avanti dalla popolazione e che spesso si manifesta proprio come una delle prime forme di resistenza civile). Il 19 e 20 settembre lo stesso Comando nazista impone la presentazione di tutti gli appartenenti al disciolto regio esercito pena il trasferimento ai tribunali militari di guerra nazisti. Fra fine settembre e inizio ottobre le aree costiere sono segnate dalle ordinanze di evacuazione della popolazione civile, con conseguenze gravose per le vite delle persone, dalla costa grossetana (23 settembre) a Viareggio e Livorno (24 settembre), alla Versilia (ottobre). Centrale (e progressivamente crescente nel tempo) è poi la volontà di sfruttare le risorse economiche del territorio attraverso una diffusa politica di requisizioni di beni che troverà il suo culmine nella cattura degli uomini per il trasferimento coatto della manodopera nei territori del Reich, sancita anche dall’assegnazione a Firenze degli ufici dei comandi economici della Militarverwaltung dal novembre del ’43.
Come attestato dalla storiografia, anche nei mesi successivi e a dispetto delle volontà dei fascisti, questo dominio non verrà mai meno, rendendo evidente la subalternità della Repubblica sociale italiana nei confronti dell'”alleato occupante” secondo la nota e puntuale definizione coniata da Lutz Klinkhammer. Un rapporto ineguale che non elimina un ruolo politico esercitato da parte fascista (sia pure con pochi risultati, a partire dalla questione della leva militare), né l’insostituibile azione di governo amministrativo del territorio che viene affidato alla RSI, ma che certo non favorisce l’accreditamento e la legittimazione della repubblica fra una popolazione sempre più stanca e insofferente.

 




“come se una nuova vita si spalancasse davanti a loro…”

Tutto era ormai compiuto. Nella notte fra il 24 e il 25 luglio il Gran Consiglio del fascismo aveva votato, Mussolini, presentatosi al cospetto del Re credendo di riceverne il sostegno, che mai era mancato, era stato invece arrestato; il generale Badoglio aveva costituito il nuovo governo. Eppure l’annunzio viene trasmesso solo a tarda sera, alle ore 22.48, con due proclami del Re e di Badoglio. Chiusa in casa la popolazione resta quasi attonita prima di sprigionare pianti e risa di gioia che si intrecciano negli incontri per le scale dei condomini, mentre la voce si sparge anche nelle famiglie che non hanno la radio.
Ma è soprattutto dalla mattina del 26 luglio che anche a Firenze, come in molte città italiane esplode la gioia della popolazione in numerose manifestazioni spontanee caratterizzate dall’esposizione dei tricolori nazionali. Mentre viene annunciato il passaggio dei poteri dalle autorità civili a quelle militari con la proclamazione del coprifuoco e dello stato d’assedio.
La “caduta” di Mussolini era immediatamente identificata con il concretizzarsi della fine della guerra e di una svolta positiva nelle proprie vite a fronte delle paure e dei disagi causati dal conflitto, aggravatisi con il passare dei mesi, che avevano suscitato una crescente insofferenza e quindi un progressivo distacco dal regime. Nessuno presta fede alle parole del maresciallo Badoglio. “. . la guerra continua..“. Ecco perché, quando pochi giorni dopo, la mattina del 28 luglio, si diffonde la voce incontrollata che sarebbe stato firmato l’armistizio dal nuovo governo, le fonti di polizia avvertono il capo della Polizia Senise che i fiorentini si sono subito abbandonati a manifestazioni di gioia nel centro della città. Nonostante venga subito fatta sgombrare ogni manifestazione e sia chiarità la falsità della notizia, nella popolazione “traspare un vivo, immenso desiderio di pace e di tranquillità” (da Relazione Commissario Capo PS Ingrassia a capo della polizia Senise, 28 luglio 1943).,”I cittadini che s’incontravano per le strade e negli uffici si abbracciavano con effusione, come se una nuova vita si spalancasse davanti a loro, come se la possibilità di esprimere quanto covava nel loro animo da tempo creasse un nuovo rapporto sociale e desse un significato dimenticato alle parole patria e nazione.” [C. Francovich, La Resistenza a Firenze, La Nuova Italia editrice, 1961, p. 16]
Si formano cortei esultanti, pur senza parole d’ordine. Convergono in piazza Vittorio Emanuele) ora piazza della Repubblica) e quindi in piazza del Duomo cantando i vecchi inni del Risorgimento. Si sventolano i tricolori, si inneggia al Re e al Badoglio, forse sperando che avessero davvero la ricetta per portare l’Italia fuori della terribile situazione nella quale era stata condotta dal Regime. Una speranza che certo non temeva conto di complicità e responsabilità passate che invischiavano tutta la classe dirigente del Paese, ben oltre il Duce e la sua stretta più ristretta, ma soprattutto delle dinamiche internazionali e in particolare dell’interesse militare strategico che il controllo della penisola aveva per l’alleato germanico. Eppure, una speranza comprensibile, nella sua stessa ingenuità, come sollievo temporaneo dopo mesi di timori, lutti, miserie. Una speranza che responsabilizza ed evita in quelle ore scontri o assalti ai luoghi fascisti, stupendo lo stesso servizio d’ordine immediatamente attivato dalla Questura che temeva disordini “sovversivi”. Ma una speranza destinata a infrangersi presto. Un’altra manifestazione è animata in piazza San Marco, sede del rettorato, da parte degli studenti universitari e delle scuole medie: sventolano i tricolori e gridano “viva la pace” anche se carabinieri e forze dell’ordine intervengono e li disperdono.
Tuttavia in quelle prime ore, è la gioia la nota dominante. La popolazione festeggia gli stessi presidi dei militari schierati per mantenere l’ordine pubblico. I fascisti quasi paiono svanire nel prendere atto di un mutamente generale ed inarrestabile. Pochissimi incidenti: qualche percossa e qualche giacca strappata a fronte di quei fascisti che avevano deciso di mantenere comunque il distintivo del partito all’occhiello. Ma nessuna violenza grave viene registrata; solo scontri con qualche sparatoria sul ponte alla Carraia. Anche le voci sul presunto omicidio del ras di San Frediano, Gambacciani, che sarebbe stato gettato in Arno come lui aveva fatto nel 1938 con un giovane antifascista è del tutto falsa, visto che il fascista riapparirà vivo e vegeto dopo l’8 settembre. Tra il 26 e il 27 secondo la Nazione solo 30 persone si presentano ai vari ospedali cittadini per ferite da percosse (di cui solo uno grave). Certo sono indici di violenza comunque praticate, ma comunque minime se si considera ciò che avrebbe potuto accadere dopo tanti anni di soperchierie, angosce, brutalità praticate dai fascisti, dopo le sofferenze di quei mesi di guerra e nel contesto di violenza radicale di quel conflitto. La rabbia si scatena contro i quadri e i busti del Duce, le targhe di strade e piazze intitolate a esponenti o simboli del regime.
Intanto le forze antifasciste iniziano a muoversi. Accanto allo spontaneismo delle prime manifestazioni operano i gruppi antifascisti, almeno i più organizzati. In particolare i comunisti si ritrovano già la mattina del 26 luglio nella casa di Fosco Frizzi (dirigente del movimento giovanile comunista, arrestato e condannato al carcere durante il ventennio) e stampano in ciclostilato un primo appello alla popolazione. Uno degli obiettivi che viene posto per le manifestazioni dei giorni successivi è la liberazione dei prigionieri politici dal carcere delle Murate. Vengono mobilitate le cellule clandestine del partito, in particolare quelle presenti negli stabilimenti industriali come la Galileo, presidiati dai carabinieri.
Ma è l’insieme delle forze antifasciste a muoversi, riunite nel Comitato interpartitico, composto da Marino Mari e Aldobrando Medici Tornaquinci per i liberali, Enzo Enriquez Agnoletti e Carlo Furno per gli azionisti, Arturo Bruni, Alfredo Bruzzichelli e Diego Giurati per i socialisti, Mario Augusto Martini e Adone Zoli per il partito dei cattolici: la Democrazia cristiana; Giulio Montelatici per i comunisti. Il Comitato interpartitico si reca in Prefettura per chiedere lo scioglimento del fascio, provvedimenti contro i fascisti, la liberazione dei detenuti politici. Il prefetto si limita a trasmettere al Ministero le richieste. Grande prudenza anche da parte delle autorità militari, con il Comando del Corpo d’Armata che tiene i soldati consegnati nelle caserme, evitando incontri con la popolazione. Il 30 agosto all’Università è nominato rettore Piero Calamandrei.
Nel mondo del lavoro si cerca di coinvolgere gli operai con l’Appello dell’Unione proletaria di Firenze, pubblicato sulla Nazione del 28 luglio, edizione sequestrata:
In questo momento critico, in cui i nostri animi si aprono alla speranza siamo ancora esposti alle insidie dei nostri nemici. Per venti anni avete ascoltato gli ordini di chi vi ha sempre ingannato, promettendovi molto e non concedendovi nulla.
L’Unione proletaria è il fronte di tutte le organizzazioni che durante l’oppressione fascista non hanno cessato di combattere per i nostri diritti. Oggi l’unione proletaria è l’unico organo in grado di dirigervi e di mettervi in guardia contro gli agenti della reazione. […]
Operai! Attenti a non ripetere gli errori del ’20 che cadrebbero a nostro danno. Attenti agli atti inconsulti! Vigilate sui macchinari delle fabbriche che sono la garanzia della nostra vita! Operai imparate a conoscervi! I soldati sono vostri fratelli. Non diffidate di voi stessi. Unitevi! Viva la libertà! Viva l’Italia!“.
Nelle industrie sono costituite le “commissioni di fabbrica” che iniziano ad avanzare richieste riguardanti i salari e l’alimentazione. L’Unione dei commercianti intanto indice un referendum fra i soci per eleggere le proprie cariche.
Nelle settimane successive i partiti antifascisti cercano di organizzarsi, uscendo dalla clandestinità. Il 22 agosto i socialisti costituiscono la sezione del Partito in casa del vecchio Gaetano Pieraccini, fra i fondatori del PSI nel 1892. Il Partito d’Azione tiene la propria assemblea regionale nella sede di “la scena illustrata” in lungarno Guicciardini e dal 5 al 7 settembre terranno proprio a Firenze, in casa di Carlo Furno e Enriquez Agnoletti il primo congresso nazionale. Sempre il 5 settembre i liberali si riorganizzano nel movimento “Ricostruzione liberale”; nasce anche un raggruppamento della Democrazia del Lavoro. Il partito comunista , che la sera del 20 agosto aveva ricostituito il comitato provinciale, si rafforza con l’arrivo di dirigenti di grande spessore politico e organizzativo come Giuseppe Rossi, Mario Fabiani, Guido Mazzoni, Mario Garuglieri e all’Università viene costituito il Fronte della Gioventù. Fra i dirigenti comunisti molti affermano con sicurezza che i tedeschi occuperanno presto il Paese, soprattutto se il Governo Badoglio non farà appello al popolo e non farà consegnare le armi dall’esercito. A favore della richiesta di una mobilitazione popolare per la pace e contro la presenza nazista convergono anche socialisti e azionisti nel corso di una riunione tenuta con i comunisti il 3 settembre. Escono I primi periodici antifascisti: il partito d’Azione pubblica “oggi e domani”, i socialisti “Socialismo”, La Pira pubblica due numeri del bollettino “San Marco” che illustra il suo programma cristiano-sociale; i comunisti distribuiscono 2L’Unità” che arriva da Milano e diffondono manifestini vari.
Ma la Storia segue un corso diverso. Queste timide tendenze saranno presto bloccate da un nuovo proclama nella notte. E per gli uomini e le donne, le forze sociali e politiche si aprirà una stagione terribile, a fronte del prolungarsi della guerra totale, del manifestarsi dell’occupazione nazista e del governo fascista collaborazionista di Salò. E tutti si troveranno di fronte alla sfida decisiva per cambiare il futuro di se stessi, della città e del Paese.




Faccia a faccia con Gaetano Salvemini

Il breve testo di Maria Pichi offre un frammento di memoria su Gaetano Salvemini, “fotografato” negli ultimi anni del suo insegnamento dalla cattedra di Storia, presso l’Ateneo fiorentino. Siamo agli inizi degli anni ’50 a Firenze. Salvemini è da qualche anno rientrato dall’esilio cui l’aveva costretto il regime fascista. Dai ricordi dell’autrice affiora un inconsueto ritratto dell’anziano professore, colto in una situazione particolare. E’ al tempo stesso un piccolo spaccato di un’Italia che oggi non c’è più, dove poteva accadere che un protagonista della storia dell’antifascismo e della cultura militante potesse ricevere gli studenti in camera da letto – a causa di una indisposizione – e in tale inusitata sede svolgere la sessione di esame, pur di evitar loro di finire “fuori corso”. Sullo sfondo compaiono fugacemente, in veste di assistenti, due protagonisti della cultura fiorentina (e italiana) del dopoguerra, come Ernesto Ragionieri (all’autrice non particolarmente simpatico) ed Eugenio Garin.

Faccia a faccia con Salvemini

Gaetano Salvemini rivide l’Italia nel 1947: ne era espatriato da clandestino vent’anni prima e tornò a Firenze all’Università, quella stessa che allora lo aveva espulso dalla cattedra di storia moderna. La sua esistenza era stata sconvolta radicalmente per ben due volte: nel terremoto di Messina aveva perduto l’intera famiglia, moglie e sei figli, poi il regime fascista lo aveva messo in carcere e privato prima dell’insegnamento e poi della nazionalità.
Nel ritorno alla sua sede universitaria di quest’uomo anziano e provato dalla vita come non ammirare la capacità di resilienza? Ma, realisticamente, questo ritorno dovette creare qualche imbarazzo nel mondo accademico fiorentino: la cattedra di Storia Moderna era occupata lecitamente e degnamente dal professor Carlo Morandi. Su quella di Storia Medioevale (Salvemini aveva titoli anche per essa) sedeva Nicola Ottokar, che proprio con Salvemini, all’inizio del secolo, aveva avuto dei vivaci dissensi a proposito di Magnati e popolani nella Firenze del Duecento! Forse pesavano ancora? Certo è che Ottokar era ormai un signore malandato quanto al fisico e impigrito dal punto di vista didattico: della gioventù aveva conservato unicamente l’accento russo e un bastone col pomo d’avorio dono dello zar. Tuttavia non era collocabile a riposo.
Le difficoltà furono superate dotando la Facoltà di Lettere di una nuova disciplina: Storia del Risorgimento. La materia non era curriculare, ma solo facoltativa e le lezioni del professor Salvemini, va detto, non furono molto frequentate. Confesso con rimpianto – ed un certo disagio – di averne ascoltata una sola anch’io e fu ben più vivace, ben più interessante di quelle che certi colleghi tenevano nelle aule adiacenti. Infatti alcuni assolvevano alla funzione docente spesso declamando passi del libro che avevano dato loro fama anni prima: li sapevano a memoria e li recitavano con sentimento. Ne ricordo un altro che borbottava le sue riflessioni a testa bassa, tra sé e sé: noi studenti non ci guardava mai in faccia.
Stando così le cose nell’autunno del 1949, poiché per me cominciava il terzo anno di lettere, andai a chiedere la tesi al professor Morandi: al primo esame mi aveva dato trenta e disse di sì. Quanto a me accettai senza batter ciglio di studiare Romagnosi e presi a frequentare assiduamente varie biblioteche. In piazza San Marco non ci andavo mai. Probabilmente non avrei mai più avuto occasione di trovarmi faccia a faccia con Salvemini se nella primavera del ’50 il professor Morandi non fosse stato stroncato da un infarto.
Intorno alla nomina del successore, nella persona di Delio Cantimori, la facoltà di lettere si divise tra sostenitori e avversari. La lotta, che durò un anno intero, fu un episodio minimo della guerra fredda, o, per dirlo all’italiana, dell’opposizione al “fattore K”, perché Cantimori era un docente prestigioso della Normale di Pisa, ma anche un noto intellettuale comunista.
E diciamo pure che nel contesto generale fu un episodio minimo, ma certamente non fu sentito come tale da un certo numero di studenti che dovevano assolutamente sostenere l’esame di storia moderna entro l’anno solare 1950. Era la condizione sine qua non vuoi per ottenere l’esonero dalle tasse, vuoi per la conferma di borse di studio o per non finire fuori corso. E tra quelli c’ero anch’io.
Saltarono i due appelli di giugno e di luglio; saltò il primo appello autunnale e poiché noi interessati in fondo eravamo quattro gatti i nostri problemi non facevano notizia.
Quando si seppe che Salvemini era disposto a dare lui una mano era ormai la fine di novembre pioveva, faceva freddo e il medico gli aveva tassativamente prescritto di starsene ben riguardato, magari a letto, e di non uscire comunque da casa sua … che poi casa non era, ma la stanza di una pensioncina in via San Gallo.
Per farla breve, in un mattino uggioso di tardo autunno un gruppetto di studenti – ed io con loro – fra le otto e le nove si trovò nel corridoio di quella pensione. Dalle camere uscivano, e ci rientravano precipitosamente, le signore ospiti in vestaglia, con i bigodini in testa, sconcertate dalla nostra presenza. Eppure di goliardico non avevamo proprio niente, tutti composti, silenziosi, un po’ in ansia per la prova imminente.
Venne il mio turno ed ecco il colpo d’occhio: una cameretta in buona parte occupata da un letto e da due poltroncine ai lati della testiera, una per Ernesto Ragionieri, che era stato l’assistente del defunto Morandi, l’altra per il professor Eugenio Garin: era giovane allora, ma già molto autorevole.
Ai piedi del letto c’era giusto giusto lo spazio per lo sgabello destinato a me.
Si può avere un ricordo delizioso di un esame? Tra l’altro è un aggettivo che può avere qualcosa di melenso che non mi appartiene. Seduta sul mio panchetto, le mani sulle ginocchia, con le une e le altre sfioravo la peluria di un plaid, unica nota di confort e di colore in un ambiente dimesso. All’altro capo di quel plaid da “déjeuner sur l’erbe” emergeva dai cuscini il busto di Salvemini, con la barba bianca, lo sguardo ammiccante e gioioso di uno gnomo da favola.
Sì, si può avere un ricordo delizioso di un esame che fu anche serio perché Morandi esigeva dai suoi studenti una mole di letture notevoli e la commissione si attenne, senza fare sconti, al programma che egli aveva previsto.
Quell’anno vari testi riguardavano la Riforma e ricordo che il mio colloquio prese le mosse da un classico: L’etica protestante e lo spirito del capitalismo del Weber. Poi toccò altri argomenti che non ricordo, finché nel discorso, ma non per mia iniziativa, entrarono la mia futura tesi e il Romagnosi, intorno alla cui prosa oscura avevo cominciato ad arrabattarmi.
Salvemini rideva e scherzava: che anch’io sembrassi fare capolino dal plaid in fondo al letto? Perfino le labbra sottili di Garin abbozzavano sorrisi. Ragionieri no: inespressivo, impassibile se non addirittura imbronciato, non traeva alcun piacere da quella situazione anomala. Ad Ernesto buonanima – voglio dirlo – mancava il senso dell’umorismo.
Ma c’è di più: quel mugugno, forse, non era solo caratteriale, forse era un microscopico gesto politico. Ragionieri, comunista di stretta osservanza, probabilmente sedeva “obtorto collo” su quella poltroncina riguardosa alla sinistra di Salvemini, che recentemente aveva avuto uno scontro vivace con Togliatti.
Salvemini aveva l’aria di divertirsi davvero ed è possibile che ridesse per via dell’assistente ostile e immusonito non meno che per la ragazza che faceva capolino in fondo al suo letto.
A me piace pensare che proprio l’atmosfera un po’ surreale di quell’esame abbia consentito a Gaetano Salvemini di concludere “in letizia” la sua lunga e movimentata carriera universitaria.
Di lì a pochi mesi, ormai pensionato, commemorò solennemente Carlo e Nello Rosselli e lasciò Firenze. Avrebbe trascorso a Sorrento i suoi ultimi anni.
A me aveva dato trenta … o non fu forse trenta e lode ?

Maria Pichi in Lauretta *

Roma, 15 marzo 2023

* Maria Pichi in Lauretta è nata a Torino il 6 novembre 1928. Ancora bambina seguì la famiglia a Firenze, presso la cui Università si laureò in Storia, nell’anno accademico 1952-53, con Delio Cantimori, discutendo una tesi sul pensiero di Gian Domenico Romagnosi. Per decenni ha insegnato italiano in vari istituti superiori del Lazio e a Roma, dove ancora risiede.




Pier Carlo Masini (1923-2023)

A cento anni dalla nascita di Pier Carlo Masini (Cerbaia fraz. di S. Casciano Val di Pesa, 26 marzo 1923 ‒ Firenze, 19 ottobre 1998) si ricorda l’opera di un intellettuale che, tra tutti coloro che si sono occupati degli anarchici e delle radici “eretiche” del primo socialismo, è stato, se non il più importante, di certo uno degli storici più rigorosi e originali del Secondo Novecento. Masini, inoltre, non è stato solo un uomo di pensiero, ma anche un militante antifascista, condannato giovanissimo al Confino politico, vicesindaco di San Casciano Val di Pesa nei primi mesi della Liberazione, impegnato prima nelle fila del PCI poi in quelle dell’anarchismo e infine in quelle del socialismo democratico, oltre che un raffinato uomo di cultura e un bibliofilo competente e appassionato.

La passione per la storia in Masini ha radici lontane. Nell’autunno 1941 s’iscriveva alla facoltà di Scienze Politiche “Cesare Alfieri” dell’Università di Firenze. Tra i suoi docenti c’erano Giuseppe Maranini, che quell’anno teneva un corso sul costituzionalismo inglese; Pompeo Biondi, che proponeva il tema della sinistra hegeliana; soprattutto, Carlo Morandi, docente di Storia moderna, che svolgeva un corso sulla storia dei partiti politici italiani. Le lezioni di Morandi sono state importanti per la formazione e per l’approccio alla cultura storica del giovane Masini. In quel periodo Morandi era uno fra i più brillanti storici italiani, un innovatore del metodo della ricerca storica. Le sue ricerche sulle forze politiche moderate dell’Italia unita e sulle relazioni diplomatiche che legavano l’Italia all’Europa sin dall’inizio dell’età moderna, così come la sua opera più nota, I partiti politici in Italia dal 1848 al 1924, uscita pochi mesi dopo la fine del Secondo conflitto mondiale, sono ancora oggi un punto di riferimento per gli studiosi. Tra i suoi allievi vanno ricordati, tra gli altri, Giampiero Carocci, Giuliano Procacci ed Ernesto Ragionieri.
Morandi aveva consigliato a Masini di leggere il libro di Giacomo Perticone, Linee di storia del comunismo, uscito nel 1942 per le edizioni dell’Istituto Studi Politici Internazionali di Milano. Dopo tale lettura, seguiva quella di Linee di storia del socialismo (pubblicato nel 1941), dello stesso Perticone, dove Masini aveva potuto leggere per la prima volta il testo degli appelli contro la guerra dell’internazionalismo socialista di Zimmerwald (1915) e di Kienthal (1916). In questa fase Masini stava vivendo una prima, breve esperienza politica che lo aveva portato dalle iniziali simpatie per il fascismo eterodosso alla scelta antifascista, scelta che aveva causato la sua condanna al Confino di polizia per due anni. Rientrato a Firenze nell’autunno del 1943, fino alla primavera del 1945 aveva studiato presso la Biblioteca Nazionale di Firenze per preparare la sua tesi di laurea sulla diffusione del saintsimonismo in Toscana, approfondendo nel contempo le caratteristiche storiche e teoriche delle origini del socialismo [1].
Masini_Pier_Carlo_Anarchici_comunistiMasini fa parte a pieno titolo di quella giovane generazione di storici inquieti che, nel pieno della crisi politica, sociale ed economica italiana degli anni della guerra, sulle macerie lasciate dal fascismo e attraverso la sofferta strada della Lotta di liberazione, aveva maturato l’esigenza di ripensare la storia d’Italia attraverso lo studio del movimento operaio e del lavoro, facendola entrare nel panorama scientifico italiano come una nuova disciplina, con lo scopo di andare oltre le vecchie scuole storiografiche moderate, idealistiche e nazional-fasciste. La scelta di Masini non era diversa da quella compiuta anche da altri giovani intellettuali che si avvicinavano allo studio della storia e che nasceva, oltre che da un interesse culturale generale e dal percorso di studi, anche e soprattutto da una scelta di impegno etico politico [2].
L’intreccio tra storia e politica ha caratterizzato, come è stato più volte sottolineato in campo storiografico, la ricerca sulle origini del movimento socialista in Italia, diventando «il terreno prioritario» su cui si affermava «l’impegno della storiografia di sinistra». Si trattava di «una scelta politica precisa, volta a conferire dignità e legittimazione – entro l’ambito dello Stato democratico – al movimento operaio»[3].
Dopo una breve parentesi tra le fila comuniste durante la Resistenza, nell’estate del 1945 Masini sceglieva di schierarsi nel campo libertario. La sua adesione non era di tipo sentimentale. Egli si riconosceva in una definizione di Antonio Labriola, che distingueva con favore, all’interno dell’anarchismo, gli anarchici “ragionanti” dagli altri, precisando in tal senso la sua posizione nel solco del pensiero di Errico Malatesta, Luigi Fabbri, Francesco Saverio Merlino e Camillo Berneri, tracciando, di fatto, i lineamenti di una fisionomia umana e intellettuale che ha tutti i caratteri dell’autoritratto condotto ex post e fissato su carta soprattutto per sé:

Fin dal primo accostarmi all’anarchismo, ai profeti, esteti e poeti dell’anarchia preferii sempre gli anarchici positivi: quelli che sanno coniugare i principi di libertà con quelli dell’associazione e della solidarietà: che partono dall’individuo ma arrivano alla società; che sostengono le proprie ragioni ma che sanno ascoltare anche quelle degli altri e di ogni problema vedono, oltre la faccia visibile e certa, quella invisibile e controversa; che oltre i confini della propria parte ideologica, scoprono l’anarchismo, spesso inconsapevole, che pulsa per forza naturale, in uomini e gruppi di colore diverso, in un’area libertaria più vasta di quella professa e militante; che non si limitano alla protesta ma traducono l’utopia della vetta in proposte, programmi, progetti per cambiare il piano; che sono continuamente irrequieti, autoironici, insoddisfatti, autocritici del loro stesso anarchismo, che lo adoprano non come un metro per misurare e magari condannare gli altri, ma come una lente per leggere meglio in se stessi e nella società[4].

Masini_Pier_Carlo_EresieL’impegno politico di Masini in questi anni sarà totalizzante, coinvolgendolo a tempo pieno nella propaganda orale, nell’organizzazione di convegni e nella redazione di periodici, e facendone in breve uno dei principali leader giovanili del movimento libertario risorto dopo vent’anni di dittatura.
Masini si laureava nell’anno accademico 1945-1946 discutendo con Rodolfo De Mattei la tesi su I riflessi del santsimonismo in Toscana. Il suo interesse per Henri de Saint-Simon nasceva dalle ricerche sulle origini del moderno pensiero socialista e della storia risorgimentale italiana, temi tanto cari al professor Morandi.
Le indagini di Masini sull’Ottocento italiano erano finalizzate non solo a una più precisa ricognizione e messa a punto di momenti significativi dell’identità storico-politica dell’anarchismo italiano, ma anche alla rivisitazione della riflessione teorico-politica di quei momenti della storia italiana dell’800 nei quali si era posto il problema del cambiamento “rivoluzionario” della società. Va in questa direzione il suo saggio Dittatura e rivoluzione nei dibattiti del Risorgimento, in cui analizza il pensiero di Carlo Cattaneo, Giuseppe Ferrari, Giuseppe Montanelli, Carlo Pisacane[5]. In questo lavoro Masini distingueva il doppio significato del termine “dittatura”: quello che si riferisce al ruolo dominante dello Stato piemontese, verso cui la ripulsa dei rivoluzionari ottocenteschi era comune, e quello che intendeva la “dittatura” come possibile momento o forma rivoluzionaria. Su questo punto le posizioni divergevano, generando polemiche. L’osservazione iniziale che, a questo proposito, viene fatta da Masini, è illuminante circa le sue posizioni al contempo storiografiche e politiche:

Fu un’inutile polemica, allora; ma ritorna utile oggi come una nuova vena cristallina che riverberi i suoi riflessi sulle lotte contemporanee e ci illumini una più moderna interpretazione del Risorgimento. Qui considereremo il pensiero di alcuni noti eretici dell’Ottocento, anche per suffragare una tesi che ci è cara: essere l’anarchismo italiano una genuina espressione delle secolari esperienze del nostro popolo, un prodotto della sua più libera tradizione culturale, e non già − se ne persuadano i malevoli per ignoranza − un isolato vaneggiamento d’asceti od un improvviso sproloquio di folla[6].

Il 1946 è stato un anno particolare non solo perché, dopo la fine del conflitto mondiale, si era svolto il referendum istituzionale dal quale era nata l’Italia repubblicana, ma anche perché cadeva il centenario della nascita di Cafiero. Sul piano storiografico l’anniversario era stato anticipato da un articolo di Aldo Romano sulla scoperta, presso l’Archivio di Stato di Napoli, di tre lettere di Friedrich Engels a Cafiero[7]. A guidare la curiosità e gli studi di Masini era stata, in questo periodo, la lettura di un saggio di Carlo Morandi, pubblicato su «Belfagor», dal titolo esemplificativo: Per una storia del socialismo in Italia. Nel suo intervento Morandi sottolineava la necessità, per la nuova storiografia, di avviare un’indagine seria e rigorosa sulla storia del socialismo in Italia abbandonando fini apologetici e polemici. Lo storico scriveva che era necessario non solo studiare gli aspetti teorici della diffusione delle idee del socialismo, la “città del sole”, ma in particolare «raccogliere lo sguardo attento sulla “città dell’uomo”». Era un richiamo esplicito a indagare a fondo, andando alle radici della storia sociale e politica del movimento operaio, nelle città e nelle campagne, fin nelle più piccole località, dove si era espressa l’esperienza ideale e pratica del moderno socialismo in tutte le sue correnti. Nell’articolo, tra i vari argomenti e personaggi, veniva fatto riferimento alle correnti marxiste revisioniste, da Merlino a Mondolfo, alle esperienze bakuniniste della Prima Internazionale e ai suoi personaggi, ma soprattutto alla necessità di “vere biografie storiche” dei leader del movimento. Possiamo immaginare che per il giovane studioso e militante Masini la lettura dell’articolo di Morandi sia stata una sorta di appello all’arruolamento nelle nuove leve della ricerca storica.
Poco tempo dopo la pubblicazione del saggio di Morandi, sul periodico settimanale milanese «Il Libertario», diretto da Mario Mantovani, Masini pubblicava il suo primo lavoro su Cafiero, intitolato Pisacane e Cafiero[8]. In seguito, in occasione del centenario della nascita di Cafiero, sempre su «Il Libertario» Masini pubblicava l’articolo Per il Centenario della nascita di Carlo Cafiero (1° settembre 1846-1° settembre 1946). Note sparse[9], così come, su «Volontà» di Napoli, presentava un altro saggio dedicato al rivoluzionario pugliese, in particolare agli ultimi anni della sua militanza, quella più controversa e drammatica[10].
Masini_Pier_Carlo_1923_1998_ridCome si è detto, in Masini l’intreccio tra l’interesse storico e l’impegno politico in questo periodo è stato fortissimo, dunque non era un caso che la sua prima conferenza pubblica come militante della Federazione anarchica italiana, ma soprattutto come efficace divulgatore della storia ‒ si trattasse di figure legate alle vicende del movimento anarchico o a snodi storici come la formazione dei ceti moderati durante il Risorgimento – fosse significativamente dedicata al tema Carlo Cafiero pioniere del movimento operaio, tenuta il 30 marzo 1947 a Empoli presso la locale Università Popolare.
L’approccio di Masini alla storia in funzione del suo impegno etico politico non era affatto strumentale e ancor meno superficiale. Nella ricostruzione delle vicende del movimento libertario e socialista, infatti, la sua formazione e i suoi studi lo portavano ad utilizzare un metodo rigoroso, filologico e critico, anche quando scriveva per la stampa del movimento o del partito. A questa impostazione Masini rimarrà fedele per tutta la vita lasciandoci una grande eredità culturale e di metodo di cui i suoi scritti ne sono una testimonianza viva.

NOTE:

[1] Per un inquadramento generale della vita intellettuale e politica di P.C. Masini si rimanda ai seguenti volumi: Pier Carlo Masini. Un profilo a più voci. Atti della giornata di studi sulla figura e l’opera di Pier Carlo Masini, Bergamo, Sala Curò, 16 gennaio 1999, a cura di G. Mangini, Numero monografico di «Bergomum», Bollettino della Civica biblioteca Angelo Mai di Bergamo, 2001; Pier Carlo Masini. Impegno civile e ricerca storica tra anarchismo, socialismo e democrazia, a cura di F. Bertolucci e G. Mangini, Pisa, BFS, 2008.

[1] Cfr. L. Cortesi, Le origini degli studi sul movimento operaio in Italia in ricordo di Pier Carlo Masini, in Pier Carlo Masini. Un profilo a più voci …, cit., pp. 43-53.

[1] Cfr. G. Gozzini, La storiografia del movimento operaio in Italia: tra storia politica e sociale, in La storiografia sull’Italia contemporanea. Atti del convegno in onore di Giorgio Candeloro. Pisa, 9-10 novembre 1989, a cura di C. Cassina, Pisa, Giardini, 1991, pp. 241-276.

[1] Cfr. P.C. Masini, Introduzione in R. Bertolucci, A come anarchia o come Apua: un anarchico a Carrara, Ugo Mazzucchelli, Carrara, FIAP, [1989], p. VI.

[1] Il saggio esce in sei puntate, P.C. Masini, Dittatura e Rivoluzione nei dibattiti del Risorgimento, «Volontà», nn. 1-6 pubblicati dal 1° luglio al 1° dicembre 1947.

[1] Cfr. Id., Dittatura e Rivoluzione …, cit., prima puntata, p. 30.

[1] Cfr. A. Romano, Nuovi documenti per la storia del marxismo, «Rinascita», gennaio-febbraio 1946, pp. 27-28.

[1] Cfr. P.C. Masini, Pisacane e Cafiero, «Il Libertario», 23 luglio 1946, p. 2.

[1] Cfr. Id., Per il Centenario della nascita di Carlo Cafiero (1° settembre 1846-1° settembre 1946). Note sparse, «Libertario» numeri dal 21 agosto al 4 settembre 1946. In questi anni Masini entra in contatto e lo rimarrà per lungo tempo con Luigi Dal Pane, altro autorevole studioso del socialismo italiano, depositario di un importante archivio di documenti, alcuni dei quali da lui utilizzati proprio in occasione del centenario della nascita di Cafiero e pubblicati in un opuscolo illustrato da fotografie d’epoca. Cfr. In memoria di Carlo Cafiero nel primo centenario della nascita (1846-1946), a cura di L. Dal Pane, Ravenna, La Romagna socialista, dicembre 1946.

[1] P.C. Masini, Carlo Cafiero ed una controversia intorno alla sua ultima posizione politica, «Volontà», 1° marzo 1947, pp. 73-83. Cfr., inoltre, (a cura dell’archivista), Il giudizio di Cafiero: commemorando il “Manifesto dei comunisti” (febbraio 1848-febbraio 1948), «Umanità nova», 1° febbraio. 1948, p. 3.

Articolo pubblicato nel marzo del 2023.




La deportazione politica in Toscana

Come è noto, in Toscana l’occupazione nazista ha imposto un sacrificio straordinario alle popolazioni civili a causa del perdurare di una guerra totale e devastante con eccidi e stragi che rendono la Toscana la più colpita d’Italia per numero di morti. A questo si aggiungono le vittime della deportazione, un’ulteriore modalità per terrorizzare una popolazione già allo stremo.

Nel periodo che va dal dicembre 1943 al settembre 1944 numerosi gli arresti per motivi politici e la conseguente deportazione degli arrestati nei campi di concentramento nazisti dipendenti dalle strutture delle SS (da distinguere nettamente dai campi per militari internati controllati dalla Wehrmacht o dai campi di lavoro coatto gestiti direttamente dalle aziende.) L’arresto e la deportazione dei “politici” era motivato perlopiù con la definizione Schutzhaft (arresto e detenzione dei sospetti “a protezione del popolo e dello stato”), un provvedimento messo in atto fin dal 1933 dalle autorità naziste per trasferire a scopo preventivo nei lager i propri avversari politici, dapprima i connazionali, considerati pericolosi per la sicurezza del Reich.

All’incirca 1000 i deportati politici nati o arrestati in Toscana fermati con l’allora vigente procedura d’arresto con destinazione campo di concentramento. Tale procedura fu utilizzata fin dall’inizio del 1944 dalle forze occupanti (SS e polizia tedesca in Italia), in collaborazione con le strutture repressive della RSI e riguardava le tre categorie principali dei deportati politici: partigiani veri e propri, sospetti fiancheggiatori, renitenti alla leva. Si annoverava tra questi anche chi aveva aderito a forme di resistenza civile, ad esempio ai grandi scioperi nelle aree urbane ed industriali. Per la Toscana, ma soprattutto per l’area Firenze/Prato/Empoli, prevalenti sono i casi di arresto nel corso della retata avvenuta proprio a seguito dello sciopero generale del marzo 1944. Il trasporto che partì l’8 marzo 1944 da Firenze e arrivò l’11 marzo a Mauthausen nell’Austria annessa al Reich Germanico, conteneva  338 uomini rastrellati in Toscana in seguito allo sciopero. Poche decine i sopravvissuti.

Nel contesto della crescita dell’attività resistenziale ma anche della repressione nazifascista, vanno iscritti arresti, detenzioni e deportazioni particolarmente intensi nel mese di giugno del 1944. Il trasporto partito dal campo di transito di Fossoli (MO) il 21 giugno e arrivato a Mauthausen il 24 giugno è per numero di deportati il secondo trasporto con cittadini nati e/o arrestati in Toscana, dopo quello dell’8 marzo. Molti di loro, prima di essere trasferiti a Fossoli in attesa della successiva deportazione, avevano trascorso un periodo di detenzione nel carcere delle Murate a Firenze. Diversi i nomi di noti antifascisti toscani tra i deportati del 21 giugno, come Enzo Gandi, Giulio Bandini, Marino Mari o Dino Francini. In questo trasporto troviamo anche persone legate alla vicenda dei fatti di Radio Co.Ra.: Marcello Martini, Guido Focacci, Angelo Morandi e Salvatore Messina, tutti arrestati a seguito dell’irruzione delle forze naziste in un palazzo di Piazza D’Azeglio a Firenze dove avvenivano collegamenti radio clandestini con gli alleati.

In conclusione, la deportazione politica dalla Toscana ha visto il sacrificio di antifascisti e resistenti noti e meno noti, ma gli arresti e le retate hanno avuto anche carattere indiscriminato perché non sempre si teneva conto della reale attività d’opposizione al regime dell’arrestato. Questo è particolarmente evidente nel trasporto col numero più alto di deportati dalla Toscana: quello già menzionato dell’8 marzo 1944 da Firenze. Infatti, l’intenzione delle forze d’occupazione era quella di creare, attraverso le deportazioni, un forte deterrente da possibili ulteriori azioni di lotta o resistenza civile ma contestualmente quella di trasferire in massa manodopera da ridurre in schiavitù, utile per l’economia di guerra del Terzo Reich. L’organizzazione del lavoro schiavo dei deportati è testimoniata da un numero cospicuo di fonti documentali: elenchi, schede personali, corrispondenza. Di particolare interesse le schede del sistema Hollerith-IBM.

Ad arrestare i “politici” toscani furono soprattutto italiani, cioè i militi della Guardia Nazionale Repubblicana (ca. il 90% degli arresti è da attribuire a loro); è documentata in molti casi anche la presenza dei carabinieri. Questo ci dice l’alto grado di collaborazionismo da parte delle autorità fasciste, essenziale per la stessa riuscita della deportazione.

A Dachau ma soprattutto nel complesso concentrazionario di Mauthausen con le sue decine di sottocampi, destinazione della maggior parte dei deportati politici della Toscana, si determinò un altissimo tasso di mortalità per le condizioni così estreme da non far loro superare in media più di otto mesi di sopravvivenza. In molti casi gli “inabili al lavoro”, dopo le selezioni, furono eliminati nelle camere a gas.

Questo testo è tratto dal saggio di Camilla Brunelli e Gabriella Nocentini, presente nel secondo volume de IL LIBRO DEI DEPORTATI – Deportati, deportatori, tempi, luoghi (ed. Mursia, 2010) a cura di Brunello Mantelli.

Interno Museo della Deportazione Figline di Prato




«L’officina dei partigiani».

La montagna – ha scritto Dante Livio Bianco – fu […] la culla del partigianato, come ne fu poi la base fondamentale e l’ambiente di sviluppo e di consolidamento. […] Le montagne furono davvero la casa dei partigiani.[1]

Le montagne a cui si riferiva nelle sue memorie partigiane il futuro comandante della 1° Divisione alpina Giustizia e Libertà erano quelle del Cuneese, una delle prime e più importanti culle della Resistenza armata italiana. E tuttavia, l’annotazione del Bianco assume certamente una valenza generale e può infatti estendersi tranquillamente alla totalità della storia della Resistenza partigiana tout court.

Ogni banda partigiana, ogni esperienza resistenziale extraurbana ha avuto infatti le proprie montagne e le proprie vallate di riferimento, nelle quali è nata – spesso stentatamente – ha attecchito, si è sviluppata, talvolta persino sensibilmente radicata, prima che eventi e difficoltà generali costringessero o consigliassero alle formazioni di spostarsi altrove, magari su altri e più impervi rilievi.

Monte Morello 1

Partigiani su Monte Morello (1944). Il secondo ed il terzo da sinistra sono rispettivamente: Gino Bartolini “Bachino” Fernando Bucelli “Grillo”. La ragazza è la Partigiana fiorentina Bruna Parri “Sonia” (Fonte: ANPI Firenze- sezione Oltrarno)

Così è, tra altre, anche per la Resistenza fiorentina, la quale lega la sua storia ad una manciata di rilievi e massicci montuosi attorno ai quali le sue bande armate si sono costituite nel tempo e hanno operato, talvolta prosperando, talaltra invece migrando altrove dietro l’impeto dei rastrellamenti nemici, in direzione di vette ritenute più inaccessibili e quindi più sicure. Da Monte Morello a Monte Senario, da Monte Giovi ai rilievi appenninici del Mugello, dai monti del Chianti al Pratomagno, sino al Casentino: tutte maglie della fitta e complicata trama in cui si è dispiegata la resistenza in armi delle formazioni fiorentine tra il settembre del 1943 e la fine dell’estate del 1944.

Tra i rilievi che più di altri hanno avuto un ruolo centrale per l’esperienza partigiana fiorentina, soprattutto per quanto riguarda le sue origini e le prime fasi di impianto, un posto di rilievo lo occupa senza dubbio Monte Morello. Qui, infatti, dopo l’armistizio, cominciarono a confluire i primi resistenti del fiorentino – ribelli e non ancora propriamente partigiani – i quali costituirono alcuni dei più precoci esperimenti di bande armate della Toscana, in alcuni casi destinati a divenire gli embrioni delle future brigate partigiane fiorentine. Le ragioni per cui quella che è solitamente indicata come la montagna dei fiorentini, da sempre meta delle loro passeggiate ed escursioni domenicali, può a ragione definirsi anche come la montagna dei partigiani fiorentini, sono piuttosto chiare e immediate e hanno a che fare anzitutto con la rilevanza strategica che la sua posizione geografica e la sua specifica conformazione fisica conferirono al massiccio nel quadro degli eventi storici successivi all’8 settembre 1943.

Monte Morello si erge infatti con le sue tre “vette” (Poggio all’Aia, 934 metri s.l.m.; Poggio Casaccia, 921 metri e Poggio Cornacchiaccia, 892 metri) a pochi chilometri a nord ovest del capoluogo toscano occupando una vasta area delimitata idrogeologicamente, a ovest, dal torrente Marina e dalle propaggini orientali dei monti della Calvana e, a est, dalla val di Mugnone e dal colle di Fiesole, e amministrativamente divisa tra i comuni di Firenze, Vaglia, Sesto Fiorentino e Calenzano. Di estremo interesse ambientale-paesaggistico, con ricchi terreni boschivi frutto si secolari rimboschimenti e risorse idriche diffuse, Morello oggi come allora era lambito altresì da importanti vie di comunicazione, stradali e ferrate, tra le quali: a ovest, la direttissima appenninica che attraverso la Calvana e la Val di Bisenzio collegava dal 1934 la piana fiorentina a Bologna e, a est, la strada carreggiabile bolognese e la linea ferrata faentina che da Firenze conducevano via Vaglia sino in Mugello e da lì in Romagna.

Monte Morello 5

Monte Morello (1944). Due partigiani russi non identificati. (Fonte: ANPI Firenze – sezione Oltrarno)

Già da questi elementi si intuisce la rilevanza che Monte Morello assumerà nella lotta partigiana ai fini del controllo del territorio e delle comunicazioni nell’area. Di più, la vicinanza del rilievo alla città e ai principali centri abitati della piana fiorentina, unita alla presenza di una rete di piccoli nuclei rurali sparsi un po’ ovunque sulle sue pendici, creavano le condizioni ideali perché i gruppi di partigiani potessero assicurarsi nei mesi di attività rifornimenti, riparo e appoggio logistico. In definitiva, la vicinanza di Morello a Firenze e alla produttiva piana fiorentina è forse il primo e più importante aspetto che inizialmente ne garantì l’indiscussa importanza rispetto alla nascita delle bande, benché poi proprio questa stessa vicinanza sul lungo periodo avrebbe altresì costituito uno dei fattori di maggior pericolosità per la sopravvivenza del movimento armato.

L’essere di fatto la montagna dei fiorentini, ossia la zona impervia più vicina alla città e da essa facilmente raggiungibile, spiega come mai i primi resistenti confluissero su Morello. Bisogna a tal proposito ricordare che le prime bande che si formano in montagna dopo l’8 settembre non nascono tanto (o almeno non solo) con l’intento della lotta armata, quanto con l’obiettivo immediato della sopravvivenza. Tutta l’umana varietà di soggetti che anima le prime bande (ex soldati sbandati fuggiti dai presidi e dalle caserme, ex prigionieri di guerra alleati evasi dai campi di detenzione, renitenti, disertori, perseguitati politici scarcerati, operai e antifascisti compromessisi nei quarantacinque giorni badogliani, giovani studenti ecc.) prende infatti la strada dei monti anzitutto per sfuggire alla propria cattura. È questo un elemento trasversale dal quale non sono esenti neppure i “politici”, coloro cioè che, come quadri e aderenti alle strutture clandestine dell’antifascismo, hanno più chiare di altri le ragioni della necessità e dell’importanza di intraprendere la lotta armata. Non per nulla Gino Tagliaferri, tra gli organizzatori per il Partito comunista della lotta partigiana in provincia di Firenze, ricordando un incontro tenuto il 12 settembre 1943 con alcuni compagni di Campi Bisenzio, nel quale era stato deciso di mandare proprio su Monte Morello una prima squadra di uomini (il gruppo di Lanciotto Ballerini), avrebbe detto:

[…] chi dice (riferendosi al primo giorno o subito ai primi giorni dell’occupazione) che andava in montagna a fare il partigiano, non dice una cosa esatta. Perché ancora non si avevano idee chiare. Io non le avevo ma non le avevano neanche gli altri. Era in generale per tutti noi comunisti una ritirata prudenziale in attesa di vedere come si mettevano le cose e quindi agire di conseguenza. Volenti o nolenti bisognò prendere quella posizione; prima ci si ritirò per sottrarsi ad eventuali arresti, deportazioni, o uccisioni e rappresaglie.[2]

Monte Morello 3

Monte Morello (1944). partigiano a cavallo non identifiicato, assieme alla partigiana fiorentina Bruna Parri “Sonia” (ANPI Firenze – sezione Oltrarno)

Per chi dopo l’8 settembre e a seguito dell’occupazione tedesca della città voleva sottrarsi a un eventuale arresto e scappare da Firenze in cerca di un rifugio, Monte Morello costituiva una delle mete più immediate e più facilmente raggiungibili in grado di assicurare lungo i suoi declivi boscosi una certa prospettiva di salvezza. E in effetti, sin dopo l’armistizio, esso si popola di militari sbandati, ex-prigionieri alleati e civili in fuga che inizialmente vagano in solitaria ma che finiscono poi in alcuni casi per unirsi in aggregati spuri, destinati a divenire le prime cellule delle successive bande. Alla Cappella di Ceppeto sulle pendici orientali del monte in prossimità del valico tra il torrente Terzolle e il Mugello, nei giorni seguenti all’8 settembre va formandosi ad esempio un primo grande assembramento di ex militari, cui si uniscono ex-prigionieri e anche giovani operai antifascisti.[3] La presenza tra loro di ex prigionieri alleati (angloamericani e slavi) si spiega in particolare con l’esistenza nelle vicinanze di campi di lavoro coatto dipendenti dalle strutture d’internamento militari italiane nei quali, prima dell’8 settembre, erano impiegati come forza lavoro i prigionieri di guerra. Nella provincia fiorentina ve ne erano diversi e uno di questi in particolare era situato sulle pendici settentrionali di Morello nell’azienda agraria degli eredi Corsini al Carlone, nel comune di Vaglia.[4] Fuggiti da questo e da altri luoghi di prigionia essi avevano trovato ospitalità da parte di molte famiglie contadine della zona di Morello, come quelle dei Sarti e dei Biancalani in località Cerreto Maggio e Morlione o come quella dei Venturi a Querceto. Secondo la stima di un ex prigioniero inglese nell’autunno del 1943 in tutta l’area di Morello si trovavano alla macchia sino a 150 ex prigionieri alleati[5], alcuni dei quali si sarebbero poi uniti alle locali bande armate. Il più famoso tra questi sarebbe stato certamente Stuart Hood, prigioniero scozzese evaso dal campo di prigionia di Fontanellato che nel dicembre 1943 proprio su Monte Morello si unì col nome di battaglia di “Carlino” ai partigiani del gruppo campigiano di Lanciotto Ballerini.[6]

La varietà umana che si incontra su Morello nel settembre del 1943 rende la scena delle prime bande assai varia e composita. Accomunate da una precarietà iniziale dettata dalla difficoltà di organizzarsi, nascono diverse formazioni, alcune destinate a durare, altre costrette a vita breve. Le più note sono naturalmente il gruppo del Bruschi e quello di Lanciotto.

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Lanciotto Ballerini (1911-1944): comandante di una delle prime formazioni di Monte Morello, caduto eroicamente a Valibona il 3 gennaio 1944 (Fonte: Wikipedia)

Il primo è guidato dal sestese Giulio Bruschi “Berto”, classe 1901, un militante comunista di lungo corso condannato nel gennaio 1935 a quattro anni di reclusione per attività clandestina e poi assegnato a cinque anni di confino a Ponza e a Ventotene. Il suo gruppo partigiano, che si installa alla metà di settembre sulle pendici di Morello presso un casotto in muratura in località Cipressa vicino alle Croci di Querceto, è sostenuto dall’organizzazione antifascista di Sesto ed è composto inizialmente da altri antifascisti perseguitati tra i quali spiccano Olinto Ceccuti “Cecco”, un artigiano nativo di Casellina e Torri coetaneo di Bruschi, e Rolando Gelli “Mangia”, falegname sestese classe 1911 già schedato dalla polizia fascista e sottoposto ad ammonizione dal Tribunale Speciale.

Anche il gruppo di giovani campigiani che alla guida di Lanciotto Ballerini la sera del 15 settembre 1943 lasciano la colonica di Serafino Colzi della fattoria di Fornello per avviarsi su Monte Morello si è formato a seguito di alcune riunioni tenutesi nei giorni antecedenti tra i principali esponenti dell’antifascismo campigiano nelle quali è stato deciso l’invio sui monti di alcuni uomini. A fianco dell’erculeo Lanciotto (classe 1911, promessa del pugilato locale e con alle spalle una lunga esperienza sui fronti di guerra del fascismo che gli ha lasciato in eredità una spiccata insofferenza per le gerarchie militari e l’autoritarismo fascista) vi è Ferdinando Puzzoli “Nandino”, detto anche “Novatore”, un vecchio militante anarchico e decano degli antifascisti campigiani, che della formazione di Lanciotto diviene commissario politico. Il gruppo, che assumerà il nome di “Lupi Neri”, giunto su Morello si sistema inizialmente alla Fonte del Vecciolino per portare poi il proprio comando al Chiesino di San Michele a Cupo, sul versante più a Nord di Morello, da dove la banda opererà nell’area compresa tra Collinella e Cerreto Maggio.

Alla Cappella di Ceppeto, altri due gruppi partigiani si costituiscono alla metà di settembre. Uno è quello formato inizialmente da circa venti individui che si riuniscono attorno all’ex paracadutista Bruno Bini “Folgore” (classe 1920) e che, oltre ad altri militari sbandati come Spartaco Capestri “Stanlio” o Florio Taccetti “Ivan”, accorpa anche giovani fiorentini come Leandro Agresti “Marco” (classe 1924) figlio di un calzolaio antifascista di Barberino di Mugello e tra i primi a salire a Ceppeto la mattina del 10 settembre. L’altro gruppo è quello guidato dai fratelli Morando e Marino Cosi e formato per lo più da giovani fiorentini delle classi 1923-1925 provenienti dai quartieri a ovest della città, tra Careggi e Castello: «banda delle Panche» infatti è il nome della piccola formazione, dall’odonimo della via di residenza di molti dei suoi componenti. Dalla Cappella di Ceppeto, il gruppo dei Cosi passerà in ottobre in località Case di Maiano, tra il paese di Vaglia e il borgo di Legri, sui contrafforti a nord di Monte Morello. Un terzo gruppo di resistenti, per lo più provenienti ancora dalla zona di Sesto e di Castello, è quello promosso dai tre fratelli Alfio, Renzo e Carlo Fondi che nel pomeriggio del 9 settembre, forte di undici uomini, da Leccio di Calenzano dove si è ritrovato prende la via di Monte Morello.[7]

Come molti altri esperimenti partigiani, questi gruppi che si costituiscono sui rilievi di Morello vivono le prime settimane di vita in uno stato di precarietà e debolezza dovuto all’incertezza del contesto nel quale si trovano a operare. La loro principale attività non è ancora la lotta ai nazifascisti – i quali prima della metà di ottobre non costituiranno una tangibile minaccia per le bande di Monte Morello – quanto tutto ciò che serve alla mera sopravvivenza e alla preparazione della lotta: il che significa soprattutto approvvigionarsi di alimenti e generi di prima necessità e quindi armarsi. Quanto la montagna può offrire di tutto ciò è limitato e a volte appena sufficiente: «si è patita molta fame», avrebbe ricordato più tardi un membro di quelle prime bande:

[…] Si è mangiato di tutto: vitalbe, luppoli, cicerbite, asparagi, radicchio. Tante volte non s’aveva nemmeno l’acqua per lavarli. A volte si trovava le ciliegie o le corbezzole. Quando si trovavano erano una manna […].[8]

Ma pur se parco, Morello, come si è detto, ha il grande vantaggio di consentire un rapido e sicuro contatto con gli abitati della piana e quindi con l’organizzazione clandestina cittadina. Lo stesso Bruschi, ricordando gli esordi incerti della propria formazione, avrebbe ammesso al riguardo:

[…] agivamo un po’ spontaneamente. […] Non avevamo cognizione di quello che vuol dire una lotta di popolo, ma ci accorgemmo subito che se non ci fosse stata la popolazione di Sesto, la quale ci mandava scarpe, calzini e viveri, non avremmo potuto resistere.[9]

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Giulio Bruschi, classe 1901, comunista sestese e perseguitato politico, dopo l’8 settembre comanderà uno dei primi gruppi militari che salgono su Monte Morello (Fonte: ACS, CCP)

Tra la popolazione della piana fiorentina e quella che abita le pendici di Morello si instaura un solidale impegno assistenziale all’indirizzo delle bande partigiane. Molte delle famiglie che vivono sulla montagna danno gratuito e spontaneo aiuto ai partigiani che operano nella zona. In località Lavacchio, sulle pendici meridionali di Morello, le famiglie di Giocondo e Giuseppe Ercoli, ad esempio, ospitano spesso i ribelli della zona, con le figlie Marisa e Graziella che si offrono come staffette, trasportando materiale e avvisando i partigiani in caso di pericolo imminente. La famiglia Scarlini, originaria di Campi Bisenzio, lungo l’alveo del torrente Zambra fa giungere in montagna armi, indumenti e viveri. Ancora assistenza e riparo offrono ai partigiani la famiglia Zetti al podere Solatio, nei pressi della Torre di Carmignanello, e quella dei Gigli a Rofoli. Ma tra i tanti il nucleo familiare più attivo è sicuramente quello dei Lastrucci, i contadini che coltivano il podere della Cipressa sopra Querceto, base di reclutamento e punto d’appoggio dei partigiani, nel quale viene garantito quotidianamente riparo e continuo ristoro tanto ai comandi che al gran numero di reclute che da Sesto si avviano sulla montagna. Un impegno intenso e decisivo, quello dei Lastrucci, che costerà a questi, nella figura di Angelo, anche l’arresto e l’uccisione da parte tedesca. Ma nel piccolo abitato di Querceto non c’è di fatto un solo nucleo familiare che non sia impegnato a dare assistenza ai partigiani. Una solida tradizione antifascista e un tessuto sociale solidale uniti alla stessa ubicazione del borgo che, arroccato com’è su Morello, ne rende disagevole l’accesso ai mezzi pesanti nemici, offrono le condizioni ideali per fare di Querceto un punto logistico fondamentale per l’organizzazione partigiana locale. Concorrono in questo anche i rappresentanti del clero locale nelle figure di don Severino e don Eligio Bortolotti, parroci della chiesa di Querceto, impegnati nell’assistenza e nel supporto ai partigiani, sforzo che al secondo costerà il 6 settembre del 1944 l’arresto e l’uccisione per mano dei tedeschi.

Così come dalla montagna, anche dalla piana fiorentina le prime bande di Morello ricevono assistenza fondamentale. Rifornimenti di generi alimentari da forni e cooperative di consumo, vestiario e scarpe da negozi e da singole famiglie, forniture d’ogni tipo da botteghe e officine affluiscono così a Querceto da tutta l’area sestese e anche al di fuori di essa, grazie alle ramificate trame dell’organizzazione antifascista locale. A mezzo dei contatti stabiliti con alcuni industriali tessili di Prato giungono ad esempio partite di coperte da inviare in montagna, mentre dalla Manifattura Tabacchi di Firenze operaie coraggiose come Corinna Pratesi si adoperano sottraendo dalla produzione piccoli quantitativi di sigarette che poi, tramite i compagni di Sesto, vengono fatte giungere ai partigiani di Monte Morello.

Ancora da Sesto e dalla piana affluiscono tramite Querceto ai partigiani di Morello anche armi e munizioni. A seguito di un accordo con un ufficiale dell’Autocentro dell’esercito, già dopo l’8 settembre giunge un primo carico di dotazioni militari che, scaricato tra Querceto e Settimello, è poi portato alla Cipressa. Altre armi vengono invece recuperate attraverso due militari in servizio al polverificio industriale dei fratelli Faini su Monte Morello, mentre le cave di pietra che si trovano a monte di Querceto vengono spesso usate dai partigiani per collaudare le armi, alcune delle quali sono mandate in riparazione a meccanici di fiducia di Sesto. Il resto che ancora necessita alle bande viene da queste sottratto nel corso dei primi assalti compiuti contro depositi e presidi militari, come avviene il 22 settembre 1943 a opera di uomini della formazione del Bini che dalla caserma di via S. Caterina da Siena a Sesto asportano, oltre a vestiario e materiale vario, 150 moschetti e un fucile mitragliatore.

Monumento-a-Checcucci

La targa posta nei pressi di Ceppeto che commemora la morte di Giovanni Checcucci, il primo partigiano caduto su Monte Morello (Fonte: resistenzatoscana.org)

Grazie alla rete di assistenza che garantisce loro la popolazione locale e ai proventi dei primi colpi, le bande di Morello a partire da ottobre possono così organizzare le prime azioni militari. Si tratta più che altro di sabotaggi alle linee telefoniche e alle vie di comunicazione, di interruzioni stradali e del disarmo di pattuglie tedesche e fasciste che transitano lungo le direttrici che lambiscono o si inerpicano sui rilievi di Morello. Seguono così i primi scontri a fuoco con il nemico, nei quali si registrano anche le prime perdite. Il 14 ottobre 1943, un reparto della GNR di Firenze in rastrellamento nell’area di Ceppeto impegna in un conflitto a fuoco un gruppo di partigiani. Al termine della sparatoria rimangono a terra sul campo un milite fascista e Giovanni Checcucci, un operaio comunista della fonderia del Pignone, classe 1906, che nell’aprile del 1939 era stato condannato dal Tribunale Speciale a sei anni di reclusione e che dopo l’8 settembre era stato tra i primi a salire su Monte Morello: di fatto è il primo caduto nelle file del partigianato fiorentino.  Il 21 novembre successivo, presso la Piazzola di Baroncoli, alle propaggini meridionali di Morello che degradano verso Calenzano, due partigiani armati di moschetto si imbattono e disarmano un tenente della milizia. Il miliziano, spogliato della propria pistola d’ordinanza, estrae però una seconda arma e apre il fuoco. Rimane così ucciso uno dei due partigiani, Sirio Romanelli, un giovane fiorentino classe 1924, mentre il giovane compagno, prima di darsi alla fuga, riesce a contrattaccare, ferendo gravemente il miliziano.

Azioni come queste che si protraggono ancora tra novembre e dicembre danno la sensazione che Monte Morello sia oramai base di un gran numero di partigiani; numero che, nelle voci che si propagano incontrollate di bocca in bocca, viene distorto sino ad assumere proporzioni spropositate: «Sono in mille, su Monte Morello», annoterà il partigiano Gianfranco Benvenuti nelle sue memorie riferendo tali sensazionalismi e aggiungendo come qualcuno fosse persino disposto a scommettere che fossero in realtà «diecimila».[10] Ciò, se da un lato contribuisce a corroborare la risonanza di cui la resistenza in armi gode nei settori dell’opinione pubblica popolare e antifascista fiorentina, finisce però per amplificare i timori degli avversari, attraendo così sui partigiani di Morello l’azione repressiva delle forze nazifasciste. Già il 9 novembre, in segno di rappresaglia per l’eliminazione a Sesto di una spia fascista e di un graduato repubblichino compiuta da alcuni partigiani scesi da Monte Morello, i militi fiorentini rastrellano la popolazione di Sesto, ricercando gli oppositori noti, ferendone alcuni e uccidendo un passante. La strategia repressiva delle forze di polizia, prima ancora di imbastire vere e proprie azioni di controguerriglia lungo tutto il massiccio montuoso, si affida soprattutto al lavoro di spie e delatori che cominciano a infiltrarsi nei gruppi partigiani di Morello. Ancora in novembre, a causa della delazione di una spia – il tenente Nino Foini – il gruppo partigiano dei fratelli Fondi viene di fatto scompaginato e tre suoi componenti (Aldo e Luigi Mordini, Luigi Latini) arrestati, incarcerati e torturati.

Esposte così alla minaccia di rastrellamenti e di infiltrazioni nemiche, con l’arrivo della stagione invernale 1943-44 le bande di Morello sono costrette a riconsiderare le condizioni che le avevano spinte ad aggregarsi sul rilievo. La vicinanza alla piana fiorentina, fondamentale per garantire rifornimenti continuativi soprattutto adesso che con l’inverno le scorte si riducono e la montagna ha sempre meno da offrire, diviene sempre più un fattore di rischio a fronte del consolidarsi dell’azione repressiva nazifascista. È così che alcune delle bande superstiti decidono di avviare degli spostamenti che, a tappe successive, le porteranno a sganciarsi da Monte Morello.

Monte Morello

Partigiani su Monte Morello (1944). Il secondo il terzo e il quarto da sinistra sono rispettivamente: Aldo Melani “Gimmi” Egizio Fiorelli “Baffo”, Silio Fiorelli “Saltamacchie” (Fonte: ANPI Firenze – sezione Oltrarno)

La banda di Lanciotto, come noto, alla fine di dicembre del 1943, traversando la Val di Marina, passerà sui monti della Calvana seguendo un itinerario che l’avrebbe dovuta portare a congiungersi sull’Appennino pistoiese con le formazioni al comando di Manrico Ducceschi “Pippo”, se non fosse incappata il 3 gennaio del 1944, durante una sosta a Valibona, nell’accerchiamento dei militi repubblichini, lasciando caduti sul campo Lanciotto Ballerini e altri due componenti del gruppo. Sempre in dicembre, anche la formazione del Bruschi, assunta nel frattempo la denominazione di distaccamento Siro Romanelli in onore del giovane caduto a Baroncoli, inizierà lo spostamento nella zona di Bivigliano-Montescalari, pur lasciando su Morello una propria squadra per accogliere le nuove reclute che da Sesto e da altri comuni della piana continueranno a salire in montagna. Dopo l’esito infausto di Valibona, anche quel che rimane della formazione originaria di Lanciotto ritornerà su Monte Morello ricostituendosi in un gruppo al comando di Renzo Ballerini, fratello di Lanciotto, che manterrà come denominazione il nome di quest’ultimo. Rimangono invece nell’inverno 1943-44 su Morello i gruppi comandati da Marino Cosi e da Bruno Bini. A questi si dovranno tra gennaio e fine marzo del 1944 gli ulteriori colpi che la resistenza fiorentina riesce ancora ad assestare nell’area, non sempre per la verità con esito indolore, come in occasione dell’attacco alla stazione di Montorsoli del 4 aprile 1944 che registrerà la morte di tre componenti del gruppo del Cosi. Tuttavia, con l’avvio del grande ciclo di rastrellamenti antipartigiani dell’aprile 1944 l’organizzazione armata fiorentina riceverà un colpo durissimo proprio su rilievi di Morello dove gli uomini della Hermann Göring nel lunedì di Pasqua del 1944 si rendono protagonisti di rastrellamenti e uccisioni gratuite di civili a Cerreto Maggio, Cercina e Morlione. Anche i gruppi del Bini e del Cosi saranno così costretti a sganciarsi, prima seguendo le altre formazioni fiorentine nello spostamento verso il Falterona, poi attestandosi, il primo, sull’Appennino nei pressi di Firenzuola e, il secondo, su Monte Giovi. Faranno quindi ritorno su Morello per organizzare la fase offensiva finale della liberazione di Firenze e della piana, che affronteranno unendosi assieme e dando origine alla Brigata Garibaldi Bruno Fanciullacci.

Culla delle prime bande fiorentine, teatro di numerose  azioni e di diversi scontri tra partigiani e nazifascisti (con l’ultimo tra questi, in ordine di importanza, consumatosi il 14 luglio 1944 agli Scollini, presso la Fonte dei Seppi, dove 13 partigiani della Fanciullacci caddero combattendo con i tedeschi), Monte Morello reca ancora oggi visibili le tracce storiche della sua centralità nella storia della resistenza fiorentina, a partire dai circa 30 tra cippi e monumenti che costellano a futura memoria il suo territorio.[11] Montagna dei fiorentini per antonomasia, Morello è stata anche la montagna dei primi partigiani fiorentini ma anche – per usare l’espressione di uno di essi – «l’officina dei partigiani toscani».[12] Dalle prime bande che qui si costituirono all’indomani dell’8 settembre del 1943, sarebbero infatti nate attraverso successive dispersioni e riaggregazioni dei loro organici alcune delle principali Brigate che, come la 22° Lanciotto Ballerini, la 10° Caiani o la stessa Bruno Fanciullacci, avrebbero operato nei mesi centrali del 1944 sui monti del fiorentino e dell’Appennino toscano, rendendosi poi protagoniste in agosto della liberazione di Firenze.

[1] D. Livio Bianco, Guerra partigiana, Einaudi, Torino, 1973, pp. 9-10.

[2] AISRT, Fondo Interviste e trascrizioni, b. 1, fasc. 11 Tagliaferri Gino, II Parte della testimonianza di Gino Tagliaferri, s.d., p. 5.

[3] Giuseppe Tarchiani, La scelta di Beppe. Diario di un partigiano delle brigate Lanciotto e Caiani, Sarnus, Firenze, 2012, pp. 22-23.

[4] AUSSME, Fondo Diari Storici, b. 1243, Distaccamenti di lavoro pg. nella provincia di Firenze, l’Ufficio Prigionieri di Guerra dello Stato Maggiore dell’Esercito al Comando difesa territoriale di Firenze, 12 marzo 1943 (documento consultabile su: www.campifascisti.it)

[5] D’Arcy Mander, Mander’s March on Rome, Gloucester, Alan Sutton Publishing, 1987, p. 72.

[6] Stuart Hood, Pebbles from my skull, London, Quartet Books, 1973, poi riedito col titolo di Carlino, Manchester, Carcanet, 1985.

[7] Il gruppo costituirà poi la Compagnia “F” della 1° Divisione Giustizia e Libertà, cfr. AISRT, Fondo Resistenza armata, b. 2, Fasc. “Divisione GL, Cp. F – Sesto F.no”, relazione sull’attività svolta dalla compagnia F, 9 settembre 1944.

[8] Testimonianza di Leandro Agresti in Avevamo vent’anni, forse meno. Provavo una gioia immensa perché nello stesso momento in cui io davo la libertà agli altri la davo anche a me stesso, a cura di Riccardo Bussi, Silvia Cappelli, Francesco Fortunato, ANPI Sezioni di Brozzi, E. Rigacci e Peretola, s.d., p. 27.

[9] Testimonianza di Giulio Bruschi in Più in là, p. 99.

[10] Gianfranco Benvenuti, Ghibellina 24. Cronaca di fatti memorabili per la storia della Resistenza fiorentina, Carlo Zella Editori, Firenze, 2015, p. 35.

[11] David Irdani, Monte Morello: la cima dei partigiani di Firenze, in «Patria indipendente», n. 4, ottobre 2012, p. 24-26.

[12] Testimonianza di Leandro Agresti in Avevamo vent’anni, forse meno, cit. p. 28.




Spartaco Lavagnini e la nuova Internazionale: una polemica del 1917

Poco più di un mese dopo il disastro di Caporetto sul fronte italiano della Grande Guerra e poche settimane dopo la Rivoluzione d’Ottobre in Russia, il 1° dicembre 1917, Spartaco Lavagnini pubblica su La Difesa – settimanale del PSI fiorentino, cui collaborava regolarmente dall’ottobre del 1915 – un articolo intitolato La nuova Internazionale, destinato ad avere una risonanza non trascurabile sulla stampa socialista dell’epoca. Lo firma con l’ormai abituale pseudonimo di Vezio. L. parte dalla constatazione del fallimento della Seconda Internazionale e – rilevati i limiti e l’insufficienza della tattica parlamentare – addita la prospettiva di un nuovo organismo sovranazionale, basato sull’accordo fra tutte le scuole del sovversivismo rivoluzionario, che dia unità d’organizzazione alle masse operaie. Auspica che divenga possibile discutere nelle grandi assise internazionali fra socialisti, sindacalisti ed anarchici i grandi problemi che interessano il proletariato del mondo ed avvistare i mezzi più adatti a risolverli.  Prosegue Vezio: Nei grandi avvenimenti [della storia contemporanea] (…) l’unità proletaria si è immediatamente realizzata, gli aggruppamenti politici sovversivi hanno saputo trovare il comune terreno per una comune azione. Non ci pare quindi impossibile dare a questa unità ed a questi atteggiamenti più stabile consistenza e forme più durature.

Una settimana dopo, dalle colonne de Il Grido del Popolo – organo della Federazione socialista torinese – giunge severa la critica di Gramsci: Così la “Difesa” cade in questo errore di logica. Scambia il compito che può avere un convegno internazionale, nel quale si fissano dei princìpi generali che rinsaldino le coscienze in un determinato momento della storia, (…) e il compito di un organismo stabile. Il partito ha una continuità, è un organismo complesso, ha bisogni pratici, e solo in quanto riesce a soddisfarli acquista in potenza, e suscita le forze sociali necessarie per il raggiungimento dei suoi fini. E poi l’attacco a fondo alle posizioni di L. – (…) la nostra distinzione [in quanto partito] sarebbe distrutta da una fusione con gli anarchici e i sindacalisti. Non è solo l’antiparlamentarismo che ci separa dai sindacalisti e specialmente dagli anarchici. Siamo non solo distinti, ma diversi dagli anarchici, a malgrado dagli occasionali accostamenti. Divergiamo per il fine, per la mentalità che la divergenza di fine determina.

Emerge qui il fondamento della posizione e della critica gramsciana: una concezione organica del partito, di una compagine fondata su una precisa identità politica, con una sua visione d’insieme del corso storico e del rapporto con la classe nella sua totalità – di contro alla visione del partito come un processo, legato alla spontaneità delle masse in movimento e da questa dinamica definito nei suoi modi d’essere e nei suoi obbiettivi.

Vale comunque la pena di leggere per intero il testo di Gramsci (cfr. la bibliografia), non fosse altro in quanto riporta pressoché integralmente l’articolo di Vezio, anche se questo scambio polemico fra i due dirigenti rivoluzionari è noto da tempo ed è stato ampiamente ricostruito nella bella biografia che Andrea Mazzoni ha recentemente dedicato a L.

Meno ricordati sono gli interventi, in questo confronto, di Amadeo Bordiga e di Giacinto Menotti Serrati. Il primo, all’epoca animatore e dirigente della Federazione napoletana del PSI, prende posizione dalle colonne de L’Avanguardia – il settimanale della FGSI, che in quell’autunno 1917 si trova temporaneamente a dirigere – con una breve nota, nella quale si dice sostanzialmente in pieno accordo con la posizione de Il Grido del Popolo. Questo trafiletto introduce un più ampio articolo di un giovanissimo militante d’origine sarda, non ancora sedicenne, Giuseppe Sotgiu, ben presto destinato a diventare segretario della FGSI e ad entrare nella direzione de L’Avanguardia, in seguito al richiamo di Bordiga sotto le armi e all’arresto del segretario dell’organizzazione giovanile, Luigi Polano. Sotgiu, dopo aver ricordato la fine della Prima Internazionale proprio per le inconciliabili divergenze fra anarchici e marxisti e il crollo della Seconda, a causa della sua disomogeneità, vista la presenza dei “social-nazionalisti”, fa proprie le conclusioni dell’articolo di Gramsci

Serrati – allora direttore dell’Avanti! – interverrà sul quotidiano socialista il 6 gennaio 1918, riprendendo le posizioni di Gramsci e Bordiga, rinviando inoltre ad un proprio articolo di due anni prima, pubblicato sullo stesso quotidiano socialista, nel quale egli già aveva proposto agli anarchici la ricerca di un terreno comune nell’azione contro la guerra, senza che ciò comportasse l’abiura alle rispettive concezioni politiche generali, che erano inconciliabili.

Si può già intravedere come traspaiano in filigrana in questa polemica, apparentemente marginale e condotta in punta di penna, alcuni temi ed alcuni atteggiamenti politici che ricompariranno – mutatis mutandis, ma con ben altre conseguenze pratiche – nel corso degli anni successivi, dalla primavera-estate del 1920 e nei mesi che precedono la scissione di Livorno, fino al periodo della lotta contro il fascismo, nei mesi che precedono e seguono la marcia su Roma (si pensi alla scelta della direzione del PCd’I di non aderire nel 1921  agli Arditi del Popolo e alla questione del Fronte unico, oggetto di profonde controversie fra la sezione italiana dell’Internazionale Comunista e lo stato maggiore di Mosca).

È importante cogliere come questa polemica non sorga dal nulla, come una tempesta in un bicchier d’acqua, ma si ricolleghi alla spinta di non poche frange della sinistra giovanile socialista ad approfondire e rendere organico il legame con anarchici e sindacalisti rivoluzionari nella comune azione contro la guerra. È tutto un fermento nel movimento operaio e socialista italiano, che fiorisce a partire dalla fine del 1915 e si estende con l’amplificarsi in Italia degli echi delle conferenze di Zimmerwald (5-8 settembre 1915) e di Kienthal (25-30 aprile 1916).

In Puglia, ad esempio, un gruppo di giovani socialisti rivoluzionari, fra cui Nicola Modugno (che ritroveremo a Firenze il 18 novembre 1917 – vedi più oltre), tenta di organizzare per il giugno 1916 un Congresso interregionale giovanile socialista anarchico rivoluzionario, poi impedito dalla polizia, che mira a spengere sul nascere i focolai dell’insubordinazione. Ma le spinte a saldare, a livello locale e “dal basso”, un’unità fattiva contro la guerra fra giovani socialisti, anarchici e sindacalisti rivoluzionari non sono confinate al solo Meridione (sui cui movimenti sovversivi si veda l’utile libro di Daria Del Donno, citato nella bibliografia).

Il 10 giugno 1916 Gramsci – in un articolo pubblicato sulla pagina torinese dell’Avanti! – annuncia che: Un gruppo di giovani del circolo “Andrea Costa” ha preso l’iniziativa per la costituzione a Torino di un fascio internazionalista rivoluzionario che dovrebbe comprendere i socialisti, gli anarchici e i sindacalisti. Un blocco rosso insomma. Gramsci si dice contrario ad una fusione organica: una fusione di tal genere avviene naturalmente nel momento dell’azione, quando si ha un fine immediato da raggiungere un nemico comune da colpire (…) E’ opinione volgare e diffusa che gli anarchici e i sindacalisti siano più “rivoluzionari” che i socialisti anche estremi. E questo è un pregiudizio perché il rivoluzionarismo non è in funzione assoluta con le affermazioni gladiatorie e con la violenza di linguaggio (…). Crediamo perciò che il nostro partito non abbia affatto bisogno di queste iniezioni per irrobustirsi (…).  Una posizione analoga aveva vivacemente sostenuto Bordiga, già nell’aprile, allorché – nell’ambito della Federazione socialista di Napoli – si era esaminata la possibile convergenza con elementi anarchici nel lavoro politico e sindacale.

Sulla stampa socialista il dibattito sulla questione dell’unità di classe contro la guerra sta andando avanti dagli inizi di quel 1916; a partire dal già menzionato articolo di Serrati del gennaio. Da questo confronto emerge la sintonia fra Gramsci e Bordiga – che ritroveremo nel dicembre 1917 – nell’escludere ogni alleanza spuria a sinistra.

Anche in ambito libertario e sindacalista la questione troverà vasta risonanza soprattutto a partire dal 1° maggio 1917, quando sull’Avanti! compare un articolo di Jacques Mesnil sul tema della nuova internazionale. Mesnil è un anarchico di origini belghe, particolarmente legato al PSI e in ottimi rapporti con Serrati, che lo accetterà come corrispondente parigino del quotidiano socialista. Nel 1921 parteciperà al III° Congresso del Komintern e per alcuni anni sarà nella redazione de L’Humanité, allora organo della sezione francese dell’I.C.

In autunno, con una lettera da Londra, pubblicata su Guerra di classe (la rivista fondata dal sindacalista Armando Borghi, dopo la rottura con gli elementi interventisti dell’Unione Sindacale Italiana), prende posizione Errico Malatesta a favore di una nuova Internazionale, che si batta per l’emancipazione del proletariato mondiale dal capitalismo e dai suoi governi. Una formazione (Malatesta propone di chiamarla la Mondiale per sottolinearne il carattere sovranazionale) alla quale potrebbero partecipare i socialisti non anarchici ed i laburisti non socialisti, a patto che rinuncino ad imporre le proprie tattiche, ovvero il parlamentarismo e il gradualismo riformista. Una posizione speculare, se vogliamo, a quella di Gramsci e di Bordiga.

L. interviene nel momento culminante di tutto questo dibattito. Per quanto riguarda l’evoluzione di Vezio, la posizione espressa nell’articolo da cui siamo partiti è in assoluta coerenza con tutta la sua militanza politica e sindacale. L. è sicuramente espressione dell’ambiente massimalista fiorentino, pur se gli resteranno sempre estranei i toni esagitati e la verbosità demagogica da comiziante.

Del resto il massimalismo sarà uno dei tratti distintivi di gran parte dei militanti socialisti che aderiranno tre anni dopo alla mozione di Imola e, nei primi mesi del 1921, daranno vita alle sezioni toscane del PCd’I.  Basti qui ricordare l’estrazione anarchica, negli anni di gioventù, di quadri del livello di un Ilio Barontini o di un Ersilio Ambrogi (entrambi originari della provincia di Pisa – Cecina e Castagneto rientravano allora in tale ambito amministrativo), oppure l’apprendistato e i tratti dell’impegno politico di un Arturo Caroti, o di un Armando Aspettati (entrambi fiorentini), di un Luigi Salvatori (originario di Querceta in provincia di Lucca), o di un Egidio Gennari (per diversi anni, particolarmente significativi, attivo su Firenze).

Quella di L. – la sua visione e la sua passione per fomentare e sviluppare l’unità di classe al di là delle appartenenze di sindacato e di partito (potremmo dire dal basso), resta una coerenza totale, dispiegata fino all’ultimo. C’è una coerenza di fondo fra lo spirito dell’articolo del dicembre 1917 e l’impegno unitario, senza riserve, di L. a fianco degli anarchici (due nomi per tutti: il pisano Augusto Castrucci e il livornese Enzo Fantozzi) e dei sindacalisti rivoluzionari all’interno del Sindacato Ferrovieri Italiani (S.F.I.), per la cui adesione alla CGdL Vezio non rinunciò a battersi durante il biennio rosso.

Una coerenza che ritroviamo nella collaborazione con l’avvocato Mario Trozzi, al tempo stesso legale dello S.F.I. e esponente di rilievo del massimalismo fiorentino. Vale la pena di ricordare che nel suo studio il 18 novembre 1917 si tiene, fra i principali esponenti della sinistra socialista italiana, la riunione nazionale clandestina per raccordare le posizioni degli aderenti alla frazione intransigente rivoluzionaria del PSI, che ha preso vita nel corso dell’estate precedente: una pietra miliare lungo la strada che porterà alla nascita del PCd’I. Una riunione nella quale – e la circostanza ha anche un suo forte significato simbolico –  si incontrano di persona per la prima volta Gramsci, Bordiga e anche – secondo quanto riporta Andrea Mazzoni nel suo libro – lo stesso Lavagnini.

In fondo la vicenda qui richiamata ci ricorda ancora oggi quanto tormentato, non breve e di certo non lineare sia stato il cammino che ha portato i più importanti dirigenti del futuro PCd’I ad emanciparsi – forse mai completamente del tutto – dai limiti del massimalismo, tratto caratteristico del movimento operaio italiano nei primi decenni del ‘900 (e forse non solo in questi). Giustamente Andrea Mazzoni sottolinea quanto L. si ispirasse al modello di Karl Liebknecht nella sua intransigente opposizione alla guerra e al militarismo prussiano. Ma tanto al tribuno di Firenze che a quello di Berlino (caduto due anni prima di lui), la reazione borghese – fascista per il primo, d’ispirazione socialdemocratica (maggioritaria) per il secondo – non ha consentito di contribuire ulteriormente a dare uno sbocco politico ai fermenti rivoluzionari sorti in Europa all’indomani dell’Ottobre sovietico.




«Guerra e Resistenza nel fiorentino. La 22a Brigata Garibaldi Lanciotto Ballerini»

«[…] Bisogna scrivere questi fatti, perché fra qualche decennio una nuova retorica patriottarda o pseudoliberale non venga a esaltare le formazioni dei purissimi eroi. Siamo quello che siamo […]» [1]

Le parole che il partigiano giellista ebreo Emanuele Artom consegna alle pagine del suo diario nel novembre 1943, poco prima di essere catturato dai fascisti, torturato dai tedeschi e brutalmente assassinato, colgono i dubbi e le inquietudini, comuni a tanti altri protagonisti di quell’esperienza di lotta, su come quelle vicende sarebbero state raccontate negli anni a venire.

Ricostruire quei fatti nella giusta prospettiva, per evitare sterili agiografie, come temeva Artom o, come è divenuto costume in anni più recenti, vili dannazioni di memoria, non è esercizio vuoto o consunto, ma una operazione oggi quanto mai necessaria[2]: sul piano memoriale e identitario, per tamponare i sempre più insistenti rigurgiti fascisti; in termini storiografici e di ricerca, dal momento che la prosecuzione degli studi reca con sé ulteriori scoperte e approfondimenti; per colmare lacune ancora presenti in specifici contesti territoriali.

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Lanciotto Ballerini, partigiano di Campi Bisenzio, caduto eroicamente a Valibona il 5 gennaio 1944 e insignito della medaglia d’oro al valor militare. Al suo nome venne intitolata la 22° Brigata Garibaldi (nella foto, Lanciotto sotto le armi sul fronte etiope, esperienza che rafforzò in lui un sentimento di ripudio per la cultura militarista e aggressiva del fascismo. Fonte: ANPI Campi Bisenzio)

Il recente volume di Francesco Fusi, Guerra e Resistenza nel fiorentino. La 22a Brigata Garibaldi Lanciotto Ballerini (Viella, 2021), promosso dall’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Firenze, riesce con perizia a fare tutto questo: depurare dalle distorsioni apportate dal tempo e dalla memoria, ricucire dagli sfilacciamenti che l’appropriazione politica di quegli eventi ha prodotto, ristabilendo equilibrio e riportando all’interno di una seria e rigorosa ricerca storica le vicende della Resistenza fiorentina.

Molto è stato scritto in merito a questa importante esperienza di lotta in grado di anticipare i fenomeni di opposizione politica e militare più avanzati che presero avvio a Nord: note sono la maturità politica dimostrata dal fronte cittadino e l’autonomia rivendicata dal Comitato Toscano di Liberazione (Ctln) rispetto agli Alleati, aspetti fondamentali nel rendere possibile quello che fu il primo esperimento di autogoverno della Resistenza.

Sebbene determinante, la dimensione urbana e cittadina della stessa ha finito per oscurare le altre esperienze di lotta armata nate e sviluppatesi in provincia, spesso ricordate solo in relazione alla liberazione di Firenze. Eppure la presenza di bande e gruppi partigiani “fuori dalle mura”, prima dell’11 agosto 1944, non fu affatto marginale: ce lo ricorda bene il volume di Francesco Fusi che – ne dà nota il sottotitolo – ricostruisce la genesi di uno dei principali gruppi garibaldini fiorentini, la 22 Brigata Garibaldi Lanciotto Ballerini. Una scelta d’indagine non casuale, che tiene conto del maggior peso e dalla più solida dimensione armata che nella guerra in montagna ebbe l’organizzazione garibaldina, dal momento che quella azionista si radicò maggiormente nel contesto cittadino esprimendo la sua leadership politica all’interno del Ctln[3].

Così come altrove, anche nel contesto fiorentino, in particolare nelle zone di Monte Morello, di Monte Giovi, del Mugello si costituirono, subito dopo l’8 settembre, i primi raggruppamenti partigiani, tra questi anche i primitivi nuclei delle quattro brigate Checcucci, Fabbroni, Lanciotto e Romanelli che tra cambi interni, avvicendamenti, trasferimenti, aggregazioni e scissioni, nei mesi a seguire, il 24 maggio 1944, confluirono nella 22a Brigata Garibaldi Lanciotto agli ordini della Delegazione Toscana del Comando Generale delle Brigate Garibaldi, sotto la guida di Aligi Barducci “Potente” e intitolata a Lanciotto Ballerini, comandante partigiano caduto il 3 gennaio 1944 a Valibona in uno scontro con i fascisti.

L’attenzione dell’autore va, fin dalle prime battute, all’analisi delle motivazioni morali ed esistenziali della scelta partigiana di quanti animarono le formazioni originarie: l’obbiettivo è puntato sugli individui, le loro scelte. Proprio il confronto con i percorsi personali e biografici degli “uomini in banda”, che animano le pagine del primo capitolo, permette di mettere in luce il carattere spontaneo del movimento, ridimensionando il ruolo giocato nelle prime fasi dal personale politico e dalle avanguardie organizzate. La scelta partigiana viene così a configurarsi come «[…] un caleidoscopio di fattori, tra loro distinti, che tuttavia sovente si intrecciano, finanche a sovrapporsi l’un l’altro. Motivazioni soggettive e condizioni oggettive, scelte consapevoli mosse da idealità e slanci ribellistici o, di contro, costrizioni imposte dagli eventi alle quali ci si vuol sottrarre […]» [4].

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Giulio Bruschi “Berto”. Antifascista di Sesto Fiorentino, perseguitato politico e tra i primi organizzatori dopo l’8 settembre 1943 del movimento partigiano su Monte Morello. Divenne in seguito Commissario politico della 22° Brigata Garibaldi Lanciotto Ballerini (foto: ACS, Casellario Politico Centrale)

Sono i percorsi di vita, le specifiche condizioni sociali, l’educazione e l’ambiente familiare, le esperienze e le conoscenze pregresse a spingere alla lotta; si tratta di una scelta individuale che riesce a raggiungere una reale maturazione quando l’orizzonte politico lontano e sbiadito dell’antifascismo delle origini trova nella banda armata[5], che si organizza e diviene comunità, i suoi contorni più definiti. Nella parabola della scelta partigiana, dunque, l’antifascismo politico e l’appartenenza partitica assumono i contorni vivi di un approdo, anziché configurarsi come un punto di partenza[6].

Ripulendo la narrazione da sterili eroismi, il volume mette in luce i limiti delle prime bande che si costituiscono subito dopo l’armistizio e a cui prendono parte soldati italiani sbandati ed ex prigionieri evasi (inglesi, americani, russi e slavi), ai quali si aggiungono in modo sparso i civili: dissidenti e detenuti politici da poco scarcerati, giovani e studenti mossi da una generica esigenza di riscatto. Sono i personalismi, l’impreparazione mista a un’ingenua e talvolta pericolosa impulsività nell’armarsi a dominare. L’attività svolta è all’inizio embrionale e circoscritta, fatta di azioni che mirano a consolidare la propria presenza sul territorio, “disturbando” il nemico. «Ognuno sta nella vita partigiana con il suo abito d’origine […]» [7] ha scritto Roberto Battaglia, ce lo conferma anche il ritratto schietto, quasi dissacrante di Lanciotto Ballerini, ricostruito nel testo attraverso le testimonianze di altri resistenti: un partigiano in “carne e ossa”, una figura umanissima, con le sue grandezze e i suoi limiti, caratteri dissonanti che non ne limitano il successo, anzi, concorrono ancora oggi a farcelo vicino sentire.

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Aligi Barducci “Potente”. Primo comandante della 22° Brigata Garibaldi Lanciotto Ballerini, poi comandante della Divisione Garibaldina Arno protagonista della liberazione di Firenze. Ferito mortalmente l’8 agosto 1944 in Piazza S. Spirito, sarà insignito della medaglia d’oro al valor militare (Foto: Wikipedia)

Evidenzia l’autore come, tra le bande nate nel settembre del 1943, quelle che sopravvissero all’inverno furono proprio le formazioni che avevano tratto origine da contesti e situazioni entro cui operavano le reti e le strutture dell’antifascismo organizzato. Fu così per le due principali formazioni che a partire dall’8 settembre scelsero come propria sede il Monte Morello: il gruppo di Giulio Bruschi e quello, appunto, di Lanciotto Ballerini. Su entrambi avevano diretto i loro sforzi sia le reti dell’antifascismo locale sia l’organizzazione clandestina fiorentina, con particolare riguardo a quella comunista, nel caso del gruppo di Sesto Fiorentino di Bruschi, mentre per la formazione di Campi Bisenzio, legata a Ballerini, fu attivo un insieme composito di forze che, oltre al Pci, annoverava anche azionisti e libertari: «un’eterogeneità che in seguito aprirà una disputa su chi dovesse rivendicare l’organizzazione del gruppo partigiano Lanciotto e di conseguenza l’identità politica di quest’ultimo»[8]. La questione dei contrasti, delle tensioni e delle conflittualità politiche e militari, esterne e interne, che connota l’esperienza resistenziale delle principali forze dell’antifascismo fiorentino, è uno dei nodi centrali dell’intera narrazione e consente, ancora una volta, di depurare il campo da una acritica visione della guerra di liberazione come processo unitario e lineare.

La progressiva maturazione umana, organizzativa e politica degli uomini e delle bande di afferenza, ricostruita attraverso le pagine del volume, si lega all’evoluzione della lotta in corso e agli eventi che si succedono nei mesi a seguire. Tra gennaio e marzo 1944 molteplici furono i momenti di crisi che portarono allo stallo delle operazioni, dai drammatici fatti di Valibona, al progressivo abbandono dell’ormai pericolosa zona di Monte Morello verso il Mugello, dove si avvicendarono, tra contrasti e discussioni, i comandi interni. Inquietudini e tensioni endogene furono inoltre generate dal problema della sicurezza delle formazioni: i numerosi arresti da parte della polizia fascista, sia di membri del partito comunista che di quello d’azione, in città e tra le bande, furono il segno tangibile che l’opera di raccolta di informazioni del nemico, attraverso il significativo apporto di spie e delatori, stava funzionando a pieno ritmo.

Iniezioni di fiducia furono invece rappresentate dai rifornimenti che iniziarono ad arrivare con i primi aviolanci alleati, e che, pur generando tra le formazioni comuniste e azioniste screzi e polemiche per ripartizioni giudicate poco equilibrate, così come accuse reciproche di furti, costituirono un passo in avanti sul piano delle potenzialità offensive. Lo dimostra bene l’operazione che, il 6 marzo 1944, i partigiani condussero con esito positivo presso Vicchio: un attacco in pianura interamente pianificato e coordinato dalle bande di montagna su un obiettivo stabilmente presidiato dal nemico. I fatti, ricostruiti in dettaglio nel volume, ebbero ampia risonanza e un importante significato politico-militare per le stesse formazioni che avevano promosso con successo l’iniziativa. Nessuno in realtà considerò i rischi, in particolare quelli di rappresaglia sulla popolazione.

Proprio il ciclo repressivo lanciato di lì a poco dai comandi tedeschi su tutto l’arco appenninico contribuì ad avviare, per i gruppi partigiani, una nuova fase carica di difficoltà e pericoli, ma pure foriera di nuove e necessarie scelte.

La decisione di costituire una formazione unitaria con un ruolo strategico nella zona di Pratomagno riconosciuta dal comando militare del Ctln, politicamente diretta dal Pci fiorentino e in cui potessero confluire le diverse bande garibaldine attestatesi su Monte Giovi, tra il Mugello e la Valdisieve, dopo i rastrellamenti nazifascisti e la dispersione subita in aprile sul Falterona , segnò un definitivo passo in avanti nell’organizzazione e nella maturazione politica dei diversi gruppi che a essa furono aggregati. Dell’operazione che portò alla nascita della 22a Brigata Garibaldi Lanciotto Ballerini l’autore sottolinea le problematicità logistiche legate alla scarsità di vettovagliamento e di armi in una zona già satura di sfollati e in cui si accalcavano nuove reclute sfuggite alla chiamata di leva; non di minore importanza le difficoltà psicologiche ed emotive: il persuadere degli uomini abituati a una loro autonomia a sottostare a una nuova disciplina non si dimostrò cosa facile e portò talvolta ad accuse di prevaricazione ai danni di tutti quei gruppi che avevano mostrato la loro contrarietà nel farsi assorbire.

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La prima pagina del ruolino degli effettivi della 22° Brigata Garibaldi Lanciotto Ballerini (ISRT, Fondo resistenza armata)

Il volume rivela come la disorganizzazione e l’approssimazione con cui i primi resistenti erano scesi in campo vennero superate all’interno del nuovo gruppo grazie alla maggiore esperienza e alla coesa organizzazione interna, affiancata anche da una pedagogica attività di educazione politica (spesso di avvicinamento al partito) portata avanti per orientare e consapevolizzare i combattenti, in molti casi connotati da atteggiamenti politici confusi e ingenui.

Nonostante la cronica mancanza di armi, la Lanciotto fu in grado di sostenere sul Pratomagno un’attività di guerriglia senza precedenti, anche se la stessa non si rivelò immune da errori, superficialità, eccessivi azzardi, che in molte occasioni posero il gruppo in conflitto con la popolazione del luogo. Ricorda l’autore come «la condotta dei partigiani di Potente su Pratomagno ancora oggi è al centro di ricostruzioni piene di livore che li dipingono nel migliore dei modi come irresponsabili o peggio dei fanatici ideologizzati colpevoli d’aver condotto una guerra sporca insensibile alla sorte delle comunità locali sulle quali avrebbero attirato una serie di atroci rappresaglie»[9]. Il gruppo viene dunque percepito come un attore esogeno che interviene a turbare gli equilibri locali.

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Romeo Fibbi “Romeo”. Appartenente a una famiglia di antifascisti di Compiobbi (Fiesole) emigrata in Francia per sfuggire alle persecuzioni del Fascismo. Volontario militare in Spagna assieme al padre Enrico con le Brigate internazionali, quindi recluso nei campi di prigionia francesi. Rientrato in Italia, dopo l’8 settembre Romeo si pone in collegamento con l’organizzazione comunista fiorentina, assumendo poi il comando di un gruppo di partigiani nel Mugello. Rileverà il comando militare della 22° Brigata Garibaldi Lanciotto Ballerini dopo che Aligi Barducci “Potente” passerà alla guida della Divisione Arno (Foto: ACS, Casellario Politico Centrale)

Il tema chiave del rapporto tra partigiani e popolazione locale, che trova ampio spazio all’interno della narrazione, offre l’opportunità di mettere in luce la «natura instabile» e problematica della reciproca e forzata convivenza, una relazione mutevole nel tempo che fu necessario via via rinegoziare, lo dimostrano bene i fatti di Montemignaio e Cetica, a cui l’autore dedica ampia trattazione.

Si tratta di una questione che si lega a un problema cruciale, quello della violenza -pre e post liberazione – rispetto a cui il libro fornisce valide interpretazioni e molteplici spunti di riflessione. Quanto e perché la violenza partigiana agita e procurata poté considerarsi più legittima e giustificabile? In che modo i resistenti provarono a disciplinarla e a renderla moralmente più accettabile? Vi riuscirono davvero?

Il prezzo pagato dai partigiani nella battaglia per la liberazione di Firenze fu alto (205 caduti, 400 feriti, 18 dispersi tra squadre cittadine e partigiani)[10], anche a causa delle numerose difficoltà, ripercorse nel testo, che le forze resistenti si trovarono inaspettatamente ad affrontare. La Divisione Arno, la formazione unitaria in cui, il 6 luglio, era confluita la stessa Brigata Lanciotto, assieme alla Caiani, la 22a Bis Sinigaglia e la Fanciullacci, registrò la perdita totale di oltre 50 uomini, con la morte del suo stesso comandante “Potente”.

Ci ricorda l’autore, senza voler in alcun modo sminuire questo importante contributo di sangue, come la liberazione della città non sarebbe stata possibile senza la schiacciante superiorità strategico-militare degli Alleati, sottolineando, tuttavia, come il contributo dell’azione partigiana rispose invece a una importante finalità politica: «se le forze resistenziali volevano avere una chance di condizionare i futuri assetti politici e sociali del paese in senso democratico, esse dovevano per forza presentarsi agli alleati come militarmente in grado di contribuire alla liberazione, a prescindere dai costi»[11].

La storia che si apre a seguire, ripercorsa dell’ultime pagine del volume, è quella di ritorno all’ “ordinario”, segnata dai bisogni, dalle difficoltà materiali e umane che caratterizzarono l’immediato dopoguerra. Il disarmo dei partigiani fiorentini a opera degli Alleati creò in molti sentimenti di delusione e rabbia, anche a fronte di istanze di cambiamento e rinnovamento parzialmente tradite; in alcuni il sentimento di frustrazione si trasformò invece in spinta per continuare a combattere fino alla completa liberazione del paese. Per molti altri ancora tener viva la fiamma della Resistenza significò continuare a operare attivamente nell’ambito delle nascenti istituzioni repubblicane, all’interno della politica dei partiti democratici e delle organizzazioni sindacali.

«[…] Gli uomini sono uomini, bisogna cercare di renderli migliori e a questo scopo per prima cosa giudicarli con spregiudicato e indulgente pessimismo»[12], scriveva ancora Emanule Artom.

Al libro di Francesco Fusi il merito di non aver giudicato, ma di aver ricostruito attraverso una solida documentazione quelle vicende: storie di uomini che nella loro normalità, ciascuno con le proprie risorse e capacità, scelsero di non tirarsi indietro.

 

 

 

[1] Emanuele Artom, Diari di un partigiano ebreo. Gennaio 1940-febbraio 1944, a cura di G. Schwarz, Bollati Boringhieri, Torino, 2008, pp. 609-616, in Chiara Colombini, Anche i partigiani però…, Laterza, Roma-Bari, 2021, p. 37.

[2] Riprendo tali considerazioni da Francesco Filippi, Un libro di storia smonta tutte le “fake news” sui partigiani, in «Micromega», 10 marzo 2021 Url: <https://www.micromega.net/anche-i-partigiani-pero/>.

[3] Francesco Fusi, Guerra e Resistenza nel fiorentino. La 22a Brigata Garibaldi Lanciotto Ballerini, Viella, Roma, 2021, p. 13.

[4] Ivi, p. 65.

[5] Cfr., ivi, pp. 65-66.

[6] Alberto De Bernardi, Un contributo per discutere e scrivere la storia della Resistenza e della Repubblica, in «Italia Contemporanea», 276 (2004), p. 520, in F. Fusi, Guerra e Resistenza nel fiorentino, cit., p. 67.

[7] Roberto Battaglia, Un uomo un partigiano, Il Mulino, Bologna, 2004 [ed. or. 1945], pp. 147, 151, in F. Fusi, Guerra e Resistenza nel fiorentino, cit., p.111.

[8] F. Fusi, Guerra e Resistenza nel fiorentino, cit., pp. 87-88.

[9] Ivi, p. 253.

[10] Ivi, p. 347.

[11] Ivi, p. 348.

[12] Si faccia riferimento alla nota 1 di questo testo.