Una campagna elettorale fiorentina ad “alta conflittualità”.

La parte clerico-moderata si prepara con alacrità all’assalto di Palazzo Vecchio. L’«Unione Liberale», che ne è l’organo, sta per essere sollecitamente battezzata e per entrare in guerra aperta. Tra le forze reazionarie si serrano le file, e non v’è dubbio che la lotta elettorale imminente sarà tra le più vivaci che si ricordino in Firenze: sarà anche altrettanto grave nelle sue conseguenze, e decisiva per la fisionomia politica della città.

Noi sentiamo di non esagerare affatto la portata di questa battaglia (…) Sin che sulla torre di Palazzo Vecchio sventola la bandiera della Democrazia, il fermento di vita nuova per cui le forze democratiche si risollevano in ogni angolo della Regione non può spegnersi e ritornare nella quiete mortale, che la democrazia fiorentina ha tanto cooperato a interrompere col suo esempio e col suo richiamo. Una democrazia stabilmente insediata al governo di Firenze irraggia il calore della sua energia sino ad ognuna delle nostre terre.[1] 

 

Il 5 maggio 1910, anticipando l’imminente convocazione dei comizi per il rinnovo parziale del Consiglio comunale fiorentino, «L’Opinione Democratica», quotidiano fondato e diretto dal futuro Gran Maestro della Massoneria, Domizio Torrigiani, chiamava a raccolta contro il probabile assalto dei clerico-liberali le forze della Democrazia fiorentina, le quali da tre anni governavano Palazzo Vecchio. L’Unione dei Partiti Popolari, un’alleanza bloccarda stipulata tra socialisti, repubblicani, radicali e demo-sociali, aveva infatti clamorosamente vinto le elezioni amministrative generali fiorentine del 1907, spezzando l’intramontabile egemonia dei liberali moderati fiorentini e mandando al governo della città due giunte di sinistra guidate, la prima (1907-1909), dall’avvocato Francesco Sangiorgi – primo Sindaco popolare della città – e la seconda (1909-1910) dal medico anatomista Giulio Chiarugi, entrambi appartenenti al piccolo gruppo dei demo-sociali.

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Domizio Torrigiani, futuro Gran Maestro della Massoneria. Fu candidato nella lista popolare alle elezioni amministrative fiorentine del 1910 quando diresse il quotidiano elettorale “L’Opinione Democratica” (Fonte immagine: Wikipedia, public domain)

Salite al potere con un programma in undici punti nel quale erano state richieste fra le altre cose la municipalizzazione dei servizi pubblici, una riforma tributaria a base progressiva, la laicizzazione delle opere pie, la refezione scolastica gratuita e l’insegnamento laico, le forze popolari avevano dato vita nei tre anni di loro governo a un’esperienza amministrativa di grandi novità in campo sociale e culturale. Tra le principali realizzazioni delle due giunte bloccarde si potevano annoverare: il rilancio dell’edilizia popolare, l’organizzazione di inchieste sulle condizioni di vita e di lavoro nelle fabbriche, una larga opera di risanamento igienico-sanitario (che vide la costituzione dell’Istituto di igiene del comune, la costruzione di un nuovo impianto per il servizio di nettezza urbana e il progetto per il nuovo ospedale di Careggi), la laicizzazione dell’istruzione e dei nosocomi (l’insegnamento religioso nelle scuole fu reso facoltativo e negli ospedali si sostituirono le suore-infermiere con del personale laico appositamente formato), infine misure straordinarie volte alla salvaguardia e alla valorizzazione del patrimonio storico-artistico cittadino (fu istituito l’Ufficio comunale di Belle Arti e Antichità, il Museo del Risorgimento e la Galleria d’arte moderna, nonché avviati i lavori di restauro di Palazzo Vecchio). Queste ed altre misure più propriamente “politiche”, quali il sussidio annuo concesso alla Camera del Lavoro cittadina o l’intitolazione nel 1909 della via dell’Arcivescovado al pedagogista libertario spagnolo Francisco Ferrer Guardia, avevano contribuito a segnare una profonda discontinuità nel governo cittadino rispetto alle precedenti amministrazioni rette dai liberali fiorentini.

Il sorteggio di venti consiglieri su sessanta – tredici popolari (tra cui l’avvocato Giuseppe Pescetti, primo deputato socialista toscano, e Sebastiano Del Buono segretario della Camera del Lavoro di Firenze) e sette monarchici (più due dimissionari) – da rinnovarsi con la convocazione dei comizi fissata per il 19 giugno 1910 rappresentò per l’amministrazione popolare la prima effettiva prova elettorale dopo il successo del 1907. Considerazioni politiche e opposte progettualità municipali si intrecciavano in vista delle urne, riaccendendo la tradizionale conflittualità tra “liberali” e “popolari”, i primi ansiosi di modificare gli equilibri municipali nella speranza di poter rientrare in possesso del governo della città e i secondi decisi invece a consolidare la loro esperienza amministrativa. La giunta Chiarugi a quell’appuntamento aveva cercato di giungere mettendo al sicuro alcuni importanti provvedimenti, quali un progetto di riscatto dei ponti di ferro cittadini e la costruzione di alcuni edifici scolastici, ottenendo però per tutta risposta l’intervento della Giunta Provinciale Amministrativa, controllata dai liberali, la quale bloccò e poi rigettò il progetto di bilancio preventivo per il 1910, agendo, a detta dei popolari, con finalità elettorali. Già in precedenza, la portata finanziaria dei progetti varati dalla giunta Sangiorgi avevano prodotto evidenti difficoltà per l’amministrazione bloccarda, sollevando persino contrasti e dissidi entro i tre partiti popolari alleati.

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L’avvocato Francesco Sangiorgi, primo sindaco popolare di Firenze eletto nel 1907 (Fonte immagine: Wikipedia, public domain)

Nonostante alcune incertezze inziali, alle elezioni parziali del giugno 1910, l’alleanza popolare tra socialisti, repubblicani e demo-sociali venne riconfermata. Il 26 maggio presso la Fratellanza Artigiana d’Italia si tenne l’assemblea delle commissioni elettorali dei tre partiti popolari nella quale si sancì la suddivisione dei seggi all’interno della lista comune, assegnandone 11 ai socialisti, 6 ai repubblicani e 3 ai demosociali. Tra i nomi in lizza, oltre a quelli del Pescetti e di Del Buono, vi erano anche quelli del già citato Domizio Torrigiani (presentato contemporaneamente candidato alle provinciali per il mandamento di Santa Maria Novella), dell’avvocato Michele Terzaghi, direttore del settimanale della federazione socialista fiorentina «La Difesa», del libraio Oreste Gozzini e dell’ex radicale Alfredo Brogi, entrambi candidati repubblicani. Più tardi vennero diffusi un manifesto unico nel quale si difendevano le posizioni conquistate durante la gestione popolare del comune in «fede al programma» del 1907.

Sul fronte opposto, i liberali si presentavano alle urne con una formazione inedita, esito di una profonda e radicale rifondazione delle strutture organizzative del partito avviatasi all’indomani del pesante fallimento subito in occasione delle elezioni politiche del 1909, quando essi avevano perduto contro i candidati dei popolari in tre dei quattro collegi cittadini. Il 30 gennaio 1910 era stata infatti costituita l’Unione Liberale affidata alla presidenza del marchese trentasettenne Filippo Corsini che veniva a raccogliere, rifondendole, tutte le vecchie gradazioni monarchie fiorentine: dai moderati appartenuti alla Patria, Re, Libertà e Progresso (la vecchia associazione dei consorti toscani creata nel 1882) ai democratici della Federazione Democratica Costituzionale, dai giovani liberali borelliani al gruppo degli ex-radicali riuniti attorno alla figura di Lorenzo Piccioli-Poggiali, l’ex ferroviere passato dall’internazionalismo delle origini a posizioni di liberalismo progressista. Si trattava in sostanza di un soggetto nuovo cui corrispondeva una politica di rottura col vecchio moderatismo toscano e di opposizione tanto ai clericali quanto al socialismo. Tra le linee programmatiche del neocostituito sodalizio liberale si trovavano alcune aperture a ipotesi di intervento pubblico nella vita economica, l’ammissione di alcune forme di municipalizzazione dei servizi, un potenziamento dell’istruzione e dell’educazione nazionale e laica intesa anche come base di accesso a una cittadinanza politica più consapevole funzionale a una prossima introduzione del suffragio universale maschile. Sul piano tattico elettorale, invece, veniva dichiarata la piena indipendenza d’azione del sodalizio, che lo poneva perciò a netta distanza dai «partiti che in politica si fanno sgabello della fede e dell’organizzazione religiosa»[2].

Filippo Corsini

Il marchese Filippo Corsini, presidente dell’Unione Liberale ed eletto sindaco di Firenze alle elezioni del novembre 1910, ritratto da Filiberto Scarpelli (Fonte: G. Spadolini, “Firenze fra l’800 e ‘900: da Porta Pia all’età giolittiana”, Le Monnier, Firenze, 1984)

Si trattava di una dichiarazione importante, in quanto per la prima volta veniva espressamente negata la volontà di proseguire sulla strada delle intese clerico-moderate che invece in precedenza avevano spesso caratterizzato la condotta elettorale dei liberali. Simili dichiarazioni urtarono però i clericali del Comitato Cattolico Elettorale cittadino i quali votarono in risposta un ordine del giorno di condanna, salvo poi proporre una propria lista di venti candidati, nove dei quali erano in comune con la lista presentata dall’Unione Liberale. Coincidenza questa che spinse i popolari a rivolgere ai liberali le consuete accuse di clerico-moderatismo. Tra i candidati dell’Unione, al posto dei tradizionali esponenti del patriziato fiorentino che da decenni fornivano i quadri del partito liberale, si trovavano invece per lo più esercenti, commercianti, imprenditori, come gli industriali Giovanni Berta e il fotografo Vittorio Alinari, e persino impiegati subalterni come Giuseppe Mariotti o il ferroviere Virgilio Fontebuoni.

La montante campagna elettorale si dimostrò subito tesa, dando corso nei giorni immediatamente precedenti le elezioni a una serie di tafferugli e incidenti. Dopo che a favore dei popolari erano giunte adesioni da parte degli impiegati postelegrafonici e dell’Associazione del personale dipendente del Comune, una rappresentanza dissidente di quest’ultima organizzò una riunione elettorale presso il Gambrinus nella quale intervennero circa trecento tra impiegati e salariati comunali e al termine della quale fu votato a maggioranza un ordine del giorno di adesione alla lista dell’Unione Liberale. Una serie di disordini scoppiò prima e dopo la riunione nell’adiacente piazza Vittorio Emanuele (oggi Piazza della Repubblica). Qui

[…] Alcuni giovani della Unione Liberale si sono soffermati sotto i portici, ed i numerosi popolari che facevano aia dalla parte del Paskowski hanno intonato il Miserere e l’Ave Maria. Gli altri hanno risposto con grida di abbasso ed i popolari hanno cominciato allora a cantate l’Inno dei lavoratori e l’Inno repubblicano.[3]

Poco dopo altri gruppi di sostenitori delle opposte fazioni, direttisi in Piazza del Duomo, si azzuffavano in Piazza dell’Olio facendo intervenire la pubblica forza.

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Gaetano Pieraccini, medico e deputato socialista eletto nelle file dei popolari alle elezioni amministrative fiorentine del 1910, ritratto da Filiberto Scarpelli (Fonte: G. Spadolini, cit.)

Negli stessi giorni, l’affissione dei manifesti elettorali nelle vie del centro e specialmente in Piazza Duomo e intorno al Palazzo Arcivescovile diviene spesso occasione per il formarsi di manifestazioni spontanee che procedendo incalzate dalla polizia terminano solitamente o in via Martelli (quelle popolari) sotto la redazione dell’«Opinione Democratica» o in via Ricasoli (quelle liberali) sotto la sede dell’Unione Liberale. Quasi ogni volta scoppiano nei cortei tumulti, tafferugli e persino episodi di scontri armati, come accade ad esempio il 19 giugno in via Ricasoli, quando a seguito di alcuni colpi di pistola esplosi nella folla rimangono feriti alcuni manifestanti e vengono di conseguenza effettuati alcuni arresti.

Preannunciatesi con tali segni di conflittualità, quelle del 19 giugno 1910 furono tra le elezioni municipali fiorentine più partecipate dei precedenti due decenni, registrando un’affluenza alle urne del 64%. Il voto assegnò una netta vittoria alla lista dell’Unione Liberale, che vide eleggere tutti e venti i propri candidati. I quattro posti di minoranza vennero occupati invece da candidati popolari: due socialisti uscenti vennero riconfermati (il Pescetti e il ferroviere Alessandro Alessandrini) e due repubblicani (Gozzini e Brogi).

Per i popolari si trattò di un duro colpo che spinse il sindaco Chiarugi, la sua Giunta e tutta la vecchia maggioranza popolare a presentare in tronco le proprie dimissioni come atto di responsabilità morale di fronte alla sconfitta. Con il governo municipale dimissionario, Palazzo Vecchio fu affidato al commissario prefettizio Alfredo Ferrara a cui spettò traghettare l’amministrazione verso nuove elezioni, stavolta generali, fissate per il novembre del 1910. Il rinnovo di tutti e sessanta i consiglieri costituiva per i liberali una grande occasione per mettere in mora l’esperienza delle due giunte popolari e ambire così a riprendere il controllo di Palazzo Vecchio dopo tre anni di assenza. La battaglia elettorale venne inaugurata nella sostanza dallo stesso commissario prefettizio Ferrara con la pubblicazione del bilancio di previsione per il 1911 del Comune nel quale veniva indicato un deficit di un milione e duecentomila lire, stimato a incrementare fino a due milioni e mezzo; con questo documento, tacciato subito dai popolari come un “bilancio elettorale”, si metteva sostanzialmente all’indice la gestione finanziaria delle due precedenti giunte popolari. Per concentrare il fuoco contro il presunto malgoverno dei popolari, l’Unione Liberale, oltreché continuare a fare affidamento su «La Nazione», il vecchio foglio dei moderati toscani, stampò e fece uscire per tutto il periodo elettorale un proprio quotidiano, «La Gazzetta Liberale».

Il nuovo giornale 16 giugno

Un articolo de “Il Nuovo Giornale” del 16 giugno 1910 riporta la notizia di scontri e disordini verificatisi tra elettori popolari e liberali.

Riconfermando nel proprio manifesto il suo programma di «democrazia liberale», l’Unione presentava una lista di maggioranza di 48 candidati con nomi rappresentativi delle più varie tendenze (liberali di destra come Paolo Guicciardini, Alessandro Chiappelli o il nazionalista Enrico Corradini, liberali di sinistra come Mario Aglietti, il futuro sindaco di Firenze Orazio Bacci, Piccioli-Poggiali, Guido Mazzoni e borelliani quali Ademiro Campdonico) che per il loro assortimento non mancarono di suscitare da parte degli avversari l’accusa di costituire una sorta di «arcobaleno che va dal violetto cupo» per non dire «nero», «fino al giallo chiaro e al roseo tendente invano al rosso»[4]. Seguivano poi da parte dei popolari le solite accuse di taciti accordi stabiliti dai liberali con i cattolici e mantenute anche dopo che questi ultimi ebbero dichiarato la loro formale estraneità dalla contesa elettorale.

Entro il fronte popolare, nel frattempo, la situazione si era particolarmente complicata, facendosi strada tra i tre partiti la tentazione di rompere l’unità bloccarda in nome di una linea di intransigenza elettorale. La rottura si ebbe a seguito dell’XI Congresso socialista svoltosi a Milano tra il 21 e il 25 ottobre 1910, dove venne sanzionata la responsabilità dei repubblicani per aver scisso durante le vertenze agrarie scoppiate in Romagna «le forze dell’organizzazione operaia a vantaggio della reazione capitalistica». In ragione del rifiuto delle accuse mosse dai socialisti, la sezione repubblicana fiorentina decise di rinunciare a qualunque trattativa elettorale con i “partiti affini”, maturando pertanto la decisione di uscire dall’alleanza popolare. La defezione dei repubblicani ridusse perciò i contraenti dell’unione popolare a due, dopo che socialisti e demo-sociali ebbero riconfermata la decisione di presentarsi alle elezioni assieme. Mentre perciò i repubblicani presentarono una propria scheda di minoranza, socialisti e demosociali votarono una lista comune di maggioranza di 48 candidati.

Gazzetta 12 nov

“La Gazzetta Liberale”, il foglio dell’Unione Liberale, attacca la gestione popolare del comune di Firenze (12 novembre 1910)

Come già nel turno precedente di giugno, anche stavolta la campagna elettorale raggiunse un’intensità inedita. Senza riguardi fu la lotta per la diffusione delle schede elettorali, l’affissione di manifesti e la mobilitazione degli elettori organizzata quest’ultima ciascuno secondo le proprie possibilità. L’Unione Liberale – riportava sarcasticamente un giornale avverso – aveva disposto ad esempio

che tutti gli elettori unionisti vadano domani mattina a votare in veicolo. Sono stati mobilitati molti fiacres e un grandissimo numero di automobili. Per accedere a questi veicoli vari sono state stampate tessere speciali, di diversa forma e di diverso colore, classificando gli elettori a seconda della loro importanza.[5]

Un gran numero di comizi ed assemblee si susseguirono le une alle altre nei giorni e nelle settimane precedenti il voto, registrando una partecipazione massiva senza precedenti. La sera del 24 novembre, ad esempio, furono circa settemila i sostenitori che si riunirono alla Palestra Ginnastica Fiorentina per assistere alla grande adunanza elettorale dei popolari inaugurata dal segretario della Camera del Lavoro Sebastiano Del Buono. Non da meno i sostenitori dei liberali che in circa cinquemila la sera precedente avevano preso d’assalto il Salone della Pergola per assistere alla manifestazione organizzata dall’Unione Liberale. Numerosi anche i contraddittori organizzati tra sfidanti, come quello tenutosi nella sede dell’Associazione Aurelio Saffi tra il socialista Gaetano Pieraccini e il repubblicano Gino Meschiari. Decisamente in grande stile il “confronto all’americana” che, sotto lo sguardo vigile di poliziotti in borghese infiltrati nel pubblico, si svolge il 25 novembre presso il Teatro della Pergola tra “popolari” e “liberali” nel quale prendono parola e si affrontano sui rispettivi programmi i principali candidati dei due partiti in lotta. Senza precedenti, sono anche però gli incidenti e gli episodi di violenza registratisi al margine di alcuni assembramenti elettorali. Il più eclatante è sicuramente l’aggressione subita dal socialista Gaetano Pieraccini, per la quale la stampa di partito fece ricostruzioni del tutto contraddittorie, scatenando una raffica di accuse da ambo le parti. Secondo il racconto offerto dalla stampa popolare, il medico e deputato socialista, recatosi ad assistere con regolare invito all’adunanza dell’Unione Liberale, sarebbe stato bastonato all’ingresso della sala da alcuni liberali riportando lesioni alla testa e venendo ricoverato a Santa Maria Nuova. Per la stampa liberale, invece, il Pieraccini sarebbe stato erroneamente colpito da alcuni suoi stessi compagni di partito durante il tentativo di entrare senza invito all’adunanza organizzata dagli avversari col celato intento di recare disturbo.

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Si riporta la notizia dell’aggressione subita dal socialista Gaetano Pieraccini all’ingresso del salone della Pergola in occasione di un’adunanza elettorale dell’Unione Liberale (“Il Fieramosca”, 25 novembre 1910)

Il 27 novembre, con una percentuale di affluenza del 62,5%, il voto riconfermò ampiamente la vittoria della lista dell’Unione Liberale, i cui candidati ottennero tutti i 48 seggi di maggioranza. Di questi, 26 facevano ingresso per la prima volta in Consiglio. Tra di loro vi erano: il figlio del deputato Francesco Guicciardini, Paolo, tra i fondatori assieme al senatore Guido Mazzoni (altro eletto) dell’Unione Liberale; il letterato Alessandro Chiappelli; il medico igienista e fotografo Giorgio Roster; lo storico e museologo Giovanni Poggi; i già citati Orazio Bacci ed Enrico Corradini; Giotto Dainelli, figlio del generale ed ex consigliere comunale Luigi e altri ancora. Seguivano quindi i dodici consiglieri di minoranza eletti nella lista dell’Unione dei Partiti Popolari il primo dei quali in ordine di elezione era staccato dall’ultimo dei liberali di circa tremila voti. Tre di questi erano eletti per la prima volta (i socialisti Giuseppe Del Bene, Vincenzo Pugliese e Giovanni Fantechi) a cui si aggiungevano i demosociali Francesco Sangiorgi, Giulio Chiarugi e Vittorio Tarchiani e i socialisti Diego Garoglio, Carlo Corsi, Alessandro Alessandrini, Giovanni Pescetti, Adolfo Capaccioli e Gaetano Pieraccini.

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I socialisti fiorentini rinnovano l’alleanza elettorale dei partiti popolari per le elezioni amministrative del novembre 1910 (“La Difesa” 12 novembre 1910)

Proclamati i nuovi eletti, a capo della nuova amministrazione fu designato dalla maggioranza consiliare il presidente dell’Unione Liberale Filippo Corsini, eletto nuovo sindaco di Firenze nella adunanza del 12 dicembre 1910. Dopo tre anni di gestione popolare del comune, i liberali tornavano così alla guida della città. I propositi del nuovo corso municipale dichiarati in un apposito manifesto affisso alla cittadinanza nel quale ci si augurava che da quelle elezioni potesse avere inizio per l’amministrazione cittadina «un’era nuova di lavoro fecondo, al quale tutti gli eletti, così quelli della maggioranza come quelli della minoranza portino senza ire, senza rancori, il contributo della loro assidua e diligente operosità»[6], sarebbero però stati presto smentiti. A fronte dell’aggravarsi della situazione sociale e politica del paese si sarebbe assistito negli ultimi anni dell’età giolittiana all’approfondirsi della crisi di rappresentatività della classe liberale italiana e della sua incapacità di tenere il passo con le trasformazioni sociali ed economiche del paese. Il protrarsi del conflitto politico tra liberali e popolari (socialisti soprattutto), sarebbe infatti divenuta di lì in poi, e almeno sino all’avvento del fascismo al potere, una costante anche della scena fiorentina.

 

[1] Si serrano le file, «L’Opinione Democratica», 5 maggio 1910.

[2] All’Unione Liberale, «Fieramosca», 26 maggio 1910.

[3] Tafferugli, colluttazioni e squilli di tromba per un’adunanza al Gambrinus, «Il Nuovo Giornale», 16 giugno 1910.

[4] La lista dell’Unione e “la vecchia minoranza”, «Fieramosca», 20 novembre 1910.

[5] Caste elettorali, «Fieramosca», 26 novembre 1910.

[6] L’adunanza del gruppo consigliare dell’Unione Liberale, «L’Unità Cattolica», 2 dicembre 1910.




Caruso a Lastra a Signa

Prima di Pavarotti (1935-2007) c’erano stati tanti cantanti lirici a ribadire il primato dell’Italia a livello internazionale. Non siamo qui a stilare una classifica del Belcanto italiano, peraltro antipatica visto il contributo essenziale che ciascuno di loro seppe dare con la propria personalità. Un nome fra tutti, però, merita di essere ricordato.

Enrico Caruso (1873-1921), napoletano di nascita, americano d’adozione, è diventato un’icona del genere. Complice anche il rilancio dato alla sua figura nel 1986 dalla canzone che porta il suo nome, scritta e interpretata da un inatteso Lucio Dalla.

Il confronto con Pavarotti, nonostante l’inevitabile distanza temporale, sorge spontaneo. Entrambi appartenevano al ceto operaio – il padre di Pavarotti era fornaio a Modena, quello di Caruso meccanico a Napoli –, il che comportò una scalata al successo costellata di notevoli sacrifici e tanta fatica. Entrambi fecero della lirica una forma d’arte indiscussa, ma non persero mai il legame con la musica cosiddetta “leggera”, come dimostrano i tanti brani interpretati da Pavarotti con i principali cantautori italiani e il vasto repertorio proveniente dalla tradizione napoletana che per tutta la sua carriera Caruso non abbandonò mai. A questi aspetti si aggiunga la generosità con cui mettevano a disposizione le loro ugole a sostegno di campagne umanitarie e iniziative di beneficenza.

Caruso non ebbe mai, raggiunta la fama, una fissa dimora. Come molti altri artisti, passava la maggior parte del suo tempo in viaggio, per raggiungere un nuovo palcoscenico. E quando arrivava, poteva trattenersi qualche giorno al massimo prima di ripartire alla volta di una nuova meta. Così fu  in Russia, in Europa, in America Latina, a Cuba. E dal 1903 fino alla fine dei suoi giorni, si esibì ininterrottamente presso il Metropolitan di New York, che era diventato la sua casa, almeno dal punto di vista artistico.

Ma Caruso, nonostante la stima dei colleghi, la benevolenza dei direttori d’orchestra, primo fra tutti Arturo Toscanini, e le lodevoli critiche della stampa dell’epoca, sapeva che il successo, come arriva, se ne va. Forse per questo aveva pensato di porre fine a quella sua esistenza da girovago, da gatto randagio che vaga nella notte. Dove andare? Dove trascorrere gli ultimi anni di una vita che, certo, non si sarebbe potuto immaginare così breve? Bel dilemma. A Napoli? Proprio vero, nessuno è profeta in patria e, per quanto Caruso si fosse adoperato per portare in giro per il mondo la canzone napoletana, il rapporto con la sua città si era in qualche modo guastato. Dove allora?

Il tenore era già proprietario dal 1904 di una villa tra Sesto Fiorentino e Firenze, in zona Le Panche.  Oggi quella villa è stata convertita in Residenza sanitaria assistenziale e porta il nome di Villa Gisella. L’impronta del cantante si ritrova soprattutto negli esterni, in quel vasto giardino all’italiana che volle farsi realizzare per allietare le sue giornate con piacevoli camminate.

Probabilmente non sarebbe stato neppure questo il rifugio della sua vecchiaia. Dopo tanti anni passati in giro per il mondo, frequentando luoghi stracolmi di gente, Caruso dovette avvertire il bisogno di allontanarsi un poco dalle città, ritrovare un angolo di paradiso che fosse a disposizione di lui e di pochi altri.

Fu così che decise di acquistare nel 1906 villa Bellosguardo. La villa, di cui Caruso doveva essersi perdutamente innamorato se addirittura ignorò il parere contrario del suo amministratore che gli sconsigliava di concludere l’affare, si trova oggi su una collinetta a Lastra a Signa. La posizione e la quiete diffusa ne fanno un invidiabile punto panoramico nonché un luogo di pace e di assoluto riposo.

Poteva essere un nido d’amore per Enrico e la moglie Ada Giachetti, ma così non fu. I rapporti tra i due, che si erano conosciuti a Livorno nel 1897, pian piano si deteriorarono, degenerando in una lunga sequela di tradimenti che, nel 1908, avrebbe sancito la definitiva separazione con la fuga rocambolesca di Ada assieme a uno dei domestici.

Fu un duro colpo per Caruso. Rimasto solo con i due figli, la vita agreste a villa Bellosguardo si fece amara e un turbinio di dubbi fece vacillare persino la sua permanenza in Toscana. Alla fine, però, prevalse il buon senso e il tenore, intimamente attaccato a quegli scenari mozzafiato, decise di restare. Anzi, si adoperò affinché la dimora potesse rinnovarsi e, con un nuovo obiettivo che lo tenesse occupato, magari dimenticare a poco a poco l’origine del suo dolore. Nel 1911 approntò un progetto che prevedeva il restauro interno ed esterno della villa, la creazione di un loggiato, il rialzamento dell’edificio e il riordinamento del parco, compresa una vasta opera di recinzione lungo tutto il perimetro. I lavori si conclusero nel 1918, tre anni prima che il proprietario morisse.

Oggi il complesso è di proprietà del comune di Lastra a Signa, aperto al pubblico per buona parte della settimana. Abbiamo visitato la villa un venerdì pomeriggio di fine giugno. Dal vivo non rispecchia per niente l’immagine che ci si può fare guardando le foto su internet. Erba alta, siepi incolte e spirali di arbusti secchi parlano più di decadenza che di splendore.

L’impressione negativa, purtroppo, ci ha accompagnato anche all’interno della villa. Al piano superiore è stato ricavato un museo dotato di attrezzature multimediali che dovrebbero rendere più interattiva la visita. Peccato che quel giorno non funzionassero. L’audioguida, fornita gratuitamente, di sala in sala annunciava filmati sulla vita del tenore e contenuti d’epoca che, avreste potuto attendere una giornata intera, non sarebbero arrivati.

Invano abbiamo sperato di trovare una smentita nell’ultima sala, quella che, a giudicare dal titolo “Caruso e la musica”, dovrebbe costituire il giusto coronamento a un percorso museale che, tra cimeli d’epoca, cartoline, dischi, abiti di scena, basterebbe a lasciare nel visitatore un ricordo piacevole. Eppure, ancora una volta, la volontà di soprendere con mezzi tecnologici ha ottenuto l’esatto contrario. Su una targhetta si invitava ad avvicinarsi ai grammofoni sparsi per la sala; un brano interpretato dal grande Caruso magicamente avrebbe fatto la sua apparizione dal nulla, avvolgendo lo stupefatto visitatore. Peccato che neppure una nota sia uscita da quei prodotti di indubbia bellezza e che il visitatore sia rimasto impalato lì, aspettando un artista troppo timido per far il suo ingresso in sala.

Massimo Vitulano si è laureato in Lingua e letteratura italiana nel 2014. Attualmente insegna italiano all’ITC Marchi di Pescia e tiene un corso di storia della canzone dell’autore presso l’Università dell’età libera di Firenze.

Articolo pubblicato nell’agosto del 2019.




Torquato Cecchi: dall’anarchia all’amicizia con Soffici

Torquato Cecchi nacque a Poggio a Caiano il 5 gennaio 1872 da Camillo e Albina Rocchi, muratore. Dopo aver militato nelle file del PSI, aderì al movimento libertario e  prese parte ai moti del maggio 1898. Dovette per questo emigrare all’estero, prima a Vienna e poi in Francia, paese dal quale venne espulso nel 1900. Rientrato in Italia, nel 1901 era segnalato come un propagandista anarchico molto attivo, che per diffondere le sue idee si recava di frequente in varie città.

La sera del 28 agosto 1901, in occasione di un contraddittorio svoltosi a Poggio a Caiano fra l’avvocato Campodonico, monarchico, ed il socialista Alberto Furno, Cecchi – si legge nel fascicolo del Casellario politico centrale a lui intestato – mobilitò “molti socialisti ed anarchici di Sesto, Peretola […] Brozzi e frazioni limitrofe, facendo occupare ad essi quasi tutto il teatro, ed eccitandoli […] a commettere disordini che furono scongiurati mediante la di lui espulsione dalla sala”. Nel 1906 – insieme con Eusebio Nepi, futuro sindaco socialista di Carmignano – fu tra i fondatori dell’Unione comunale di consumo di Poggio a Caiano. Con lo pseudonimo di “Trincetto”, collaborò anche all’Avanti! ed alla Riscossa, il settimanale  dei socialisti del collegio di Campi Bisenzio. Nel 1911 (anno in cui si trasferì nel comune di Signa) risulta che Cecchi non si occupava più di politica. La grande guerra segnò poi una svolta nei suoi convincimenti politici, svolta alla quale non fu verosimilmente estranea l’influenza di Ardengo Soffici, di cui era diventato amico.

Cecchi cominciò così a guardare con favore al fascismo e nel 1920 – grazie a Soffici, che gli fece conoscere l’editore Vallecchi e gli fornì anche la xilografia per la copertina – poté pubblicare un libro di versi intitolato A bordo (il volume è stato ripubblicato nel 2003 dal Comune di Poggio a Caiano, con un’interessante Introduzione di Silvano Gelli, da cui abbiamo tratto alcune delle notizie riportate in questo articolo). Cecchi tornò così alla poesia, una delle passioni della sua giovinezza, che lo aveva visto cimentarsi con altri poeti estemporanei della zona in accese tenzoni in ottava rima. “Quanti leggeranno A bordo – scrive Gelli nella sua introduzione – non troveranno forse un grande poeta, ma vi scopriranno l’attualità di certi pensieri […] e la freschezza di alcune semplici rime, ancora piacevoli da gustare a distanza di ottanta anni”.

Ormai scivolato su posizioni conformistiche, fra il 1922 ed il 1923, Cecchi scrisse qualche articolo su giornali fiancheggiatori del movimento mussoliniano (fra cui L’avvenire di Prato, settimanale dei combattenti locali). Nel 1928 la polizia segnalò che Cecchi si dimostrava favorevole al regime, ma il prefetto di Firenze non ritenne opportuno radiarlo dallo schedario dei sovversivi a causa dei suoi precedenti politici. Ancora vigilato nel 1940, morì dieci anni dopo munito – come si suol dire – dei conforti religiosi.

Articolo pubblicato nel maggio del 2019.




Antiche villeggiature, la grande scoperta della Val di Bisenzio

Le Antiche villeggiature, un articolato progetto regionale di ricerca e memoria partecipata, condotto dalla Fondazione CDSE (Centro di documentazione storico etnografica) in Val di Bisenzio, ha portato alla luce un suggestivo racconto collettivo che ha come sfondo gli ultimi anni dell’Ottocento e i primi del Novecento e vede protagonisti, tra gli alti, Amelia e Joe Rosselli con i loro figli, Aldo, Carlo e Nello. La pubblicazione Antiche Villeggiature: Val di Bisenzio e Montepiano tra Ottocento e Novecento è curata da Annalisa Marchi, Alessia Cecconi, Luisa Ciardi e Cinzia Bartolozzi che hanno condotto una ricerca accurata e minuziosa.

Vacanze e vacanzieri della fine dell’Ottocento e dei primi decenni del Novecento vengono raccontati per la prima volta in una pubblicazione, stracolma di curiosità, luoghi, personaggi e fascinose foto d’antan (sono addirittura 254). Con dovizia di particolari vengono alla luce gli aspetti della svolta turistica che vede protagonisti gli Appennini, da Prato fino a Bologna.

La solida e curiosa borghesia della Belle Epoque – fiorentina ma non solo – elegge Montepiano a buen retiro estivo mentre la sezione del Club Alpino italiano contribuisce a promuovere la Vallata con iniziative, escursioni e pubblicazioni.

Incontriamo Amelia e Joe Rosselli, scrittori come Renato Fucini e poi musicisti, professionisti e industriali. Dall’Inghilterra, dalla Germania e dagli Stati Uniti, alla ricerca di esperienze originali, arrivano turisti dai gusti raffinati. Tutto verrà raccontato tra luglio e agosto attraverso un ricco calendario di iniziative pubbliche, presentazioni e spettacoli teatrali nei Comuni di Vernio, Cantagallo e Vaiano. Due le mostre documentarie e fotografiche in programma (a Migliana e all’Archivio di Stato di Prato).

Sorprendenti i legami tra l’ebraica e cosmopolita famiglia Rosselli (trasferitasi a Livorno da Roma nel Settecento) e Montepiano. Amelia Pincherle (è la zia di Alberto Moravia) e il marito Joe Rosselli scoprono Montepiano nel luglio 1896: Aldo, il loro primo figlio, ha soltanto un anno. Negli anni a venire trascorreranno qui molti periodi di vacanza e montepianine saranno le balie di Carlo e Nello Rosselli: Maria Morganti e Virginia Mazzetti. “Sai che qui in paese tutti si ricordano di voi quando eravate a Montepiano? C’è il padrone della mia pensione che si rammenta con molto affetto di voi, i Nathan…”, scrive da Montepiano Nello Rosselli alla madre Amelia nel 1919.

L’aria buona e la tranquillità che poteva offrire la villeggiatura a Montepiano era stata scelta proprio pensando al piccolo Aldo, nato nel luglio 1895 a Vienna, dove Amelia e Joe si stabilirono appena sposati. A Montepiano trascorreranno le loro vacanze per diversi anni sia i Rosselli che i Nathan. La madre di Joe, Henrietta Nathan era inglese e sorella di quell’Ernesto Nathan famoso per essere stato, prima l’erede testamentario di Mazzini, e poi per essere eletto, a inizio Novecento, sindaco di Roma con il blocco popolare. A Londra, dove Mazzini sopravvisse grazie agli aiuti delle famiglie Nathan-Rosselli, il padre di Joe, Sabatino Rosselli, aveva aperto un ufficio di cambio nella City. “Stando al corpus delle numerose lettere rinvenute presso il Fondo Rosselli (conservato all’Archivio di Stato di Firenze) Amelia inizia a frequentare Montepiano qualche anno prima di trasferirsi a Firenze.- si legge nel volume –  Le trame di intimità e le note di costume che affiorano nelle lettere aprono finestre luminose e contribuiscono a ricostruire un pezzo della storia della villeggiatura a Montepiano, nonché frammenti privati dell’epopea della famiglia Rosselli”.

La svolta turistica della Vallata e di Montepiano, quest’ultima già famosa a Firenze per il suo straordinario burro, è legata all’affermazione della nuova cultura della villeggiatura di fine Ottocento. Decisivo è il completamento, tra il 1885 e il 1892, della Strada Maestra che finalmente collega San Quirico a Montepiano. Non è davvero un caso che proprio nel 1892, a Montepiano, si registri un boom di 500 turisti.

Sono tre giovani della sezione fiorentina del Club Alpino italiano: Michele Gemmi, Giuseppe Ricci e Luigi Alessandri i promotori della stagione d’oro dell’Alta Valle. A far da pioniere alla svolta turistica è però Emilio Bertini che con la sua instancabile attività fa conoscere e amare la Val di Bisenzio di cui pubblica una guida che resta una pietra miliare del genere. Le iniziative di moltiplicano: nel 1879 la sezione del Cai di Firenze, insieme a quella di Bologna, organizza una doppia traversata Bologna – Prato. “Con l’arrivo dei villeggianti comparvero locande, trattorie e i primi affittacamere e furono pubblicate guide con itinerari e indicazioni – raccontano le autrici – Per i decenni a venire la Val di Bisenzio avrebbe richiamato italiani e stranieri, letterati ed artisti, industriali e scienziati, personaggi che spesso lasciarono nei loro scritti pubblici e privati ricordi e tracce affascinanti della loro villeggiatura. Montepiano, che si arricchì di ville e villini e ospitò anche numerose colonie terapeutiche”.

Articolo pubblicato nell’agosto del 2018.




Emozioni e politica. Alle radici del mito Pietro Gori

La figura di Pietro Gori (1865-1911) ha avuto di recente un nuovo sussulto di notorietà per la controversa scelta della giunta di Portoferraio di modificare la toponomastica cittadina andando ad incidere su uno dei luoghi simbolicamente più forti del mito goriano. Le polemiche accese, le discussioni, le lettere di protesta e i presidi di manifestanti che hanno accompagnato la decisione di cancellare l’intitolazione della piazza nei pressi del municipio all’autore di Addio Lugano Bella testimoniano, al di là dell’episodio di cronaca, forme di sopravvivenza di una memoria popolare verso un uomo politico singolare che nel tempo è stata certificata da seri studi storici e demoantropologici. Morto come tutti gli eroi giovane e bello, l’8 gennaio 1911, Gori fu salutato fra l’Elba, Piombino e Rosignano da uno dei più imponenti funerali mai visti all’epoca, che hanno concorso a rafforzarne l’aurea mitica, e spesso quasi sacrale, che lo ha a lungo circondato.

Capace di suscitare forme di identificazione in grado di sconfinare nella dimensione della vera e propria celebrità politica e della venerazione popolare, ben oltre il perimetro dei militanti libertari, si impose certamente come uno dei più amati leader politici italiani dell’epoca. Se l’esistenza del mito è largamente documentata, meno poco sappiamo però delle ragioni e dei motivi che ne stanno alla base e che ne favorirono la popolarità.

Ritratto di profilo di Pietro Gori, s.d.

Ritratto di profilo di Pietro Gori, s.d.

Pietro Gori è stato un personaggio pirotecnico, ricco di inventiva e di risorse, grazie a un’abilità e a uno stile comunicativi che meritano di essere approfonditi e che si avvalsero dell’ampio ricorso a canali, linguaggi e contesti all’apparenza non strettamente politici (teatro, poesia, musica, letteratura); modello di leadership per tanti propagandisti del proprio movimento, Gori fu il campione di un anarchismo sentimentale a forte tasso emotivo. Artefice di un propria strategia di “andata al popolo”, agì su molteplici piani per alimentare un immaginario dotato di una propria forza persuasiva, con stratagemmi retorici e di altra natura in grado di funzionare soprattutto in relazione al proprio pubblico di riferimento.

Per rendersi credibile ai suoi interlocutori, lui, nato borghese e benestante, sposò un’etica di vita ascetica, profetica e votata al sacrificio, divenendo non a caso noto a tutti col sopranome biblico di Apostolo dell’Anarchia o dell’Ideale, incorporando fino in fondo nell’esperienza quotidiana le virtù anarchiche e proletarie.

In secondo luogo, sul piano retorico si dotò di un discorso frutto di un’abile opera di recupero e di rifunzionalizzazione in chiave libertaria e di criticismo sociale di immaginari e tradizioni discorsive a cui il popolo era già ampiamente socializzato. Dalla religione cristiana al risorgimento democratico-popolare, Gori presentò in maniera disinvolta Gesù Cristo e Garibaldi, i primi perseguitati cristiani o i martiri del 1848 come i primi anarchici della storia. Una disinvoltura che si estese abilmente a tradizioni popolari di segno folklorico come quella del Maggio, le cui antiche feste erano da sempre collegate in molte comunità contadine a immagini e significati di rinascita e rigenerazione; esse furono espressamente ricondotte da Gori alla nuova festività politica del 1 Maggio, di cui a cavallo fra due secoli divenne il principale mediatore e propugnatore italiano, radicandola nel paese attraverso un profluvio di poesie, bozzetti teatrali e canzoni a tema (Primo Maggio, Maggio ribelle, Maggio redentore, Tempesta di maggio, La leggenda del Primo Maggio, Calendimaggio).

Oltre alla capacità di sfruttare temi e figure già largamente diffusi fra le classi subalterne, l’opera di conquista e di risignificazione del mondo popolare lo spinse a investire anche l’ambito dei modi e dei registri della comunicazione. Nella realtà dell’epoca composta in larga parte di analfabeti o semianalfabeti in cui dominava ancora la dimensione dell’oralità e una pratica della lettura fortemente intensiva (come nella tradizione religiosa della ripetizione delle parole evangeliche della Bibbia mandate a memoria), Gori prestò particolare attenzione alle forme e ai generi espressivi della cultura e dell’estetica popolari. E fu così che divenne il fondatore della canzone politica popolare italiana, molto spesso recuperando note e arie tradizionali, nonché prolifico interprete della poesia estemporanea. Ciò a prezzo anche di stridenti contrasti fra retaggi tradizionalisti sul piano formale e un incendiario criticismo socio-politico nei contenuti che gli valsero una nota e colorita accusa di convenzionalismo nei quaderni gramsciani.

Ma il disegno comunicativo ad ampio raggio di Gori non si fermò qui, mostrandosi attento ad ogni particolare, nel quadro di una più generale sensibilità alla costruzione della propria immagine. Il suo proverbiale magnetismo oratorio si alimentava, nella testimonianza di militanti e dirigenti anarchici che ne rimasero affascinati, di una studiata modulazione dei gesti e della voce; un’attenzione derivantegli anche dal lungo tirocinio svolto come avvocato in diverse cause celebri, in un momento in cui i tribunali divennero, fra Otto e Novecento, palestre di oratoria investite da un forte processo di teatralizzazione della professione forense esemplificato dalla figura di Enrico Ferri, fra i maestri di Gori. Un cortocircuito fra aule di giustizia e palcoscenico testimoniato nella vicenda goriana sia dalla scrittura di numerosi bozzetti teatrali ma ancor più dalla loro frequente recitazione in prima persona da parte del loro stesso autore.

Un carisma che si alimentava infine di altri segni esteriori in grado, come si direbbe oggi, di fare moda o tendenza e di amplificarne la leggenda. Un anarchismo “banale”, fatto di pratiche minori, di cui è esempio la scelta di un abbigliamento che creò o diffuse uno stile fortemente identitario. Giocando soprattutto con il colore “sinistro” per antonomasia associato all’anarchismo e da esso fatto provocatoriamente proprio, contribuì a radicarne la simbologia attraverso il cappello nero a falde larghe, l’immancabile sciarpa e il grande fiocco o svolazzo, sempre del medesimo colore, noto anche come «fiocco a la Gori», ricordato da numerosi contemporanei ed eternato con grande evidenza nella sua ritrattistica e persino nei monumenti funebri.

Busto di Pietro Gori nell’atto di parlare, Capoliveri, Piazza Matteotti, 1921

Busto di Pietro Gori nell’atto di parlare, Capoliveri, Piazza Matteotti, 1921

A completarne le performance comunicative concorsero poi supporti o dispositivi poco convenzionali, tesi a creare un’aura di spettacolarità, come il frequente utilizzo della chitarra, che che in una lettera a un amico avrebbe definito uno strumento «inseparabile» e che divenne uno dei simboli del grande tour di propaganda nordamericano del 1896 condito da oltre trecento comizi; o ancora il ricorso, alla “lanterna magica” nelle conferenze, ossia di un ingegnoso macchinario per immagini che aveva il suo maggiore tratto di modernità nell’essere parte di quelle nuove «macchine della visione», diffusesi nel corso dell’Ottocento a partire dalla Francia dove costituirono forme di precinema preparatorie al cinematografo.

Questo quadro riccamente popolato di suggestive immagini, emozioni e colori, in cui una molteplicità di profili e aspetti finivano per intrecciarsi, faceva della sua opera di propaganda un’esperienza capace di sollecitare più sensi e di incidere in più modi sulla sensibilità popolare, tanto da rendere difficile per lo storico farla rivivere appieno attraverso le fonti. Si spiegano però forse così gli episodi di ammirazione collettiva, se non di vero e proprio divismo, descritti da amici e compagni di partito riguardanti donne, uomini e vecchi che dopo le conferenze circondavano in gran folla la vettura di Gori per protendergli i figli e baciargli la mano, o si stendevano sui binari per impedirne la partenza quando in treno raggiungeva qualche lontana località per un improvvisato comizio. Reazioni analoghe a quelle che, al momento dell’arrivo del suo feretro al cimitero di Rosignano, costrinsero l’ufficiale sanitario a cedere alle insistenti preghiere della folla e ai vincoli delle norme sanitarie praticando un’apertura sulla parte di zinco della bara per consentire a tutti di «vedere, salutare, baciare» un’ultima volta la salma dell’Apostolo dell’anarchia.

*Marco Manfredi, dottore di ricerca, è attualmente docente a contratto in Storia contemporanea presso l’Università di Pisa e collaboratore dell’Istituto della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Livorno. Si è occupato di storia italiana del primo Ottocento, pubblicando saggi e articoli su protagonisti e vicende della Restaurazione e del Risorgimento; negli ultimi anni si è avvicinato agli studi di storia dell’anarchismo italiano. Fra le sue pubblicazioni più recenti su quest’ultimo tema: Italian Anarchism and Popular Culture: history of a Close Relationship, in I. Favretto, X. Itcaina (eds.), Protest, Popular Culture and Tradition in Modern and Contemporary Western Europe (Palgrave Macmillan, 2016), Il neutralismo anarchico, in F. Cammarano (a cura di), Abbasso la guerra! Neutralisti in piazza alla vigilia della Prima guerra mondiale in Italia (Le Monnier, 2015)

Articolo pubblicato nel luglio del 2018.




Strumenti antichi per nuovi fini

Tutti conosciamo Ferdinando Martini, giornalista, scrittore di teatro e soprattutto politico liberale, Ministro dell’Istruzione, delle Colonie e viceré d’Eritrea, le cui carte, acquistate e conservate dalla Biblioteca Nazionale di Firenze e dalla Biblioteca Forteguerriana di Pistoia, ci sono giunte fino a noi. Molto meno conosciuta è invece la moglie Giacinta Marescotti, una delle prime suffragiste italiane, il cui coinvolgimento nella battaglia per l’ampliamento del suffragio si coniugò a un altrettanto intenso impegno nella filantropia e nell’assistenza ai bambini con disabilità intellettiva: una figura radicalmente e fieramente autonoma dal marito ma di cui ben poca traccia ci è giunta perché nel 1928, con la morte di Ferdinando Martini, tutte le sue carte andarono distrutte.

Nata a Monsummano nel 1844 da una famiglia di nobiltà antica e consolidata, crebbe insieme ai fratelli minori Alessandro (morto a soli 18 anni) e Teresa. Nel 1866 sposò Ferdinando Martini, che dal padre Vincenzo aveva ereditato tanto il titolo nobiliare quanto le disastrate finanze familiari, vincendo anni di resistenze e preoccupazioni familiari. Nel 1872, al termine di alcuni anni di peregrinazioni (prima a Vercelli, poi a Pisa), la coppia – che aveva ormai due figli: Alessandro e Teresa – si trasferì a Roma, dove già viveva la sorella minore di Giacinta, andata nel frattempo in sposa al principe Ignazio Boncompagni Ludovisi.

Nel suo salotto di Palazzo Simonetti, Giacinta tessé relazioni con ambienti vicini all’Estrema (come allora erano chiamati i gruppi parlamentari ed extra-parlamentari vicini a radicali, repubblicani e socialisti), dando vita a un ambiente ben più radicale di quello di cui si circondò il marito, dal 1878 al 1918 deputato per la Sinistra storica. Nel turbinio dei personaggi convocati e abbandonati dalla vulcanica contessa, i più costanti e assidui furono il meridionalista Giustino Fortunato, il politico socialista Andrea Costa e Sibilla Aleramo.

Si dedicò, insieme alla sorella e all’amica Lavinia Taverna, a patrocinare l’infanzia abbandonata: in questa veste si avvicinò al medico e deputato Clodomiro Bonfigli, prossimo a fondare, nel 1898, la “Lega nazionale per la difesa del fanciullo deficiente”, la prima associazione specificatamente destinata alla tutela e all’educazione dei disabili intellettivi. Membro del consiglio direttivo della Lega, qui conobbe una giovane Maria Montessori, che nel 1899 raccomandò al Ministro Guido Baccelli perché ottenesse la cattedra di Pedagogia generale e speciale nella nuova Scuola magistrale ortofrenica – creata per formare i maestri dei bambini con disabilità intellettiva.

Sociabilità nobiliare e impegno nell’associazionismo benefico, se da un lato potevano configurarsi come un comportamento in linea con un ruolo femminile tradizionale e ampiamente consolidato, dall’altro lato consentirono alla Marescotti di collaudare e strutturare tutta quella rete di relazioni, interessi, contatti che seppe poi riutilizzare nella sua battaglia suffragista. In questo senso, gli strumenti antichi del salotto e della beneficienza trovarono ragione nei nuovi fini dell’emancipazionismo e della costruzione di un “partito femminile”, una formazione politica che riunisse tutte le donne in un’ottica interclassista e interpartitica. Le donne, infatti, tanto per Marescotti quanto per molte altre sue collaboratrici, erano viste come le uniche depositarie di valori – la compassione, l’attenzione verso i più deboli, l’interclassismo – che, con il loro ingresso in politica, avrebbero rinnovato la compagine sociale e nazionale. Questa fiducia quasi palingenetica nel contributo femminile motivò la continua mediazione della contessa monsummanese tra l’anima radical-socialista del femminismo e le correnti moderato-conservatrici, che trovavano il loro riferimento in Maria Pasolini e in Gabriella Spalletti Rasponi, presidente del CNDI (il Comitato Nazionale delle Donne Italiane).

Il coinvolgimento della Marescotti nell’associazionismo femminista, nazionale e internazionale, è documentabile già negli ultimi anni dell’Ottocento, quando aveva ospitato a Palazzo Simonetti Emmeline Pankhurst, leader delle suffragiste inglesi. La discesa in campo fu però compiuta nel 1904, quando il parlamento decise di discutere il disegno di legge per il suffragio femminile presentato dal deputato dell’Estrema Sinistra Roberto Mirabelli. Nell’ottobre 1905 Marescotti fondò a Roma il Comitato pro-suffragio, che in breve tempo, attraverso il collegamento con la sezione lombarda, attecchì in tutte le principali città italiane. Solito riunirsi nei locali di Palazzo Simonetti, il comitato presentò nel febbraio 1907 al Parlamento una Petizione (già depositatavi nel marzo 1906) per richiedere il diritto di voto alle donne che sapessero leggere e scrivere. Frutto di un lungo e complesso lavoro di mediazione tra le anime più radicali e quelle più moderato-conservatrici del movimento, la petizione sembrava concretizzare la possibilità di un “partito femminista”.

L’allestimento, durante il primo Congresso Nazionale delle Donne Italiane (tenutosi a Roma dal 23 al 28 aprile 1908), di una sessione plenaria sul suffragio femminile, sembrava confermare il rilievo assunto dall’organizzazione e dalla sua presidente, che, nonostante i problemi di salute (i non meglio precisati “mali di petto” che la condussero alla morte il 9 marzo 1912), riuscì a presiedere la seduta. Tuttavia, il tentativo di mediazione della Marescotti e la fiducia nelle istituzioni erano destinati a infrangersi: il primo, sugli scogli delle differenti visioni politiche, sociali e culturali dell’eterogeneo movimento femminista, che, sempre durante i lavori della conferenza romana, si divise durante le discussioni sull’emendamento Malnati per la laicità della scuola elementare; il secondo, nel maggio 1912, poco dopo la morte della contessa, quando la Commissione parlamentare incaricata di studiare l’allargamento alle donne del voto politico diede alla questione un parere negativo.

Chiara Martinelli ha conseguito il dottorato in Storia contemporanea, con una tesi sull’istruzione professionale nell’Italia liberale, nel 2015, presso l’Università di Firenze. Ha lavorato alla biblioteca del Consiglio dell’Unione Europea e attualmente insegna a Pescia. Dal 2013 è membro del Consiglio direttivo dell’I.S.R.Pt. Con il Comune di Monsummano e l’ISL Montecatini Monsummano ha curato una mostra documentaria su Italia Donati e Giacinta Marescotti, di cui sta per uscire il catalogo. Tra le ultime pubblicazioni: Da “conquista sociale” a “selezione innaturale”: le illusioni perdute delle classi differenziali in Italia, «Italia contemporanea», 289 (2017); Schools for workers? Industrial and artistic industrial schools in Italy (1861-1914), in P. Gonon, E. Berner (a cura di), History of Vocational Education in Europe, Lang, 2016; Branding of technical Institutes by the State: Italy 1861-1914, in A. Heikkinen, P. Lassnigg (a cura di), Myths and Brands in Vocational Education, Cambridge, 2015.

Articolo pubblicato nel febbraio del 2018.




La persecuzione fascista contro gli ebrei nel pistoiese

CENNI STORICI SULLA PRESENZA EBRAICA A PISTOIA

Le prime tracce delle presenza ebraica a Pistoia risalgono alla fine del XV secolo quando due ebrei di origine pisana, Sabato e il figlio Musetto, chiesero agli Anziani ed al Gran Consiglio di poter “fenerare”, cioè di poter svolgere l’attività di prestatori di denaro o in alternativa di esercitare qualsiasi altro mestiere, risiedendo in città con le loro famiglie e la servitù. Esprimevano nella loro richiesta il desiderio anche di essere considerati cittadini alla pari degli altri e di poter godere della libertà di culto e della immunità da tutti gli oneri, ad eccezione delle gabelle, per un periodo di circa dieci anni, prerogativa di tutti i prestatori di denaro (Andreini, A., Il ghetto degli ebrei a Pistoia, in Bollettino Storico Pistoiese XCI (1989), (terza serie, XXIV), p. 63-73).

L’attività feneratizia, cioè volta al prestito del denaro, continuò anche successivamente, come attestano i capitoli del 1455 tra il Comune e un banchiere per la gestione di un banco di pegno per 6 anni (Capecchi, I. – Gai, L., Il Monte della Pietà a Pistoia e le sue origini, Firenze 1975, p. 69).

In seguito all’obbligo per gli ebrei toscani di trasferirsi nei ghetti di Siena e Firenze a fine XVI secolo la piccola comunità ebraica pistoiese scomparve per riapparire intorno al 1641, anno in cui la presenza ebraica tornò ad essere menzionata quando dopo l’incendio della sacrestia della cattedrale, alcuni ebrei acquistarono i resti degli armadi intagliati da Ventura Vitoni.

Il termine “ghetto” compare per la prima volta nella storia pistoiese nel 1718, quando viene usato nel registro della parrocchia di San Matteo, per designare l’area occupata da quattro famiglie residenti al primo piano di una corte sita nei pressi della piazza dell’Ortaggio (ex piazza del Pesce), ora piazza della Sala.

Il ghetto citato è ricordato fino al 1753, mentre da un documento del 1777 risulta che nel quartiere di Porta Lucchese vi fosse un vicolo “detto del Ghetto” che corrispondeva ad una piccolissima corte dell’odierna via Puccini (Zdekauer, L., L’interno di un banco di pegno nel 1417, in Archivio Storico Italiano Firenze, S.V., XVII, p. 63-104).

E’ possibile inoltre che in città esistessero in quel periodo un cimitero ebraico e una piccola sinagoga.

In alcuni documenti del 1742, relativi a quella che da tempo veniva chiamata “Piazza Ebrea” o Piazza dello Spirito Santo (attualmente Piazza S.Leone), si legge che: Gli agnelli, uccelli, uovi , e altri commestibili proibiti nel tempo della Quaresima, non si vendano né si possano vendersi altrove che sulla Piazza dello Spirito Santo (Andreini, A., Il ghetto degli ebrei a Pistoia, in Bollettino Storico Pistoiese XCI (1989), (terza serie, XXIV), p. 64.

 LA PERSECUZIONE FASCISTA CONTRO GLI EBREI NEL PISTOIESE

Con l’estate del 1938 si scatenò una fortissima campagna anti-giudaica caratterizzata da una serie di leggi volte a perseguitare gli “appartenenti alla razza ebraica” il cui culmine fu l’ordine di arresto e di internamento del 30 novembre 1943 che ebbe tragiche conseguenze anche per gli ebrei “pistoiesi”. Particolarmente negativa per gli ebrei fu la pubblicazione di alcuni testi come “Gli ebrei in Italia” di Paolo Orano in cui si attaccavano addirittura quelli appartenenti al partito fascista o “Sotto la maschera di Israele” di Gino Sottochiesa  (Fornaciari P., L’universo minore. Confino, internamento, concentramento, deportazione degli Ebrei. Le responsabilità italiane ed il caso di Pistoia, Edizioni Erasmo, Livorno, 2014, p. 23-25)

Il testo che più di ogni altro mosse l’opinione pubblica contro gli ebrei fu comunque il “Manifesto della razza” apparso sul Giornale d’Italia con il titolo “Il Fascismo e i problemi della razza”. Apparso senza firma, nei giorni successivi alla prima pubblicazione fu sostenuto, su diretta richiesta del duce, da una decina di medici e professori universitari.

La negativa campagna di stampa e l’emanazione delle leggi razziali colpirono anche la piccola comunità ebraica di Pistoia, composta da alcune “storiche” famiglie fra le quali possiamo ricordare i Corcos, i Piperno, i Coen e i Bemporad, proprietari di una bottega di stoffe e abbigliamento in via del Can Bianco e che avevano fatto costruire nel 1910 la torre “Bemporad”, ancor oggi esistente. La famiglia era anche proprietaria di un mulino presso Serravalle Pistoiese (Cutolo F., La deportazione degli ebrei nel pistoiese)

Israele Bemporad, ad esempio, che si era iscritto alla facoltà di Giurisprudenza, nel 1939 in seguito alle leggi razziali fu espulso dall’Università. Successivamente si iscrisse alla formazione partigiana “Fantacci” che operava sulle colline della Castellina e Casore del Monte, presso Serravalle Pistoiese. Partigiano divenne anche Giancarlo Piperno che era stato accolto, avendo la casa distrutta dai bombardamenti, dalla famiglia Bemporad nella villa in località Bacchettone, posta sulla collina fronteggiante la stazione di Serravalle Pistoiese. Giancarlo Piperno anni dopo divenne un famoso radiologo specializzato in radiologia medica oncologica presso l’ospedale di Pistoia (Balleri S., Mario Parri scultore e altri personaggi dell’antifascismo e della resistenza nel pistoiese, Pistoia 2017, p. 111-115.)

Allo scoppio della guerra, il regime fascista decise la costruzione di campi di concentramento in tutto il territorio nazionale per internare i cittadini dei paesi nemici, i prigionieri di guerra, gli oppositori politici, gli omosessuali e gli ebrei stranieri. Con l’8 settembre la situazione degli ebrei peggiorò ulteriormente e quelli che non erano stati internati cercarono di fuggire sparpagliandosi sui monti. Agli ospiti “originari”, dopo il 30 novembre ’43, si aggiunsero nuove vittime, che nonostante si fossero date alla macchia cercando rifugio sui monti per fuggire ai rastrellamenti, erano stati catturati.

Nella provincia di Pistoia, vi erano in tutto nove località di detenzione: Agliana, Buggiano, Lamporecchio, Larciano, Montecatini, Pistoia, Ponte Buggianese, Prunetta e Serravalle Pistoiese. La tendenza fu quella di adattare  per l’internamento edifici o strutture già esistenti. Gli internati vennero quindi, almeno inizialmente, collocati in ville, case private, conventi, scuole, fabbriche dismesse, addirittura in cinematografi. Gli internati avevano quindi la possibilità di spostarsi, in alcuni casi addirittura di andare e venire dai luoghi d’origine. Spesso la popolazione locale non conosceva, o fingeva di non conoscere, l’origine di questi “stranieri” (Fornaciari P., op. cit, p. 35)

Con l’8 settembre del 1943 la situazione peggiorò decisamente. Polizia e carabinieri confluirono nella guardia nazionale repubblicana (GNR) che venne sostenuta dalla Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, costituita da fascisti della prima ora.

Nel periodo intercorrente fra il 30 novembre 1943 e l’ottobre 1945 in provincia di Pistoia furono arrestati in seguito alle retate dei nazisti e dei fascisti ottantotto ebrei, secondo quanto indicato nei database dei siti www.nomidellashoah.it e www.annapizzuti.it, che vennero uccisi direttamente o deportati nei campi di concentramento di Buchenwald, Auschwitz e Mathausen, dopo essere stati condotti prima nel carcere di Pistoia e poi a Fossoli, nei pressi di Carpi.

La maggior parte degli ebrei che si trovavano nel pistoiese fu catturata al momento del passaggio del nucleo operativo nazista specializzato in “rastrellamenti” guidato da Dannecker, che dopo aver compiuto la retata degli ebrei nel ghetto di Roma (mille persone complessivamente catturate di cui solo quindici tornarono in Italia alla fine della guerra) stava ripiegando (Cutolo F., op. cit., consultabile in in www.toscananovecento.it). Dannecker era uno specialista in questo genere di azioni e proprio per questa sua grande capacità era stato spostato dalla Bulgaria all’Italia. Fu questi a compiare la retata del 6 e 7 novembre a Firenze e a irrompere nella sinagoga fiorentina per catturare circa duecento  persone. A Firenze furono razziati anche i conventi, dove molti perseguitati si erano rifugiati. Al Carmine, dove si trovavano molte donne ebree con i loro figli piccoli, avvenne l’episodio più odioso. Ci fu un’irruzione il 26 novembre e per quattro giorni le donne recluse, prima di essere deportate e uccise ad Auschwitz, subirono inerrarabili violenza da parte dei militi fascisti di guardia, accorsi in aiuto dei tedeschi (Baiardi M., tratto dall’inserto a cura della Regione Toscana “I l giorno della memoria 2002-2009” in La Nazione del 25 aprile 2009). Alle catture contribuirono dunque, in virtù dei provvedimenti emanati dalla RSI alla fine del novembre ’43, anche le forze di polizia locali, compresi numerosi reparti di carabinieri e le unità della GNR. La deportazione avvenne ad opera delle forze armate tedesca, spesso con la collaborazione dei militi della RSI.

La maggior parte degli ebrei fu catturata nelle province settentrionali della regione, perchè qui avevano deciso di fuggire, cercando disperatamente di scendere verso il meridione, o perchè qui erano stati internati in quanto stranieri dopo l’entrata in guerra dell’Italia. La percentuale degli ebrei deportati dall’Italia è stata calcolata intorno al 20 per cento (Sarfatti M., La Shoah in Italia, Einaudi, 2005, p. 109). L’ottanta per cento degli ebrei si salvò dunque, ma è altrettanto vero che molti italiani contribuirono con delazioni, a volte volontarie a volte estorte con la forza, alla cattura. Gli ebrei sfuggiti alla cattura vissero quindi in clandestinità adottando le più disparate strategie di sopravvivenza.

Molti degli ebrei catturati a Pistoia avevano trovato qui ospitalità su indicazione della Delasem (Delegazione per l’Assistenza agli ebrei emigranti), creata dall’Unione delle Comunità Israelitiche nel 1939 per aiutare gli ebrei a espatriare e a sostenere comunque gli internati in Italia. Gli ebrei in questione erano in molti casi originari di Livorno e vivevano prevalentemente intorno alla sinagoga della città labronica. Solo i più ricchi vivevano nella zona dell’Ardenza. La maggior parte di queste persone apparteneva al ceto popolare ed era occupata nel settore cantieristico o svolgeva la professione di venditore ambulante (Orsi P.L., Dal censimento del 1938 alla persecuzione,  la comunità ebraica di Livorno, Belforte, Livorno 1990, p. 210).  Una sostanziale parte della comunità era costituita da ebrei provenienti dalla Grecia e dalla Turchia, giunti a Livorno negli anni Trenta. Con il settembre del ’43 e la occupazione tedesca gli ebrei cercarono rifugio in zone più impervie o comunque note. La famiglia di Nina Molco con la zia si trasferirà ad esempio a Cutigliano dove era solita recarsi per le vacanze estive.

Alla fine del 1943 la Delasem fu purtroppo infiltrata da spie che contribuirono a scoprire i nomi degli ebrei aiutati che, quindi, se non erano riusciti a fuggire, furono perciò catturati (Daghini R., La Shoah a Serravalle e Pistoia, in Microstoria, nr. 52, 2007, p.33.)

In provincia di Pistoia i primi rastrellamenti avvennero a Montecatini Terme il 5 e il 6 novembre 1943. Il resto degli arresti risale al gennaio ’44.

Gli Ebrei catturati nel pistoiese appartenevano dunque alle famiglie “locali” e a quelle “sfollate”.

Degli ottantotto catturati solo cinque saranno i superstiti.  Michele Behor Baruch, Isacco Mario Baruch, Matilde Beniacar, Aldo Moscati e Sol Cittone; una sesta superstite, Gertrude Loeb, pur vedendo la liberazione del campo di sterminio di Auschwitz (27 gennaio 1945), morì due settimane dopo per le sue pessime condizioni di salute. Fra gli altri periranno nel campo di Auschwitz Carlo e Massimo d’Angeli rispettivamente di 5 anni e 2 anni e 5 mesi, Bruno e Guido Valabra di 11 anni e 7 anni e mezzo, Claudio e Lia Vitale di 7 anni e 2 anni e tre mesi.

La superstite Sol Cittone, apparteneva a una delle famiglie di ebrei turchi di Livorno sfollate a Serravalle per i bombardamenti.

Fu arrestata con tutta la sua famiglia il 12 gennaio 1944 dal maresciallo Luigi Cellai, comandante della stazione dei carabinieri di Serravalle Pistoiese, portata prima nel carcere di Pistoia, poi nel carcere delle Murate a Firenze per circa due settimane, da qui a Fossoli con tutta la famiglia e infine sui vagoni per Auschwitz dove giunse alla mezzanotte del quinto giorno. Venne  liberata dall’esercito russo nel 1945.  Rimpatriata da Auschwitz a Livorno l’anno successivo denunciò il 10 settembre attraverso l’UCEI il maresciallo Cellai usando questi termini «Fatemi il piacere se lo vedete, denunciatelo subito e fategli torture e lavorare peggio deve anche soffrire e deve fare una fine peggio dei cani quel maledetto repubblicano. Nemmeno la cenere ci deve rimanere come lui ha rovinato me e tutta la famiglia». Nel dopoguerra, decise di imbarcarsi per Israele e visse a Haifa. E’ tornata a Serravalle nel 2014. Sol ricordava ancora quei momenti e mostrava ancora disprezzo per il maresciallo Cellai che aveva consegnata la sua famiglia ai nazisti e non aveva mai pagato per i suoi crimini. Della sua famiglia, composta dai due genitori e da cinque fra fratelli e sorelle, una di solo tre anni, lei, all’epoca quindicenne, fu l’unica superstite (Il Tirreno, ed. Pistoia, 16 ottobre 2014.).

Andrea Lottini (Montecatini Terme, 1975) si è laureato in Scienze Politiche nel 2001 con una tesi sulla formazione professionale e in Scienze Religiose nel 2015 con una tesi su Egeria, pellegrina del IV secolo. Attualmente è insegnante di religione presso gli istituti comprensivi di San Marcello Pistoiese e di Agliana.

Articolo pubblicato nel dicembre del 2017.




Idalberto Targioni

Nato nel 1868 e morto nel 1930, Targioni fu contadino, poeta autodidatta, attivista sindacale, militante politico, sindaco, scrittore e studioso, uomo controverso e discusso, spesso al centro di polemiche, sempre in contatto e talvolta in contrasto con altri protagonisti del suo tempo, come il gran maestro del Grande Oriente d’Italia Domizio Torrigiani o come, per vie indirette, Benito Mussolini. Targioni svolse un ruolo rilevante non solo a Lamporecchio, il suo luogo di adozione, nei pressi di Pistoia, ma in tutta l’area del Montalbano e in parte della Toscana e anche altrove, animando la società  e i movimenti contadini prima come socialista e, all’indomani della Grande guerra, come fascista.

Targioni era nato a Firenze il 19 ottobre 1868 (forse «dall’unione clandestina di un principe con una governante della Casa Reale», avrebbe scritto nel 1912) e fu lasciato da ignoti all’Ospedale degli Innocenti di Piazza Santissima Annunziata. Aveva quattro anni quando venne adottato dai coniugi Domenico e Giuditta Capecchi, contadini senza figli residenti nella frazione rurale di San Baronto, a Lamporecchio. Qui, pur costretto alle fatiche dei campi, riuscì ad imparare a leggere grazie alle lezioni offertegli da un prete del luogo. Da autodidatta imparò anche a scrivere e tra gli otto e i dieci anni cominciò persino a improvvisare e abbozzare i primi versi. Coltivò la vena poetica tanto da divenire uno dei più apprezzati e abili stornellatori estemporanei del Pistoiese. Fu operaio ferroviere, poi militare per tre anni prima di tornare al lavoro contadino quando, nel 1895, aderì al partito socialista e avviò un’intensa attività  militante tra i territori di Pistoia, Empoli e la Valdelsa, mostrando una spiccata sensibilità  per le cause di mezzadri e pigionali. I suoi testi poetici intriganti, spesso anticlericali e piccanti lo fecero soprannominare «Diavolo rosso». A seguito dei disordini del 1898, conobbe anche il carcere.

Rimatore in ottava, fu consigliere socialista a Lamporecchio dal 1901 dove operò fianco a fianco col massone democratico Domizio Torrigiani (che nel 1919 avrebbe assunto la carica di Gran maestro del GOI). Eletto segretario della Camera del Lavoro di Pistoia nel 1903, proseguì l’attività poetica (nel 1912 aveva già pubblicato una ventina di opere), iniziò a dedicarsi al giornalismo politico (scrisse per «La Martinella» di Colle Valdelsa, «L’Avvenire» di Pistoia, «Via Nuova» di Empoli e nel 1908 fondò «Il Risveglio del Montalbano») e tenne numerose conferenze e accademie in versi in Toscana, in altre regioni e persino in Svizzera e Francia. Nel 1914 fu eletto sindaco di Lamporecchio, unica amministrazione socialista del circondario di Pistoia.

Lo scoppio della Grande Guerra travolse la vita di Targioni, come quella di milioni di altri uomini, e spezzò in due tronconi la sua vita. Dopo una iniziale fase di opposizione all’intervento nel conflitto, che nel maggio 1915 lo portò all’arresto per l’accusa di aver incitato le manifestazioni antibelliciste  nell’Empolese, dopo l’intervento italiano in guerra di spostò su posizioni interventiste, seguendo la strada percorsa dal suo amico Torrigiani e di molti quadri e dirigenti socialisti come il più celebre Mussolini, fino a giungere a un sostegno esplicito per la guerra, in contrapposizione col neutralismo mantenuto dai socialisti italiani e in stringente contrasto con i suoi scritti e la sua attività  prebellica: una contraddizione che fu segnata anche da interessanti elementi di continuità, mai risolti pienamente come testimoniano i suoi ricchi e generosi scritti pubblici e privati.

Dopo la dopoguerra aderì al fascismo, che in Toscana era particolarmente dinamico e irriducibilmente violento; nel 1921 fondò e divenne segretario del Fascio di Lamporecchio. Trasferì le sue competenze e capacità sulla stampa fascista (scrisse per «Giovinezza», «La Riscossa», «L’Azione fascista», «Battaglia fascista»; fondò «L’Alleanza» e «L’Ordine»); nel 1923 fu nominato segretario dei sindacati fascisti dell’agricoltura della Provincia di Firenze e nel 1924 fu eletto consigliere provinciale fascista. Abbandonata ormai del tutto l’attività  poetica e ritiratosi quasi completamente a vita privata, Targioni morì a Lamporecchio il 25 maggio 1930, lasciando un vuoto che da allora non è mai stato colmato da nessun biografo e depositando una eredità  intellettuale e umana che è in attesa di essere compresa, interrogata, valorizzata.

Articolo pubblicato nell’ottobre del 2017.