Gaetano Bresci

La sera del 29 luglio 1900, a Monza, il re d’Italia Umberto I si allontanava, a bordo di una carrozza scoperta, dalla palestra della società ginnica “Forti e liberi”, dove aveva premiato alcuni atleti. Ad un tratto, gli si avvicinò un giovane il quale, armato di una rivoltella, lo colpì a morte. Il giovane attentatore fu subito arrestato e identificato. Il suo nome era Gaetano Bresci, 31 anni, anarchico di Prato, della frazione di Coiano, di professione tessitore. Tornato da Paterson, negli Stati Uniti, dove era emigrato nel 1897, il Bresci aveva compiuto il gesto a seguito dei fatti del maggio 1898, quando il generale Bava Beccaris aprì il fuoco dei cannoni sulla folla che protestava per il rincaro del prezzo del pane, provocando 80 morti e 450 feriti e il monarca aveva premiato l’autore con la Gran Croce dell’ordine di Savoia, cercando di instaurare lo stato militare attraverso il governo del generale Luigi Pelloux. Era una cosa che l’anarchico pratese aveva ribadito più volte durante gli interrogatori: egli intese il gesto estremo per rendere giustizia alle vittime della strage di Milano e per opporsi a possibili regimi autoritari. Se il gesto in sé poteva dirsi esecrabile, rimaneva indubbio l’intento in funzione democratica che il suo autore aveva in mente. In quest’ottica, il Comune di Prato intese intitolare al Bresci una strada il 1 luglio 1976.

Il punto d’interesse diviene allora l’inquadramento della figura del tessitore anarchico, di quale fosse il suo contesto di formazione politico-sociale, delle inevitabili ricadute che su di esso vi furono dopo la morte del monarca, sull’inversa influenza che l’eco e il mito del Bresci hanno profuso negli ambienti libertari e cittadini (del suo paese natale) ed attraverso epoche e scuole politiche tra loro diverse. Gaetano Carlo Salvatore Bresci era nato a Prato il 10 novembre 1869 da Gaspare e da Maddalena Godi. Tessitore, come tanti cittadini della città del telaio, Bresci aveva passato una gioventù di lavoro tra spole ed orditi, al Fabbricone, la più grande industria tessile pratese e, successivamente, in imprese più piccole, lungo tutto un peregrinare tra Firenze, Compiobbi e Ponte all’Agna. Era in questo misto di laboriosità operaia e continui spostamenti che Bresci aveva visto la povertà delle campagne e maturò una l’insofferenza per l’ingiustizia contro gl’indifesi.

Ma l’esperienza personale si intrecciava ad una tradizione democratica e libertaria che a Prato aveva un senso comune di emancipazione popolare sin dai primi anni postunitari. Già da allora, i locali patrioti risorgimentali, guidati da Piero Cironi e, ben più a lungo, da Giuseppe Mazzoni erano i stati i padri fondatori di Società Popolari i cui statuti rovesciavano il rapporto mazziniano tra unità e libertà, facendo della prima un epifenomeno della seconda. La democrazia ebbe un suo primo punto di tangenza con l’anarchismo quando lo stesso Mazzoni conobbe personalmente Bakunin e ne divenne, per breve tempo, uno dei suoi principali referenti politici in Toscana. La stagione di contatto tra anarchia e democrazia laica fu di breve durata, si consumò tra la seconda metà degli anni Sessanta  e il 1871 e non corrispose ad un’evoluzione in senso libertario della sociabilità mazzoniana. Nondimeno l’avvicinamento tra le due sfere d’interesse dovette gettare i suoi semi. Meno di due anni dopo una prima sezione dell’Internazionale anarchica sorse anche a Prato. Sciolta dopo il tentativo insurrezionale organizzato dagli anarchici nel 1874, che dall’Emilia avrebbe dovuto irradiarsi a tutta la Penisola, si ricostituì alla fine del 1876. Insomma, il primo movimento anarchico pratese andò incontro ad una ridda di costituzioni e successivi scioglimenti di sezione che non ebbe soluzione di continuità sino almeno al 1892, quando, tramontata anche la quadriennale esperienza (1885-1889) del Nucleo Socialista Anarchico Amilcare Cipriani, fu il controverso personaggio di Giovanni Domanico a dare uno spessore più consistente al nucleo libertario cittadino. Era questo un gruppo che  rispecchiava la vocazione industriale di Prato non tralasciando gli antichi mestieri della città. In una lista stilata dalle autorità prefettizie di quegli anni, figuravano quaranta individui ritenuti anarchici attivi a Prato. Di essi, quasi la metà era impiegata nel settore tessile. La compenetrazione tra l’industria pratese e gli ambienti anarchici era quantomeno palpabile.

Fu in questo periodo e a tale ambiente che Bresci andò formando la propria personalità politica. Non a caso, il 2 ottobre 1892 si verificò un episodio che ebbe come protagonista il ventitreenne Gaetano Bresci, denunciato insieme ad altre quattro persone per aver preso le difese del garzone di un macellaio e condannato dal pretore a quindici giorni di reclusione. L’episodio è interessante perché dimostra che all’epoca – e quindi ben prima di emigrare negli Stati Uniti e di frequentare l’ambiente di Paterson – Bresci aveva già fatto proprie le idee anarchiche e conosceva esponenti del movimento libertario assai noti a livello cittadino: degli altri quattro imputati, infatti, tre (Artamante Beccani, Antonio Fiorelli ed Augusto Nardini) erano anarchici. Fu dunque il Bresci ad arricchire con le proprie idee il movimento negli Stati Uniti e non (o quanto meno non solo) l’anarchismo di Paterson a formare le idee di Bresci.

Stabilita la formazione di Bresci, è necessario comprendere le conseguenze avute dal suo gesto. Nel periodo che seguì il regicidio gli anarchici pratesi furono ovviamente esposti ad un intensificarsi della vigilanza e della repressione. Bresci morì (presumibilmente ucciso) nel carcere di Santo Stefano sulle isole Pontine, il 22 maggio 1901. Subito dopo l’attentato, a Prato furono operati diversi arresti, ma non per questo i libertari interruppero la loro attività, impegnandosi a fondo, negli anni successivi, nella campagna contro il domicilio coatto, nell’agitazione pro Acciarito e nei moti pro Ferrer. Più concretamente, come dimostrato in recenti pubblicazioni, il gesto di Bresci fu l’atto più eclatante dell’anarchismo pratese che, seppur presente fino almeno alla Liberazione, andò incontro ad una lenta ma costante discesa tanto da far affermare ad Anchise Ciulli, uno dei suoi più importanti esponenti, nel 1946 : « oggi questa città segue pochissimo le orme del suo grande figlio Gaetano». Molto più duraturo fu il mito di Bresci e la fascinazione avuta da più sponde.  Ed ancora nel secondo dopoguerra poteva essere letto non solo di celebrazioni anarchiche che accostavano Bresci a Malatesta e Pietro Gori, alla Comune di Parigi e alla Guerra di Spagna, ma anche di alcuni timori prefettizi per manifestazioni in ricordo all’attentatore pratese. Di forte impatto e grande eco fu l’iniziativa che nel 1986 vide erigere a Carrara un monumento dedicato a Gaetano Bresci. Iniziative in ricordo del tessitore anarchico, per quanto in maniera sempre più episodica e onomastica, si sono svolte anche a Prato. A tal proposito è per lo meno da segnalare il ritrovo che portò nuclei anarchici a ricordare Bresci nella via a lui intitolata e a segnalare secondo quanto riportato da un volantino di allora che «Bresci rivive […] in ogni azione di chi si oppone all’arroganza e alla violenza del potere». Ed è in quest’ottica che la figura di Gaetano Bresci va ancora oggi intesa: uno sguardo che dia conto tanto allo studioso esperto quanto al curioso appassionato sia dei numerosi spunti e temi dei quali il mito dell’“anarchico venuto dall’America” è divenuto parte integrante sia della tensione sociale alla quale la sua figura sia stata soggetta con il passare il tempo.

 




Lasciare l’Italia fascista, per un mondo migliore

L’emigrazione intellettuale dall’Italia durante gli anni del governo fascista è un fenomeno ancora poco conosciuto. Nel tracciare la parabola della persecuzione degli ebrei, l’attenzione degli storici è stata indirizzata maggiormente verso i risvolti più drammatici, come la deportazione, mettendo in secondo piano le vicende di quelli che furono costretti a lasciare l’Italia prima dell’inizio della Seconda guerra mondiale.

La fascistizzazione nelle istituzioni pubbliche spinse alcuni ‘indesiderabili’, ebrei e non – come il ben noto Gaetano Salvemini –, a partire prima che le leggi razziali emanate nel 1938 estromettessero dagli incarichi scolastici e universitari tutti gli studenti, studiosi, ricercatori e professori censiti come ebrei che si ritrovarono senza lavoro e senza possibilità di future assunzioni in Italia.
Le perdite per la cultura italiana furono significative e spesso irreparabili anche perché molti non ritornarono in patria dopo la fine della Seconda guerra mondiale, a volte per volontà stessa dei protagonisti o dei loro figli di restare all’estero, più spesso per gli ostacoli frapposti specialmente dalle università italiane che preferivano mantenere gli organici già formati con chi aveva preso il posto degli espulsi. Venne così sprecata l’opportunità di recuperare risorse con un bagaglio culturale arricchito da esperienze in altri paesi dopo un ventennio di autarchia e isolamento internazionale della cultura e della scienza, per il progredire delle quali è necessaria un’apertura mentale che solo la circolazione delle idee permette. Una fuga di cervelli paragonabile per certi versi a quella che attualmente caratterizza la vita culturale italiana, soprattutto nei casi in cui la scelta di partire precedette il 1943 e non fu quindi propriamente obbligata.

Analizzando e collegando tra loro queste vicende, il progetto di ricerca Intellettuali in fuga dall’Italia fascista. Migranti, esuli e rifugiati per motivi politici e razziali ha lo scopo di rendere più completo il quadro di un fenomeno relativamente ignorato anche perché sottostimato numericamente. Gli elenchi degli espulsi dalle università nel 1938, che solo dal 1997 sono stati ricostruiti non definitivamente, non rendono conto delle perdite effettive nella cultura italiana, che non si limitano agli allontanamenti ufficiali o al solo anno 1938: i liberi docenti non furono ufficialmente espulsi, ma dichiarati “decaduti” dal titolo, mentre al personale universitario non strutturato semplicemente non fu rinnovato il contratto. Si devono includere inoltre gli studenti e i neolaureati a cui di fatto fu preclusa qualsiasi carriera, così come i neodiplomati che non potevano immatricolarsi all’università. È su questa complessità, quantitativamente meno definita ma più realistica rispetto al contesto dell’epoca, che si basa il lavoro di censimento e di ricostruzione storica diretto dalla Professoressa Patrizia Guarnieri, promosso dall’Università di Firenze, finanziato dalla Regione Toscana e patrocinato dalla New York Public Library, dal Council for At-Risk Academics di Londra, dal J. Calandra Italian American Institute e dal Central Archives for the History of Jewish People di Gerusalemme. I profili biografici estrapolati dalla ricerca hanno reso necessaria l’analisi di numerose fonti di diversa natura, come gli archivi delle organizzazioni internazionali di aiuto, quelli delle istituzioni e dei luoghi dove approdarono i fuoriusciti, le loro eventuali memorie e corrispondenze; o ancora le testimonianze degli eredi, fonti preziose ma da verificare con cautela perché a volte discordanti dai documenti ufficiali.

Il focus della ricerca sugli intellettuali ha rivelato un campione eterogeno di profili. Le storie raccontano di donne e uomini, tra cui alcuni scienziati famosi come Rita Levi Montalcini o il fisico Bruno Rossi, che partivano da condizioni molto diverse e che dovettero affrontare difficoltà di varia natura legate all’età, al genere, alla situazione familiare, alla disciplina o alla professione praticata, alla conoscenza di altre lingue, alla rete di contatti personali. Difficoltà e disagi in genere sottaciuti, anche dagli stessi protagonisti a distanza di tempo, ma che emergono dalle lettere di allora, dai diari e dalle richieste di aiuto: l’angoscia della lontananza dai propri cari, la difficoltà di procurarsi i documenti per emigrare e di cercare lavoro altrove, gli stereotipi che colpivano sia gli italiani che gli ebrei, discriminati dalle stesse comunità degli emigrati italiani soprattutto se antifascisti. Chi si recò in Francia o in altri paesi vicini dovette poi scappare altrove a causa dell’occupazione nazista. Alcuni andarono in paesi con situazioni politiche e militari di cui rimasero vittime, come Anna Di Gioacchino Cassuto e Enzo Bonaventura in Palestina o Aldo Mieli in Argentina. Chi rimase in Italia fu costretto a nascondersi o a tentare la fuga in Svizzera nel 1943. Se gli studiosi e i professionisti italiani ricorsero in parte alle organizzazioni internazionali di aiuto che erano sorte per gli intellettuali tedeschi nel 1933, soprattutto all’Emergency Committee di New York e alla Society for the Protection of Science and Learning di Londra, o ai comitati di aiuto per i rifugiati creati da varie associazioni scientifiche e professionali americane, in molti casi contarono altre conoscenze: quelle antifasciste o quelle del sionismo, entrambe reti internazionali; o ancora i contatti di tipo professionale, gli amici e i parenti, proprio come nell’emigrazione comune.

Il perno principale del progetto dal punto di vista divulgativo è costituito dal sito internet ad accesso gratuito http://intellettualinfuga.fupress.com, presente anche in lingua inglese al link http://intellettualinfuga.fupress.com/en.
Il portale è costituito da pagine introduttive agli argomenti indicati nel sommario: una sezione, per esempio, è dedicata alle norme discriminatorie e persecutorie del regime fascista nonché al lungo percorso riparatorio avviato nel dopoguerra nei confronti di quanti erano stati colpiti dalle precedenti disposizioni. Al centro, un elenco alfabetico di intellettuali in fuga, donne e uomini, che è stato finora possibile identificare e che viene via via aggiornato. Ad oggi sono circa 380 nomi, http://intellettualinfuga.fupress.com/schede/indice/6: tutti in qualche modo legati alla Toscana. Per ogni nome viene costruita una scheda in cui è possibile leggere o scaricare il pdf dell’articolo che narra non una biografia generale ma la storia personale, spesso avventurosa e travagliata, dell’esperienza di espatrio; sono poi presenti degli approfondimenti sintetici sui i familiari emigrati, la rete di contatti che favorì l’emigrazione, la ricerca del lavoro, una mappa della mobilità, una linea temporale che segnala i vari spostamenti e una galleria di fotografie, per lo più offerte dai parenti proprio per questa ricerca. Oltre a essere utile per lezioni e ricerche scolastiche e universitarie, le storie di vita riportate sono rivolte ad un pubblico non specialista.
La presenza in rete offre una maggiore visibilità che favorisce a sua volta la crescita del progetto stesso, che è in progress e aperto sempre a nuove acquisizioni: chiunque abbia informazioni utili può contribuire con documenti, foto e testimonianze contattando patrizia.guarnieri@unifi.it.




“Una svolta verso il nulla”.

Nota biografica.

Riccardo_Margheriti

Riccardo Margheriti (Wikipedia)

Riccardo Margheriti nasce a Chiusi (Siena) il 4 gennaio 1938, da una famiglia di umili origini ma dalla forte identità antifascista. Si iscrive alla Federazione giovanile comunista italiana (Fgci) nel 1953, ancora giovanissimo, divenendo segretario della sezione di Chiusi già l’anno seguente. La sua principale attività si svolge tuttavia inizialmente nell’ambito sindacale, nella Cgil, prima nella Camera del lavoro di Chiusi, poi nella Valdichiana e infine a Siena quale direttore provinciale dell’Inca, l’Istituto nazionale confederale di assistenza. Vicesegretario e poi dal 1975 segretario della Federazione senese del Partito comunista, è consigliere comunale a Siena dal 1968 al 1983. È senatore della Repubblica dal 1983 al 1992, ricoprendo la carica di vicepresidente della Commissione agricoltura e produzione agroalimentare. Prosegue poi la propria attività nel settore agroalimentare, come presidente dell’Ente nazionale mostra mercato dei vini doc e vicepresidente, e poi presidente, del Comitato nazionale per la tutela e valorizzazione dei vini doc presso il ministero delle Politiche Agricole e Forestali.

Avvertenza: Nella trascrizione dell’intervista si è cercato di conservare inalterati gli aspetti peculiari del parlato, limitando gli interventi correttivi sul testo al minimo indispensabile e inserendo eventualmente nelle note a piè di pagina ulteriori informazioni o chiarimenti. L’intervista è stata realizzata il giorno 11 luglio 2020 da Riccardo Bardotti e Michelangelo Borri, presso la segreteria dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia – Sezione di Siena; la versione integrale è conservata presso l’Istituto storico della Resistenza senese e dell’età contemporanea.

Per informazioni su letture preliminari ed approfondimenti, rimandiamo a QUESTO articolo della nostra Redazione.

 

D. Senatore Margheriti, può dirci brevemente in che modo ricorda la caduta del Muro di Berlino, il 9 novembre 1989? Quali furono le prime riflessioni che formulò di fronte a tale evento?

R. Io ero ancora in Parlamento in quel periodo; io rimasi un po’ sconcertato, francamente, non tanto dal crollo del Muro di Berlino, ma dal modo in cui avvenne e dal fatto che non ci fosse stata reazione; e quindi mi fece capire che, fortunatamente, anche da parte di chi sarebbe potuto, come aveva fatto in precedenza, intervenire anche in modo armato, non lo aveva fatto; e quindi si apriva davvero una possibilità di autonomia anche del Partito comunista italiano – dell’ex Partito comunista italiano a quel punto –, per una strada nuova che io vedevo e continuo a vedere, di tutte le forze che attorno alle forze ideali del socialismo possono raggrupparsi…

D. E quali conseguenze produsse questo avvenimento all’interno del Partito comunista italiano, che già stava attraversando una fase complessa della propria storia politica?

R. Intanto era matura una consapevolezza con le discussioni che si erano avute dopo le diverse invasioni che c’erano state da parte dell’esercito sovietico, o comunque del patto di Varsavia, in altri paesi prima ancora dell’‘89 e la discussione che si è sviluppata all’interno del partito aveva, ripeto, maturato una consapevolezza che le cose non potevano continuare e che era indispensabile, nelle forme che sarebbero state possibili, cambiare e cambiare tutto in quel paese e nei paesi dell’Est europeo. In qualche modo dà ragione a questa convinzione il fatto che non c’è un intervento, neanche della polizia oltre che dell’esercito, al crollo del Muro di Berlino e all’uscita dalla Germania dell’Est di tanti cittadini che vanno a riabbracciare parenti, amici e così via, ma comunque che guardano alla libertà che si era costituita e realizzata nella Germania Ovest dopo la guerra e fino a quel momento. Quindi un fatto molto positivo, che imponeva ulteriore riflessione anche a noi e imponeva anche a noi di cambiare rotta, in primo luogo non solo riducendo ma azzerando i rapporti col Partito comunista dell’Unione Sovietica – del quale si diceva quel punto peste e corna, devo dire, anche all’interno del nostro del nostro partito – nonostante le speranze che aveva sollevato l’elezione di [Michail] Gorbačëv [1] e l’inizio, vero, della destalinizzazione in quel paese… Quindi una cosa, un momento di grandissimo rilievo, che imponeva, ripeto, scelte nuove anche a noi; scelte che non dovevano portare al superamento dei caratteri fondamentali del Partito comunista italiano, perché di fatto, in Italia, il Partito comunista era davvero il partito del socialismo europeo, cosa che non era il partito di [Bettino] Craxi [2]; era un partito riformatore e allo stesso tempo un partito di governo, capace quindi di affrontare i problemi dei cittadini e di tentare di dare risposte. Gli enti locali amministrati dal Partito comunista italiano e le regioni – che erano nate da non molto tempo, nel 1970 – amministrate dal Partito comunista italiano, avevano costruito lo Stato sociale, avevano costruito gli asili nido, le scuole materne e così via, nonostante l’indebitamento degli enti locali – ai quali venivano trasferiti pochi finanziamenti – ma che venivano incoraggiati, i nostri sindaci, a indebitarsi ulteriormente, purché l’indebitamento andasse verso la costruzione di uno Stato sociale vero, che consentisse, ad esempio, anche alle donne di non dover rimanere in casa ma di poter lavorare nonostante la presenza dei figli che dovevano essere curati; e doveva dare risposte sul piano del lavoro, dei diritti dei lavoratori nel luogo di lavoro e all’esterno, doveva dare risposte sulla partecipazione – prevista dalla Costituzione della Repubblica del popolo italiano – a scegliere liberamente chi doveva governarlo e a far rispondere chi lo governava ai problemi che gli venivano posti.

D. E invece con la cosiddetta svolta della Bolognina, la direzione intrapresa è quella di un superamento dell’esperienza politica e culturale del Partito comunista italiano. Come reagiscono da una parte la base e dall’altra i quadri intermedi del partito?

R. Con la svolta della Bolognina [3] intanto c’è sconcerto, nessunoavrebbe mai pensato di punto in bianco di dire: “ora si cambia nome, simbolo e il Pci non ci sarà più”. Perché naturalmente la vicenda del Pci è una vicenda non soltanto politica e culturale, è una vicenda anche umana, di formazione della persona dall’interno e nel rapporto con gli altri; era stato costruito un pezzo di società, non era soltanto un partito. La paura del crollo vinse non nella gente ma in chi fece quel tipo di svolta, vinse la paura che col Muro di Berlino finisse il Pci, e sbagliando valutazione su cosa fosse il Partito comunista italiano rispetto ai partiti al potere nell’Est… Naturalmente, far digerire la svolta alle sezioni del Pci, iscritti e così via fu una cosa non terribile, impossibile. E quindi avemmo una parte, che erano i gruppetti dirigenti, che essendo stati educati un po’ al mito anche della personalità del segretario nazionale del partito, continuavano ad avere questa visione anche nei confronti di Achille Occhetto [sorride] [4], dopo [Enrico] Berlinguer, dopo [Palmiro] Togliatti, dopo [Luigi] Longo e quindi seguivano la linea di Occhetto; e la base che se ne andava… E infatti noi perdemmo tanti voti, una parte andarono in Rifondazione [comunista]… Ma gran parte degli elettori e degli iscritti al Partito comunista prima della svolta non passò da un’altra parte, passò all’astensione, rimase a casa…Vivemmo una vicenda terribile, terribile, terribile.

L'Unità del 14 novembre 1989

L’Unità del 14 novembre 1989

D. Più in generale, quale fu l’atteggiamento delle altre forze politiche in quel frangente?

R. Naturalmente la paura del comunismo, che aveva consentito di escludere il Partito comunista dal Governo fino all’uccisione di [Aldo] Moro [5] – che poteva rappresentare invece, assieme a Berlinguer, la possibilità di mettere insieme le forze sane del paese per risolvere le questioni gravissime che stavamo attraversando – viene vissuta come una vittoria nei confronti dei comunisti e quindi come se il Partito comunista italiano, pur realizzando una svolta, dovesse in qualche modo e potesse scomparire perché non aveva più, diciamo così, il piedistallo sul quale appoggiarsi per rimanere in piedi e per continuare la propria funzione. Il partito della Democrazia cristiana quindi ha questo orientamento, il Partito socialista – sbagliando grossolanamente – con la proposta dell’Unità socialista, con Craxi ancora segretario, cerca di annettere il Partito comunista nel proprio partito… Poi matura ancora di più la vicenda della questione morale, che esplode proprio nel ‘92 con Tangentopoli, per cui la Democrazia cristiana viene azzerato nel gruppo dirigente; il Partito socialista viene azzerato nel gruppo dirigente o quasi; Craxi si dimette da presidente del Consiglio, aggredito dai soldi che gli vengono gettati contro – dai soldini, le lire – quando esce dall’ albergo per andare a Palazzo Chigi [6] ; si dimette e quindi, ecco, si va verso in qualche modo lo sfarinamento dei partiti di massa, che erano i partiti che avevano fatto la guerra di Liberazione, la Costituzione e ricostruito in qualche modo il paese nel dopoguerra, e si va verso, verso il nulla… E si sostituisce tutto questo, a quel punto, con le singole personalità e i comitati elettorali che devono tenerle in piedi, eleggerle e dalle quali dipendere.

D. Come è cambiato il modo di fare politica in Italia negli ultimi decenni e quali sono, a suo avviso, le principali cause dell’attuale situazione di crisi che stanno attraversando il sistema politico e la classe politica nel nostro paese?

R. [Oggi] ci si mobilita soltanto attorno alle persone e alle elezioni, naturalmente non essendo in campo invece tutti i giorni, sui problemi concreti all’interno dei luoghi di lavoro, nella scuola, nella sanità, ovunque; e senza avere questo tipo di presenza continua naturalmente, non racimola più voti, lascia anzi, spesso continuano ad astenersi anche quelli che hanno in fiducia – magari anche non del tutto condivisa ma in fiducia –, votato fino a ieri. Non c’è la ricerca, anche perché la scelta del partito “all’americana”, del partito che deve raggiungere la maggioranza da solo, rispetto alle diversità culturali, politiche esistenti in questo paese, storicamente, non funziona, perché è sempre legato al voto per qualcuno, non per qualcosa ma per qualcuno, il quale ci risolverà tutti i problemi… Personalizzi il tutto e attorno alla persona fai il comitato elettorale, ma non un partito politico che ha l’ambizione di essere di nuovo un partito di massa; diventa un partito d’élite che cerca di imbonire la massa e di chiedere alla massa fiducia e voti, e la massa si allontana… [l’elettorato] non ha fiducia in questo tipo di politica, in questo tipo di partiti, in questo tipo di personaggi, perché non gli offre un qualcosa in cui credere e per il quale lottare, e ottenere un qualche cambiamento…

Note al testo

[1] Michail Gorbačëv (1931), segretario generale del Partito comunista dell’Unione Sovietica dal 1985 al 1991, promotore di una serie di riforme che condussero alla fine della Guerra fredda e alla fine dell’esperienza di governo sovietico nell’Europa dell’Est.

[2] Bettino Craxi (1934-2000), segretario del Partito socialista italiano dal 1976 al 1993 e presidente del Consiglio dei Ministri dal 1983 al 1987.

[3] Si indica comunemente con tale espressione il processo politico avviatosi nel novembre 1989 nell’omonimo rione di Bologna e conclusosi nel febbraio 1991 con lo scioglimento del Partito comunista italiano e la conseguente nascita del Partito democratico della sinistra.

[4] Achille Leone Occhetto (1936), è stato l’ultimo segretario del Partito comunista italiano.

[5] Aldo Moro (1916-1978), fondatore, poi segretario e presidente della Democrazia cristiana, più volte presidente del Consiglio dei Ministri tra il 1963 e il 1976. Fu rapito e ucciso dalle Brigate rosse nel 1978.

[6] L’episodio ebbe luogo nell’aprile 1993, quando Craxi venne fortemente contestato a Roma, all’uscita dall’hotel Raphael, da un gruppo di manifestanti che gli lanciò contro delle monetine, come risposta alle accuse di corruzione formulate a carico del leader socialista.




Fotografie di soldati ebrei durante la Grande Guerra

Non c’è libro di storia che non sottolinei come la Grande Guerra fu una specie di spartiacque nella vicenda ebraica italiana, e non solo in quella. I cittadini italiani di religione ebraica, che da pochi decenni avevano ottenuto la completa emancipazione ed erano diventati in tutto e per tutto uguali agli altri, corsero in gran parte volontari per il fronte.

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Foto 2. Giorgio Cividalli, documento (Fonte: Archivio storico Istoreco di Livorno, fondo fotografico famiglia Cividalli)

Poiché il loro livello di alfabetizzazione era assai più elevato rispetto alla gran massa degli italiani, si trovarono spesso nelle file dei sottufficiali, degli ufficiali superiori ed anche al vertice della struttura militare. Questa constatazione è vera soprattutto per gli ebrei piemontesi che per primi poterono uscire dai ghetti e che, numerosi, si iscrissero alle Reali Accademie per fare la carriera militare. In qualche modo questa scelta costituiva anche un riconoscimento di lealtà nei confronti di Casa Savoia. È altrettanto nota la partecipazione, che possiamo definire “civile”, delle donne ebree alla causa della Grande Guerra. Cercarono e raccolsero fondi per i soldati più disagiati, prepararono sciarpe e calzini da inviare al fronte, parteciparono attivamente alla propaganda interventista, scelsero il ruolo di madrine di guerra. Sostennero in mille modi la causa bellica.[1] E queste considerazioni che si possono estendere anche ad altri gruppi minoritari, fu sicuramente la novità nel panorama della mobilitazione generale.

Del resto gli stessi numeri ci raccontano come la partecipazione fu estesa e diffusa: considerando il fatto che la popolazione ebraica presente nella penisola era, fatto qualche possibile aggiustamento, di 35.000 individui, di questi 5.500 parteciparono al conflitto. Tra costoro, 450 erano toscani.[2]

Quello che invece è perfettamente sovrapponibile con gli altri soldati partiti per il fronte è la loro reazione di fronte allo scenario che si parò loro davanti. Una fonte utile per riconoscere e riflettere su questa omogeneità con tutti gli altri soldati del fronte, sono le fotografie che scattarono una volta giunti nello spazio bellico.

Il confronto si può fare con facilità con il bel libro curato da Marco Ruzzi per l’Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea in provincia di Cuneo.[3]

Le fotografie del periodo immediatamente precedente la partenza per il fronte sono spesso foto prese dall’alto, con un atteggiamento che testimonia anche una certa retorica. Come i soldati schierati in ordine perfetto dentro il cortile della Reale Accademia militare di Torino, dentro uno spazio che parla già di guerra, ma in qualche modo è uno spazio asettico, pulito, ordinato. Qualcosa di molto lontano dalla realtà della guerra che ciascuno di loro, volontario o meno, sperimentò in prima persona. (si veda la foto 1)

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Foto 3. Giorgio Cividalli in trincea (Fonte: Archivio storico Istoreco di Livorno, fondo fotografico famiglia Cividalli)

Una volta al fronte i soldati ebrei si comportarono come tutti gli altri. Forse partirono entusiasti, ma presto cominciarono a perdere l’enfasi iniziale perché la guerra si dimostrò molto più dura di quanto ciascuno di loro poteva aver immaginato. Come si rappresentarono, soprattutto per i cari familiari che li attendevano a casa? All’inizio in posa davanti all’obiettivo, con la divisa ordinata e con lo sguardo fiero. Poi lentamente il paesaggio bellico prese il sopravvento. Ma anche lo stesso spazio nel quale erano immersi era così diverso dalle loro case e dalle loro abitudini. Ricordiamoci che la stragrande maggioranza di questa piccola minoranza viveva in città. Era una minoranza urbana sia per abitudini che per nascita. E adesso i giovani maschi presenti al fronte avevano come compagnia le montagne di dolomia, il paesaggio innevato, i cavalli e i mezzi bellici: cannoni, mitragliatrici, postazioni, trincee, costruzioni artificiali fatte dopo aver con ogni evidenza disboscato gli spazi, o case vuote e abbandonate dalla popolazione locale che era stata costretta ad uno sfollamento forzato. (Si vedano le foto 2, 3, 4)

Nonostante tutto ciò le foto che si inviano a casa vogliono mostrare uno scenario positivo, vogliono rincuorare i genitori, le fidanzate, le giovani mogli. Per dare questa impressione di positività si ricorre alle foto con gli amici più stretti, quelli con i quali si condivide tutto, quelli che ci sono accanto quando si rischia la vita.

In uno di questi piccoli fondi fotografici[4] sono presenti alcune foto dello stesso soldato, Giorgio Cividalli[5], quando dopo la guerra, in compagnia di amici e della giovane moglie, ritorna sugli stessi luoghi. Le foto sono scattate davanti alle stesse montagne sulle quali si è combattuto. Chissà forse per rendere meglio l’idea di cosa ha significato per questo fiorentino, borghese, giovane, vivere e lottare a 2.000 metri di altitudine. È un po’ come tornare sul luogo del delitto. (Si veda la foto 5)

Ma nessuno di loro, o perlomeno pochissimi, soprattutto quelli che si erano riconosciuti nel pacifismo di un loro correligionario più famoso e più avvertito, Giuseppe Emanuele Modigliani, smentirono mai quella scelta, che continuarono a rivendicare anche a decenni dalla fine del conflitto. In questo pensiamo pesi molto anche la loro estrazione borghese, poiché per le testimonianze che abbiamo delle classi popolari il discorso è assai più articolato e complicato.

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Foto 4. Giorgio Cividalli in montagna (Fonte: Archivio storico Istoreco di Livorno, fondo fotografico famiglia Cividalli)

E per questa adesione alla vecchia scelta ci soccorrono le immagini in divisa militare, quando oramai la guerra è lontana, foto scattate in uno studio in totale tranquillità, lontanissimi dalle granate e dal freddo, dai pidocchi e dalle malattie che quella guerra sporca, disumana come mai altre prima, aveva fatto loro conoscere.

Pensiamo alla bella foto di Carlo Castelli, farmacista partito per la guerra e combattente della sanità[6] (si veda la foto 6) o quella di Carlo Alberto Viterbo che posa accanto alla giovane sposa in abito da ufficiale della Grande Guerra[7]. E la loro identificazione è evidentemente molto forte considerando anche il fatto che ciascun ebreo si trova, una volta giunto al fronte, a sparare contro probabili correligionari che combattono sull’altro fronte. Ebrei contro ebrei.

Nonostante questo le foto ci raccontano una identificazione pressoché totale con la causa italiana, mai venuta meno. Identificazione del resto condivisa anche dalle donne ebree, quelle donne che si erano mobilitate per dare assistenza e conforto ai soldati partiti per il fronte. Scriveva una di loro, a molti anni di distanza, quando si sentiva abbandonata dallo Stato italiano sotto le bombe, in fuga dalla sua casa, perseguitata e perseguibile proprio perché ebrea:

”Ho amato l’Italia con tutte le forze dell’animo mio. Nell’altra guerra ho fatto quanto era in me per concorrere in qualche modo alla vittoria delle armi italiane: ho passato si può dire la vita negli ospedali, ho lavorato per mandare pacchi ai soldati, la sera fino a mezzanotte. E quando sono venute le terribili giornate di Caporetto ho pianto di dolore e di vergogna.

Avrei dato la vita per salvare l’Italia!”[8]

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Foto 5. Giorgio Cividalli in montagna dopo la guerra (Fonte: Archivio storico Istoreco di Livorno, fondo fotografico famiglia Cividalli)

Eppure Emma De Rossi nei Castelli aveva il primogenito al fronte, Carlo, e sicuramente tremava per la sua sorte. Ma l’adesione all’impresa bellica era stata così forte e partecipata che anche nella tormenta della Seconda guerra e della persecuzione antiebraica, il ricordo rimaneva vivo e veniva rivendicato in nome di una italianità che il fascismo poi aveva calpestato. Perché quella loro partenza entusiasta, spesso anche dalle colonie italiane per combattere contro gli austroungarici, fu poi sconfessata totalmente dallo stato totalitario di Mussolini che in ottemperanza alle sciagurate Leggi razziste del 1938, li espulse da ogni rango dell’esercito italiano[9].

[1] Cfr. la Sezione 01, Gli ebrei toscani e la Grande Guerra 1915-1918, del Catalogo della Mostra Ebrei in Toscana XX-XXI secolo, Ets, Pisa, 2016, pp. 34-35, e 52-53.

[2] Il conteggio è possibile attraverso la lettura analitica del testo di Pierluigi Briganti, Il contributo militare degli ebrei alla Grande Guerra 1915-1918, Silvio Zamorani editore, Torino, 2009.

[3] Cfr. La Grande Guerra. Fotografie dal fronte, note da Cuneo e dalle città “irredente”, a cura di Marco Ruzzi, Primalpe, Cuneo, s.d.

[4] Si tratta si documentazione raccolta dall’Istoreco di Livorno durante la preparazione della Mostra Ebrei in Toscana XX-XXI secolo, archiviata presso l’archivio dell’Istituto stesso.

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Foto 6. Carlo Castelli da ufficiale (Fonte: Archivio storico Istoreco di Livorno, fondo fotografico famiglia Orefice)

[5] Le foto della famiglia Cividalli ci furono donate dalla signora Sara Cividalli figlia del soldato Giorgio di cui ragioniamo in questo testo.

[6] Cfr. il Catalogo della Mostra Ebrei in Toscana XX-XXI secolo, cit., p.33.

[7] Ibidem, p.33.

[8] Emma De Rossi, Pensieri e diario giugno 1943-novembre 1945, in Nei tempi oscuri. Diari di Lea Ottolenghi e Emma De Rossi Castelli. Due donne ebree tra il 1943 e il 1945, Comune di Livorno, Belforte & C. Editori, Livorno, 2000, p.181.

[9] Cfr. Annalisa Capristo e Giorgio Fabre, Il Registro. La cacciata degli ebrei dallo Stato italiano nei protocolli della Corte dei Conti 1938-1943, Il Mulino, Bologna, 2018, pp. 125-129 e Alberto Rovighi, I militari di origine ebraica nel primo secolo di vita dello stato italiano, USSME, Roma, 1999.




Il “crudele morbo” dell’autunno 1918.

L’influenza spagnola del 1918-19, tornata d’attualità a causa del Covid-19, non risparmiò la Toscana. Nella regione, come nel resto del Paese, il momento di maggior difficoltà fu vissuto nell’autunno 1918, con la seconda ondata. Tuttavia, la pandemia seminò morte in un clima di silenzi e false notizie. Il governo impose una “propaganda tranquillante” volta a minimizzare l’emergenza, con il contributo della stampa, della politica interventista e dei comitati patriottici, censurando quanti non si fossero allineati. Tuttavia, lo sfoglio della stampa coeva rivela che la pandemia era un elemento onnipresente: lunghe colonne di necrologi dove figuravano giovani (i più colpiti dal virus) uccisi da “crudele morbo” (nome dietro cui si celava l’influenza), articoli che ridimensionavano la crisi sanitaria, pubblicità di prodotti antinfluenzali (come il Lindol, antisettico il cui «uso preserva dalla Febbre di Spagna») e, occasionalmente, trafiletti sulla grave situazione. Allo stesso modo, le testimonianze popolari offrono importanti informazioni sull’incedere del virus. Il soldato Lorenzo Meleddu, di stanza a Pisa, scrisse al fratello una lettera per descrivergli le processioni funebri che andavano e venivano dai cimiteri «come la formica», perché «qui ne muore anche cinquanta tre e quattro a famiglia e per questo dico io peggio di stare in zona di guerra». L’angoscioso racconto contrastava con la narrazione pubblica delle autorità sanitarie pisane, che alla fine di settembre annunciarono che l’influenza era «stata subito debellata» ed era «in grande decrescenza».

La politica censoria mirava a tutelare lo spirito pubblico e a occultare le mancanze assistenziali dello Stato, tra le cause principali del disastro sanitario. In Toscana, come altrove, gli abitanti, soprattutto delle aree periferiche, patirono la carenza di medici e infermieri, in gran parte mobilitati. Il Ministero della Guerra fu parco, nonostante gli appelli: l’ispettore sanitario fiorentino richiese con urgenza farmaci e personale, ma venne solo parzialmente soddisfatto. Alcuni medici privati e locali benefattori offrirono i propri servigi e risorse: la ex first lady Rose Elisabeth Cleveland finanziò l’ospedale di Bagni di Lucca, dove perì confortando i malati. Tuttavia, il concorso privato non poteva risolvere le deficienze dello Stato.

Il governo demandò molte incombenze alle autorità locali, il cui spazio di manovra fu assai limitato (le quotidiane mancanze furono aggravate dalla congettura bellica e dalla presenza dei profughi), soprattutto se non coadiuvate dai comitati di preparazione civile. Le amministrazioni ritardarono a novembre-dicembre l’apertura delle scuole, chiusero cinema e teatri, organizzarono massicce disinfezioni dei luoghi pubblici. Il prefetto di Firenze tentò di ridurre gli accessi sui treni, ma il provvedimento era inattuabile in tratte affollate, come la Firenze-Pistoia, difettando di materiale rotabile (risorse assorbite dall’esercito). Misure profilattiche non furono imposte alla attività industriali e produttive. Inoltre, l’eccesso di mortalità aggravò le difficoltà di pulizia mortuaria. Per la mancanza di materiali e di necrofori, nelle aree rurali seppellire i deceduti senza cassa e avvolti in un telo bianco imbevuto di sublimato divenne la prassi.

La questione più delicata riguardò la gestione annonaria. Gli assembramenti fuori dagli spacci alimentari agevolavano il contagio, ma non si imposero limitazioni per non turbare i ceti popolari, timorosi di rimanere senza viveri. I modesti sforzi dei municipi, tra cui Firenze, Pistoia e Sesto fiorentino, per regolare la distribuzione, sollevarono critiche. «L’Avanti» attaccò l’autorità fiorentina che «si preoccupa di evitare la frequenza di agglomeramento nei teatri e non agisce […]  onde far cessare il continuo e veramente pericoloso agglomeramento di centinaia e centinaia di persone, per la massima parte donne e bambine, pigiate all’ingresso degli spacci di generi alimentari». All’ansia della popolazione contribuì la contrazione dei rifornimenti e l’aumento dei prezzi, causati dell’impatto della spagnola sui cicli produttivi. Nel Mugello, i lavori agricoli patirono estese interruzioni: «famiglie intere di coloni sono ammalati, tantoché si vede la difficoltà o meglio l’impossibilità di raccogliere il granoturco, le uve e le castagne. È un disastro dei più grandi data la scarsità di uomini validi al lavoro».

Tutti questi aspetti incisero sulle mentalità e sui comportamenti, come prova il generalizzato smarrimento della popolazione toscana. Si registrarono avvelenamenti per l’ingerimento di disinfettanti, nel tentativo disperato di curarsi. Avvennero suicidi di persone soverchiate dalla paura, come la donna che, nel Mugello, si gettò in un fiume con la figlia una volta contratto il virus. Al pari della guerra, il “cataclisma pandemico” favorì la domanda “dal basso” di funzioni religiose propiziatrici: a Campi Bisenzio il SS. Crocifisso della pieve di S. Stefano, venerato nelle calamità, fu esposto nel novembre 1918 per ottenere la cessazione del morbo.

La seconda ondata si attenuò nel dicembre 1918. Il demografo Giorgio Mortara stimò 30.000 vittime (490-600.000 in Italia, 50-100 mln nel mondo). Le zone più colpite furono le aree urbane di provincia. La malattia continuò a colpire la regione, con aggressive recrudescenze (nel febbraio 1920, vi furono oltre 2.200 vittime).

La pandemia aggravò i lutti di una popolazione già flagellata dall’altro cataclisma, la guerra mondiale. Eppure, la spagnola è ricordata nelle memorie familiari, mentre in ambito pubblico ha lasciato flebili tracce. In Toscana, si è individuata una sola lapide, a Borgo San Lorenzo, in ricordo dei combattenti del locale distaccamento morti «per fiero morbo […] nell’anno della vittoria». Poco: forse, al pari di altre nazioni, potrebbe essere il momento di erigere una testimonianza concreta e durevole alla memoria delle vittime della pandemia novecentesca.

 

Mortalità per spagnola nei capoluoghi di provincia toscani (attuali) nel 1918.

 

Morti imputabili alla pandemia nel 1918 Morti imputabili alla pandemia ogni 1.000 abitanti
Arezzo 524 10
Firenze 2.761 10,4
Grosseto 307 18,7
Livorno 1.071 9,4
Lucca 630 7,4
Massa 452 13,2
Pisa 754 10,8
Pistoia 957 12,7
Prato 483 8,3
Siena 323 7,1
 Francesco Cutolo è dottorando in Storia alla Scuola Normale di Pisa. Si è laureato all’Università di Firenze nel 2016 con un lavoro sull’influenza spagnola. E’ membro del consiglio direttivo dell’Isrpt e della redazione della rivista “Farestoria”. Ha pubblicato nel 2020 “L’influenza spagnola del 1918-1919. La dimensione globale, il quadro nazionale e un caso locale” (Isrpt). 



8 settembre 1943: il disarmo e la deportazione degli Internati militari italiani

8 settembre 1943: per centinaia di migliaia di soldati italiani presenti sui fronti di guerra in Grecia, nei Balcani, di stanza in Italia, la firma dell’armistizio da parte del maresciallo Badoglio significa la cattura e la deportazione nei lager nazisti. Questo il destino di circa 650000 Internati militari italiani, la cui esperienza è stata a lungo dimenticata.
La notizia dell’armistizio infatti in pochi casi comporta la realizzazione di azioni armate di resistenza ai tedeschi, come a Cefalonia, ma anche come a Pisa, dove il maggiore Gian Paolo Gamerra, il 9 settembre decide di andare incontro alle truppe tedesche con la 12° batteria, rifiuta di cedere le armi e cade nello scontro armato insieme a otto dei suoi soldati. Nella maggior parte dei casi però i soldati non ricevono ordini dai superiori e si sbandano, nel tentativo di tornare a casa. I più fortunati riescono a salvarsi, spesso grazie a donne, madri e mogli putative, che forniscono loro abiti civili e cibo, riuscendo così a metterli in salvo, in quella sorta di maternage di massa di cui ha parlato Anna Bravo. È il caso anche dell’appena citata 12° batteria che, dopo il combattimento coi tedeschi, riesce a rientrare al comando di Riglione, dove le donne del paese, dopo aver dato sepoltura ai nove martiri, che vengono accolti nel cimitero cittadino come membri della comunità locale, assistono i soldati sbandati, riuscendo a farli fuggire prima dell’arrivo dei tedeschi.
Per 650000 soldati però il destino è invece quello del disarmo, della cattura, del rifiuto di combattere nelle file dell’esercito nazista e del rinnovato esercito fascista repubblicano, e dunque della deportazione in Germania. I diari e le memorie degli internati toscani, che sono raccolti in molti archivi, tra cui nel fondo ANEI dell’Istituto storico della Resistenza in Toscana e presso l’Archivio diaristico di Pieve Santo Stefano, fondi da cui questi appunti sono ispirati, si aprono infatti spesso con l’8 settembre, con l’annuncio dell’armistizio, la mancanza di direttive, lo sbando e la cattura.
Al viaggio verso il lager sono dedicate pagine cariche di emozioni: vengono infatti raccontate il sovraffollamento e le inumane condizioni in cui avviene il viaggio, alcuni tentativi di fuga, talvolta le conseguenti punizioni o fucilazioni e il viaggio insieme ai cadaveri. Vengono descritti anche gli espedienti che alcuni soldati escogitano per riuscire a sopportare meglio il viaggio. È il caso per esempio di un soldato che con alcune coperte crea una sorta di amaca legata alla struttura del treno. Infine viene talvolta ricordato l’aiuto e i tentativi di assistenza che la popolazione civile fornisce ai militari durante il trasporto.
Arrivati nel lager, vengono poi sempre descritti i momenti della disinfezione, della schedatura e della requisizione degli oggetti personali. Sono in molti a fare cenno del sentimento di spersonalizzazione provato dopo essere stati spogliati delle proprie cose ed essere divenuti numeri.
La realtà del lager mostra dunque da subito tutta la sua crudezza. In ogni diario o memoria sono infatti descritte le inumane condizioni di vita nei campi di concentramento e nei comandi di lavoro: il vestiario inadeguato, gli zoccoli di legno, gli interminabili appelli fuori al gelo, il freddo, il lavoro duro, la fame.
immagine imi gavettaCostante è il riferimento allo scarso e disgustoso vitto, alla “sbobba”, e ricorrenti sono i racconti sull’arte di arrangiarsi, sulle modalità di reperire il cibo e sulle strategie di sopravvivenza. Numerosi sono gli episodi di furti di cibo sia ai tedeschi che ai compagni di prigionia. Inoltre gli internati riferiscono dei commerci e degli scambi di cibo che avvenivano anche con annunci su bacheche. Altrettanti i racconti in cui gli internati decidono di sfidare le punizioni e la fucilazione per uscire dai reticolati, soprattutto la notte, per reperire qualche patata o rapa nei campi vicini al lager. Si descrivono poi i racconti di litigi coi compagni per il cibo “che riduceva uomini fatti a livello di ragazzacci di strada per non dire peggio” e dunque l’ideazione di stratagemmi per dividere in modo equo le razioni. Numerosi anche i racconti in cui gli internati ricercano nell’immondizia o tra le macerie resti di alimenti e in cui escogitano e mettono in atto piani per catturare ogni genere di animali di ogni sorta. (cfr. testimonianza allegata)
È sottolineata spesso la sensazione di essere diventati come bestie, talvolta in racconti tragicomici, in cui si tenta di abbeverarsi come aveva fatto un cane, si ruba e si mangia il cibo che veniva dato alle anatre o si divide un osso trovato nell’immondizia con un cane. (cfr. testimonianza allegata)
Molti i riferimenti al lavoro, alle violenze e alle punizioni messe in atto dagli aguzzini nazisti per i più disparati motivi, che giungevano anche alla fucilazione anche solo per un’esitazione di fronte alla fatica per il duro lavoro.
Gli ultimi aspetti che vengono spesso delineati sono quelli della liberazione, dell’arrivo degli alleati “che fanno di tutto per far[li] risentire esseri umani”, offrono agli internati cibo a volontà tanto che alcuni ne fanno indigestione e rischiano anche la vita. Alcuni descrivono poi l’attesa del rientro e i campi alleati post-liberazione. In alcuni casi viene denunciato un sentimento di rabbia per il fatto di venire considerati nuovamente prigionieri, nonostante la liberazione, e di non ricevere un buon trattamento. Infine alcuni si soffermano sul tema del rientro, e sul rimpatrio disorganizzato realizzato con ogni mezzo di fortuna: carretti, biciclette, a piedi. L’uscita dal lager è l’inizio di un viaggio a ritroso nello spazio, la strada per tornare a casa spesso compiuta lungo le linee ferroviarie dissestate o a piedi, ma anche un percorso intimo, un primo momento di rielaborazione di quella tragica esperienza, spesso non compresa una volta rientrati.
L’ultimo aspetto che emerge dalle memorie riguarda infatti l’incomprensione e l’isolamento rispetto alla società italiana postbellica, che celebra la Repubblica nata dalla Resistenza e la vittoriosa lotta di liberazione antifascista del “popolo alla macchia” nelle narrazioni e nella storiografia dominante marginalizzando e escludendo dalla memoria pubblica le esperienze degli IMI, che resteranno a lungo taciute.




Il solstizio delle stragi. Bucine, Giugno 1944.

San Pancrazio
“Si vide per l’ultima volta il babbo che ci guardò in silenzio…”. Quanti strati di ricordo si snodano pensando a eventi tragici che hanno lasciato tracce profonde, insieme a veloci dimenticanze. Quella frase è parte della testimonianza di Romano Moretti, nato nel 1932, che all’epoca aveva 12 anni e che con la mamma cercava di andare via da San Pancrazio, per raggiungere case solidali nella campagna aperta. Il babbo di Romano di lì a poco sarebbe stato trucidato con un colpo di pistola alla nuca. Si chiamava Renato Moretti, 33 anni, di professione operaio. Era il 29 giugno del 1944. Un giorno indimenticabile per chi visse le stragi di Civitella e di San Pancrazio nei due comuni di Bucine e di Civitella della Chiana. E anche per me che feci in quei luoghi, nel 1944, a 50 anni dalla strage, una ricerca sul campo e dove conobbi i portatori del ricordo, i testimoni di quelle giornate di fuoco e di sangue. Mi resi conto allora che il 29 giugno del 1944 io avevo due anni e vivevo altrove, sfollato con la famiglia in un paese della Sardegna centrale. Questi pochi dati mi hanno fatto sentire in colpa per il privilegio di essere così lontano ma, allo stesso tempo, anche così vicino perché i giorni di quelle stragi sono anche i giorni del mio compleanno che cade il 27 e del mio onomastico che cade il 29.

La testimonianza di Romano Moretti su suo padre è a pagina 236 del suo libro Il giorno di San Pietro. L’eccidio di San Pancrazio (le memorie e la storia). Il bambino dodicenne, divenuto orfano, segnato per sempre dalla strage, si è fatto storico ed ha dedicato la sua vita, tra maturità e pensione, a raccogliere testimonianze e documenti. Il libro ha come esergo: A mio padre e ai suoi compagni. Sul libro che io posseggo è scritto a mano: Al Prof. Pietro Clemente con la mia stima Romano Moretti. Il libro è uscito nel 2005 e lui me lo donò in occasione di un incontro a San Pancrazio per una iniziativa di Porto Franco e dell’Istituto Ernesto De Martino. In quella occasione fummo ospitati proprio nel palazzo dove la strage era avvenuta. Dove ora c’è un museo. Essere in quello spazio mi toccò molto. Gli spazi, secondo me, restano abitati dai ricordi anche se per lo più si fa come se non fossero altro che muri. Penso ora anche a quegli ospedali psichiatrici dove non è rimasta traccia di memoria delle vite consumate al loro interno.

Incontrai una prima volta Romano Moretti tra Civitella e San Pancrazio per la nostra ricerca del 1994. La ricerca era diretta dallo storico Leonardo Paggi e comprendeva un ampio gruppo di studenti e laureati antropologi di Arezzo (docente Carla Bianco), di Roma (docente Pietro Clemente) e un piccolo gruppo di Siena dove avevo insegnato fino al 1990. La ricerca storica era fortemente rappresentata dal coordinatore Leonardo Paggi e da Giovanni Contini, storico orale, responsabile del settore fonti orali nella Soprintendenza archivistica per la Toscana. Giovanni fu il primo a pubblicare un’opera d’insieme che ebbe grande rilievo e aprì forti discussioni sul tema che era anche il titolo del suo libro La memoria divisa. Per quanto riguarda la ricerca antropologica, insieme ai miei allievi dell’Università di Roma, venne prodotto un dossier rimasto purtroppo inedito. Il ricordo di Civitella fece, in un certo senso, ombra alla strage di San Pancrazio, e fu Civitella ad essere al centro del grande convegno internazionale In Memory al quale anche io avevo lavorato. Il titolo del mio intervento al convegno era Ritorno dall’apocalisse. Un testo molto ‘emozionato’ scaturito dall’esperienza fatta nella raccolta di testimonianze e nell’esperienza di incontro con i sopravvissuti. Un testo che oggi paragono con la fase di uscita dal lockdown dopo la pandemia. In un certo senso oggi è come se fossimo usciti dall’incubo di una strage insensata, che ha colpito esseri umani quasi a caso. Rappresentata dalla visione di camion militari che portano bare anonime per essere cremate. Non per caso, quando ho letto che la pandemia aveva colpito una RSA di Bucine, ho pensato alle stragi. Ma ho anche pensato a quanto è prezioso trasmettere la memoria, e a quanto abbiamo perso della memoria degli anziani nelle stragi delle province lombarde, venete, piemontesi, emiliane.

Di recente Gad Lerner e Laura Gnocchi, con il volume Noi partigiani. Memoriale della resistenza italiana (Feltrinelli 2020) hanno reso evidente la forza di trasmissione e di formazione propria della memoria degli anziani. Anche quando una singola memoria si è logorata e schematizzata, la polifonia è sempre straordinariamente efficace ed ha un forte valore conoscitivo che passa per la narrazione. È un modo diverso di produrre storia. Tutti i 50 testimoni del volume di Lerner e Gnocchi hanno quasi un secolo, età assai gradita al coronavirus, ma ancora ci insegnano, anche per la straordinaria disparità di storie, che la narrazione dell’esperienza è forse l’aspetto più capace di comunicare e dar senso alla pluralità delle resistenze in Italia.

Una storia civile
Di recente ho letto, con grande dispiacere, nella pagina web del Comune di Bucine della morte di Romano Moretti.
“Bucine 11 marzo 2019, è morto nei giorni scorsi Romano Moretti, lo storico che ha dedicato molti anni della sua vita allo studio delle stragi… aveva appena terminato il libro sulle stragi di Cornia e di Civitella, libro che uscirà postumo a cura delle amministrazioni comunali di Bucine e di Civitella. I funerali si sono svolti a San Pancrazio alla presenza dei due sindaci che “hanno ricordato entrambi l’opera di Moretti, come testimonianza di una memoria storica che non può essere cancellata ma va tramandata alle generazioni future”.

Una vita per la memoria. Ma anche una paziente presenza nella comunità, dove Moretti tornava da Firenze a fine settimana o d’estate. Discutemmo a lungo con lui dei problemi della memoria antipartigiana che emergevano soprattutto a Civitella. A noi non fu facile mediare le idee generali sulla Resistenza con le scelte di memoria e di lutto che la comunità di Civitella aveva fatto. Ma l’incontro, l’affratellamento, l’accoglienza delle loro memorie, la comprensione furono le esperienze più importanti del nostro stage, e ci condussero alla condivisone del lutto e della storia di quella comunità. Così potemmo capire il loro disagio, il modo di orientare il loro cordoglio nella critica dei partigiani, mentre non si metteva mai in discussione la Resistenza in quanto tale.

Moretti aveva una idea della storia come completezza dei dati e il suo sforzo fu quello di restituire la voce a tutti i protagonisti, e nel libro su San Pancrazio ha raccolto 139 voci di testimoni. Lo ha fatto con pazienza, tenacia e riserbo, tanto che è solo nel suo libro che io ho conosciuto Moretti bambino che, con la mamma, si allontanava dai luoghi della strage poco prima che suo padre fosse assassinato.

In quegli anni avevo teorizzato che tutti i comuni aprissero uno sportello nell’ambito dei servizi alla persona, dedicato all’ascolto e alla registrazione dei racconti delle persone. Lo avevo chiamato ‘la-storia-a-memoria’. Era l’idea di una connessione profonda tra storia della vita quotidiana delle persone e senso della civitas sia locale che planetaria. Una storia civile. Come quelle che ha prodotto Moretti. Mi sono incontrato spesso con gli studiosi locali, qualche volta sono stato critico verso un sapere prodotto per lo più da passione o con metodi non aggiornati, ma la gran parte delle volte ho imparato da loro. Così è stato con Moretti. Uno degli strati della memoria di cui dicevo all’inizio: ricordare Moretti come caso esemplare di storia civica locale, ricordare che Moretti ricordò la memoria delle stragi più atroci dell’aretino. Ricordare i ricordi, ricordarsi di ricordare.

La Fattoria del Pierangeli
Il Comune di Bucine ha 13 frazioni, quella di San Pancrazio (m.511 s.l.m.) oggi ha 177 abitanti. Lo spazio della comunità è descritto dettagliatamente da tutte le fonti orali sulle stragi: un borgo immerso nella campagna, che aveva al centro la Fattoria del Pierangeli, centro anche di vita economica del sistema di mezzadria, bracciantato e piccola proprietà contadina. Per le vicende della guerra e della Resistenza il Comune di Bucine è medaglia d’oro al valore civile:

“Strenuamente impegnato nella lotta di liberazione, sopportava stoicamente, con il sacrificio di tutti i cittadini, crudeli rappresaglie del nemico invasore; offriva alla causa della Patria la vita di molti suoi figli migliori, mantenendo intatta la fede nei supremi valori di libertà”.

Apro il volumetto, stampato a ciclostile, dai miei alunni romani nel 1994. Erano sette giovani, di cui sei donne che lavorarono su San Pancrazio. Altri studenti invece lavorarono su Civitella. Di quasi tutti ho traccia e memoria. La neolaureata che coordinò il gruppo San Pancrazio era Emanuela Rossi che ora insegna Antropologia culturale all’Università di Firenze.

Ecco un altro nodo della memoria: memoria della ricerca, dell’Università, delle vite e delle storie dei ‘miei’ studenti, che ho spesso ritrovato su Facebook, cercando di sentirli ancora parte di una comunità di studi che era anche incontro umano. Organizzarono per temi le loro ‘fonti orali’: L’evento, Vita nei borri, Giudizi sui partigiani, Il tempo successivo, La commemorazione, Come si viveva allora.

Moretti nel suo libro ha organizzato i fatti per ‘soggetti’ e ‘sequenze’. Noi cercavamo memorie ampie, rappresentazioni e racconti. Discutemmo a lungo sulla gente che viveva nei borri, negli spazi nascosti ricavati nel bosco, con scavi e capanne, dove piovevano obici alleati e proiettili della difesa tedesca. Nei borri erano le donne a gestire la comunità provvisoria, dominata dalla paura e dalla fame. Discutemmo allora del ‘tedesco buono’ che compariva in vari racconti e che è poi diventato quasi una delle ‘figure’ della narrazione della guerra vista dalle popolazioni. Un punto di incontro tra il dato di fatto che diversi tedeschi sul fronte non condividevano la guerra e avevano impulsi umani opposti agli ordini dei loro capi, ma anche il desiderio di lasciare speranza sulla umanità delle persone anche nelle situazioni più terribili. Fecero una buona ricerca i miei allievi. Riguardo i cognomi di coloro che intervistarono. Sono gli stessi (un po’ di meno) delle testimonianze raccolte da Moretti. Ma sono soprattutto cognomi che ripetono la dolorosa lista dei morti: 56 tutti maschi a San Pancrazio secondo Moretti. In gran parte contadini proprietari, in minor misura mezzadri. Sono 67, tutti maschi (perché comprendono anche luoghi vicini) i morti nella “List of the people killed at San Pancrazio” fatta dagli inglesi in una rapida ed efficace istruttoria dei fatti. Questa ultima fonte arrivò fresca fresca dalla ricerca negli archivi del Regno Unito proprio nel 1994. I nomi hanno come centro simbolico il sacerdote Don Giuseppe Torelli, che si offrì al posto degli altri, ma che ottenne soltanto di essere ucciso per primo.

“At San Pancrazio seventy men were rounded up and herded into a room of the Fattoria. Between this room and a second room was a narrow passage. One by one the men were taken from one room to the other, questioned as to their knowledge of Partisans, and those failing to give information were shot dead in the second room by pistol fire. All except seven were shot”.

Il rapporto firmato dal capitano N.E. Middleton ricostruisce anche i nomi dei comandanti responsabili di quella operazione pianificata e coordinata che colpì tanti piccoli centri e i due poli di Civitella centro e di San Pancrazio. Erano tutti appartenenti alle Herman Goering Divisionen.

Le testimonianze raccolte dagli inglesi sono state le memorie di fondazione che furono poi all’origine di quelle che raccogliemmo noi e di quelle che raccolse Moretti. A distanza di 50 anni, trovammo testi molto simili.

È una esperienza intensa il trovarmi ancora, a pochi giorni da un nuovo 29 giugno, che segna anche i miei 78 anni, tra le carte dell’esercito inglese, le voci raccolte dai miei alunni, e la voce di Romano Moretti con il suo piccolo monumento alla memoria e alla storia civile. Rileggo le testimonianze dei miei alunni e sento che sono proprio diventate racconti. Quante volte saranno stati ripetuti, ai nipoti, agli estranei, dopo la prima lunga fase del dolore chiuso e tacito. Hanno assunto il ritmo delle leggende e delle fiabe. Fatti narrabili. Sono diventate tradizione, ma è, facendosi tradizione, che il racconto accede alla trasmissione, e così alle nuove generazioni. Sono le domande meno legate ai singoli avvenimenti a produrre risposte più aperte: com’era la vita, come si mangiava, dove si trovava il cibo, soprattutto i racconti vivacissimi della vita nei ‘borri’ o ‘borrate’ sotto capanne (i ‘capanni’), trincee scavate, nascondigli per cibi e persone. Il paese dei sopravvissuti alla strage era sfollato lì, a pochi chilometri, avendo avuto anche le case incendiate dai tedeschi. Raccontano le contese per il cibo, gli egoismi, le solidarietà. Diamo l’ultima parola a Maria Assunta B., una testimone nata in loco nel 1914 (le temporalità delle generazioni si distendono e si intrecciano: questa testimone aveva 30 anni quando Moretti ne aveva 12 e io ne avevo 2).

Ha raccontato:

“C’erano tanti campi allora c’era tanta roba c’erano patate c’erano fagioli. Noi s’andava pe’ campi a prendelli. Pe’ fare il pane s’era fatto una bella buca nel bosco poi una lastra grande così. Ci si faceva fuoco dentro co’ la legna. Si faceva bollire questa lastra e poi si faceva pe’ quando si fa la farinata. Poi si metteva questo lastrone e veniva un po’ di pagnotta. E si campava, si mangiava fagioli patate, un pochino di pane per uno. Ma si era egoisti sa? Si si perché s’aveva tutti paura di morì di fame, qualcuno avea qualcosina un po’ di prosciutto un po’ di salame. Io non l‘avevo. Avevano un po’ di roba un po’ di ova”.

san pancrazio museo




Il Governo catalano cerca antifascisti italiani scomparsi durante la Guerra civile

INTRODUZIONE

La storia del Novecento ha per sua natura una dimensione europea, con una particolare densità di coinvolgimento delle storie nazionali in alcuni momenti. Ha un posto particolare la guerra civile spagnola, nel cuore della “guerra dei trent’anni” novecentesca, a buon diritto vista come inizio di un processo di emancipazione politica della gioventù europea, in una linea di continuità con i movimenti resistenziali europei.

La guerra di Spagna per i nostri Istituti è importante oggetto di ricerca e occasione per la tessitura di relazioni fra luoghi della cultura memoriale, centri di ricerca storica e istituzioni educative. Episodio rilevante in questo contesto è stato lo studio sui volontari antifranchisti toscani, che l’ISGREC ha realizzato a partire dal 2007. Nelle pagine di questa rivista è consultabile il database sui volontari toscani, mentre in uno spazio bilingue del sito ufficiale dell’ISGREC sono consultabili gli esiti di una ricerca pluriennale: biografie e ricostruzione delle complesse vicende della guerra e dell’internamento nei campi della Francia del sud, che seguì la Retirada degli antifranchisti.

Furono le politiche memoriali del Governo spagnolo e della Attualmente un progetto della Direzione generale della Memoria democratica, del Dipartimento di giustizia del Governo della Catalogna sta affrontando con strumenti nuovi il doloroso, vecchio tema delle fosse comuni, dove negli anni del conflitto e della dittatura franchista furono gettati corpi di antifranchisti. Abbiamo aderito alla richiesta di collaborare a una ricerca che arricchisce il sapere storico, ma insieme contribuisce alla memoria privata dei familiari di vittime italiane e toscane, scomparse nel nulla.

Il testo che segue descrive il progetto e contiene già alcuni elementi di conoscenza, tratti dalla prima fase della ricerca interdisciplinare. Un lavoro come questo assume un valore in più in un periodo della storia d’Europa, caratterizzato da rapidi mutamenti delle memorie collettive e delle politiche memoriali europee. Pur nella singolarità della storia della Spagna fra guerra civile e dittatura franchista, ne possiamo trarre argomenti per una comparazione.

Luciana Rocchi

Consiglio Direttivo Isrt

Nel 2009, in Catalogna è stata approvata una legge che autorizza il Governo della Catalogna ad intervenire sulle fosse comuni per esumare i resti umani.

In totale sono stati effettuati in Catalogna 52 scavi archeologici e recuperati più di 300 resti mortali. Se aggiungiamo i resti umani che sono stati trovati in superficie in scenari di combattimento, sono state recuperate, in totale, ossa appartenenti a circa 500 persone. Tra queste, ne sono già state identificate nove.

Foto_1Il lavoro non è terminato con l’esumazione dei resti trovati. Si può dire, infatti, che con lo studio storico e l’intervento archeologico l’opera è appena iniziata. Il motivo sta nel fatto che l’obiettivo finale non è semplicemente quello di localizzare le fosse ed esumare i resti, ma di identificare i corpi che per più di ottant’anni sono rimasti anonimi e spesso rivendicati dalle famiglie.

Il programma del Dipartimento di giustizia del Governo della Catalogna – localizzazione, identificazione e recupero delle persone scomparse durante la Guerra civile e il regime franchista – prevede un’azione multidisciplinare, a cui partecipa un grande team di professionisti della storia, dell’archeologia, dell’antropologia e della genetica.

Esumare per identificare

Dopo il lavoro degli archeologi, gli antropologi studieranno i resti per determinare, ove possibile, le caratteristiche fisiologiche, l’età, il genere e le circostanze della morte. Queste informazioni aiuteranno a realizzare un’interpretazione storica della fossa e saranno utili più tardi, al momento della selezione dei resti, per il crossing-over dei dati genetici con i familiari in vita. Gli antropologi selezioneranno anche i pezzi ossei migliori per l’estrazione del DNA.

Qualora lo stato di conservazione dei resti lo consenta, i campioni di DNA verranno prelevati dai laboratori genetici e analizzati. Nella fase successiva di questo procedimento, un secondo laboratorio genetico realizzerà il crossing-over tra i dati dei corpi esumati e quelli delle persone in vita alla ricerca dei loro parenti.

Nei casi di legame familiare diretto (ad esempio, tra un padre e una figlia o tra due fratelli), il crossing-over massivo dei dati potrebbe rivelare l’identità della vittima. Tuttavia, se la relazione di parentela è più lontana (ad esempio, tra un nonno e un nipote o tra uno zio e una nipote), dovranno essere eseguiti crossing-over mirati dei dati; a questo punto, saranno particolarmente utili gli studi storici e le analisi degli antropologi perché permetteranno di fare ipotesi e selezionare i corpi che potrebbero corrispondere alle persone cercate.Foto_2

Il procedimento si chiuderà con l’identificazione o meno dei resti. Qualora sia possibile identificare dei corpi, i familiari avranno il diritto di riceverne i resti; nel caso in cui non volessero, il Governo della Catalogna li seppellirà in condizioni adeguate nel cimitero della città o in un luogo commemorativo abilitato. Verranno seppelliti anche i resti non identificati che rimarranno anonimi in attesa di futuri crossing-over dei dati genetici che ne rivelino l’identità.

517 fosse individuate fino ad oggi dal Governo della Catalogna

Il Ministero della Giustizia del Governo della Catalogna, per mezzo della Direzione generale della Memoria democratica, ha la responsabilità di localizzare le fosse, esumarne i resti e identificare i corpi. Lo scopo di questa politica è quello di dare un nome e un cognome alle vittime e restituire i resti alle famiglie che lo desiderano.

Per renderlo possibile, sono stati implementati quattro strumenti: in primo luogo il Censimento delle persone scomparse, grazie al quale si realizza la ricerca di persone scomparse in tutta la Spagna. Attualmente include quasi 6.000 pratiche, delle quali per circa 600 è stato possibile documentare il luogo di morte o sepoltura.

In secondo luogo, la Mappa delle fosse, che include tutte le fosse localizzate fino ad ora in Catalogna; è uno strumento utile per pianificare azioni e determinarne le priorità.

In terzo luogo, il Piano delle fosse, mediante il quale vengono pianificati e realizzati gli interventi archeologici; i lavori includono l’esumazione dei resti e lo studio di questi da parte di professionisti della scienza antropologica.

Infine, il Programma di identificazione genetica, che può essere utilizzato dai parenti iscritti nel Censimento delle persone scomparse, che consiste in un semplice test per ottenere un campione di DNA. Attraverso questo programma, viene realizzato un crossing-over dei dati genetici ottenuti dai resti esumati con i dati genetici dei parenti in vita per poter identificare empiricamente tali resti.

Alcuni interventi archeologici hanno portato alla luce fosse importanti: è il caso di Miravet e Soleràs.

Foto_3Nel 2017, un intervento realizzato alla periferia di Miravet, tra il fiume Ebro e la Sierra de Cavalls, ha permesso di esumare i corpi di 99 persone. La tipologia dei corpi, per la maggior parte sepolti senza vestiti e in molti casi con protesi, rivela che sono morti in un contesto medico e che in quel punto si trovava un ospedale da campo, sconosciuto fino al momento della scoperta. Tale ospedale, situato ai piedi della Sierra de Cavalls e a metà strada tra Pinell de Brai e Móra d’Ebre, ospitava i feriti dalla battaglia dell’Ebro e potrebbe riferirsi all’inizio di un’evacuazione dei feriti. Attualmente sono in corso l’analisi genetica di laboratorio dei resti e la ricerca della documentazione storiografica per identificare casi inseriti nel Censimento delle persone scomparse che avrebbero potuto essere ricoverati presso quel centro medico.

Lo stesso anno è stata eseguita un’operazione nel vecchio cimitero di Soleràs, Lleida. La città, probabilmente, ospitava tre ospedali repubblicani per i feriti evacuati dai fronti dell’Ebro e del Segre ed è stata teatro di virulenti scontri durante l’occupazione franchista della Catalogna. L’intervento archeologico ha consentito l’esumazione dei resti di 146 persone. Come abbiamo detto, sette persone (tre civili, tre soldati repubblicani e un soldato franchista) sono state esumate in questa fossa e sono state già identificate, il processo di crossing-over dei dati genetici è tuttora in corso.

Ricerca di familiari di volontari italiani

Il numero di casi registrati nel Censimento delle persone scomparse (6.000) è basso rispetto al bilancio delle vittime della guerra e della dittatura. Tra i familiari iscritti, solo 2.000 hanno richiesto di essere inseriti nel Programma di identificazione genetica, il che rende difficile conoscere l’identità delle persone esumate.

Nel Censimento sono elencati pochissimi volontari internazionali, nonostante l’elevata mortalità subita dalle Brigate internazionali in conseguenza del ruolo di forza d’urto che svolgevano normalmente. Abbiamo i nomi di più da 160 antifascisti italiani scomparsi in Catalogna durante la guerra civile. Questo elenco dovrebbe essere completato ed eventualmente ampliato con nuovi nomi. La maggioranza delle scomparse o delle morti dei brigadisti in Catalogna è stata durante la ritirata dei mesi di marzo e aprile 1938 e durante la loro partecipazione alla battaglia dell’Ebro, tra luglio e settembre 1938.

Tra loro ci sono almeno otto brigadisti della Toscana, tutti scomparsi nella battaglia dell’Ebro: Carlo Bruno Benucci, di Cavriglia; Dino Caponi, di Empoli; Gaddo Cei, di Pontedera; Florindo Eufemi, di San Miniato; Oreste Marrucci, di Cecina; Silvano Pappuccio, di Bagni di Lucca, e Leonetto Santigli, di Livorno. Attilio Viola, di Licciana Nardi, è già registrato nel Censimento delle persone scomparse.

Per questo motivo, il Governo catalano ha lanciato una campagna per trovare le famiglie dei volontari internazionali scomparsi in Catalogna (durante la ritirata, nell’Ebro o in altre circostanze), al fine di aggiungere le relative pratiche al Censimento delle persone scomparse e, se possibile, identificarle. Chi fosse interessato alla ricerca dei propri parenti può registrarsi nel Censimento sul sito web del Governo della Catalogna (www.gencat.cat/tramits) o inviare un’email alla Direzione generale della Memoria democratica (memoria.justicia@gencat.cat).

Identificazione di Elio Ziglioli e localizzazione di Amedeo Nerozzi

Dall’approvazione della legge di 2009, la Direzione generale della Memoria democratica ha identificato nove persone. Uno di questi era Elio Ziglioli (Lovere, 1927), un italiano antifranchista anarchico. Venne catturato dalla Guardia Civile; fu interrogato, torturato e assassinato il 3 ottobre 1949. Da allora le sue spoglie sono rimaste prive di nome nel cimitero di Castellar del Vallès (Barcelona). Tra il 20 giugno e l’11 luglio 2018, la Generalitat ha portato a termine un intervento archeologico in Castellar. Grazie al Programma di identificazione genetica, è stato possibile stabilire l’identità di Elio Ziglioli. Il suo corpo fu restituito in Italia per volere della sua famiglia.

Inoltre, nell’ottobre 2019, sono state ottenute informazioni pertinenti su Amedeo Nerozzi, la cui famiglia aveva richiesto la sua ricerca. Fu sindaco di Marzabotto (1920-1921) e volontario nella Guerra Civile. Fu tenente medico della Brigata Garibaldi, ferito e scomparso il 9 settembre 1938 nella Battaglia dell’Ebro. Grazie alla documentazione storica ottenuta nella ricerca, è stato possibile conoscere la vera data della sua morte (18 settembre, dieci giorni dopo di quanto si fosse sempre creduto) e che non è morto sul campo di battaglia: fu evacuato in un ospedale di Móra d’Ebre, dove morì, ed è stato sepolto in una fossa comune della città.

La ricerca delle persone scomparse fa parte delle politiche pubbliche del Governo della Catalogna, ma include anche altre misure. Ad esempio, l’emissione di documenti ufficiali di nullità delle sentenze dettate dai tribunali dell’Auditoria de Guerra de l’Exèrcit d’Ocupació a Catalunya (Ispezioni di Guerra dell’Esercito di occupazione in Catalogna), o la concessione di un risarcimento alle persone che sono state rinchiuse in carceri e campi di concentramento, servizio per il quale sono state ricevute quasi 40.000 richieste.

Oppure, ovviamente, la promozione della memoria, della quale si occupano principalmente tre istituzioni: il Consorci Memorial dels Espais de la Batalla de l’Ebre (Consorzio per la commemorazione degli spazi della battaglia dell’Ebro), creato nel 2001, che si occupa del recupero della memoria storica di questa zona e della promozione di progetti che aiutino a far conoscere la battaglia dell’Ebro; il Memorial Democràtic (Memoriale democratico), fondato nel 2007, la cui missione è quella di recuperare e soprattutto promuovere la memoria della Seconda repubblica, del Governo repubblicano della Catalogna, della Guerra civile spagnola e della repressione franchista; e il Museo Memorial de l’Exili (Commemorazione dell’esilio) (a La Jonquera, vicino al confine), che dal 2008 lavora per la diffusione della conoscenza dell’esilio repubblicano e per lo studio dell’esilio come costante storica.

Gemma Domènech i Casadevall, direttrice generale della Memoria democratica,

Eulàlia Mesalles Godoy, coordinatrice dell’area storica,

Jordi Martí Rueda, storico