2/2 – Per una storia dei movimenti giovanili a Grosseto tra gli anni Sessanta e Settanta (*)

* La prima parte di questo articolo è pubblicata alla pagina QUI

A metà decennio irruppe il femminismo a sconvolgere mentalità, prassi, perfino modalità dei rapporti personali, che sembravano consolidati tra i militanti. Un gruppo forte, a livello nazionale, come Lotta continua ne fu colpito in profondità, tanto da mettere in discussione la propria stessa continuità organizzativa. Sicuramente il femminismo fu uno dei motivi, insieme ad altri ovviamente, che la condusse infine a proclamare a maggioranza l’auto-scioglimento. La storia del femminismo a Grosseto è stata in parte già scritta: ci fu una fase all’interno dell’UDI, quindi la costituzione di un collettivo autonomo che condusse agitazioni e esperienze che derivavano da una cultura antica, ma completamente rinnovata dall’attivismo delle nuove generazioni. Tutte le compagne delle organizzazioni della nuova sinistra, qualcuna anche del PCI [1], fecero parte del collettivo femminista, senza tuttavia lasciare, generalmente, la precedente militanza, che pure generava non di rado opposizione e contrasto.

Più avanti, si diffuse inoltre una nuova consapevolezza ambientalista, che ebbe modo di manifestarsi in occasione delle proteste contro la centrale nucleare di Montalto di Castro (1977/1978), rispetto alle quali la Federazione Giovanile Comunista (FGCI) rimase ancora una volta spiazzata, ma anche la cosiddetta “nuova sinistra” fu costretta a un faticoso inseguimento.

Grosseto, manifestazione nazionale del 17 dicembre 1977 in solidarietà a una donna licenziata per tentato aborto

Grosseto, manifestazione nazionale del 17 dicembre 1977 in solidarietà a una donna licenziata per tentato aborto

Si trattava pur sempre di organizzazioni giovanili, che si trovarono tuttavia a affrontare impegni e problematiche che solo qualche anno prima sarebbero state per loro inimmaginabili. Mi riferisco anche alle scadenze elettorali. Non tanto i referendum, che richiesero comunque campagne elettorali defatiganti, quanto piuttosto le elezioni amministrative del 1975 e le politiche del 1976, per le quali fu necessario stabilire alleanze, operare mediazioni, individuare strategie. In particolare, nel 1976 fu costituito un cartello tra le forze esterne al PCI, con la denominazione Democrazia proletaria, che ottenne scarso successo. Subito dopo si avviò un processo di unificazione che localmente coinvolse PDUP e Lega dei comunisti (a livello nazionale anche Avanguardia operaia) e mantenne il nome di Democrazia proletaria, da cui si tenne fuori la componente PDUP proveniente dal Manifesto. Questi processi comportarono spostamenti delle sedi: fenomeno di una certa importanza se si considera che in tutti questi anni le sedi dei gruppi a sinistra del PCI vennero a trovarsi casualmente tutte entro una zona tutto sommato ristretta del centro storico cittadino. Altrettanto casualmente uno dei principali punti di ritrovo in questa zona era un bar (in seguito rilevato da alcuni militanti dell’ex Manifesto) frequentato da vecchi comunisti, talvolta nostalgici stalinisti, in ogni caso poco propensi a seguire il loro partito sulla linea del “compromesso” con la Democrazia cristiana. Il quartiere ne ricevette inevitabilmente per qualche anno una ben definita caratterizzazione. Infine Democrazia proletaria mantenne un’unica sede in via dell’Unione.

Non possono rimanere fuori da questa carrellata, necessariamente sommaria e volutamente soltanto indicativa, due questioni che sopra ho associato a narrazioni semplificatorie e fuorvianti: la presunta fascinazione della lotta armata e l’uso crescente di droghe tra i giovani.

Maratona del Collettivo femminista grossetano per la riapertura del consultorio, 1977

Maratona del Collettivo femminista grossetano per la riapertura del consultorio, 1977

Riguardo alla prima, si può affermare che essa non ebbe a Grosseto alcuno spazio. La presenza rimasta comunque maggioritaria del PCI e l’influenza che il partito mantenne anche tra i giovani tramite la FGCI contribuirono sicuramente, nonostante i dissensi che continuarono a attraversare la base del partito circa la strategia del “compromesso storico”, a tenere lontana ogni influenza dei gruppi terroristici, ribadendo l’irrinunciabilità dell’opzione democratica e costituzionale.  Non si deve tuttavia trascurare il contributo che dette in questo la Lega dei comunisti, che fin dall’inizio della sua attività fece muro contro ogni possibile simpatia verso gruppi del tipo Potere operaio (di Roma, Padova, Firenze: tutt’altra cosa dal Potere operaio pisano ormai da tempo disciolto), che teorizzavano la maturità dell’opzione rivoluzionaria, rimanendo tuttavia sostanzialmente isolati rispetto alle organizzazioni maggiori. L’idea che la “rivoluzione” dovesse avere per protagoniste le masse popolari escludeva, per la parte largamente maggioria del movimento,  ogni scorciatoia terroristica e faceva dei gruppi armati nient’altro che avversari da sconfiggere; così come avversari politici furono, dopo il 1977 (non certo a Grosseto dove non furono presenti se non per qualche isolata simpatia), i gruppi di Autonomia operaia, i quali, pur limitandosi per lo più a inneggiare alla lotta armata senza praticarla, costituirono certamente un terreno di reclutamento per il terrorismo. Se qualche sbandamento può esservi stato negli altri gruppi della sinistra grossetana, non vi furono ripercussioni nelle aree giovanili. Così come non ebbe alcuna ripercussione il fatto che uno degli avvocati nei primi processi contro le B.R. fosse un insegnante di un istituto superiore grossetano e neppure il fatto che uno dei membri del “nucleo storico” delle B.R. avesse vissuto fino al 1968, a Nomadelfia, a due passi dalla città (ovviamente la sua conversione terroristica fu successiva). È la dimostrazione, sia pure nella limitatezza di un’esperienza marginale, che la logica del movimento politico di massa, qual era quello che derivava dal Sessantotto, niente aveva a che fare con la logica delle “avanguardie armate”, autoproclamatesi tali in virtù di elucubrazioni teoriche da esse sole condivise. Non c’è dubbio che la vicenda di Aldo Moro, la stessa tragica discussione tra la “linea della fermezza” e la “linea della trattativa”, costituì per tutti i militanti, sia della sinistra tradizionale che della nuova sinistra, un motivo di riflessione sul valore e, insieme, sulla fragilità dell’ordinamento democratico.

Primavera 1979. Donne del "collettivo": una festa

Primavera 1979. Donne del “collettivo”: una festa

La questione “droga” fu più complessa. C’era stata fin dall’inizio, da parte di tutta la sinistra, un’ampia disponibilità nei confronti dei nuovi modi di vita che si diffondevano tra i giovani, trasmessi in gran parte tramite la musica e lo spettacolo. In seguito alcuni militanti furono coinvolti nell’organizzazione di eventi artistici (Dario Fo, molti cantautori e gruppi rock), fino a fare di questo più tardi la propria professione. Fu aperta anche una radio “libera”, che fu un’iniziativa di rilievo promossa da Lotta continua. Tutti sintomi di un’attenzione e non di rado di una condivisione delle istanze “libertarie” che, come si è visto, erano state all’origine del movimento e che pertanto erano presenti, in diversa misura, in tutte le sue componenti. Non era un mistero che questi nuovi modi di vivere, improntati al superamento di restrizioni e tabù che avevano invece dominato le generazioni precedenti, facilitassero e talvolta perfino implicassero il consumo di droghe; consumo che intanto andava sempre più estendendosi. Si sapeva d’altra parte che la diffusione di ogni genere di droga era stato uno dei fattori decisivi che aveva portato alla dissoluzione, già alla fine degli anni sessanta, del movimento giovanile americano, che pure era stato tanto potente da innescare su scala planetaria la protesta contro la guerra del Vietnam. La FGCI seguì l’azione parlamentare del partito, orientata verso una moderata depenalizzazione. Altri gruppi, nel nome della spontaneità più spinta, accettarono i primi morti per overdose come una fatalità inevitabile. Altri, di fronte a una situazione ogni giorno più grave, posero una netta distinzione tra droghe leggere e droghe pesanti, finendo a volte per attribuire il passaggio dalle une alle altre, che qualcuno, al contrario, dava per ineluttabile, a complotti orditi dal “nemico di classe”, o, meno irrealisticamente, da qualche organizzazione criminale. La Lega dei comunisti, che sempre ebbe una posizione anti-proibizionista, mantenne invece all’interno, nei confronti dei propri militanti, una forte rigidità, prevedendo -e in qualche caso- mettendo in atto, l’espulsione dall’organizzazione.

La differenza tra questi modi diversi di affrontare la questione si manifestò nel corso di una conferenza del sociologo Blumir, tenuta nella sede del PDUP e promossa da alcuni elementi di quel gruppo (ex Manifesto). Da una parte ci fu chi indicò nel consumo di droghe leggere un tratto, se non il tratto, caratterizzante del processo rivoluzionario in atto, in grado di coinvolgere e convincere a uno stile di vita “libertario”, pacificato e pacificante perfino quanti si dichiaravano fascisti. Dall’altra parte c’era chi riproponeva la visione classica della rivoluzione, che avrebbe dovuto risolversi non tanto in un mutamento degli stili di vita, riguardo a cui le preferenze potevano essere oltre tutto le più varie, ma in un rovesciamento dei rapporti economici e politici tra le classi sociali, rispetto a cui qualsiasi “oppiacea” distrazione, perpetrata per di più a vantaggio di un mercato internazionale della merce-droga gestito secondo logiche capitalistiche e imperialistiche, non poteva che fare il gioco dell’avversario. Senza contare che si stava imponendo a livello giovanile un antifascismo militante che era l’opposto di qualsiasi fumosa pacificazione e consisteva piuttosto in scontri aspri, talvolta in violenti tafferugli, davanti alle scuole e nelle vie della città (da ricordare un intervento piuttosto clamoroso al comizio di un esponente di estrema destra durante la campagna elettorale del 1975).

Non ha senso probabilmente stabilire oggi chi avesse ragione, ma forse ha senso capire meglio le ragioni degli uni e degli altri, in un periodo in cui le morti per overdose (in seguito si sarebbe aggiunta la diffusione del virus HIV) stavano decimando una generazione. Credo che sia consentito a chi allora sostenne la seconda delle due posizioni rilevare come l’impegno politico collettivo richiesto a giovani militanti, il confronto quotidiano con i problemi degli studenti, dei lavoratori, delle donne, degli abitanti dei quartieri periferici, lo stesso antifascismo militante, possano aver contrastato la possibilità, purtroppo incombente, di essere risucchiati nel gorgo della tossicodipendenza. Come anche ricordare che alcuni di quei giovani iniziarono proprio in quegli anni un impegno anche professionale nei servizi psichiatrici, acquisendo una diversa responsabilità personale, oltre che una più ampia competenza, nei confronti della malattia e del disagio mentale, che condusse anche a una più profonda comprensione e com-passione verso chi si trovò coinvolto in quel tragico fenomeno sociale.

Mi accorgo di aver perso nella narrazione un filo che invece sarebbe stato da seguire: quello dei giovani fascisti. Non so indicare una documentazione significativa al riguardo, a parte la cronaca locale sulla stampa. L’impressione che ho è che il MSI locale abbia sempre avuto uno stretto controllo sulla sua organizzazione giovanile e abbia quindi tenuto lontane eventuali influenze da parte di organizzazioni apertamente eversive che pure operarono largamente in Italia, godendo, come si sa, di garanzie e protezioni. Lo confermerebbe la presenza documentata di picchiatori grossetani a fianco di Almirante a Roma in un momento in cui il MSI si trovò in forte tensione non solo con il movimento studentesco di sinistra, ma anche con l’organizzazione neo-fascista Avanguardia nazionale [2]. D’altra parte, sembra che non vi sia stato alcun coinvolgimento di organizzazioni grossetane nella vicenda del “golpe Borghese”, benché vi abbiano preso parte, con ruoli di rilievo, alcuni repubblichini locali [3]. Meriterebbe piuttosto indagare le ripercussioni che sicuramente vi furono in quegli ambienti in seguito alla tragica e un po’ misteriosa scomparsa, all’inizio degli anni settanta, di un dirigente che contava qualcosa anche a livello nazionale.

Il fatto è che quei giovani fascisti arrivarono anni dopo, quando ormai non erano più tanto giovani, a conquistare l’amministrazione comunale, governando per anni la vita cittadina insieme a Forza Italia. Quando invece i gruppi della sinistra esterni al PCI non lasciarono tracce, neppure individuali, nella politica e nell’amministrazione locali [4]. Come è potuto accadere? Questa è una delle domande a cui varrebbe la pena tentare di rispondere; forse anche da qui potrebbe aprirsi qualche spiraglio di comprensione sugli anni più recenti, fino a quelli che stiamo ora vivendo.

NOTE:

[1] Fra queste deve essere ricordata Miranda Salvadori, che rappresentò un riferimento importante per le prime femministe.

[2] Mi riferisco agli avvenimenti (16 marzo 1968) successivi alla “Battaglia di Valle Giulia” (1° marzo 1968). Giulio Caradonna, che era presente, riferì dell’intervento di “minatori di Grosseto” (https://forum.termometropolitico.it/564095-il-68-nero-almirante-guido-gli-scontri-all-universita.html). Devono avergli fatto credere che Giovanni Ciaramella, noto repubblichino già condannato nel “processone” del 1946 contro i gerarchi e militi della RSI, riconoscibile nelle foto accanto a Almirante, fosse un minatore in pensione. Anche se non si può escludere che due o tre autentici minatori di Gavorrano o Niccioleta ci siano davvero stati, reclutati magari da qualche caposervizio della Montecatini che non sarebbe difficile identificare.

[3] Se ne trova qualche eco in un libro recente che ha avuto notevole successo: Teresa Ciabatti, La più amata, Mondadori, Milano 2017

[4] Un’analisi diversa dovrebbe essere fatta per i comuni diversi dal capoluogo.

Articolo pubblicato nel maggio del 2019.




1/2 – Per una storia dei movimenti giovanili a Grosseto tra gli anni Sessanta e Settanta (*)

È possibile scrivere la storia dei movimenti giovanili di cinquant’anni fa?

Ma, prima ancora: ne vale la pena?

C’è da chiedersi infatti se ripensare “quel” passato in termini storici non sia una perdita di tempo; o, peggio, se non significhi distogliere gli occhi da ciò che ci accade intorno e quindi rassegnarsi all’incapacità di affrontare i problemi che sarebbe urgente invece risolvere qui e ora. Si deve ammettere che, almeno a prima vista, la vita attuale ha poco a che vedere con vicende vecchie di mezzo secolo: sarebbe certamente patetico appassionarsi alle polemiche che attraversarono allora il movimento studentesco o tornare a scaldarsi per le divergenze strategiche all’interno del PCI in vista del “compromesso storico”. C’è chi sostiene, del resto, che ben difficilmente la storia sia di qualche utilità nelle vicende attuali; figuriamoci, verrebbe da aggiungere, la storia locale: per di più di una piccola città, come Grosseto, ai margini perfino della “provincia” italiana più marginale. Volendo comunque rievocare quegli eventi, non ci si può stupire che si preferisca allora fare a meno della storia e accontentarsi della memoria di qualche testimone, possibilmente disposto al gioco di riconoscersi, da giovane, in qualche vecchia foto.

Non credo però che sia questa, necessariamente, la risposta alla domanda che ho posto: se ne valga la pena. Intanto le ragioni della storia, perfino di “quella” storia, pur così marginale, contrastano anch’esse una rassegnazione: quella di chi rinuncia a comprendere davvero il passato. Si può capire che ciò comporti, in certi casi, il fastidio di riconsiderare anche la propria storia e si tenda perciò a evitarlo, piuttosto che andare a vedere se esista un filo, quantunque tenue, che unisca il passato al presente. Ma se questo filo esiste – e l’indagine storica potrebbe aiutare a trovarlo e a dipanarlo – potremmo anche sperare di capire qualcosa di ciò che sta accadendo oggi. Diversamente, come potremmo pensare di affrontare il presente e provare a immaginare il futuro?

Ci sarebbe poi da sgomberare il campo da immagini false e fuorvianti e anche questo dovrebbe essere il compito della riflessione critica. Non c’è dubbio, che riguardo ai movimenti giovanili degli anni sessanta e settanta – diciamo pure per brevità: riguardo al movimento del Sessantotto – circolino analisi a dir poco approssimative, oltre a mitologie di incerto fondamento. Stando, ad esempio a una “vulgata”, avvalorata anche in ambienti dai quali non ci si aspetterebbe, il frutto immediato e perfino scontato del Sessantotto sarebbe stata la cosiddetta “lotta armata”. Questa lo riassumerebbe tutto e senza residui, restituendocelo come in uno specchio a cui non si può che prestare fede. Insomma ci sarebbe stata in Italia una “guerra civile”, sia pure – aggiunge qualcuno – “a bassa intensità”, nella quale, come era accaduto nella Resistenza, gli schieramenti erano solo due: chiunque avesse una posizione critica nei confronti dello stato, del capitalismo, della cultura dominante e così via non poteva non sentirsi rappresentato dai  “compagni” in armi[1]. Proprio questo, del resto, è ciò che raccontano i reduci di quella “lotta armata”, senza differenza tra irriducibili e pentiti: tutti diventati incredibilmente loquaci e tutti devotamente ascoltati senza eccessiva considerazione per i crimini di cui eventualmente siano stati giudicati colpevoli; quasi fossero, essi e essi soltanto, gli interpreti autentici di quell’epoca. Nessuno che denunci la presunzione e l’arroganza di chi arbitrariamente si assunse allora il compito, e continua ad assumerselo, di parlare a nome dell’intero “movimento”, addirittura, come essi amano dire, di un’intera generazione. Il brigatista, insomma, come evoluzione coerente o addirittura obbligata del “sessantottino”.

Del resto, l’altro “ideal-tipo” di quegli anni sembra non possa essere altri che il tossico.

Roma, febbraio 1968, manifestazione di studenti davanti alla Facolta' di lettere

Roma, febbraio 1968, manifestazione di studenti davanti alla Facoltà di Lettere

Ne consegue l’immagine di una generazione, appunto, affollata da brigatisti rossi e consumatori di droghe più o meno pesanti, con l’aggiunta, a completare il quadro, di qualche terrorista nero e qualche stragista. A chi si salvò, scampando alla morte per overdose o per arma da fuoco, a chi non si arrese alla malattia mentale, a quanti riuscirono a evitare le patrie galere, non sarebbe poi rimasto altro da fare che scomparire “nel privato”; a meno che invece, ma questa è la ripetizione di una storia ancora più vecchia, non abbia trovato il modo di assestarsi su posizioni di potere, rinnegando tutto ciò che fino allora aveva fatto e era stato.

Ecco: a tutto questo credo che si debba reagire, anche in riferimento a una situazione marginale quale quella di Grosseto, proprio con le ragioni e con il metodo della storia. Se ci si limita infatti a rievocazioni fondate su memorie vacillanti e prive di riscontri, buone al più per ritrovi di vecchi amici in vena di nostalgia, si finisce proprio per avallare quelle narrazioni. Operazioni del genere non fanno che sovrapporre alla tragicità di quegli anni una patina folcloristica, per non dire goliardica, comunque provinciale, che impedisce di mettere a fuoco gli avvenimenti e ne ostacola la conoscenza e la comprensione, evitando per di più di fare i conti con abbagli e errori, che ovviamente ci furono, e molti. In tal modo i solchi tra le generazioni, anziché colmarsi, si approfondiscono. Una cosa è certa: le generazioni successive non hanno interesse a malinconie senili vagamente autoassolutorie; hanno il diritto piuttosto di sapere che cosa sia effettivamente successo. È questa una questione di responsabilità, sia del testimone che dello storico[2].

D’altra parte, anche quando si mette in evidenza l’impatto di quel movimento sul costume, sulla morale corrente, sulla stessa mentalità e si sottolinea, giustamente, la sua radicale portata innovativa, che si presentò addirittura come rottura generazionale, si tende a dimenticare che fu anche, e forse soprattutto, un movimento politico, che si propose di incidere sugli equilibri che si erano consolidati – e non solo in Occidente – nel ventennio successivo alla guerra. Dunque anche riguardo ai suoi esiti politici andrebbe storicamente valutato. La possibilità di un giudizio di inadeguatezza o di vera e propria sconfitta non dovrebbe costituire motivo per tacere di quella “politicità”, sempreché, di nuovo, non ci si fermi alla sensibilità dei testimoni, che potrebbero ancora sentirsi in essa troppo coinvolti per rievocarla obiettivamente, o potrebbero, al contrario, non avvertirla: ma sarebbero probabilmente gli stessi che neppure allora – ma solo per loro miopia – l’avvertirono.

Quanto alla possibilità. È ovvio che, al netto di eventuali entusiasmi di ritorno per le mitologie sessantottine, non si possa fare a meno dei testimoni. Purché le testimonianze che si raccolgono e si utilizzano siano sottoposte ai criteri di quella che viene definita “storia orale”, che è ormai una disciplina con propri metodi e un suo preciso statuto epistemologico[3]. Occorre la consapevolezza che ben difficilmente potremo contare su una memoria condivisa e sarà dunque necessario ascoltare versioni diverse e non necessariamente sovrapponibili, se vogliamo evitare di accreditare verità totalmente o in gran parte arbitrarie [4].  Bisognerà inoltre che le testimonianze siano confrontate con documenti scritti, fotografici, filmici. Alcuni archivi sono già disponibili, altri, quello della questura ad esempio, prima o poi lo saranno. L’ISGREC ne possiede alcuni che fanno capo a partiti, a organizzazioni politiche e a associazioni, come ad esempio quella dei genitori di giovani tossicodipendenti, o il “Centro Donna”, che ha raccolto documenti dell’UDI e del Collettivo femminista. C’è poi la stampa: la cronaca locale di giornali regionali. Un lavoro difficile, ma possibile: ci sono giovani storici in grado di farlo con grande competenza. Non sta a me indicare le piste documentali da seguire. Basta sapere che queste piste esistono, come esiste ormai una bibliografia locale di base, almeno per alcuni argomenti settoriali, ma connessi al fenomeno dei movimenti giovanili: penso alla storia delle donne, alla questione della malattia mentale e della psichiatria[5].

Copertina del n. 14-15 di "Nuovo Impegno", aprile 1969, contenente la cronaca e un'analisi politico-ideologica dei fatti della Bussola (31 dicembre 1968)

Copertina del n. 14-15 di “Nuovo Impegno”, aprile 1969, contenente la cronaca e un’analisi politico-ideologica dei fatti della Bussola (31 dicembre 1968)

Vorrei piuttosto suggerire una traccia cronologica e qualche orientamento tematico a quanti volessero accingersi a uno studio rigoroso e criticamente avvertito. Con l’avvertenza, appunto, che questa proposta, pur dovendo – credo – essere presa in considerazione, sarà soggetta essa stessa a “falsificazione”, sulla base di documenti e testimonianze eventualmente discordanti.

Si dovrebbe intanto andare a vedere che cosa c’era in questa città prima del ’68 e che cosa cambiò in quell’anno. I movimenti giovanili dei partiti democratici – quello comunista, ma non solo – erano sicuramente aggregazioni consistenti fin dai primi anni del dopoguerra. Anche il MSI ebbe sempre un seguito a livello giovanile. Ma erano soprattutto le parrocchie a raccogliere i giovani sotto le più diverse forme organizzative. Nel corso del decennio dal 1960 al 1970 però cambiarono profondamente i costumi e i comportamenti giovanili; non solo a confronto con la generazione dei padri e delle madri, quella che aveva vissuto la guerra, ma forse in modo ancora più marcato a confronto con la generazione immediatamente precedente, quella nata durante la guerra o appena dopo. Le mode importate dall’estero, in particolare dall’Inghilterra, ebbero un peso decisivo: soprattutto la musica, ma anche l’abbigliamento, le occasioni di incontro, l’utilizzazione dei mass-media. Per quanto riguarda i giovani cattolici incise a fondo il rinnovamento fatto intravedere dal Concilio. Sia i giovani cattolici che quelli di sinistra trovarono nel tema della pace un elemento comune di interesse, sul quale comunque ancora non riuscivano a incontrarsi, e frequente per loro cominciava a essere il riferimento al movimento pacifista e per in diritti civili in USA. La guerra nel Vietnam, ma anche l’invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe del Patto di Varsavia, furono avvertite come rotture dell’impegno di pace che era seguito alla sconfitta dei fascismi e che mostrava invece, nella logica della “guerra fredda”, tutta la sua precarietà e il suo inganno.

Volendo indicare avvenimenti significativi, viene da pensare alle iniziative di solidarietà dopo l’alluvione del 1966: gli interventi assistenziali delle parrocchie, il recupero dei libri della biblioteca. Personalmente ricordo molto bene Roberto Ferretti in divisa da boy scout (AGESCI) impegnato a regolare il traffico dei soccorsi nel Viale Matteotti, ancora invaso dal fango. Non fu ovviamente come a Firenze, ma il clima era quello. Una forte eco aveva avuto nell’aprile di quell’anno l’uccisione a Roma dello studente Paolo Rossi ad opera dei fascisti, in seguito a cui i giovani comunisti tentarono anche a Grosseto una mobilitazione nelle scuole superiori.

Intanto gruppi di cattolici cominciarono ad avere momenti di aggregazione esterni alle parrocchie, che resero possibile la lettura collettiva di testi inusuali, come ad esempio “Lettera a una professoressa” e facilitarono rapporti con realtà già più vivaci di altre città. Mentre a sinistra fu il PSIUP a raccogliere le inquietudini giovanili che cominciavano a orientarsi verso una rottura della tradizione resistenziale ormai ingessata e verso una distinzione rispetto alla gestione pluridecennale del potere locale, da cui invece i giovani comunisti, più fedeli generalmente ai costumi familiari, facevano fatica a staccarsi.

E fu dunque il ’68.

Fu, anche a Grosseto, il Sessantotto degli studenti. Contatti con i giovani lavoratori li mantennero i circoli comunisti e in futuro il PCI ne avrebbe tratto frutto.  Fu però nelle scuole, ben prima che nelle sezioni di partito e nelle federazioni giovanili, che si fece sentire forte il vento della rivolta, alimentato dal maggio francese, ma anche da quanto stava accadendo nelle università italiane, a Roma, a Pisa, quindi dagli avvenimenti praghesi e dalle notizie che giungevano da oltre oceano, in particolare l’uccisione di M.L.King.  Gli elementi più ricettivi si accorsero che il loro cerchio poteva allargarsi con una facilità che sarebbe stata inimmaginabile solo qualche mese prima. Si resero conto che, nonostante la denuncia di Don Milani contro la scuola di classe, la scuola media superiore era ora frequentata da molti studenti che non provenivano da ceti sociali privilegiati e erano ormai disposti a opporsi alla borghesia che, spalleggiata da un ceto professorale conformista quando non apertamente reazionario, fino ad allora vi aveva spadroneggiato: con i suoi pregiudizi, il suo perbenismo, la sua ipocrisia condita di cattolicesimo pre-conciliare, i suoi ridicoli riti goliardici. All’interno della stessa borghesia del resto, quella colta, delle professioni, la frattura generazionale era ormai in atto.

A questo punto ci sarebbe bisogno di un affinamento e di una precisazione della cronologia, perché gli avvenimenti si susseguirono rapidamente[6]. Ci fu l’occupazione del Liceo classico, che è l’episodio più spesso ricordato; ma ci fu anche una serie di assemblee al Liceo scientifico molto partecipate, convocate su documenti politici elaborati autonomamente dai promotori dell’agitazione; la manifestazione per Jan Palach, indetta dalla destra sotto lo sguardo benevolo dei fascisti e poi condotta dagli studenti di sinistra, a costo di qualche scontro fisico; ci furono altre manifestazioni di piazza e un’occupazione dell’Istituto professionale, alla quale tentarono senza successo di partecipare anche studenti di altre scuole. Nel novembre 1969 ci fu una grossa partecipazione studentesca alla manifestazione indetta dai sindacati in occasione dello sciopero generale per la casa.  Iniziarono inoltre riunioni politiche pomeridiane nella sede del Teatro sperimentale a cui partecipò anche qualche studente universitario. L’iniziativa spontanea nelle scuole era sostenuta in vario modo, sia pure con qualche titubanza, dalla FGCI, ma l’orientamento politico veniva soprattutto dal gruppo giovanile del PSIUP. Si può aggiungere che alcuni volantini per gli scioperi furono ciclostilati nella sede dell’Azione cattolica. Intanto andava coagulandosi un gruppo anarchico, che niente aveva a che fare ovviamente con l’anarchismo storico maremmano da tempo esauritosi.

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Servizio d’ordine a una manifestazione della sinistra rivoluzionaria

Un passaggio importante, che meriterebbe di essere ricostruito con documenti e testimonianze (non impossibili da trovare), fu la stroncatura sul nascere, da parte del PCI locale, del tentativo di costituire un nucleo della frazione del Manifesto, espulsa, a livello nazionale, dal partito. Il gruppo che si ritrovava al Teatro sperimentale aveva infatti un contatto diretto a Roma con quella frazione attraverso un elemento proveniente dal PCI locale che sembrava possedere tutti i requisiti di un leader. Sta di fatto che questa persona sparì da un giorno all’altro e non fu più vista in città. Si disse che aveva trovato (“gli avevano trovato”) lavoro altrove. In tal modo il pericolo che il PCI più temeva, una scissione locale del partito, fu scongiurato e per qualche tempo il Manifesto non fu presente a Grosseto. Si ripresentò dopo qualche anno ad opera di studenti universitari che però svolgevano a Grosseto solo un’attività sporadica.

Se qualcuno pensò di aver arginato in questo modo il movimento, dovette presto ricredersi. I giovani psiuppini che nel panorama locale avevano mostrato di essere i più sensibili ai segnali che provenivano dai movimenti studenteschi universitari e soprattutto dal Potere operaio pisano, cominciarono a sentirsi stretti nel loro partito. Ben presto costituirono un gruppo autonomo (il Gruppo di Azione Operaia, GAO) che, attenuando l’interesse verso gli studenti, tentò interventi nelle fabbriche di confezioni e abbigliamento che allora esistevano in città, andando incontro anche a denunce e processi. L’unico che rimase infine nel PSIUP, con il ruolo di funzionario stipendiato, fu Roberto Ferretti.

I cattolici furono posti di fronte all’incompatibilità dell’attività nel movimento studentesco con la permanenza nelle organizzazioni ufficiali della chiesa, con la conseguenza dell’abbandono di queste ultime da parte dei nuclei più attivi, dai quali scaturirà un gruppo cristiano interconfessionale che manterrà una continuità per tutti gli anni settanta e una presenza militante nelle organizzazioni locali della sinistra, con un riconoscimento anche esterno alla provincia attraverso i Cristiani per il socialismo e le Comunità cristiane di base.

Il movimento nelle scuole superiori si trovò di fronte alla difficoltà del ricambio dei nuclei che lo avevano diretto: terminato il ciclo di studi superiori, questi si trasferivano nelle sedi universitarie interrompendo ogni contatto. Soltanto un gruppo di studenti del liceo classico continuò a incontrarsi, per lo più in abitazioni private e al di fuori di qualsiasi riferimento a organizzazioni politiche, per studiare i classici del marxismo.

Lo stallo del movimento studentesco poteva essere superato solo con l’intervento di organizzazioni dotate di una certa stabilità. La FGCI non era ancora in grado di svolgere questo ruolo, perché fortemente condizionata dalla diffidenza mostrata dal partito verso le agitazioni giovanili; diffidenza che a livello nazionale, fu soltanto attenuata dall’incontro avuto da Longo nel 1968 con i principali esponenti del movimento studentesco romano, allora non ancora strutturato nelle diverse organizzazioni che di lì a poco si sarebbero costituite. Si presentò quindi (inverno 1971/1972) un’organizzazione (Lega dei comunisti) che aveva la sua base a Pisa e derivava dalla scissione (e scioglimento) del Potere operaio avvenuta all’indomani dei fatti della Bussola (31 dicembre 1968)[7]. Non fu tanto quel drammatico avvenimento a portare a conclusione una delle esperienze più significative del Sessantotto italiano, quanto piuttosto l’esasperazione di preesistenti divergenze ideologiche, dalle quali parve allora di non poter prescindere, nella ricerca quasi spasmodica di un’alternativa anche ideologica al PCI, che avesse definitivamente ragione del “riformismo” irrimediabile di quel partito. Parve inevitabile la separazione tra quanti confidavano esclusivamente sulla spontaneità rivoluzionaria, prima degli studenti, poi anche degli operai e quanti invece ritenevano che tale spontaneità dovesse trovare un orientamento strutturato, dunque un’organizzazione in grado di incidere politicamente sulla realtà. La nuova organizzazione si valse a Grosseto dell’attività militante non più saltuaria di studenti universitari e si rivolse in primo luogo a consolidare una base tra gli studenti delle superiori, a cominciare dai più giovani. Raccolse immediatamente, con poche eccezioni, ciò che rimaneva del GAO e sviluppò un intervento di agitazione nelle scuole aperto a tutti, anche agli appartenenti a altri gruppi e organizzazioni, ad eccezione dei fascisti, i quali comunque non di rado si mostrarono disposti a rinnegare i propri trascorsi per partecipare al movimento. Ci fu il tentativo di orientare politicamente il ribellismo giovanile, ancora molto forte, a partire dai bisogni materiali degli studenti, incoraggiando una pratica di partecipazione e di democrazia, che presto acquistò ampia visibilità nelle scuole (senza distinzioni ormai tra licei e istituti tecnici) e divenne maggioritaria nel movimento. Si cercò anche di valorizzare e vivacizzare l’antifascismo tradizionale, facendo partecipare comandanti partigiani, come ad esempio Angiolino Rossi (Trueba), alle assemblee scolastiche.

Il consolidamento delle organizzazioni politiche giovanili era del resto una tendenza generale e portò anche a Grosseto a un chiarimento anche nelle posizioni individuali. Di conseguenza la stessa FGCI si rafforzò notevolmente, raccogliendo anche militanti vicini in precedenza alle posizioni che quell’organizzazione definiva “estremiste”. Comparve in seguito anche Lotta continua, che a Pisa aveva rappresentato la parte maggioritaria uscita dalla scissione del Potere operaio e costituiva appunto l’ala “spontaneista” del movimento, pur dotandosi presto anch’essa di strutture organizzative sempre più consistenti. La presenza di altre organizzazioni che rappresentavano ormai un riferimento per la base studentesca impedì che Lotta continua avesse a Grosseto un ruolo decisivo, come invece ebbe nelle maggiori città italiane, dove la sua visibilità divenne spesso preponderante. Nessuna altra organizzazione, a parte talvolta il piccolo gruppo anarchico, svolse attività politica tra gli studenti.

12 gennaio 1974, Grosseto. Manifestazione di minatori e studenti

12 gennaio 1974, Grosseto. Manifestazione di minatori e studenti

La Lega dei comunisti si pose ben presto l’obiettivo di un intervento operaio, attraverso volantinaggi di fronte ai luoghi di lavoro e la costituzione di nuclei di fabbrica. Problema questo che la FGCI risolveva facilmente potendo contare sulla solida base operaia del PCI, mentre il PDUP (il resto del PSIUP non confluito nel PCI e unitosi in seguito con il Manifesto) puntava a allargare la sua presenza tradizionale nel sindacato, riuscendo effettivamente a raccogliere numerosi militanti nelle categorie della scuola, dei bancari, dei metalmeccanici e dei postelegrafonici. Neppure la Lega dei comunisti, del resto, era più ormai un’organizzazione esclusivamente studentesca: alcuni dei suoi membri assunsero ruoli dirigenti nella cosiddetta sinistra sindacale. Si può ricordare, a questo proposito, la partecipazione degli studenti grossetani all’occupazione delle miniere amiatine, da cui derivò una grossa manifestazione di operai e studenti a Grosseto, che colse di sorpresa la segreteria della Camera del lavoro.

*La seconda parte di questo articolo sarà pubblicata la prossima settimana QUI

NOTE

(*) Ringrazio Stefania Cecchi, Silvia Guerrini, Marco Turbanti e Pier Francesco Minnucci delle osservazioni e dei consigli che mi hanno dato e di cui ho tenuto conto per stendere questa breve nota. La responsabilità di ciò che ho scritto è però soltanto mia. Grazie anche a Luciana Rocchi, Antonella Piani e Barbara Solari che l’hanno letta prima della pubblicazione.

[1] Si consideri però questa riflessione di Luigi Ferrajoli: “È utile ricordare che in Italia, negli anni del terrorismo, su una cosa tutti concordammo – destra e sinistra, critici e difensori delle leggi dell’emergenza -: nel negare ai terroristi lo statuto di belligeranti e perciò nel rifiutare la logica di guerra che i terroristi volevano imporre al nostro paese” (L.Ferrrajoli, Manifesto per l’uguaglianza, Laterza, bari, 2019, p. 278, n. 23).

[2] Ma anche dell’antropologo. Va da sé che poeti e romanzieri, gli artisti in genere, si attengono a ben diversi, del tutto legittimi, codici deontologici.

[3] Il riferimento d’obbligo, dal punto di vista sia concettuale che metodologico, è: Giovanni Contini, La memoria divisa, Rizzoli, Milano 1997.

[4] Bella e coraggiosa la rievocazione di una vicenda familiare grossetana degli anni Settanta proposta recentemente da Vanessa Roghi (Vanessa Roghi, Piccola città. Una storia comune di eroina, Laterza, Bari, 2018), che tuttavia presenta un’immagine parziale e non del tutto attendibile dell’ambiente locale, delineato unicamente sulla scorta di poche testimonianze e scarsi e discutibili riscontri documentali. 

[5] Luciana Rocchi-Stefania Ulivieri, Voci, silenzi, immagini. Memoria e storia di donne grossetane (1940-1980), Carocci, Roma, 2004. Matteo Fiorani, Follia senza manicomio. Assistenza e cura ai malati di mente nell’Italia del secondo Novecento, ESI, Napoli, 2012.

[6] La necessità di un’ulteriore messa a punto cronologica si ricava anche dalla lettura, peraltro di notevole interesse, del contributo postumo di Roberto Ferretti, apparso di recente a 34 anni dalla scomparsa dell’autore (Roberto Ferretti, Contestazione studentesca: il Sessantotto a Grosseto, in: Il ’68 in Maremma, a c. di Flavio Fusi e Paolo Nardini, Effigi, Arcidosso, 2018). Sembra purtroppo che i documenti a suo tempo utilizzati (sia pure senza riferimenti puntuali) per la stesura, siano andati irrimediabilmente perduti.

[7] Già dalla primavera precedente i collettivi di studio, che si riunivano in abitazioni private, erano orientati, nell’intenzione, almeno, di alcuni militanti alla costituzione di questa organizzazione, che aprì la sua sede, nel centro cittadino, nel mese di settembre 1971. Fu la prima sede a Grosseto di un gruppo di “nuova sinistra”, o “sinistra rivoluzionaria”, o “sinistra extraparlamentare”, come allora preferibilmente era definita.

Articolo pubblicato nel maggio del 2019.




Carmignano nel secondo dopoguerra.

Per la realizzazione di una ricerca sul Carmignanese alla quale stiamo attendendo, abbiamo avuto di recente un interessante colloquio con Riccardo Cammelli, autore de Il Poggio e il Campano (Carmignano, Attucci, 2017), una dettagliata ricostruzione delle vicende che portarono alla nascita del Comune di Poggio a Caiano. Ne proponiano il testo ai lettori di ToscanaNovecento.

 Qual era la situazione a Carmignano dopo la liberazione?

A Carmignano, come nel resto della Toscana, la guerra aveva prodotto danni molto seri. I collegamenti con Firenze, con Prato, con Vinci e con il resto del Montalbano erano problematici a causa delle condizioni delle strade; le case e gli edifici scolastici erano da ricostruire, l’acquedotto non esisteva (i pozzi erano insufficienti e c’era chi pativa la sete). Si tenga presente che a quell’epoca le opere pubbliche – alpari dei piani regolatori – dovevano passare dal vaglio ministeriale, e l’attesa dell’approvazione da Roma rallentava molto la loro realizzazione.

Ed il quadro politico?

Dal punto di vista politico, Carmignano rappresentava (insieme con l’alto Mugello, cioè con i comuni di Firenzuola, Londa, Marradi, San Godenzo e Palazzuolo sul Senio) una delle isole bianche in provincia di Firenze (quello del capoluogo, sotto questo profilo, era un caso più complesso, con caratteristiche sue proprie). Per la DC fiorentina il Carmignanese, come l’alto Mugello, era un’area molto importante: lo era negli anni Cinquanta e Sessanta, quando essa inviò un personaggio di spicco come Ivo Butini a fare l’assessore nel comune mediceo, e lo era successivamente quando a Poggio a Caiano negli anni Settanta fu sindaco Sergio Pezzati. Per tornare alle peculiarità di Carmignano, le frazioni di Poggio a Caiano e Poggetto si distinsero da subito con il risultato del referendum monarchia-repubblica del 1946, votando in maggioranza per la prima, a differenza del resto del territorio. Alle elezioni per la Costituente la DC ebbe il 44,06% dei voti, alle politiche del 1948 raggiunse addirittura il 53,39%. Il partito cattolico governò il paese con giunte monocolori fino al 1960 e circa un terzo dei voti democristiani provenivano dalle frazioni di Poggio a Caiano e di Poggetto, dove viveva un ceto medio fatto in prevalenza di artigiani, commercianti e impiegati pubblici e privati. Il voto cattolico era rilevante anche a Carmignano, dove si registrava una forte presenza di dipendenti comunali, ed in frazioni come Artimino. Le sinistre erano più forti altrove, a Comeana, a Poggio alla Malva ed a Seano. A sinistra votavano parte dei mezzadri, i lavoratori salariati (per esempio gli operai della Nobel) e gli scalpellini di Comeana e di Poggio alla Malva.

Quali furono le principali realizzazioni dell’amministrazione comunale bianca?

Senz’altro il ripristino ed il miglioramento della rete viaria, la costruzione dell’edificio della scuola media a Poggio a Caiano e, nel 1959, l’inaugurazione dell’acquedotto, che venne poi completato negli anni successivi. Per quanto riguarda la realizzazione di quest’ultima opera, fu molto importante l’interessamento del senatore democristiano pratese Guido Bisori, all’epoca sottosegretario agli interni.

 Che giudizio ti senti di dare sugli anni in cui la DC ebbe il controllo del Comune attraverso giunte monocolori (1946-1960)?

Tenendo conto delle risorse limitate del comune – la storia è la medesima per tutti i comuni delle dimensioni di Carmignano – si può parlare di un bilancio complessivamente positivo: Giacomo Caiani e Leonardo Civinini sono stati i sindaci della ricostruzione e, da questo punto di vista, essi hanno certamente raggiunto l’obiettivo minimo: strade asfaltate, scuole di vario ordine e grado, e come già ricordato l’obiettivo fondamentale dell’acquedotto.

Nel 1961 si insediò una giunta DC-PSI presieduta dal democristiano Leonardo Civinini. Come maturò questa svolta?

Maturò per gli stessi motivi che portarono il PSI al governo del Paese: il mutato atteggiamento della Chiesa verso la collaborazione fra cattolici e socialisti dopo l’elezione di papa Giovanni XXIII (1958) e l’attenuarsi della guerra fredda. Molto importante e influente, per quanto riguarda Carmignano, fu poi l’esperienza del centro-sinistra nella vicina Firenze, avviata da Giorgio La Pira nel 1961. Il clima culturale e politico fiorentino della seconda metà degli anni Cinquanta era caratterizzato da un  grande fermento ed anticipava già di alcuni anni il portato del Concilio Vaticano secondo. Era la Firenze di Giorgio La Pira, della giovane segreteria DC di Edoardo Speranza, Nicola Pistelli, Ugo Zilletti, e più tardi di Ivo Butini e Cesare Matteini; la Firenze in cui agivano in provincia e in periferia preti “scomodi” come don Milani e qualche anno più tardi don Mazzi all’Isolotto; la Firenze in cui operava un PSI autonomista, fuori dalla linea morandiana, caratterizzando la sua azione con le aperture di Mariotti e Paolicchi. A questo proposito va ricordato l’apporto degli ex azionisti che entrarono nel PSI: Lagorio, Morales, Codignola per citarne alcuni; a questi si aggiungeva l’esperienza de Il Ponte, di Calamandrei ed Enriques Agnoletti; era infine, ma non ultima per importanza, anche la Firenze del PRG di Edoardo Detti. Ho lasciato fuori da questo elenco il PCI, alle prese con il processo di ricambio del gruppo dirigente con l’VIII Congresso. Guido Mazzoni lascia la guida del partito locale in favore degli “innovatori” Fabiani e Galluzzi, avviando così il cammino di allontanamento dal massimalismo, verso la formazione di una cultura di governo locale che già teneva conto dei “ceti medi”. Tutto sommato il panorama politico offriva qualcosa di straordinario a livello, direi, italiano: un laboratorio politico e culturale  che avrebbe finito per influire in qualche modo sulle dinamiche nazionali, certamente sul resto della provincia e quindi anche su Carmignano.

Due anni dopo fu varata la prima giunta di sinistra PCI-PSI, guidata dal socialista Guido Lenzi. Il centro-sinistra ebbe dunque a Carmignano vita assai breve. Perché?

Dopo le elezioni amministrative del 1960 ci vollero alcuni mesi di trattative per preparare la svolta di centro-sinistra e si arrivò così all’estate del 1961. Un anno dopo, nel luglio del 1962, Poggio a Caiano diventò un comune autonomo e questo segnò di fatto la fine del centro-sinistra a Carmignano. Anche durante il percorso che portò all’autonomia di Poggio, la DC pensava di mantenere comunque il governo dei due futuri comuni. Alla base di tutto ci fu un errore di calcolo da parte dei democristiani, che speravano di governare il nuovo comune, dove erano molto forti, e di tenere comunque Carmignano. L’erroneità del calcolo, che aveva forse più le sembianze di una speranza, fu appurata da Bisori: gli giungevano notizie e impressioni che volle controllare. Chiese allora al personale del ministero di effettuare delle proiezioni elettorali, che dettero questi risultati: Poggio a Caiano sarebbe stata a guida DC, mentre Carmignano sarebbe stata appannaggio dei socialcomunisti. Le speranze ed i calcoli sbagliati venivano smentiti dalla matematica. L’elemento probabilmente ignorato da chi nutriva aspettative ottimistiche derivava dalle conseguenze del distacco di Poggio, che fece scendere i due comuni sotto i diecimila abitanti. Nei comuni con meno di diecimila abitanti si votava col maggioritario e, siccome a livello regionale esisteva un accordo fra socialisti e comunisti per le alleanze nel governo locale, ciò rese impossibile la prosecuzione dell’alleanza DC-PSI.

 Puoi riassumere brevemente le ragioni su cui poggiava la richiesta di autonomia di Poggio a Caiano?

La richiesta di autonomia avanzata nel 1957 aveva due precedenti: altre due richieste – formulate rispettivamente prima della grande guerra e durante il fascismo – erano state infatti respinte. La richiesta del 1957, sostenuta da una raccolta di firme, andò invece in porto entro cinque anni. I fattori della spinta all’autonomia erano di tipo economico, politico ed identitario. Le frazioni di Poggio a Caiano e Poggetto erano in buona parte composte, come già ricordato, da imprenditori, artigiani, commercianti e impiegati. Un ceto medio cosciente del fatto che il comune di Carmignano stesse viaggiando a due velocità: di fronte al boom economico appena iniziato, la parte agricola e collinare stava decadendo, mentre le zone urbanizzate della piana erano partecipi dello sviluppo. L’elemento economico si fondeva con quello politico: la richiesta di autonomia fu facilitata dal fatto che il colore politico dei richiedenti era lo stesso del governo centrale. La DC di Poggio a Caiano riuscì ad interessare e coinvolgere nel percorso il segretario provinciale del partito, Cesare Matteini; il senatore eletto nel collegio cioè Bisori; il parlamentare Giuseppe Vedovato; in vario modo le diocesi di Pistoia e di Prato, e don Milton Nesi, responsabile dei Comitati civici pratesi. Un peso notevole ebbe infine l’elemento identitario. Poggio a Caiano, infatti, aveva sempre avuto una sua peculiarità rispetto al resto del comune: la Villa medicea (poi reale) era il centro culturale, sociale ed economico attorno al quale la frazione si era sviluppata, un “indotto” dalle molteplici valenze, a cui si aggiungeva l’Istituto delle minime suore del Sacro Cuore, altro centro “gravitazionale” religioso, culturale e sociale. Anche la geografia contribuiva a diversificare Poggio dal resto del comune: Poggio, infatti – collocata in pianura, ben collegata con la strada statale a Firenze ed a Pistoia – era sempre stata un crocevia di scambi e non per nulla aveva avuto, nei primi decenni del Novecento, il tram e il telefono, simboli di progresso e di distinzione rispetto ai centri vicini.

Quali sono stati, a tuo parere, gli eventi più importanti nella storia di Carmignano nel secondo dopoguerra?

Sul piano politico va ricordato che Carmignano fu a guida DC fino al 1963, ma certamente merita attenzione la breve e dimenticata parentesi del centro-sinistra ed il distacco di Poggio a Caiano, che portò le sinistre alla guida del Comune. Su quello economico la crisi della mezzadria, maturata negli anni Cinquanta-Sessanta, con le sue enormi conseguenze a livello sociale.

 È corretto affermare che, dopo la fine dell’istituto mezzadrile, Carmignano si è riassestata sul piano economico, trovando un equilibrio che si basa, da un lato, su un’agricoltura che fornisce prodotti di nicchia (vino ed olio, in primo luogo) e, dall’altro, su un temperato sviluppo industriale?

Sì, l’affermazione è corretta. Nel 1961, come ricordò il sindaco Leonardo Civinini in consiglio comunale, c’erano già 2.500 pendolari (su poco più di 4.600 attivi) che andavano verso la piana pratese e fiorentina a lavorare nel settore secondario, nell’industria e nell’artigianato. Negli anni successivi quel numero crebbe, e si ebbero due risposte all’industrializzazione: da un lato la nascita dei laboratori e degli “stanzoncini” tessili presso la casa di abitazione; dall’altro la prosecuzione del pendolarismo verso le zone produttive. Quanto all’agricoltura, sebbene vi fosse qualche fenomeno di sostituzione della manodopera con altra venuta dal sud della Toscana o dell’Italia, il numero degli addetti al settore primario scese senza sosta. Ma, in Toscana come altrove, si riuscì a convertire un dramma economico ed occupazionale in un’opportunità di sviluppo. Da un lato i due “Piano Verde” del 1961 e del 1966, e dall’altro la nascita delle regioni con le deleghe annesse, determinarono una diversa attenzione verso il settore dell’agricoltura. Le colture promiscue, miste, caratteristiche dell’era mezzadrile, lasciarono il posto alle monocolture ad alta specializzazione della vite e dell’olivo. Un graduale ma preciso orientamento guidato dalle aziende agricole locali che hanno consentito di offrire quelle eccellenze del territorio che sono oggi il vanto dell’area carmignanese e poggese. Relativamente agli anni più recenti, va tenuto presente anche lo sviluppo dell’agriturismo, dovuto ad una sensibilità, maturata nella seconda metà degli anni Ottanta, tenendo conto delle esigenze di un turismo che muta abitudini e modalità di permanenza sul territorio, e che allarga i suoi orizzonti al di fuori delle città d’arte toscane.

L’industria è concentrata soprattutto a Seano ed a Comeana (lungo la via Lombarda, l’arteria che collega Comeana stessa a Poggio a Caiano). Quali sono i rami di attività più importanti?

Lo sviluppo della parte pianeggiante del territorio carmignanese ha a che fare con lo sviluppo demografico ed economico connesso al distretto pratese, ed è legato, nei decenni più recenti, a spostamenti di persone da Firenze e Pistoia verso Carmignano e Poggio a Caiano: dalla fine degli anni Sessanta agli anni Ottanta Seano e Comeana crescono: lo sviluppo demografico si accompagna a quello urbanistico, edilizio ed economico. La pianificazione urbanistica di quei periodi, fino agli anni Novanta, prevede aree destinate alla produzione artigianale ed industriale nella zona compresa fra Prato sud, Seano e la periferia nord di Poggio a Caiano, oltre alla zona sviluppatasi successivamente lungo la via Lombarda. Il settore più importante è quello del tessile-abbigliamento, che si pone come indotto di Prato, ma ci sono anche diverse piccole aziende meccaniche.

Articolo pubblicato nel marzo del 2019.




Ebrei in Toscana XX-XXI secolo

Ebrei in Toscana XX-XXI secolo è il titolo di una Mostra tutta concentrata sull’età contemporanea. Perché questa scelta? Le ragioni sono molte e di diversa origine. Intanto perché è il periodo più vicino, quello che storicamente ci coinvolge di più. Ma, e non secondariamente, perché sentiamo il bisogno di ampliare sia la possibilità di una conoscenza più articolata cronologicamente che quella di affrontare questo tema per un pubblico non solo specializzato. L’idea è quella di analizzare la storia della comunità ebraica, così importante per la nostra regione e non solo, focalizzando l’attenzione su quegli avvenimenti più direttamente coinvolti, nel bene e nel male, con il nostro presente. Tale necessità si è particolarmente fatta urgente perché a partire dalla Legge sulla Memoria, istituita nel 2000, la vicenda ebraica toscana e nazionale è stata in qualche modo risucchiata e appiattita sulla tematica delle leggi razziali, della persecuzione e della deportazione. Ci sembra giusto ed opportuno uscire da quel periodo e narrare la storia di una minoranza in un quadro più articolato, più complesso di avvenimenti, un quadro capace di ridare evidenza alle caratteristiche sociali, culturali, politiche di questo gruppo. Evidenziare la loro capacità di collocarsi dentro il panorama delle idee non solo nazionali ma anche internazionali, di partecipare al farsi del destino politico e morale del paese.

famiglia Castelli con figli e nipoti1

La famiglia Castelli con figli e nipoti (Fonte: Archivio privato famiglia Castelli)

L’idea progettuale nasce all’interno di un Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea, quello di Livorno, l’ultimo nato nella rete degli istituti regionali. Può darsi che ad un osservatore esterno questa appaia anche come una decisione piena di arroganza. Noi pensiamo di no. Forti della nostra esperienza di gestione, nella città di Livorno, della grande Mostra della Fondazione Gramsci di Roma su: Avanti popolo. Il Pci nella storia d’Italia. Forti dell’esperienza dell’allestimento della Mostra sui manifesti politici: Rosso creativo. Oriano Niccolai 50 anni di manifesti, abbiamo deciso di affrontare una nuova sfida. L’idea che soggiaceva a questa nostra intenzione poi concretizzatesi era che gli Istituti come il nostro sono a pari dignità di altri enti culturali, sia pubblici che privati, soggetti produttori di cultura, e anche di cultura alta.

L’idea però è divenuta realtà concreta perché si è incontrata con la sensibilità della Regione Toscana che ha accolto il nostro progetto e l’ha sostenuto con generosità sia finanziaria che collaborativa, sia da parte della Presidenza, sia da parte dell’Assessorato alla Cultura. Non solo, durante tutto il periodo di realizzazione abbiamo sempre avuto al nostro fianco gli uffici della Cultura della Regione, in particolare, Massimo Cervelli, Claudia De Venuto, Floriana Pagano, Elena Pianea e Michela Toni e l’appoggio morale e intellettuale di una figura fondamentale per le politiche della Memoria, Ugo Caffaz. E dall’inizio abbiamo avuto a fianco le competenze della Scuola Normale Superiore di Pisa.

Il tema della Mostra si è fatto strada in noi anche perché la città di Livorno era ed è una delle sedi più significative della presenza ebraica in Italia e il nostro Istituto, sin dal suo nascere, ha collaborato e collabora con la Comunità ebraica locale. Questa stessa vicinanza amplia il bisogno di raccontare una memoria dentro la cornice vasta della storia novecentesca, dare la possibilità ai cittadini tutti e in particolare ai giovani, di approfondire i motivi che conducono alla tragedia della Shoah ma anche di raccontare come si esce da quella esperienza e come ci si ricostruttura, sia come comunità, che come singoli.  Il momento in cui comincia a prendere forma questa proposta, non era un momento ancora così tragico come quello che stiamo adesso vivendo. Se ne vedevano però tutte le avvisaglie all’orizzonte. Forse tutti ricordano l’uccisione di tre bambini davanti ad una scuola ebraica di Tolosa, nel marzo del 2012.

Eravamo consapevoli poi che il gruppo di lavoro che avremmo messo insieme avrebbe avuto a sostegno una ricca bibliografia frutto di lavori ultradecennali particolarmente vivaci, come quelli promossi dalla stessa regione Toscana sotto la guida di Enzo Collotti, così come tutto il materiale preparatorio per i viaggi della Memoria che la stessa Regione ha realizzato nel corso degli anni. Eravamo cioè sicuri di essere in buona compagnia.

La volontà di raccontare oltre cento anni di storia con un allestimento espositivo viene dal desiderio di utilizzare una modalità d’approccio capace di parlare anche al mondo dei non addetti ai lavori, e soprattutto ai più giovani. L’utilizzazione nel corpo della Mostra di riproduzioni di carte d’archivio, di copertine di libri, di disegni ma soprattutto di un apparato di riproduzioni fotografiche risultato delle donazioni di famiglie e di fondazioni culturali, arricchisce i testi, già di per sé particolarmente densi. Testi che abbiamo scelto di fare bilingui: in italiano e in inglese, in modo da aprirli alla fruizione di un pubblico potenzialmente molto più vasto di quello italiano. Sono testi che si prestano ad una possibilità di letture trasversali, di arricchimenti di senso, di interconnessioni e di suggestioni. Il team di lavoro che si è raggruppato attorno all’Istoreco, formato da specialiste della tematica come Barbara Armani, Ilaria Pavan, Elena Mazzini oltre alla direttrice dell’Istoreco, Catia Sonetti, si è poi arricchito di altri due narratori che hanno elaborato due pannelli specifici: Enrico Acciai, che ha curato quello sullo sfollamento degli ebrei livornesi, e Marta Baiardi, che ha scritto quello sulle memorie della deportazione. Un materiale esteso, coeso, uniformato da alcune scelte di scrittura condivise e rispettate con acribia che hanno, a nostro parere, dato il tono giusto alla Mostra. La traduzione è stata assegnata ad una specialista, la dottoressa Johanna Bishop, che ci ha garantito la qualità del lavoro. Tutti i nostri sforzi sono stati sorretti dalla volontà di far arrivare l’allestimento sui diversi territori regionali e anche esterni alla Toscana. Perché questo nostro piano si concretizzi, si dovrà incontrare con la volontà degli amministratori locali e con la possibilità di reperire altre risorse per i nuovi allestimenti, ma siamo fiduciosi che il desiderio di compartecipare a questa avventura renderà tutto ciò realizzabile. Del resto questa scelta è anche la strada più sicura per una reale e completa valorizzazione dello sforzo compiuto sia in termini finanziari che in termini scientifici.

Il risultato, di cui solo noi siamo responsabili, è anche il frutto della collaborazione con le diverse comunità ebraiche presenti sul territorio, collaborazione che è stata sempre continua e proficua. I loro presidenti, i loro archivisti e bibliotecari sono venuti incontro alle nostre richieste concedendoci materiali d’archivio e fotografici, sia delle Comunità stesse che dei componenti le medesime, in un rapporto di totale e rispettosa autonomia. Non solo. Abbiamo potuto realizzare alcune videointerviste a esponenti del mondo ebraico, che saranno riversate con un montaggio ad hoc in alcuni video che vanno ad arricchire il materiale documentale della Mostra.

Dal punto di vista del percorso seguito, dopo la stesura del progetto, si passa alla sua realizzazione che vede per oltre un anno tutti gli interessati coinvolti impegnarsi nello studio, nella ricerca archivistica e bibliografica, nella raccolta delle fonti iconografiche. Superata questa prima fase, ci siamo dedicati alla stesura vera e propria dei pannelli e poi alla sua realizzazione digitale con le professionalità specifiche dell’Agenzia Frankenstein di Giuseppe Burshtein di Firenze, in particolare con Cristina Andolcetti, Maddalena Ammanati, Stefano Casati, Federico Picardi e Isabella d’Addazio Quest’ultima fase è quella che ci ha permesso in itinere l’anteprima visiva di quello che andavamo facendo. Occorre dire che il controllo dei contenuti non è mai stato piegato alle esigenze della comunicazione anche se questa ha costretto tutti ad una sintesi espressiva, non proprio consueta per delle storiche e storici italiani. Vogliamo dire però che non ci siamo fatti prendere la mano dalla necessità della “leggerezza”, che nel nostro caso rischiava di farci dimenticare il forte sentimento divulgativo che ci animava. Siamo però stati attenti a tutti i suggerimenti degli addetti ai lavori che ci hanno consentito, perlomeno in parte, di superare certe difficoltà dei temi trattati per veicolare i nostri contenuti nel modo più accessibile possibile. Perlomeno questo era il nostro scopo.

Bagni Pancaldi (Livorno) Anni '30 - Aleardo lattes e famiglia (Archivio privato famiglia Lattes Cabib)

Bagni Pancaldi (Livorno) Anni ’30 – Aleardo lattes e famiglia (Archivio privato famiglia Lattes Cabib)

La Mostra si sviluppa secondo un arco cronologico che va dalla Grande Guerra ai giorni nostri. Presenta anche alcuni pannelli introduttivi, uno sul perché questa Mostra, uno generale sulla presenza ebraica nella regione a partire dal periodo tardo medioevale, e l’altro specifico per l’età liberale, anteprima al secolo XX. Dopo aver analizzato la Grande guerra, la prima vera manifestazione dell’avvenuta emancipazione, ed esserci soffermati sul tema del sionismo, affronta in una sezione di grandi dimensioni, per forza di cose, il ventennio fascista con le colonie e l’impero, analizza sia il fronte degli antifascisti che quello dei sostenitori del regime, le leggi razziali del ’38, la persecuzione del 1943-1945. La Mostra si chiude infine con il secondo dopoguerra, toccando la problematica della ricostruzione dopo il ritorno dai campi, la battaglia per riavere i beni che erano state requisiti, il lento ricollocarsi dentro lo scenario postbellico, i rapporti con Israele. Questa è la sezione per la quale l’apparato storiografico al quale guardare, soprattutto in lingua italiana, è risultato più debole e carente. In ogni sezione analizzata emerge come il gruppo degli ebrei si collochi esattamente alla stessa maniera di tutti gli altri cittadini italiani del momento. Appoggia Mussolini con entusiasmo o perlomeno con un atteggiamento di condiviso conformismo alle opinioni della maggioranza oppure si schiera contro in una opposizione lucida ed eroica con quei pochi che vedono e capiscono prima degli altri il significato del regime e il futuro di guerra e di persecuzione che si intravede all’orizzonte. È possibile comprendere attraverso i nostri testi, e soprattutto con le fotografie a corredo, come fino all’ultimo la consapevolezza di quello che stanno rischiando, la possibilità di perdere i beni e le vite, non sia particolarmente radicata. O forse, accanto a questa sottovalutazione del pericolo, si nasconde l’abitudine plurisecolare a sopravvivere nelle disgrazie, a ridere nel bisogno, ad affrontare con allegria ed ironia le sorti peggiori, carattere che emerge proprio nei frangenti più drammatici. Così si spiega ad esempio la fotografia della famiglia Samaia che mentre sta per uscire dal paesino di Monte Virginio, vicino Roma, il 25 marzo 1944, di nuovo in fuga per trovare salvezza, trova il modo di farsi fotografare e a commento della foto scrive: Via col vento!

Le immagini, a corredo, nell’insieme, racconta più dei testi scritti la “religione” della famiglia che pervade queste comunità. Non viene sprecata nessuna occasione per fotografarsi in gruppo ed il gruppo si sviluppa e si espande attorno alla coppia degli anziani. Particolarmente indicative in questo senso sono le foto a corredo donateci dagli eredi della famiglia Castelli. Ma non sono da meno quelle, più vicine a noi nel tempo, della famiglia Cividalli, Orefice, della famiglia Levi, dei Viterbo o dei Caffaz, della famiglia Samaia, e molte altre ancora. Certo l’amore per la famiglia pervade anche tutti gli altri italiani. Nessuno o quasi ne è escluso. Quello che qui vediamo è la documentazione fotografica dei passaggi importanti: le nozze, le feste di purim, il bar mitzvah per i ragazzi o il bat mitzvah per le ragazze, perché anche se l’adesione alla religione dei padri è, perlomeno fino alle leggi razziali, piuttosto debole, fatta più di consuetudine che di una adesione forte e vissuta con convinzione, importante è attraverso la ripetizioni di ritualità, come la preparazione di alcuni dolci tipici o il pranzo in comune in certi momenti, mantenere la coesione del gruppo. Gruppo nel quale molto spesso vengono inseriti, senza particolare travaglio, anche gli elementi “gentili” assorbiti con i matrimoni misti. Questo come dicevamo sopra fino alle leggi razziali.

Nel secondo dopoguerra, la scoperta della tragedia che si è abbattuta sul popolo ebraico rinsalda le tradizioni, aumenta i viaggi in Israele e la scelta di andare a viverci, riavvicina alla religione dei padri anche chi se ne era distaccato, fino ad arrivare al nostro presente, fatto di piccole e piccolissime comunità orgogliose della propria specificità, molto presenti sul piano culturale e molto attive nel dialogo interreligioso.

La Mostra è arricchita di diversi video in cui scorrono i montaggi tratti da alcune videointerviste realizzate nel corso della preparazione della Mostra. Si vedono donne e uomini ragionare sulla loro appartenenza, sulla storia della loro famiglia, sul loro sentimento religioso, sui conti che hanno fatto come singoli rispetto alla loro maggiore, o minore, o assente, appartenenza alla comunità ebraica.

Naturalmente nella Mostra non c’è affatto tutto quello che si può raccontare su questa minoranza, mancano alcuni pezzi importanti come le vicende, fra l’altro segnate da numerosi episodi di antisemitismo, della minoranza ebraica italiana, quasi tutta di provenienza labronica, in Algeria o in Marocco. Non c’è stata la possibilità di raccontare nessuna storia di genere, anche se attraverso il materiale raccolto, tra cui molte lettere e molti diari inediti, ci siamo fatti un’idea piuttosto articolata delle condizione della donna dentro la comunità ebraica. In qualche modo sicuramente privilegiata perché istruita e capace di saper leggere e scrivere, conoscere una lingua straniera, suonare uno strumento musicale ma assolutamente ostacolata nel suo desiderio di intraprendere libere professioni o attività lavorative vere e proprie. Questo perlomeno fino alla conclusione del secondo conflitto. Come succedeva nelle famiglie non ebree dell’Italia liberale e fascista del secolo scorso. Non abbiamo potuto approfondire il tema dei rapporti con lo Stato italiano sul versante della restituzione dei beni sottratti, né quello dei processi intentati contri fascisti e delatori.

La Mostra poteva chiudersi con l’immagine di una svastica disegnata in anni recenti sulla facciata della sinagoga di Livorno. Abbiamo deciso di no. Non era il caso. Tutto il nostro lavoro ha senso anche perché sottintende il desiderio di un rispetto reciproco nelle riconosciute diversità che all’interno del nostro orizzonte odierno, che non è più quello nazionale, ma perlomeno europeo, vedono di nuovo muri che si ergono, leggi di discriminazione strisciante farsi avanti e ancora rumore di bombe e sangue versato contro istituzioni e luoghi Kasher. Noi pensiamo e percepiamo il nostro lavoro solo come piccolo tassello per un dialogo di pace e ci siamo rifiutati di chiudere con un’immagine senza speranza.

Livorno, 24 ottobre 2016




L’operaio che guidò la Regione Toscana

Gianfranco Bartolini, classe 1927, nasce a Fiesole il 17 gennaio e proprio questa terra, dove abiterà fino alla sua scomparsa nell’ottobre del 1992 segna in modo indelebile la sua attività, politica e istituzionale. Autodidatta (ha la quinta elementare), figlio della sua generazione, dove il mestiere si imparava “a bottega”, all’età di otto anni inizia a lavorare come fabbro presso il negozio del padre Domenico in via Matteotti a Fiesole.

A quattordici era già operaio allo stabilimento delle Officine Galileo dove l’impegno politico e antifascista, certamente attinto in ambito familiare – il padre era stato consigliere comunale socialista prima dell’avvento al potere del fascismo – comincia a farsi largo nell’indole di un ragazzo che, già dalla giovanissima età, mostrava convinzioni culturali e impegno civile. Più volte ricordato come uomo ‘del fare’, Bartolini sussume pienamente quel clima di militanza collettiva, di impegno civile e municipale che caratterizza gli anni successivi al dopoguerra, avendo già partecipato come partigiano alla lotta di liberazione nel 1944. Proprio la Resistenza rappresenta un capitolo molto importante per la sua vita e per la sua città natale, Fiesole. Durante la terribile esperienza del passaggio del fronte nell’estate del 1944, anche quest’ultima fu infatti gravata – in particolare nel mese di agosto – dal peso e dalla violenza dell’occupazione nazista, culminante nel noto eccidio dei tre carabinieri. In questa fase i Bartolini svolsero un ruolo molto importante. Mentre il padre di Gianfranco si impegnò a lungo per aiutare la popolazione locale a sopravvivere nella situazione di emergenza, il figlio – al tempo diciassettenne – fu protagonista di alcune azioni di guerra con la “Banda partigiana di Fiesole” (poi diventata SAP di Fiesole) dipendente dal CLN cittadino fino alla liberazione avvenuta il 1° settembre.[1]

Le Officine Galileo segnano un altro momento fondamentale della sua vita. Dopo aver rivestito il ruolo di Segretario nella Commissione interna della grande fabbrica fiorentina, venne infatti chiamato alla segreteria della Camera Confederale del Lavoro di Firenze negli anni ’60 del XX secolo, diventandone segretario nel 1965. Dirà di lui Giorgio Napolitano che proprio il suo impegno come dirigente sindacale, la sua militanza politica, l’esperienza del lavoro in fabbrica sono state le prove superate con serietà, impegno e sobrietà che gli hanno permesso di diventare un autentico uomo di governo.

Solo 6 anni più tardi, nel 1971, ebbe l’incarico di segretario regionale della Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL), entrando nel Direttivo nazionale della CGIL e della Federazione nazionale CGIL-CISL-UIL.

Ma il legame con le radici rimase sempre inalterato e l’impegno politico lo vide entrare nell’amministrazione comunale di Fiesole giovanissimo. Già nel 1951, all’età di 24 anni, capolista del Partito comunista, riportò 215 voti di preferenza a fronte dei 644 voti ottenuti da Luigi Casini, rappresentante del Partito socialista e figura emblematica dell’antifascismo fiesolano. Alle elezioni amministrative successive (nel 1954, quando lo stesso Casini conseguirà 341 voti e Gianfranco 510) viene rieletto e riconfermato Assessore ruolo che manterrà fino al 1964.

Il suo sguardo attento di Assessore al bilancio non mancava di osservare i limiti oggettivi della cittadina collinare e il difficile rapporto con il capoluogo di Regione; è nel commentare il bilancio del 1964 che ebbe a dire:

Fiesole è oggi sempre più pressata dai bisogni che sono bisogni propri di una città moderna, una città che adesso è un po’ la periferia di Firenze […] È un problema che investe un po’ tutti i Comuni limitrofi, ma specialmente Fiesole ne risente in misura maggiore per cui il suo bilancio va sempre più in deficit. [Noi] non siamo certo in grado, oggi, di poter assicurare a Fiesole questi servizi che dovrebbero essere, io penso, in dotazione ad una città moderna, e forse non lo saremo mai […]. Fiesole ha un po’ il carattere di “Città – dormitorio”, infatti il Capoluogo ha avuto un certo sviluppo edilizio costituito da una serie di villette per il ceto medio, mentre nelle frazioni si è visto uno sviluppo per l’edilizia popolare per operai, ecc. …[2]

D’altro canto l’economia era la sua “fissazione”, non solo per retaggio sindacale, ma anche per la convinzione che il modello toscano dei distretti fosse un successo e che quindi intrecciare impresa, infrastrutture, attrezzature del territorio, mondo dell’università e della ricerca fosse il perno sul quale progettare il futuro. Bartolini aveva la percezione, e ciò emerge spesso nei suoi discorsi, che i meccanismi di globalizzazione in atto stiano portando l’industri italiana, il sistema produttivo, l’economia in generale verso il declino.

Sarà il 1975 a segnare la sua piena maturità politica, quando già Consigliere provinciale a Firenze, venne eletto con la seconda legislatura al Consiglio della Regione Toscana: nella lista del Pci e nella circoscrizione di Firenze, riportò 9.488 preferenza e divenne Vicepresidente della Giunta Regionale (Vicepresidente di Lelio Lagorio e, dal settembre 1978, di Mario Leone) con la responsabilità diretta della programmazione economica e del bilancio.

Alle consultazioni successive, giugno 1980, conquistò 15.489 preferenze e per questo è confermato nei suoi incarichi Vicepresidente e Assessore (sempre a programmazione e bilancio, con Presidente Leone) divenendo – dal 31 maggio 1983 – presidente della Giunta, carica che assume, pur modesto e schivo di carattere, con il fermo impegno di tentare la ricerca di soluzioni di governo e la collaborazione con realtà internazionali facevano perno sull’idea e sulla pratica della programmazione.[3]

Le vicende politiche regionali lo portano, infatti, alla guida di un governo “quasi” monocolore, retto da una scarsa maggioranza che godeva di un’altrettanto scarsa fiducia, soprattutto da parte dei vecchi alleati del Psi, che lo consideravano debole, soprattutto a causa del suo insediamento sociale “limitato alla classe operaia”.[4]

Eppure ci si dovette ricredere e accettare che il temuto monocolore rappresentasse, in realtà, una risorsa volta verso un impegno comune per l’innovazione del sistema produttivo, un confronto diretto con le forze sociali, con l’imprenditoria, con la Chiesa e con le Forze armate. Dall’’85 al ’90, con la fine naturale della terza legislatura, l’alleanza di governo sarà più ampia: una compagine determinata dal rientro dei socialisti e l’avvento dei socialdemocratici; ma per le Regioni saranno anche gli anni più difficili: da una parte il Governo le considera meri uffici decentrati dall’altra il Parlamento legifera  in tutti i campi regionali.

Gianfranco Bartolini affronta la sfida da riformista e regionalista convinto. Del resto, già nel 1984, come Presidente di turno della Conferenza dei Presidenti delle Regioni, aveva consegnato al Presidente della Commissione bicamerale per le riforme istituzionali, Aldo Bozzi, la proposta della Camera delle Regioni. Un Governo Regionale in fieri e in via di stabilizzazione, uno sviluppo delle autonomie locali, un’idea – insomma – regionalista e autonomista della quale Bartolini si fa portavoce e promotore in grado di accettare e gestire le sfide della modernità, facendo perno sull’idea e sulla pratica della programmazione:

Bartolini si cimenta in particolare modo con un’idea di programmazione “concordata e contratta”, e lo fa con modernità e apertura; batte e ribatte su esigenze cruciali di innovazione; non si chiude in vecchie visioni statalistiche ma sostiene “nuovi rapporti tra pubblico e privato”, difende “una sorta di gemellaggi tra la Regione e le imprese”, suggerisce “intese che si propongano di suscitare investimenti e occupazione, di dare risposta ai problemi dello sviluppo tecnologico, di affrontare quelli dell’ambiente e delle infrastrutture”.[5]

Rimarrà in carica per l’intera durata della quarta legislatura del governo toscano, fino al 1990, mantenendo ininterrottamente la delega per le politiche della programmazione e i rapporti con il Parlamento, il Governo e Comunità Europea. Come era nella sua natura, o forse come gli aveva insegnato l’esperienza, negli anni in cui si pone a guida della Regione Toscana non perse occasione per intrecciare rapporti di varia natura: il dialogo e il confronto si sviluppava verso ogni espressione della società toscana partendo dalla cittadinanza, passando per il mondo dell’industria e dell’imprenditoria, rivolgendosi all’associazionismo e alle cariche vescovili, fino alle più alte sfere istituzionali. Questa fitta rete di relazioni rispecchiava la sua naturale tendenza alla concretezza nell’agire locale, legandosi, d’altra parte, a un’interpretazione dei fatti globale e internazionale. Non a caso poi, all’inizio del 1989, di fronte alla Commissione parlamentare per le questioni regionali, traccia un importante bilancio del regionalismo italiano esordendo proprio con la dimensione europea di questo movimento[6].

Gianfranco Bartolini esprime un riformismo forte. Ancorato alla fermezza dei valori, alla fine degli anni ’80 già intravedeva un’era di crisi politica, l’assenza di grandi propositi di rinnovamento dovuta, forse in parte, anche alla paralisi delle istituzioni marchiate da un centralismo soffocante che alimentava “le diseguaglianze e il divario fra le aree del paese, aprendo varchi pesanti a larghe fasce di illegalità e a fenomeni che reclamavano la centralità della questione morale”. La libertà, affermava, non può tradursi nelle ingiustizie e nelle inefficienze che vanno mortificando l’intera società e piegando la democrazia agli interessi dei più forti.[7]

Non solo sull’economia tout-court si basava però la sua azione di governo: la difesa del suolo,[8] il regionalismo, l’autonomia statuaria, le “aree vaste” come risposta alla crisi della società toscana. Su quest’ultimo tema, affrontato per la prima volta in maniera organica in occasione del dibattito in Consiglio regionale, avviato dall’approvazione del Programma regionale di sviluppo 1988-1990, Bartolini svilupperà un’approfondita analisi sulle difficoltà che il sistema policentrico toscano stava affrontando sul piano economico. Se le strategie interne non sono più in grado di garantire le condizioni necessarie e i livelli di efficienza adeguati per attestarsi sui mercati sarà necessario “individuare nuovi ambiti, all’interno dei quali sia possibile stabilire le condizioni necessarie per annullare le diseconomie esistenti e per rilanciare il policentrismo, che è un valore nella nostra regione, ma ad una scala diversa e meno angusta, se vogliamo stimolarne il rilancio e fargli ritrovare il dinamismo del passato”. [9]

Gianfranco Bartolini muore a Firenze il 10 ottobre 1992.

Elena Gonnelli, archivista, direttrice della sezione Montecatini Terme-Monsummano dell’Istituto storico lucchese, collaboratrice dell’Istituti storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea per il quale ha curato l’inventario del fondo G. Bartolini  e la mostra “Gianfranco Bartolini: il sindacalista, l’amministratore, il Presidente”.

Note:

[1] I. Tognarini in La Toscana e il Riformismo: una riflessione a 15 anni dalla scomparsa di Gianfranco Bartolini, Associazione Autonomie Locali Legautonomie Toscana, Pisa, 2009, p. 22.

[2] G. Bartolini. Il governo regionale cit., pp. 13-15.

[3] Archivio Comunale di Fiesole, Delibere del Consiglio Comunale, Serie I, n. 44, 25/03/1964

[4] P. Ranfagni, Il coraggio della sfide, in Gianfranco Bartolini. Un uomo del popolo alla guida della Regione, a cura di P. Ranfagni, Direzione generale della Presidenza Giunta Regione Toscana, Firenze, 2014, pp. 20-24.

[5] G. Napolitano, Presentazione in G. Bartolini. Il governo regionale, a cura di M. Badii, F. Gigli, P. Ranfagni, Edizioni della Giunta Regionale, Firenze,1995, p. 14.

[6] Archivio Gianfranco Bartolini, d’ora in avanti AGB, Scritti e discorsi, b. 10, 33.14, 1989.

[7] I. Tognarini in La Toscana e il Riformismo, cit., pp. 19-28.

[8] Bartolini stigmatizzerà più di una volta la mancanza di una normativa nazionale per la difesa del suolo, lamentando in generale l’assenza dello Stato su queste tematiche, facendo particolare riferimento all’alluvione del 1966 di Firenze e la Toscana. Cfr. AGB, Scritti e discorsi, b. 8, 30.33 e 30.36, 1986.

[9] AGB, Scritti e discorsi, b. 9, 32.15, 1988. Sul concetto di “area vasta” (compresa la Firenze-Prato-Pistoia) e su quello, conseguente, della Città-metropolitana Bartolini tornò molte volte, anticipando il varo della legge 142/90.

Articolo pubblicato nel luglio del 2018.




Il Centro di Documentazione di Pistoia: protagonisti e fonti del ’68 pistoiese

All’ultimo piano della biblioteca San Giorgio, un po’ in disparte rispetto al via vai di studenti che frequentano ogni giorno la biblioteca comunale di Pistoia, si trova il Centro di Documentazione. Entrando, tra scaffali pieni di riviste e manifesti, è possibile incontrare ogni pomeriggio un nutrito gruppo di persone che, a titolo volontario, cura e gestisce un archivio, una biblioteca, un’emeroteca e una casa editrice: un patrimonio di materiali fondamentale per studiosi di tutto il mondo.

Il Centro di Documentazione è nato nella temperie culturale della contestazione del 1968 e ha saputo attraversare le stagioni successive, le problematiche interne e i mutamenti esterni, mantenendo un ruolo originale e serio nel mondo culturale pistoiese e italiano.

A cinquant’anni dal 1968 molte delle realtà nate negli anni della conestazione si sono esaurite, il riflusso nel privato ha spento gli ardori di molte associazioni e ha prosciugato le risorse, non solo economiche, di molte esperienze: non è questo il caso del Centro di Documentazione di Pistoia che ha saputo mantenere salde le proprie radici e, allo stesso tempo, rinnovarsi in un mondo completamente mutato.

Ma com’è nata questa esperienza? Nel 1968 Giuliano Capecchi, Paolo Turi e Carmine Fiorillo ebbero l’idea di iniziare a raccogliere in casa del primo, in via degli Argonauti a Pistoia, riviste e materiali da tutto il mondo relativi ai gruppi cattolici, alle attività politiche delle formazioni extraparlamentari, alle diverse aree della marginalità, alla cultura underground: in generale tutto il materiale scritto, indipendentemente dalla provenienza, purché prodotto dai gruppi della contestazione.

Intorno al materiale raccolto si radunò un gruppo di ragazzi che si autodefinì come “un gruppo di giovani che svolgono un lavoro di ricerca e di informazione sui problemi della “nuova sinistra” italiana e dei movimenti rivoluzionari mondiali, con riferimento anche a certe tendenze esistenti all’interno delle comunità cristiane”.

Ben presto il gruppo corredò il lavoro di raccolta con la pubblicazione di un Bollettino, che dal 1970 divenne Notiziario del centro di Documentazione, per far conoscere le proprie attività e il proprio materiale e per distribuire quello prodotto dai gruppi della contestazione.

Sfogliando i primi numeri della rivista emerge con chiarezza un’iniziale vicinanza del Centro di Documentazione al mondo del dissenso cattolico, cioè a un movimento diffusosi in tutta la Chiesa cattolica dopo il Concilio Vaticano II che cercò di unire la fede cattolica ad un impegno concreto per la giustizia sociale nel mondo.  I temi del bollettino sono emblematici: le lotte degli afro-americani negli Stati Uniti e in particolare l’uccisione di Martin Luter King; i cristiani e la rivoluzione; le vicende dell’Isolotto, famoso caso fiornetino centrale nel dissenso cattolico italiano, con il volume L’Isolotto: popolo di Dio che in seguito fu ripubblicato da Feltrinelli; il doposcuola, sull’onda dell’esperienza di don Lorenzo Milani (morto nel 1967) e a seguito di alcune esperimenti realizzati a Pistoia dagli stessi membri del Centro.

La politica permeava la scelta di ogni argomento; il Notiziario tuttavia non era una rivista di riflessione politica, come molte ne esistevano in quegli anni, ma era un notiziario appunto: un resoconto di quanto accadeva in Italia a livello editoriale nel mondo della contestazione, che fossero pubblicazioni di case editrici o ciclostilati in proprio di gruppi spontanei. Le case editrici di cui si pubblicarono i cataloghi furono tra le altre La Locusta, Jacka Book, la Claudiana, ora come allora di chiara impronta cattolica.

Il Notiziario offriva strumenti di informazione come elenchi bibliografici su determinati argomenti. Il primo dei quali fu sul tema dell’obiezione di coscienza al servizio militare, col preciso intento di fornire un’adeguata documentazione alla diffusa mobilitazione contro l’esercito. Il secondo sulla Chiesa in Italia, o meglio, su una specifica parte della Chiesa in Italia quella delle Comunità di base: «Crediamo che queste esperienze di base, seppur fra loro spesso differenti, siano un preciso segno dei tempi. Queste esperienze e altre che non sono documentate in libri rappresentano la vera Chiesa in Italia». Infine un ultimo tema presente tra i primi numeri del Notiziario – e rimasto al centro delle iniziative anche successive del Centro –  fu il tema della salute mentale. I titoli presentati delle bibliografie erano vari e riconducibili a diverse impostazioni ideologiche: il Centro si proponeva di farli conoscere senza censure e senza giudizi, al solo fine di fornire strumenti di conoscenza. Un’impostazione aperta che rispecchia la natura di tutta la collezione del Centro.

Il Centro di Documentazione non si limitò a raccogliere materiali pubblicati da altri, ma fu fin dalle sue origini anche una casa editrice. Scorrendo l’elenco dei titoli delle prime pubblicazioni si nota come la casa editrice permise un contatto tra la piccola cittadina di Pistoia e alcuni importanti intellettuali di quegli anni. Fu pubblicato a Pistoia Il Cristianesimo nel mondo moderno del pastore valdese Giorgio Bouchard, moderatore della Tavola valdese e presidente della Federazione delle chiese evangeliche in Italia. Fu dato alle stampe Cristianesimo e lotta di classe di Giulio Girardi, sacerdote animatore dell’esperienza dei Cristiani per il Socialismo, un movimento diffusosi dal Cile in Europa e in Italia. Tradotto per la prima volta in Italia un testo di Jürgen Moltmann, tedesco riformato tra i più importanti teologi evangelici del ‘900. Infine, stampato il saggio di Ivan Illich  Distruggere la scuola: sei saggi sulla descolarizzazione, nonostante una controversia con l’editore Mondadori che ne deteneva l’esclusiva e che non mancò di ricordarlo al piccolo editore pistoiese con una visita del proprio avvocato.

Da allora il Centro ha cambiato molte sedi ed è diventato una tappa fondamentale per ogni ricerca sugli anni Sessanta e Settanta del ‘900 perchè è riuscito a preservare un importante patrimonio che oggi è possibile conoscere attraverso il catalogo della rete bibliotecaria di Pistoia e, per quanto riguarda le riviste, il catalogo nazionale dei periodici (ACNP).

Francesca Perugi è dottoranda presso l’Università Cattolica di Milano e membro della redazione dei Quaderni di Farestoria. Ha curato la mostra e l’omonimo numero monografico di QF “Cupe vampe: la guerra aerea a Pistoia e la memoria dei bombardamenti”.

Articolo pubblicato nel maggio del 2018.




Lavoro, fiori e lambrette.

La festa del lavoro in Italia non rinacque, dopo la seconda guerra mondiale, solo come momento politico e istituzionale, ma assunse significati più ampi e partecipati, diventando la rappresentazione di uno spaccato della società nelle sue diverse epoche. Da giornata di astensione dal lavoro e di mobilitazioni si andò allargando, includendo la socialità ed eventi capaci di “mettere in scena” la stessa “cultura” dei lavoratori, assumendo al suo interno eventi sportivi e ludici come i balli, la musica, la cucina. Una festa popolare dunque, come le sagre e feste di paese, da cui trasse forza e ramificazioni. Agli aspetti prettamente rivendicativi e a quelli politici si andò col tempo affiancando una ritualità, un farsi “tradizione”, attraverso un percorso di adattamento e mutamento che ci ha lasciato in eredità un complesso di consuetudini, come la distribuzione dei garofani rossi, radicate nell’immaginario di larghe fasce sociali.

1946: 1 Maggio a MarescaNel secondo dopoguerra i sindacati furono all’opera per rimettere in campo la celebrazione, abrogata dal fascismo. Con la Repubblica il 1° maggio si prendeva un posto, sancito anche dal carattere di festa nazionale attribuitogli dalle istituzioni.
Nel pistoiese si giunse a una prima messa a punto sistematica del suo svolgimento negli anni successivi alla rottura dell’unità sindacale del 1948. Fu un’opera portata avanti dalla CGIL, a partire dal biennio 1950/51, ed in particolare dal sindacato dell’agricoltura, la Confederterra. Il momento centrale si andò articolando attorno al corteo del capoluogo, Pistoia, senza però tralasciare la diffusione locale, esplicata nelle tante più piccole manifestazioni degli altri centri, che andavano da cortei e comizi veri e propri alle “veglie” nell’aia, politicizzando un’antica tradizione del mondo mezzadrile.

Il corteo di Pistoia, salvo qualche minimo cambiamento di percorso, è da sempre lo stesso, una sfilata per le vie del centro cittadino con l’arrivo finale nella piazza del Duomo. La partenza è sempre stata davanti alla sede della Camera del Lavoro. Fin dagli anni ’50 emerse una sua strutturazione interna, a tutt’oggi immutata. La prima parte del corteo riservata alle rappresentanze istituzionali, con i loro gonfaloni, e alla banda comunale, segnale della piena cittadinanza dentro allo Stato conquistata dal “popolo lavoratore” con la Repubblica, seguita da uno “spezzone” più politico, con gli striscioni contenenti messaggi di stringente attualità, ed a ridosso le rappresentanze dei lavoratori, a partire da quelle delle aziende o fattorie in lotta.
Già in quel decennio si fece strada con forza la pratica di non far sfilare solamente i lavoratori e le lavoratrici, ma anche i simboli del loro lavoro, i trattori per le campagne e gli autobus prodotti nella fabbrica cittadina, la Breda. All’unità dei lavoratori, simboleggiata dall’alleanza tra contadini e operai, i “mezzi meccanici”, come venivano chiamati, aggiungevano altri significati simbolici. Erano cioè una dimostrazione di modernità, utili per attirare i giovani e a mostrare con orgoglio il prodotto della fatica e della professionalità dei lavoratori. Sempre a quegli anni risale l’organizzazione della distribuzione dei garofani rossi da parte delle donne, una presenza mai venuta meno.

1969A partire dalla seconda metà degli anni ’50, e con sempre più forza negli anni ’60, intorno al corteo sorsero una miriade di eventi collaterali, dalla lotteria al torneo sportivo, dalle mostre di pittura alla gara di ballo, con il corollario di cene e feste, nel capoluogo organizzate nel parco di Monteoliveto. La data penetrava in profondità nella società locale, divenendo un riflesso delle trasformazioni dell’Italia e degli italiani, con le loro passioni politiche.
Nelle cronache della festa si ritrovano i segnali della Storia, dall’operaio che in una riunione nel 1968 chiedeva maggior attenzione agli studenti alle diatribe tra i vecchi sindacalisti e i più giovani, che nel 1969 pretendevano di sfilare nel corteo con le loro lambrette “smarmittate”, una nota che può sembrare di costume ma che ci racconta, con una battuta, il cambiamento epocale, sociale e culturale, che affrontava l’Italia in seguito al miracolo economico.
Emergevano nuovi attori e nuovi oggetti. E sempre su questa scia vanno lette le preoccupazioni per le infiltrazioni degli autonomi, se non del terrorismo, ma soprattutto il prepotente ingresso del femminismo in piazza del Duomo nel 1977, quando un gruppo di donne dette fuoco al manichino di una strega, danzando in cerchio, dando vita a reazioni impreviste e inaspettate, come quelle della CISL che si schierò dalla loro parte a differenza del PCI che le contestò.

Manifesto CGIL 1 Maggio 1967 Un’altra costante è stata la sempre presente spinta all’unità dei lavoratori. La ritroviamo nei discorsi preparatori tutti gli anni, unita a un’attenzione a far si che fosse il lavoro, con le sue rivendicazioni, il vero protagonista della giornata, prima e sopra la politica. Da qui le continue attenzioni e cure contro le strumentalizzazioni, da qui una costante e lunga ricerca di una celebrazione unitaria tra le organizzazioni sindacali. Una ricerca che a fine anni ’60 era sempre più pressante, all’alba di una grande stagione di lotte e di riforme, tale da suscitare anche l’intervento delle Istituzioni a suo favore.
L’unità nelle celebrazioni fu raggiunta a piccoli passi e faticosamente, dapprima con l’adesione delle ACLI al corteo della CGIL nel 1970, seguita l’anno dopo da quella della CISL, mentre la UIL ancora se ne teneva fuori, duramente criticata, mentre si cercava di allargare la spinta unitaria anche agli studenti, invitati ufficialmente a prender parte al corteo con una lettera del 1971. Solo tra il 1972 ed il 1973 aderiva anche la UIL, dapprima con alcune categorie e poi con tutta la confederazione. Ma l’unità è sempre stata un risultato da tener stretto, rimesso in discussione nel decennio dopo dalla CISL, che nel 1984, in seguito al decreto di San Valentino, sfilava via nonostante fosse duramente criticata dalla Chiesa locale, che dal 1979 aderiva alla giornata organizzando la santa messa nella cattedrale. Una ferita che fu sanata solo quattro anni più tardi, nel 1988, quando nuovamente il primo maggio tornava ad essere celebrato in maniera unitaria.

Tra gli anni ’80 e ’90 iniziavano i primi interventi di rinnovamento della festa nel solco di quella che ormai era la tradizione. Nel 1989 veniva inserita una festa per i bambini, e molti interventi nelle riunioni preparatorie rimarcavano che i trattori non erano solo folklore ma racconto ed espressione del lavoro, di quel mondo agricolo 30 anni prima ancora così importante e presto dimenticato, mentre altri proponevano una nuova popolarizzazione della festa, con feste, pranzi e balli, pratiche di socialità andate perse nel decennio delle grandi passioni dei ’70. Iniziava timidamente a muovere i suoi passi una nuova forma di diffusione territoriale, accanto a quella sindacale, affidata alle strutture che il movimento dei lavoratori nei decenni aveva costruito sui territorio, a partire dai circoli ARCI, che nel passaggio di secolo radicavano una “nuova” tradizione di feste e pranzi. La socialità di nuovo legata al lavoro, alla politica e alle comunità locali, espressione della vitalità di una giornata che ha sempre travalicato i suoi stessi confini.

Le notizie relative alla storia del 1° maggio nel pistoiese sono state tratte dall’Archivio storico della Camera del Lavoro di Pistoia.

Articolo pubblicato nel maggio del 2014.




Ricordando Carlo Onofrio Gori (1949-2017)

Vario e notevole è stato il contributo che il bibliotecario e storico locale Carlo Onofrio Gori, nato a Prato nel 1949, pistoiese d’adozione e scomparso lo scorso 24 ottobre dopo una lunga malattia, ha saputo dare alla storia pistoiese del XX secolo.

Tre sono le direttrici a cui può essere ricondotta la sua attività di storico: la prima, di catalogazione e sistemazione delle fonti, connaturata e favorita dalla sua attività di bibliotecario; la seconda, di studio della storia locale pistoiese, con particolare riguardo al biennio rosso e al ventennio fascista; la terza, di divulgazione al pubblico dei risultati raggiunti.

Fulcro della sua prima attività sono stati, rispettivamente, il censimento delle lapidi, dei cippi e delle targhe pistoiesi e la ricognizione dei periodici giunti al Centro di Documentazione di Pistoia. Il primo, avvenuto nel 1995 con la pubblicazione edita dal Comune di Pistoia Guida ai luoghi della memoria, ha costituito la prima ricognizione sistematica di tutti quei “segni della memoria” che nel corso dei tempi, ma soprattutto nel secolo scorso, le autorità cittadine hanno disseminato nel tessuto urbano.
Il secondo, snodatosi nel corso della costituzione e del radicamento del Centro di Documentazione, ha condotto alla classificazione, tra gli anni ’80 e ’90, delle oltre diecimila riviste accumulate dalla fondazione pistoiese, sorta nel 1970 per raccogliere le testimonianze e le pubblicazioni edite dai movimenti studenteschi, rivendicativi e rivoluzionari italiani e internazionali. La rilevanza della Guida si è quindi esplicata prima di tutto a livello locale e, solo in un senso più lato, a livello nazionale: con uno dei primi censimenti ragionati sulle “memorie di pietra” ereditate dal succedersi di epoche e partiti, Gori si è mosso nella preistoria di uno dei filoni più importanti dell’odierna Public History – ovvero lo studio di come la politica abbia cercato di forgiare, e poi diffondere, una sua peculiare interpretazione dei fatti storici. Più ampie sono state invece la ricezione e la fortuna del Catalogo delle riviste e dei periodici del Centro di Documentazione, diventato ben presto uno strumento di consultazione per tutti coloro che si avvicinino alla ricerca sulla società, la politica e il costume degli anni ’70.

Come storico locale, i suoi numerosi contributi – pubblicati sulle riviste “Farestoria”, “Quaderni di Farestoria” e “Microstoria” – hanno avuto il merito di soffermarsi su personaggi e figure poco conosciute della società e della politica pistoiese. Tra i primi a studiare il biennio rosso, l’instaurarsi del fascismo a Pistoia e le ripercussioni locali delle vicende belliche, Gori è stato tra i primi a dare spazio a due figure quasi dimenticate – ma il cui impatto fu tutt’altro che territorialmente limitato – come il partigiano Pierluigi Bellini delle Stelle.

Bellini delle Stelle, nato a Firenze ma cresciuto a Pistoia, dove studiò al Liceo Forteguerri – e dove si ritrovò in classe insieme a un altro partigiano, Silvano Fedi –, con il nome di battaglia di “Pedro” era il comandante partigiano di pattugliamento sul monte Berlinghera quando Mussolini, travestito da soldato tedesco della Lutwaffe, cercò di varcare il confine dopo l’insurrezione generale. Mobilitando gli abitanti della zona e fingendo di avere a disposizione più armati di quanti non ne avesse realmente, riuscì a impressionare il comandante della colonna, il generale Fairmallen, e a imporgli di poter proseguire verso la Germania solo dopo che l’autoblindo fosse stata perquisita a Dongo – e dopo che Mussolini non fu individuato e arrestato, insieme agli altri gerarchi e all’amante Claretta Petacci, da Bill, il vice di Bellini. Prigioniero del comando di Bellini per alcuni giorni, Mussolini rimase a Dongo fino a quando Walter Audisio, giunto a Dongo per conto del CLN, lo condusse il 28 aprile a Milano per eseguirlo.
A eccezione di un articolo scritto su «L’Unità» pochi giorni dopo e il volume – ormai introvabile – Dongo ultima azione, pubblicato per Mondadori nel 1952, Bellini delle Stelle dopo il conflitto si ritirò a vita privata. Si trasferì a San Donato Milanese, dove sposò Marianna Berio, sorella del musicista Luigi. Grazie all’amicizia con Enrico Mattei, che aveva avuto modo di conoscere durante la lotta partigiana, poté far carriera nell’ENI.

Tutti questi risultati hanno conosciuto poi un’attenta divulgazione che, oltre ai mezzi di diffusione tradizionali, si è rivolta alle nuove tecnologie. Nel 2012 – anno in cui in Italia la Public History godeva di assai ben scarso seguito – Carlo Onofrio Gori inaugurò e aggiornò un blog di storia per poter coinvolgere fette di pubblico fino ad allora ancora trascurate.

Articolo pubblicato nel novembre del 2017.