Aspettando la rivoluzione: dai grandi scioperi alla “nascita” del PCdI a Firenze.

L’Italia del 1919-’20: un Paese spaesato, diviso, violento, gravato dal sommarsi di paure diverse e nuove, da consolidata estraneità nei confronti dello Stato, ostilità o indifferenza verso una classe dirigente spesso lontana e impermeabile, da un diffuso antiparlamentarismo, gravato dalla crisi economica, da disagio sociale, segnato dagli effetti di  una pandemia – la Spagnola – e dalle conseguenze del primo conflitto mondiale.

Firenze è parte di questo contesto. Anzi qui semmai le divisioni sono ancora più nette e gravi. La città è dominata da una classe dirigente conservatrice, ostile alla stella politica giolittiana, forte dei domini terrieri, signori dei poderi mezzadrili, detentori del potere politico ed economico. La propria superiorità rispetto ai ceti inferiori è un dato di fatto, una distanza naturale e incolmabile. Per povertà e disagio sociale può esserci solo benevolenza, paternalistiche concessioni, beneficenza. La città è stata interventista, intellettuali e studenti, professionisti si sono mobilitati, del resto proprio Firenze era stata sede della fondazione del movimento nazionalista, dimora di D’Annunzio, frequentata da Marinetti e dai futuristi. Fili ed eredità che si ritrovano nella fioritura di tante associazioni nazionaliste e anticomuniste nel dopoguerra, fra le quali anche un fascio abbastanza debole e precario. Ma è anche città di una crescente classe operaia. Paradossalmente proprio grazie alla guerra.

Firenze non era città di vere grandi fabbriche, se confrontate alla realtà del nord. I maggiori stabilimenti nel primo dopoguerra contano fra i 1000 e 2000 addetti. Ma è città di manifatture, che si radicano nella tradizione artigiana del territorio, pur in assenza di grandi stabilimenti è anche città operaia, frutto di uno sviluppo relativamente recente fra il primo decennio del secolo e gli anni della guerra. Di una classe operaia di tradizione artigiana, fiera del proprio mestiere, del proprio lavoro frutto di arte e conoscenze. Ancora a fine ‘800 la tradizionale dimensione agraria della classe dirigente fiorentina e la volontà di mantenere l’immagine di una Firenze d’arte e cultura avevano limitato lo sviluppo produttivo in una realtà frammentata e dispersa. Solo in età giolittiana ha una prima crescita, ma soprattutto negli anni del primo conflitto mondiale con la mobilitazione bellica degli stabilimenti, ad esempio le Officine Galileo passano dal 1907 al 1917 da circa 200 a circa 2000 addetti.

Una crescita che parallelamente vede l’esplosione di una presenza organizzata del sindacato e del partito socialista.  Nel 1920 il PSI conta oltre 8700 e la Camera del Lavoro oltre 63.000 soci divisi in circa 218 leghe. Una massa arrabbiata per i sacrifici e le scelte della guerra si organizza in una straordinaria rete di associazioni mutualistiche, ricreative, cooperative, accanto a quelle di partito e sindacato, trovando piena espressione nella dirigenza massimalista che ne ha assunto il controllo. Proprio la prospettiva neutralista e l’ostilità verso il conflitto mondiale accrescono i consensi dell’ala più intransigente del Psi fra le masse dei lavoratori già esasperate dalla precarietà e dalla durezza delle proprie condizioni lavorative. Peraltro la componente riformista, nonostante fosse ancora rappresentata da uomini come Giovanni Pieraccini e Giuseppe Pescetti e fosse radicata nelle associazioni economiche, sindacali e cooperative, aveva subito un duro colpo a seguito della svolta intervista di suoi numerosi esponenti, a partire dal direttore del periodico del partito “la Difesa”, Michele Terzaghi, espulso insieme all’on. Carlo Corsi. Tanto che proprio negli anni della prima guerra mondiale Firenze è definita la “capitale dell’intransigentismo”. La città aveva ospitato nel 1917 la Direzione nazionale del Psi che indica il sentimento patriottico come incompatibile con il marxismo e, in novembre, la riunione costitutiva dei gruppi “intransigenti-rivoluzionari” di Lazzari, Serrati, Gramscie Bordiga.

Un ruolo dominante dell’ala massimalista e rivoluzionaria che è ulteriormente rafforzato dal difficile contesto del dopoguerra. Fin dai primi mesi di pace tutte le categorie avanzano rivendicazioni e attuano scioperi. Alla Galileo sono molteplici le rivendicazioni per carovita o obiettivi politici. Centro dei moti per il carovita nel ’19 (con oltre 1400 arresti e oltre 400 persone mandate a processo) ai quali partecipano gli operai che raccolgono il malcontento di una comunità prostrata dal conflitto e dalle scelte governative dell’immediato dopoguerra. Del resto tutta la regione è scossa da tensioni e scontri. Nel 1919-1920 la Toscana è la seconda regione per numero di scioperi agricoli, seconda solo all’Emilia Romagna. I proprietari sono costretti nel corso del ’19 a rivedere le proprie posizioni e a concedere aumenti salariali.

Nel 1920 la situazione precipita. Toscana ed Emilia spiccano per numero di scioperi in un contesto nazionale che vede peraltro il nostro Paese al primo posto a livello europeo nel primo semestre di quell’anno. A gennaio quelli dei postelegrafonici e quindi dei ferrovieri aprono, pure a Firenze, una lunga scia di agitazioni, che vedono emergere sempre più la figura di Spartaco Lavagnini segretario della sezione fiorentina del sindacato ferrovieri. Proseguono le lotte agrarie. Nella primavera scontri prima in Emilia, poi in Toscana provocano vittime fra i lavoratori delle campagne e con scelte dal basso viene proclamato lo sciopero  a Firenze, Piacenza, Bologna e Modena. Dopo mesi di tensioni il 7 agosto 1920 viene firmato il nuovo patto colonico regionale fra agrari e Federterra. Ma la disputa sui patti agrari fra popolari e agrari nell’autunno del ’20 rimette tutto in discussione.

Anche nel mondo dell’industria i fronti contrapposti si muovono, gli industriali si organizzano in proprie associazioni, a maggio nel corso dell’ottavo congresso della FIOM Bruno Buozzi fa approvare un documento che chiede aumenti salariali del 40%, indennità di licenziamento, dodici giorni di ferie pagate all’anno. La CGdL approva i consigli di azienda destinati a tutelare i lavoratori in fabbrica e intervenire nell’organizzazione del lavoro. Per gli industriali è troppo. Contratti, diritti, miglioramenti delle condizioni di lavoro sono pretese inaccettabili in una totale negazione della dignità del lavoratore e del lavoro tanto più offensiva in un territorio come questo segnato da forti tradizioni e culture professionali. Non è solo una questione economica, è ancor prima una questione di rispetto mancato, negato, di riaffermazione di potere, gerarchie, tradizioni. Reazioni consolidate ma che diventano inaccettabili in un momento in cui davvero si vede la rivoluzione scuotere l’Europa. I lavoratori si muovono.

A Firenze il clima è già incandescente. 10 agosto  a Firenze in via Centostelle viene fatta saltare in aria la polveriera di San Gervasio provocando otto morti e molti feriti. 29 agosto comizio socialista a Firenze all’interno della campagna nazionale del partito per chiedere la smobilitazione delle classi di leva ancora sotto le armi, eliminazione della censura sulla stampa, amnistia per i reati di guerra, rapporti politici ed economici con la Russia. Le forze dell’ordine sparano sul corteo dei manifestanti senza adeguato preavviso per fermare una parte del corteo, di giovani, che volevano andare in corso dei Tintori verso la sede della Camera del Lavoro. 4 morti (tre operai e una guardia) e vari feriti. Mentre almeno cinquantamila persone con bandiere rosse seguono il funerale dei tre operai, viene proclamato lo sciopero generale.

L’occupazione delle fabbriche nel settembre del ’20 ha una partecipazione compatta e disciplinata delle poche grandi fabbriche e di molte delle aziende di modeste dimensioni. Dal 2 al 30 settembre l’occupazione interessa circa una decina di fabbriche e circa 3000 operai organizzate da fitta rete di rappresentanti di fabbrica, , commissioni interne, commissari di reparto, consigli di fabbrica, capaci di autogestire gli impianti che infatti, a differenza di altre regioni, continuarono a garantire ritmi di produzione quasi normali.

Aspetto qualificante delle lotte di fabbriche è l’attenzione prestata al tema della professionalità, al ruolo sociale e produttivo del lavoro. Aspetto che affonda le sue radici nelle caratteristiche di fondo della classe operaia fiorentina e che vede come corollario la lotta contro la concezione della fabbrica come dominio assoluto del padrone. C’è un’attenzione, quasi una cura della fabbrica, delle macchine, dei prodotti che segna la storia della classe operaia fiorentina e che emergerà in un momento drammatico quale la primavera estate del ’44 quando saranno gli operai a salvare le fabbriche dal trasferimento in Germania, voluto dai nazisti in ritirata, smantellandone i pezzi in modi tali da poterle poi, a liberazione avvenuta, ripararle, tutelando cose i beni dei padroni ma anche e soprattutto il proprio futuro e quello del Paese. La Pignone è la fabbrica che meglio rappresenta questa tendenza, non a caso nell’occupazione del 1920 commissione interna e commissari di reparto sono impegnati fortemente a dare prova di capacità e autonomia organizzativa e produttiva, la fabbrica sono anche loro perché senza il loro lavoro, senza la loro cultura del lavoro, la loro professionalità, i loro sacrifici, essa non esisterebbe, la fabbrica quindi non è solo il padrone. La rivendicazione del valore sociale ed economico del lavoro operaio sarà il filo rosso che segnerà tutte le diverse fasi del Novecento.

Contemporaneamente la dirigenza della sezione socialista conosce un processo di ulteriore radicalizzazione che si concretizza nell’esclusione degli esponenti riformisti dalle liste per le elezioni amministrative nell’autunno del 1920, che vedono peraltro la vittoria della lista “nazionale”. Al di là delle aspettative di massimalisti e comunisti, l’aspettativa della rivoluzione, spaventando ceti sociali diversi, consolida le forze conservatrici. A novembre la corrente comunista assume la guida della sezione urbana e di tutta la Federazione. L’adesione della maggioranza dei delegati fiorentini al Partito comunista d’Italia nel congresso di Livorno del gennaio del 1921 non appare quindi una sorpresa, ma il culmine del processo di radicalizzazione articolatesi negli anni e nei mesi precedenti. Infatti 4003 voti andarono ai comunisti, 3309 ai massimalisti e 229 ai riformisti. Come già sottolineava Giovanni Gozzini molti anni fa, tutta la regione vede una significativa adesione al nuovo partito, tanto che la Toscana ne è il secondo punto di forza a livello nazionale dopo il Piemonte. La scissione è maggioritaria nelle province di Firenze, Arezzo e Massa Carrara. Ma proprio a Firenze emerge uno degli elementi di maggiore novità del PCdI rispetto al PSI, pur nella stretta contiguità con valori e miti del massimalismo (che si rispecchiano in parte anche in una contiguità di classe dirigente): l’emergere di una nuova classe dirigente – ben simboleggiata dal segretario provinciale Spartaco Lavagnini – non solo espressione dei ceti operai e non più medio-borghesi, ma soprattutto interprete “di un rapporto diverso con le masse popolari, non più di tipo pedagogico e tribunizio – proprio degli “intellettuali” appartenenti alla tradizione socialista – bensì fondato su un’esperienza diretta di lotta e di organizzazione, molto più vicino alle aspirazioni e ai bisogni del popolo” [cfr. La formazione del partito comunista in Toscana 1919-1923, Quaderni dell’Istituto Gramsci – Sezione Toscana n. 3, Firenze, 1981, p. 208]. In città il nuovo partito riesce a strutturarsi significativamente e rapidamente grazie all’adesione plebiscitaria della Federazione giovanile socialista che porta in dote non solo entusiasmo, ma anche molte sedi, fondamentali per avviare un’organizzazione effettiva sul territorio. Immediato è l’impegno a costituire gruppi nei luoghi del lavoro, a partire dalle fabbriche; significativa la “conquista” della FIOM cittadina. Ma la strada appena imboccata non sarebbe stata agevole. E non solo per le divisioni a sinistra.

Firenze è, infatti, contemporaneamente precoce anche nelle violenze squadriste che intervengono a segnare la vita della città e della provincia, con la forza della violenza, proprio fra il dicembre del 1920 e i primi mesi del ’21, spinte dalle paure dei ceti medi spaventati dalla rivoluzione minacciata e soprattutto dai sostegni di agrari e industriali, la vecchia classe dirigente gravemente turbata dalla perdita del potere locale dopo le sconfitte alle elezioni amministrative tenutesi nell’autunno (con l’eccezione di Firenze città). Dopo il settembre delle bandiere rosse il quadro stava infatti rapidamente mutando e avrebbe colpito in primo luogo proprio la neonata sezione del partito comunista d’Italia con la barbara uccisione del suo segretario Spartaco Lavagnini, il 27 febbraio 1921. Troppo evocata, la rivoluzione aveva saputo suscitare e unire tutti i suoi oppositori proprio mentre i suoi sostenitori si dividevano ed isolavano, rimaneva mito e spettro, senza, del resto, essere mai stata realtà.




Nascita di una democrazia

«La Repubblica non fu e non doveva essere soltanto un cambiamento di forma di governo: doveva essere, e sarà, qualcosa di più profondo, di più sostanziale: il rinnovamento sociale e morale di tutto un popolo; la nascita di una nuova società e di una nuova civiltà» (Piero Calamadrei)

La nascita della Repubblica è stata giustamente considerata una data storica per il nostro paese, ma non è stata quello che si potrebbe definire ‘un parto facile’, tutt’altro. Non a caso intorno alle circostanze della sua proclamazione si addensano ancora oggi molti interrogativi cosi come le accorate e solenni parole di Piero Calamandrei sopra riportate non sono che un’aspirazione alla nascita di una ‘religione civile’ repubblicana nutrita a lungo da una componente dell’antifascismo.

Dopo una guerra sanguinosa e vent’anni di  dittatura fascista, proprio il 2 giugno 1946 l’Italia è chiamata ad un doppio compito: esprimersi sulla forma dello Stato (monarchico o repubblicano) e votare i partiti che saranno rappresentati all’Assemblea Costituente.
Alcuni decreti luogotenenziali avevano posto le basi legislative per il referendum: quello del Governo Bonomi (n. 151 del 25 giugno 1944) e soprattutto tre del governo De Gasperi  (16 marzo 1946, n.74, n. 98 e n. 99) che  integravano e modificavano la normativa precedente, affidando appunto ad un referendum popolare la decisione sulla forma istituzionale dello stato e fissando le norme per la contemporanea effettuazione delle votazioni per il referendum e l’Assemblea costituente, quest’ultima da eleggersi con sistema proporzionale.

Dopo molto tempo gli italiani tornano a votare democraticamente (in Italia non accade dal 1924, escludendo i plebisciti del 1929 e del 1934) e, inoltre, si tratta della prima consultazione in cui hanno diritto di voto le donne.
Il 31 gennaio del 1945, infatti, con il Paese ancora diviso ed il nord sottoposto all’occupazione tedesca il Consiglio dei Ministri presieduto da Ivanoe Bonomi emanò un decreto che riconosceva il diritto di voto alle donne (Decreto legislativo luogotenenziale 2 febbraio 1945, n. 23).
Questo è esercitato nel corso delle elezioni amministrative del marzo 1946 ma è sicuramente con il voto del giugno che la rappresentanza politica femminile acquista un valore che si può definire sicuramente fondativo della nuova democrazia repubblicana. Sui banchi dell’Assemblea costituente sedettero una prima pattuglia di donne: nove della Democrazia Cristiana, nove del Partito Comunista Italiano, due del Partito socialista ed una dell’Uomo qualunque.

Riguardo alla scelta istituzionale, le forze politiche si schierarono diversamente: il partito comunista, il partito socialista e il partito d’azione manifestarono apertamente la loro posizione repubblicana, insieme ovviamente al partito repubblicano.
Un’analisi più attenta va fatta sulla posizione tenuta dalla democrazia cristiana, che al suo interno aveva posizioni variegate. Nell’aprile 1946 si tenne il congresso di Roma dove la maggioranza della DC si schierò a favore della repubblica, ma con dei distinguo poiché al suo interno i rappresentanti del Nord erano quasi tutti in favore della repubblica, quelli del Sud per la monarchia. Nonostante questa scelta, probabilmente per la presenza di queste queste posizioni contrapposte, il partito non obbligò i suoi membri a votare in un senso piuttosto che in un altro. La stessa libertà venne lasciata ai membri del partito liberale, a netta maggioranza monarchica.

Un tentativo per portare la bilancia a proprio favore fu fatto dalla monarchia italiana: il 9 maggio 1946 il re Vittorio Emanuele III (che portava con sé la responsabilità di avere spalancato le porte al fascismo) abdicò in favore del figlio Umberto, una mossa che cercava di dare nuova luce alla monarchia ma che giunse troppo tardi.

Il nuovo corriereIl 2 giugno 1946 il popolo italiano si espresse in favore della repubblica. La campagna elettorale fu assai vivace, e l’affluenza alle urne fu altissima: votò l’89,1 per cento dei 28.005.449 aventi diritto, per un totale di 24.947.187 votanti. La forma repubblicana venne sostenuta da 12.717.923 voti contro i 10.719.284 a favore della monarchica.
I risultati del referendum mostrarono concretamente come le forze politiche del Paese erano geograficamente spaccate tra Nord e Sud. Culla dei voti monarchici fu proprio il Mezzogiorno dove questi cercarono il loro consenso nel tentativo di colmare le distanze nei confronti dei repubblicani, ben consci del fatto che sarebbe stato inutile condurre tale operazione al Centro e al Nord. Lo stesso Piemonte, padre della dinastia, a seguito del referendum darà una netta maggioranza repubblicana.
Nelle elezioni per la Costituente, la Democrazia cristiana divenne il primo partito (35,2%), seguito da due partiti di sinistra, il Psiup (20,7%) e il Pci (19%).
Il 13 giugno, dopo la pubblicazione ufficiale dei risultati, Umberto II lasciò l’Italia e partì in esilio per il Portogallo. Luigi De Nicola, liberale, venne eletto Presidente provvisorio.

In Toscana la scelta repubblicana è nettissima. Nel referendum istituzionale i voti a favore della repubblica sono il 71,6 per cento; alla monarchia solo il 28,4 dei voti validi. Nelle elezioni per l’assemblea costituente, il Pci raccoglie il 33,6 dei suffragi, la Dc il 28,2, il Psiup-Psi il 21,9, il Pri il 5,6 mentre il Fonte dell’uomo qualunque il 4,2. Seguono il Partito d’azione (1,6) e i cristiano sociali (1,1). Il Pci sarà rappresentato da 14 costituenti, la Dc da 13, il Psiup-Psi da 10, gli azionisti da 2 e 1 il Pri. Il Partito d’azione, dalle cui fila provenivano esponenti di primo piano della Resistenza toscana e che non a caso aveva dato i tre presidenti del Comitato toscano di liberazione nazionale (CTLN) si scioglierà e i suoi rappresentanti confluiranno in diversi partiti. Tra i capoluoghi di provincia italiani, Grosseto e Livorno furono rispettivamente terzo e quarto nei voti a favore della repubblica (primi Ravenna con 91,2 e Forlì con 88,3).

La percentuale dei voti espressi per la Repubblica nei capoluoghi di provincia toscani fu la seguente:

schedaGrosseto 80,9
Livorno 80,5
Pistoia 74,3
Pisa 71,2
Massa 70,0
Arezzo 64,4
Firenze 63,4
Siena 59,2
Lucca 55,8

Una pagina fondamentale e fondativa della Repubblica democratica veniva cosi scritta e vedeva proprio la Toscana tra le regioni italiane che con più diffusa convinzione contribuiranno attraverso i propri rappresentati (tra gli altri basti qui ricordare il ruolo di primo piano svolto da Piero Calamandrei e Giorgio La Pira)  ai lavori dell’Assemblea Costituente che porteranno alla stesura della nostra Carta costituzionale entrata in vigore dal 1 gennaio 1948.

Festa nazionale già dal 1947 la celebrazione della data del 2 giugno non decollerà mai del tutto nella sua dimensione popolare, spesso ristretta ad uno  stanco cerimoniale fatto di parate militari e ricevimenti nei giardini del Quirinale fino ad essere soppressa nel 1977. Con la Presidenza di Carlo Azelio Ciampi  invece, in seguito alla L.336 del 20 novembre 2000, il 2 giugno è tornata ad essere una festa nazionale del calendario civile repubblicano, celebrata quale momento essenziale della storia unitaria.




Il comunismo dei contadini. Storie senesi.

Arrivando a Siena nel 1973 dalla Sardegna, dove lasciavo alle spalle 10 anni di impegno politico quasi senza respiro da studente, da insegnante e da militante, pensavo di essere giunto in una terra in cui la tradizione comunista si potesse vedere nei comportamenti sociali collettivi e nello stile di vita. Venendo da un’isola prevalentemente democristiana, e anche da una rete familiare assai conservativa, credevo che avrei trovato qui un popolo all’avanguardia. Rimasi subito deluso. Matrimoni e funerali religiosi e consumisti, alle scuole elementari e medie quasi solo le mie figlie non facevano religione. C’era più circolazione culturale ma sempre limitata ai soliti gruppi. Venendo da una formazione marxista, trovai come interlocutori i meno conformi a quella tradizione: ‘quelli di Lotta Continua’, un gruppo assai vivace e plurale che diede poi vita al movimento ecologista. E sentii vicini i partigiani più critici verso il PCI con i quali si diede vita a varie iniziative legate al Soccorso Rosso. Fui incuriosito dell’esperienza della Resistenza in questo territorio e cominciai a studiarla facendo molte interviste sia nelle zone della Brigata Boscaglia, che in quelle della Spartaco Lavagnini. Mi colpì molto il nesso tra Resistenza e lotte contadine che si svilupparono nel dopoguerra. Fu il tema che decise il mio rapporto di ricerca nella mia nuova vita toscana. In una di quelle interviste un ex partigiano mi disse una frase che è rimasta scolpita nella mia memoria: i mezzadri sò stati la classe operaia del senese. I contadini tanto deprecati già dal Manifesto di Marx ed Engels (“l’idiotismo della vita rustica”), erano stati ‘classe operaia’. Qualcosa di così stravagante da ricordare il finale del film Miracolo a Milano, dove i poveri volano in cielo a cavallo delle scope. Questo filo rosso ha animato varie tesi di laurea che ho seguito. Ho ancora nella memoria i racconti degli scioperi durante la trebbiatura quando la bandiera rossa veniva fissata sullo stollo del pagliaio. Dai racconti mi si palesavano immagini di carabinieri a cavallo nei poderi, tentativi di difesa delle famiglie sfrattate o l’accoglienza dei bambini dei braccianti del Sud impegnati nelle lotte. Totalmente padroni dello spazio poderale, della geografia tra boschi e macchie e coltivato, i contadini mettevano in scacco carabinieri e padroni, come avevano fatto i partigiani alla macchia. Mi fu facile essere dalla parte dei contadini. Ma negli anni ’70 era una storia già conclusa. L’inurbazione di questi strati sociali nuovi alle città era forse anche la spiegazione di una cultura diffusa ritualista e cattolica, non certo innovativa. Ma la città di Siena era da sempre storicamente conservativa. I giovani di sinistra criticavano i ‘borghesi’ che, dopo la messa, tornavano a casa con la confezione delle paste del Nannini. Nel movimento del 1977 vi furono persino critiche al Palio come oppio dei popoli.

La mia scelta è rimasta legata alla ricerca e alla raccolta di memorie. La frase dell’ex partigiano sui contadini come classe operaia, ha trovato poi un senso quasi letterale in una ricerca ad Asciano, e nell’incontro col capolega sindacale Gino Boccini, che in seguito consegnò all’Università il suo quaderno di appunti sulla militanza sindacale contadina. I suoi appunti che partono dal 1947, faticosamente strappati a una scrittura poco abituale, mettono al centro la classe operaia e l’unità di tutte le forze sociali sotto la guida del Partito Comunista. Ma vi è anche testimonianza dei conflitti e delle invidie tra operai e contadini. Operai reali e non teorica ‘classe operaia’, erano quelli che dicevano ‘andiamo a vedere quello che nascondono i contadini e quello che mangiano più di noi’ (cit.) mentre i contadini dal canto loro ‘invidiano la classe operaia’. Boccini è un esempio di militante capace di direzione consapevole. Un quadro contadino a tutto campo, che vive un processo di emancipazione nella scrittura, nella funzione che svolge, nella ideologia e nella strategia che propone, che gli viene da una formazione nuova legata al sindacalismo e alla politica del PCI. Vedere nei suoi appunti il processo di nascita di una nuova coscienza sociale e politica è stato davvero un’esperienza emozionante. Così è successo anche con le memorie scritte da Delia Meiattini una contadina mezzadra che ha lasciato la sua storia di vita in Le barriere invisibili. Cronaca di una vita di una donna dalla terra alla politica. [1] Per me un testo straordinario perché da dentro una infanzia contadina che vive la guerra, il passaggio del fronte, l’alluvione, nasce una coscienza elementare, ingenua prima e poi determinata e anche critica verso il PCI per il quale diventerà in seguito Consigliere regionale. Una sorta di ‘fenomenologia dello spirito’ dentro una singola vita contadina che ne rappresenta certo molte altre. Vite fatte di tanti piccoli episodi, imprese, eventi che sono parti di una storia collettiva di una nuova comunità politica, quella dei mezzadri, vista dal basso. Il libro di Delia è stato studiato da un gruppo di giovani antropologi, studenti dell’Università di Roma e discusso con lei al festival dell’Unità, a Siena in Fortezza, probabilmente nel 1998. Con la sensazione di avere messo la storia contadina al centro di un mondo politico che ormai aveva del tutto dimenticato la stagione epica dei mezzadri. Il suo racconto ci mostra una ragazza proiettata improvvisamente alla scuola quadri femminile di Faggeto Lario, sul lago di Como, dove le corsiste vengono interrogate dalla polizia e scambiate per prostitute, e dove apprende la prima lezione sul Manifesto del Partito comunista di Marx ed Engles che cominciava con “Uno spettro si aggira per l’Europa…”. Scrive ancora ingenuamente dopo tanti anni di militanza:

Nella cultura contadina lo ‘spettro’ è paura. Io dopo la lettura di quell’opuscoletto non riposai alcune notti. Dalla lettura e dalla discussione del Manifesto non capii granchè . Il corso andava avanti, per alcune di noi, mè compresa, proprio per la difficoltà a capire ciò che si leggeva e discuteva si ebbero delle crisi a ripetizione. Alcune di noi chiesero di tornare a casa.” (pag. 82).

Racconto questo, che ricorda ‘come fu temprato l’acciaio’. [2] Si tratta solo di due casi, ma assai rappresentativi della storia sociale e politica del dopoguerra toscano e confermati da molti racconti simili raccolti su questi temi. Nella sua maturità di funzionaria comunista, Delia, deputata regionale, responsabile della Coop, osa criticare i pettegolezzi, il parlare alle spalle e il perbenismo (allora si diceva ‘piccolo-borghese’) imperante nella Federazione di Siena. Quel perbenismo di cui ho parlato all’inizio di questo scritto e che mi ha procurato una certa delusione.

Certo Siena ha vissuto un difficile processo di trasformazione ed ha accolto (brontolando sottovoce) tanti contadini che per secoli aveva preso in giro con satire sui villani (se ne trovano già nelle novelle del Sermini), che aveva chiamato ‘gazzillori’ se non ‘quelli dell’unghio spaccato’. Insomma, una razza inferiore.

Alle elezioni comunali di Siena il centro storico votava abitualmente DC mentre la periferia, che accerchiava la città, votava PCI. Una ragione di più per fare il tifo per i contadini, spesso impegnati negli orti urbani. Per la ricerca antropologica le principali fonti sono state le donne. Le donne che, secondo una espressione sintetica di Giacomo Becattini, ‘hanno fatto finire la mezzadria’, ma ne sono state anche le principali memorialiste. Progressivamente notavo che nella cultura senese si era di fronte a donne forti, donne protagoniste, donne dirigenti. Anche se avevano faticato ad emergere avendo fatto per lo più, se contadine, solo le elementari.

Nella seconda metà del Novecento il processo di presa di coscienza e di capacità di gestione della modernizzazione da parte dei contadini si è come mescolato nel nuovo groviglio delle identità urbane, finendo per sparire. Diventando infine subalterno al ruolo politico di amministratori di formazione bancaria, impiegatizia, professionistica. Tradizionalmente egemoni, moderati, e anticontadini. Anch’essi idealmente trasformati dai grandi moti sociali ma comunque non disponibili ad accogliere una rilevanza contadina nella gestione della cultura delle città toscane. Del resto, gli ex contadini nemmeno provavano a mettersi in campo. Col risultato che la cultura comunista toscana che poteva essere innovativa nella ricerca universitaria, era invece tradizionalista e continuista sul piano della tradizione artistica, letteraria, elitaria urbana. Nelle condizioni date, la possibilità di creare una nuova cultura moderna, popolare e di massa, secondo le idee guida di Antonio Gramsci, non era certo praticabile. E ben ci stava il parere di Gramsci sul ruolo nazionale della Toscana nel Novecento: “non ha più un ruolo proprio e vive solo della boria dei ricordi passati”.

Negli anni ’70 in un numero di Critica Marxista, Leonardo Paggi e Paolo Cantelli, in quel momento intellettuali di punta del PCI, criticarono e accusarono di provincialismo questo scenario culturale e politico. [3] Ma senza sortire alcun effetto. Eppure, il voto contadino al PCI ha continuato ugualmente per decenni ad essere letteralmente lo zoccolo duro dell’elettorato comunista dell’Italia centrale ex mezzadrile. Probabilmente il voto si fondava su quello che altrove veniva chiamato clientelismo o su alleanze storiche che favorivano il progressivo passaggio da contadini a dipendenti pubblici, e in qualche zona da contadini a imprenditori o, in sintesi, su un rapporto di fedeltà basato su reciproci vantaggi.

Che senso ha parlarne ex post, quando nelle aree compatte del voto ex contadino al PCI compaiono defezioni e vuoti dovuti da un lato alla scomparsa di una generazione, dall’altro all’abbandono dei paesi e delle zone interne da parte dei contadini rimasti e dei figli degli ex contadini? Da un lato questa vicenda fa parte dei grandi paradossi attraverso i quali il PCI si è affermato in Italia come potenzialmente egemonico, dall’altro ci aiuta a capire il rilievo della storia sociale, il suo peso pratico se si conviene con Marc Bloch che “l’incomprensione del presente nasce fatalmente dall’incomprensione del passato”.

Le molte storie di vita che sono state raccolte sia attraverso la memoria orale [4] che attraverso la scrittura restano una risorsa e una guida per ritrovare le fila della storia del territorio. Aprono a percorsi della vita vissuta e della soggettività che hanno avuto poca rilevanza sia negli studi che nelle riflessioni politiche. Esse continuano a richiamare l’attenzione su uno straordinario periodo di trasformazioni culturali e sociali che è ancora fondamentale per fare ‘il passo indietro del torero’, [5] quello che consente di vedere con lucidità le difficoltà politiche e sociali del presente. Un mondo di storie che è ben lontano dall’essere visibile ai ceti dirigenti della sinistra attuale.

Note

[1] Comitato di Ente per le pari opportunità, Comune di Siena, s.d. (1997).

[2] È il titolo del romanzo autobiografico di Nikolaj Ostrovskij del 1932, esempio della letteratura del realismo socialista sovietico e quasi involontariamente comico nel descrivere la tempra della nuova umanità comunista.

[3] P. Cantelli, L. Paggi, Strutture sociali e politica delle riforme in Toscana, in “Critica Marxista”, n. 5, 1973.

[4] A. Andreini, P. Clemente (a cura), I custodi delle voci. Archivi orali in Toscana: primo censimento, Firenze, Centro Stampa Regione Toscana, 2007.

[5] E. De Martino, Mito, scienze religiose e civiltà moderna, in Id., Furore, simbolo, valore, Milano, Feltrinelli, 1962, è una metafora che indica la necessità di collocarsi indietro nel passato per cogliere con chiarezza il presente, è la sostanza di una postura riflessiva.




Gualtiero Vittori: un militante della base comunista

Gualtiero Vittori nasce a Livorno da una famiglia di piccoli commercianti nel 1926.[1] Il fascismo è da poco tempo al potere ma l’educazione che riceve dal padre, antifascista, e dagli stessi nonni, lo conducono sin da ragazzino a immedesimarsi con gli oppositori al regime. Del resto l’ambiente di bottega, un bar vicino ad alcune zone operaie della città, come quella del Cantiere e quella del porto, fanno sì che i suoi contatti siano sempre contrassegnati dalla cifra indiscussa dei “sovversivi”, anarchici, socialisti, comunisti e ancora qualche repubblicano. Una indiscussa congerie politica che connotava la città labronica già da diversi decenni e dove i comunisti, gli ultimi arrivati, si faranno strada a poco a poco soprattutto grazie ad alcune figure carismatiche che li rappresentano, come Ilio Barontini, Vasco Iacoponi, ma anche Emilio Valesini, Otello Frangioni, Garibaldo Benifei e decine di altri che nella sua memoria, conservata all’Istoreco, Gualtiero ricorda con affetto e sollecitudine.

La stesura della memoria di Vittori si colloca nel periodo successivo alla Bolognina quando il Partito comunista si è trasformato in altro da sé e per questo vecchio militante che si autodefinisce “un soldato” di quell’ideale, probabilmente molte cose cominciano a scricchiolare. Ma non possiamo addentrarci in ipotesi poiché il testo non ne fa cenno, è la malizia del lettore che intravede questa lettura come possibile.

Russardo Capocchi

Russardo Capocchi

La memoria fu portata all’Istoreco dal nipote, Vittorio Vittori, già molti anni or sono e purtroppo non c’è stata fino a questo momento possibilità di valorizzarla. In occasione del centenario del Pci, mi è parso opportuno tirarla fuori dal cassetto e non potendo ancora stamparla in qualche modo, perlomeno proporne qualche considerazione sul sito Toscananovecento.it. Il testo è diviso in tre parti, la prima comincia subito dopo la liberazione di Livorno quando Vittori viene assunto nella base degli americani come facchino, autista e per altri lavoretti, e si conclude verso la fine degli anni Cinquanta, periodo durissimo per la sua famiglia presa di mira dalla polizia di Scelba che gli stava sempre addosso in modo vessatorio. La famiglia che era già stata segnata dalla morte del padre durante la guerra, poi sarà colpita anche dalla invalidità del fratello che per fortuna verrà in seguito assunto in Comune come invalido e quella assunzione permise una schiarita nella loro condizione generale.

La seconda parte va a ritroso e come scrive Gualtiero, “è un diario alla rovescia”.[2] Sicuramente è la parte più interessante perché è quella dove si dispiegano meglio le ragioni del suo “essere comunista”. Comincia con il coinvolgimento nella pedagogia del padre che, quando, bambino, lo porta al cimitero a visitare i defunti della famiglia, non dimentica mai di portarlo davanti alla tomba di Russardo Capocchi, grande figura del socialismo e del sindacalismo livornese[3]. Abitudine questa così tanto acquisita che ancora in tarda età, Gualtiero si ritrova a compiere lo stesso rito.

Ma influiscono molto nella sua preparazione e nelle sue inclinazioni anche alcuni suoi compagni di giochi e quelli un po’ più adulti del fratello, come Alfio Pensabene, lavoratore del porto, arrestato dai repubblichini e morto poi a Mauthausen.[4]

Aver assistito più di una volta per la ricorrenza del 1 maggio alle aggressioni gratuite, allorquando qualche avventore si presentava al bar con una cravatta che aveva qualcosa di rosso e il fascistello di turno andava a tagliargliela, sicuro di rimanere impunito, Gualtiero era rimasto disgustato per quelle esibizioni di tracotanza. Umiliazioni fini a sé stesse, ma umiliazioni ingiustificate e prevaricatrici che rimasero impresse in un adolescente abituato a veder suo padre ritingere i muri del suo locale ogni qualvolta vi comparivano scritte tipo: W il fascio, W il Duce.

Emergono anche altri nomi di importanti oppositori scomparsi nella smemoratezza della storia come Dino Rebuzzi, frequentatore del suo bar, antifascista di tempra, combattente nelle Brigate Garibaldi in Spagna, ferito e successivamente condannato al confino a Ventotene. Il padre avvertito da un questurino si recò con la moglie, il figlio ed un amico, alla stazione dove avrebbe transitato e riuscì a porgergli: “dopo aver chiesto il permesso ai carabinieri di scorta, una bottiglia di ponci e assieme al Manzani altri piccoli aiuti vedi pure oggetti di vestiario.”[5] Ed insieme a lui decine di altri, sconosciuti ai più e raramente passati anche attraverso il filtro della storia ufficiale.

Il teatro Avvalorati a Livorno (Archivio Istoreco)

Il teatro Avvalorati a Livorno (Archivio Istoreco)

Il nostro autore è un militante di base si potrebbe dire, di quelli che sicuramente non hanno neppure mai aspirato a salire nella gerarchia interna, sicuramente un militante appassionato e fedele. Uno tra le tante migliaia e migliaia di iscritti a quel partito, partito che riuscì a stringere a sé, e non solo con la speranza, che sicuramente c’era, di un mondo migliore e più giusto, ma anche con l’esempio dei propri dirigenti. Alla componente popolare della sua base i responsabili della federazione, quelli a capo di settori importanti della vita amministrativa, economica e politica, si presentavano in quegli anni, a quegli uomini e a quelle donne del popolo, come: “compagni di strada”, portatori di una moralità anche rigida ma irreprensibile e di una coerenza di comportamento indiscutibile. La memoria dà conto di diverse testimonianze in questo senso. La più cocente e la più intensa è sicuramente quella legata a Dosolino Bendinelli, comunista e perseguitato politico. Si reca al bar da Gualtiero che rievoca: “chiede di Dino Frangioni, le dico che non si è ancora visto, mi consegna del denaro pregandomi di darlo a Dino per pagare la tessera dell’ANPPIA[6] dovendole riferire che era pari, prese la sua consumazione, mi salutò e non lo rividi più perché all’indomani si sparò una rivolverata (sic!). Gualtiero scrive ancora: “Può anche sembrare banale questo appunto, ma… pensateci un momentino su come erano fatte certe persone”[7].

E non è il solo episodio che vada in questa direzione. Quello che aveva sempre colpito la sensibilità di Gualtiero era sicuramente non tanto la profondità politica delle analisi, o la ricchezza culturale dei dirigenti, l’aveva impressionato soprattutto la loro onestà, la loro coerenza di uomini prima ancora che di dirigenti. Il milieu sociale nel quale era cresciuto si prestava ad una emancipazione politica contrassegnata da queste cifre. Nato in una famiglia composta da un nonno di fede repubblicana e da un padre socialista che aderì al Pci sin dalla scissione del 1921, si trovò collocato naturalmente dentro una tradizione laica e sovversiva, considerate anche le peculiarità politiche della storia della città[8]. Oltre alla passione politica il padre trasmise ai due figli, Gualtiero e Pietro, la passione per la lirica, anche questa passione assai radicata nella città di Mascagni. Uno dei bar da loro gestiti si chiamava, non a caso, Il lirico. Pietro, il fratello più grande e più riflessivo fu indirizzato allo studio della musica e del violino mentre Gualtiero più insofferente alla disciplina fu indirizzato alla scherma. Due passioni queste: la lirica e la scherma tipicamente labroniche.

I diversi esercizi commerciali (Bar del Teatro, Bar Vittori, Bar Moderno) che la famiglia gestì nel tempo, furono tutti collocati nelle zone del centro. Luogo deputato delle manifestazioni di protesta dove spesso, soprattutto nel dopoguerra, Gualtiero venne coinvolto. Il bar era ed è un luogo di ritrovo, dove si faceva colazione la mattina prima di andare a lavoro, dove si passava dopo la fine del turno e dove ci si recava per giocare a carte e discutere con gli amici. Assidui frequentatori erano i portuali, gli avventizi del porto, i dirigenti della Compagnia Portuale ma anche gli uomini più esposti durante il ventennio dell’antifascismo locale, come Barontini[9] o Vasco Jacoponi[10] e altri come Sergio Manetti[11], futuro segretario della locale Camera del Lavoro, Garibaldo Benifei[12] antifascista di lungo corso, Danilo Conti segretario della Fiom e tantissimi altri ancora che sono ancora oggi vivi nella memoria democratica della città.

Il giovane Gualtiero li ascoltava ragionare, coglieva le mezze parole che si dicevano a bassa voce a causa delle lunghe orecchie della polizia di regime prima e poi della polizia politica dell’era di Scelba. Durante l’ultimo periodo della guerra, quando con la famiglia per colpa dei bombardamenti che colpirono la città[13], si rifugiarono tutti a Montenero, si mise ad ascoltare radio Londra e a portare di nascosto qualche arma ai rappresentanti del comando tappa del distaccamento Oberdan Chiesa.[14]

Azioni adatte alla sua giovane età (aveva tra i 16 e i 17 anni), sicuramente pericolose ma svolte con piglio guascone, sicuro e sfottente nei confronti delle autorità repubblichine. Con la fine della guerra però non ci fu un vero e proprio ingresso nella libertà democratica. Dopo la caduta del primo governo De Gasperi si entra a tutti gli effetti nel clima duro della guerra fredda. Sia Gualtiero che i suoi sono tenuti d’occhio. Troppi comunisti frequentano il loro bar ed allora a parte i continui cambiamenti di lavoro per tirare a campare, quando Gualtiero entra in pianta stabile nella gestione dell’esercizio commerciale, spesso si trova costretto a rispondere a vere e proprie vessazioni da parte delle forze dell’ordine, fino all’episodio più grave quando trascorrerà in prigione diversi giorni in carcere. Durante la lotta del Cantiere, nei primi anni Cinquanta, si vede sequestrare un radiogrammofono con l’accusa che si trattava di una radiotrasmittente e  alla punizione di 20 giorni di chiusura![15] Scrive amareggiato:

Eravamo rientrati in quella sorveglianza asfissiante che non ci dava modo di lavorare con sufficiente tranquillità, quando le guardie non entravano si mettevano di faccia a osservare. Arrivammo così alla famosa legge truffa…la sera dopo una comitiva di compagni dopo essere stati a festeggiare passò sotto i portici di Via Grande dall’altra parte della strada rispetto a dove era il Bar. Era circa la mezzanotte e cantavano tutti assieme “Malafemmina” – neanche un motivo politico – entrano in bottega le guardie e, ti pareva, mi intimano di farli smettere. Faccio presente che non sono nel mio negozio e tantomeno vicino e che non stava a me intervenire per farli tacere. Bene: invito a presentarsi al Commissariato di Forte San Pietro all’indomani mattina e là ci fu comunicato la chiusura immediata a tempo indeterminato…[16]

Il Caffè Bettinetti a Livorno (Archivio Istoreco)

Il Caffè Bettinetti a Livorno (Archivio Istoreco)

Nel 1955, alla televisione danno la famosa trasmissione: Lascia o raddoppia? che si poteva vedere anche nella sala Tv nel bar dei Vittori che furono tra i primi esercizi ad avere l’apparecchio. Avevano collocato un’insegna luminosa per segnalarlo e avevano svolto le pratiche obbligate al Comune e si ritenevano a posto. Ma “una mattina arriva un poliziotto che mi conosceva bene e malgrado questo quando all’una di notte chiudevo il bar per andare a casa mi chiedeva i documenti”[17]. Poiché il poliziotto aveva un’ordinanza del Commissariato che intimava di togliere immediatamente l’insegna, il nostro autore perde il controllo e spacca alcuni mobili dell’arredo del bar, per l’esasperazione alla quale era arrivato. Si giunge in questo clima al 1958 quando in città viene organizzata una manifestazione per la Pace in Libano. Gualtiero aveva un appuntamento ma non riesce ad arrivare sul luogo a causa della presenza della celere. Prova e rientrare al bar ma “niente sull’angolo arriva un’altra mandata di poliziotti, scendono dal camion e cominciano a spintonare tutti coloro che si trovavano là, io mi fermo ma arrivano anche a me, spintoni, io non ci stò (sic!) e reagisco e giù manganellate io non sto neanche a queste, mi rompono gli occhiali da sole sul viso con taglio al sopracciglio, smanaccio un po’; poi uno di essi disse: ‘portatelo via!’, mi presero per le braccia, mi liberai dicendo: ‘Ci vengo da me’, mi caricarono sul camion (c’erano altri) e da lì in questura”[18]. Da lì ai Domenicani, all’epoca il carcere di Livorno. Dopo alcuni cambi di cella lo mettono con altri due, dei quali uno giovanissimo che verrà presto rilasciato, ed un altro, Mario Corucci. Alcuni giorni dopo arriva un pacco da Piombino e poi da Eddo Paolini[19] della Federazione di Livorno e dai portuali arrivano anche dei soldi. In sostanza si era attivato un “Soccorso rosso” che era riuscito a realizzare 5.000 £, una cifra non indifferente per l’epoca.[20] Il nostro autore commenta:

“le cifre non contano è importante sapere che qualcuno ti ricorda”[21].

Ma la solidarietà si espresse anche con la maggiore frequentazione più assidua del bar da parte dei clienti abituali. Interessante ricordare che dalla biblioteca del carcere si fa portare due libri già letti, I Miserabili di Victor Hugo e Martin Eden di London, due classici della biblioteca del buon comunista a partire dagli anni Trenta e Quaranta e come evidenzia questa memoria ancora centrali alla fine degli anni Cinquanta.

Ogni volta che lui, come altri, si trovano al cospetto del potere poliziesco, si rivolgono alla deputata eletta nella circoscrizione di Livorno, sorella del primo sindaco della città: Laura Diaz[22]. É una figura fondamentale che sta accanto a lui e a tutti quelli che si trovano nelle stesse situazioni. Con lei si sentono a casa. Alla fine al processo tutti gli imputati vengono condannati a 8 mesi, oltre al mese già trascorso agli arresti ma poiché anche un poliziotto testimonia a loro favore, la pena fu sospesa per cinque anni e il nostro venne scarcerato. Soltanto il suo compagno di cella, Corucci e una donna Giuseppina Santini,[23] rimasero in galera perché recidivi.

Subito dopo la liberazione gli viene notificata dalla Questura la diffida della durata di due anni e poiché capitava che la sera alla chiusura ci fossero discussioni con qualche cliente che aveva alzato il gomito e che Gualtiero non era proprio il tipo da contenersi, per non peggiorare la sua situazione, decide con la moglie e la madre, di vendere il bar. Comprano un negozio di alimentari e si procura una giardinetta per le consegne ma poi scopre che la diffida gli rende impossibile guidare l’auto e così se ne deve disfare. Intanto siamo arrivati al 1960 e ci sono i famosi fatti dei parà[24]. Prima la città è invasa dai militari e poi dalla polizia. Il nostro viene fermato e portato di nuovo in Questura. Il testo prosegue con i ricordi delle prepotenze subite e del calore della solidarietà ricevuta.

Immagine Barontini da diap

Ilio Barontini

Al termine, a giudicare dalla narrazione, si può pensare ad un vero e proprio pezzo aggiunto, nella cosiddetta III Parte, Vittori racconta episodi scollegati ma ai quali evidentemente teneva molto: la morte di Ilio Barontini, il XX° Congresso del Pcus e alcuni ricordi privati di serate passate con Sergio Manetti, con Fantolini e Paolini a cantare e a suonare la chitarra. L’immagine più forte e più bella di questa parte è quella riservata al funerale di Barontini e di Frangioni e Leonardi morti nello stesso incidente stradale, quando Vittori scrive:

La notizia della morte di Barontini, Frangioni e Leonardi ci giunse nel Bar (all’epoca in Piazza Mazzini), dapprima non chiara, si parlava di feriti, poi la verità dilagò come un’esplosione, non si parlava d’altro e posso dire che la totalità dei livornesi ne fù (sic) coinvolta compreso gli avversari politici. In migliaia ci recammo ad incontrare le salme, pioveva, era sera, e questa moltitudine si ritrovò a Stagno per darle il primo saluto, poi i funerali a Porta S. Marco.[25]

Credo che l’espressione “la verità dilagò come un’esplosione” sia la dimostrazione più forte della adesione a quel lutto e a quella storia che il nostro ci abbia lasciato.

Livorno, 12 maggio 2021

[1] Purtroppo in mancanza di familiari viventi non possiamo indicare la data della scomparsa.

[2] Gualtiero Vittori, Memorie, testo dattiloscritto e non datato, p. 22, conservato presso l’archivio Istoreco.

[3] C. Sonetti, Una morte irriverente. La Società di Cremazione e l’anticlericalismo a Livorno, Il Mulino, Bologna, 2007, pp. 160-163, il cui funerale fu una vera e propria manifestazione di antifascismo insieme a quella di Mario Camici. Cfr. a questo proposito anche Massimo Sanacore, Il percorso interrotto. Il pluralismo etnico, religioso e politico nel sistema industriale livornese. La storia e le immagini (1865-1940), Annuario Sibel, Livorno, Sibel, 2003. La notizia comparve anche su «l’Unità» del 22 aprile 1933.

[4] G. Vittori, Memorie, cit., pag. 11. Può darsi che il nome fosse Angelo e non Alfio perché con quel cognome si trova inserito nel sito, ademol-org/progetto-ocr/deportati-mauthausen. Cfr, Vincenzo Pappalettera, Tu passerai per il camino, Mursia, Milano, 1965.

[5] Ibidem, p. 13.

[6] Associazione nazionale perseguitati politici.

[7] Ibidem, p. 9.

[8] Cfr. gli ormai classici: Nicola Badaloni, Democratici socialisti e livornesi nell’Ottocento, La Nuova Fortezza, Livorno, 1987, Movimento operaio e lotta politica a Livorno 1900-1926, Editori Riuniti, Roma, 1977 e di Franca Pieroni Bortolotti, Socialismo e questione femminile 1892-1922, Mazzotta, Milano, 1974 e Nota sul primo antifascismo livornese, Olschki, Firenze, 1971.

[9] Cfr. Era Barontini, Vittorio Marchi, Dario. Ilio Barontini, Editrice Nuova Fortezza, Livorno, 1988, Fabio Baldassari, Ilio Barontini. Fuoriuscito, internazionalista e partigiano, Robin, Roma, 2013, e Mario Tredici, Gli altri e Ilio Barontini. Comunisti in Unione Sovietica, Ets, Pisa, 2017.

[10] Natale Vasco Jacoponi (1901-1963), eletto deputato nella I-II-III legislatura. Console dei Portuali nel secondo dopoguerra; storia.camera.it/archivio storico e wikipedia.it.

[11] Cfr. scheda su: consiglio.regione.toscana.it/consiglieri, e «Il Tirreno» del 27 gennaio 1999.

[12] Cfr. Garibaldo Benifei, Per la libertà: trent’anni di memoria fra antifascismo, Resistenza, cooperazione (1920-1950), Debatte, Livorno, 1996, Margherita Paoletti, Garibaldo Benifei. 100 anni di un antifascista tra Resistenza e bella politica, Comune di Livorno, 2012, anppia.it/antifacsiti/benifei-garibaldo.

[13] Laura Fedi, Bombardamenti a Livorno, in Aa.Vv. 28.05.1943. “Era di maggio.” Notte e giorno le sirene annunciavano i bombardamenti, Comune di Livorno, Livorno, 2013. Scrive Vittori a pagina 16: erano da poco passate le undici e si alza il lugubre ululato delle sirene, gli operai del Cantiere lasciano il posto di lavoro e si precipitano fuori dello stabilimento, io inforco la bicicletta e corro come un dannato verso la bottega, sul ponte nuovo tra gli schianti della contraerea cominciano a piovere le prime bombe, mi fermo in un portone ed un pescatore napoletano puntando una mano verso il cielo mi grida: eccoli accà, seguo l’indicazione e vedo questi apparecchi che sembrano giocattoli tanto era la loro distanza, al tempo stesso un aereo italiano vola a bassissima quota e si dirige forse verso il vicino aeroporto di Pisa, una torpediniera in bacino spara con le mitragliere accennando un inutile (data la distanza) fuoco di sbarramento; le bombe cadono a grappoli… ricordo in Piazza Roma un cavallo sventrato: la fila delle persone che abbandonavano la città era enorme..

[14] Bruno Bernini, Livorno dall’antifascismo alla Resistenza: il 10. Distaccamento partigiano e la liberazione della città, Comune di Livorno, 2001.

[15] G. Vittori, Memorie, cit., p.2.

[16] Ivi p.4.

[17] Ivi. p. 5.

[18] Ivi.

[19] Eddo Paolini è stato un importante quadro del Partito comunista, autore anche di un volume, E fu subito festa, Tipografia Benvenuti & Cavaciocchi, Livorno,1984.

[20] Ibidem, p. 6.

[21] Ivi.

[22] Cfr. Tiziana Noce, La città degli uomini: donne e pratica della politica a Livorno fra guerra e ricostruzione, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2004 e storia.camera.it/archivio storico e wikipedia.it.

[23] Purtroppo non possiamo scrivere nulla di questi due personaggi.

[24] Cesare Bermani, Il nemico interno. Guerra civile e lotta di classe in Italia (1943-1976), Odradek, Roma, 1999.

[25] G. Vittori, Memorie, cit., p.22.




Cantini e Ferrari: comunisti internazionalisti livornesi.

Quarta parte della rassegna di profili biografici di militanti comunisti internazionalisti di Livorno e provincia, i quali contribuirono alla fondazione del Partito Comunista d’Italia, sezione della IIIª Internazionale, avvenuta a Livorno nel gennaio 1921.

CANTINI  Astarotte (Bruno Baroni)

(Livorno 30.5.1903 – URSS settembre 1938?)

Cantini (1)Nato a Livorno nel 1903, da Milziade e Natalina Parenti, di professione è operaio-manovale. Il fratello Alessandro, classe 1907, è militante comunista. Già nell’immediato primo dopoguerra inizia la sua attività politica come militante rivoluzionario nelle fila del movimento anarchico e nel 1921, in qualità di anarchico convinto e di azione, come recitano i rapporti di polizia entra negli Arditi del Popolo partecipando a scontri di piazza contro i fascisti livornesi tra il 1921 e il 1922. Viene arrestato una prima volta, insieme ad altri tre anarchici livornesi (Virgilio Fabbrucci, Bruno Guerri e Ilio Scali, i cosiddetti bombardieri di via degli Avvalorati) nel giugno del 1922 per fabbricazione e detenzione di materiale esplosivo, da usare contro le squadre fasciste livornesi comandate dal tenente Marcello Vaccari e per questo condannato a due anni e sei mesi di reclusione. Dopo aver scontato 13 mesi esce per amnistia nel 1923 e viene sottoposto a stretta vigilanza di polizia sino al settembre del 1924; successivamente svolge il servizio militare nella Regia Marina. Nel luglio 1926 è sottoscrittore del giornale anarchico Fede! e sempre in quel periodo emigra in Francia probabilmente sotto il falso nome di Bruno Baroni. Nel settembre 1926 fa parte di una delegazione operaia che visita l’Unione Sovietica, dove soggiorna per tre mesi, per poi rientrare in Francia. L’anno successivo si trasferisce a Esch-sur-Alzette, in Lussemburgo, dove continua la sua attività politica, redigendo e diffondendo giornali e altri stampati anarchici. Scrive più volte ai militanti anarchici Bruno Guerri e Athos Ricci per avere notizie delle situazione economica e politica di Livorno, da pubblicare eventualmente nella stampa anarchica. Nel 1928 viene espulso dal Lussemburgo insieme ad altri anarchici pericolosissimi (Adone Franchi, Luigi Sofrà e Giuseppe Morini) e si trasferisce in Belgio ma pochi mesi dopo ritorna in Francia, a Pavillons-sous-Bois e a Livry Gargan. Qui nel 1929 viene avvicinato da Natale Vasco Jacoponi, anch’egli livornese, militante del P.C.d’I. e passa dalla militanza  anarchica a quella comunista. In questa fase della sua vita politica, il Cantini diffonde a Marsiglia materiale del Komintern e tra le altre attività nel 1929 invia a Livorno, tramite posta clandestina, una copia del giornale Fronte Antifascista a Menotti Gasparri, suo amico sin dall’infanzia, nonché militante comunista livornese (che cadrà  in Spagna nel 1936), insieme a quattro talloncini in cui si invitano i lavoratori livornesi a lottare per l’aumento salariale del 20%  (nel 1929 il salario medio operaio  era diminuito drasticamente a causa della politica economica del regime fascista).  Costantemente vigilato dall’OVRA che lo classifica ancora come dirigente antifascista e come anarchico-attentatore, il Cantini nel 1931 o 1933 si trasferisce in Unione Sovietica, probabilmente utilizzando ancora lo pseudonimo di Bruno Baroni, grazie al quale riesce a trarre in inganno l’OVRA e a far perdere le sue tracce per qualche anno. Nel giugno 1933 infatti invia alla madre una falsa lettera proveniente da Le Havre, nella Francia settentrionale, nella quale le annuncia che dovrà lasciare  la Francia “per ragioni di lavoro”, nel tentativo riuscito di depistare l’OVRA che solo nel l’aprile 1935 sarà certa della sua presenza in Unione Sovietica. In Urss viene inviato dal Partito Comunista, ormai stalinizzato nel suo corpo dirigente, a studiare a Mosca alla MLS, la Scuola leninista. Terminati gli studi presso la scuola di partito, viene ulteriormente inviato come istruttore del Club Internazionale dei Marinai a Tuaspe, nel Kraj (territorio) di Krasnodar, nella Russia meridionale e successivamente a Voroscilovgrad, attuale Lugansk (Luhans’k), nell’Ucraina orientale, dove probabilmente lavora in una fabbrica di dirigibili, almeno fino al 1935 e dove nel 1937 ha dalla moglie Zina (detta Lina), cittadina sovietica, un figlio di nome Gino. Nell’aprile 1936, in una lettera alla madre, menziona un altro comunista italiano transfuga in Urss, Decio Tamberi, il quale deluso dal regime staliniano, gli confessa che vorrebbe rimpatriare in Italia perché non riesce ad adattarsi alla vita sovietica.  Negli ultimi anni della sua vita il Cantini rimane a Voroscilovgrad  (Ucraina), da dove esprime, nel giugno 1937, il proprio dispiacere per la morte in combattimento, sul fronte di Madrid, dell’amico Menotti Gasparri, comunista livornese già esule in Unione Sovietica e da dove scrive alla madre: “…quanto a me, mia moglie e Gino, siamo in ottima salute e speriamo che Gino cresca bene, così un bel giorno lo potrai vedere ed abbracciare. Mia moglie si trova in ferie per ancora due mesi dopo il parto con paga completa, e più 95 rubli per la nascita di Gino. La nostra vita è buona in tutto e per tutto, non si pensa al domani… ”. Già inviso alla dirigenza e ai quadri staliniani del Pci a partire dal 1935 a causa di alcune critiche che il Cantini aveva espresso in passato nei confronti della politica di Togliatti e di Stalin, per essere ideologicamente anarchico, non abbastanza disciplinato (secondo quanto conservato nella documentazione sovietica) e per aver frequentato elementi ritenuti vicino al trotskismo, tra il maggio e il giugno 1938 viene arrestato nella città di Voroscilovgrad con la falsa accusa di spionaggio e il 25 settembre dello stesso è condannato ad una pena imprecisata da una trojka del NKVD. Non vi è certezza sulla sua sorte, tuttavia possiamo affermare che il Cantini è stato probabilmente fucilato nell’immediato e sepolto in una fossa comune, insieme a centinaia di trotskisti. Riabilitato nel luglio 1956, nella cosiddetta fase di destalinizzazione, avviata dal segretario generale del PCUS Nikita Chruscev, il suo nome tuttavia resta dimenticato dal P.C. livornese, a causa della sua morte da antistalinista.

FONTI ARCHIVISTICHE E DOCUMENTARIE

Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Casellario politico centrale, ad nomen; Comune di Livorno, Archivio di Stato Civile; Biblioteca Franco Serantini, collezioni digitali, dizionario biografico degli anarchici italiani, ad nomen; Memorial, Italiani in Urss, schede biografiche, ad nomen; Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti (Anppia), Antifascisti nel casellario politico centrale, Quaderni i-xix, Anppia, Roma 1988-1995, ad nomen.

FERRARI  Fernando

(Livorno 19.7.1900- Livorno 28.5.1943)

Nato a Livorno nel 1900 da Girolamo ed Elisabetta Di Rosa, di professione è facchino portuale, successivamente venditore ambulante, in ultimo operaio al cantiere Odero-Terni-Orlando. Segnalato inizialmente come anarchico, agli inizi degli Anni Venti si evidenzia per la sua attività antifascista. Nel dicembre 1922 viene condannato dalla Corte d’Appello di Lucca a 3 anni 10 mesi e 20 giorni di reclusione per aver sparato ad un fascista ferendolo,  nel corso degli avvenimenti sanguinosi che in quegli anni videro contrapporre le squadracce e i “sovversivi” nella città di Livorno. Amnistiato nell’ottobre del 1923, emigra per un certo periodo in Francia, per poi rientrare in Italia. Si avvicina quindi al Pcd’I divenendo probabilmente militante in quegli anni. Nel marzo 1930 viene fermato e subisce una perquisizione domiciliare nel corso della quale viene rinvenuto un pugnale, che gli viene sequestrato e per ciò viene condannato, il 1 giugno di quell’anno, ad una ammenda di L. 100 per omessa denuncia.  Nel dicembre 1930 è invece arrestato insieme ad altri dirigenti del Partito Comunista livornese in una vasta operazione di polizia mirante a smantellare l’organizzazione territoriale clandestina del Pcd’I: il Ferrari è ritenuto essere capo della cellula del rione Borgo San Iacopo, dove risiede, nonché comandante della squadra d’azione (servizio di sicurezza) del settore di Piazza Mazzini. Dalle carte d’archivio si apprende che tra il 1929 e il 1930 si era effettivamente ricostituita a Livorno l’organizzazione comunista clandestina, che risultava divisa in due settori: Barriera Garibaldi (Livorno Nord) e Piazza Mazzini (Livorno Sud). Ogni settore a sua volta era diviso in diverse cellule che variavano di numero in base ai quartieri e ai luoghi di lavoro e ogni dirigente aveva dei compiti prestabiliti. Il settore Sud, quello di Piazza Mazzini, diretto da Arturo Silvano Scotto aveva tra fiduciari: Oreste Baldi, per la stampa e la diffusione nei quartieri e nei luoghi di lavoro; Rosolino Pelagatti per il Soccorso Rosso e Fernando Ferrari per il servizio sicurezza, chiamata squadra d’azione. Al momento dell’arresto gli viene sequestrata anche una somma pari a lire 230 a lui versata dagli altri capi cellula, frutto di una raccolta fondi, per l’acquisto di armi. In effetti Ferrari si sarebbe dovuto occupare dell’acquisto in quei giorni di una sessantina di rivoltelle ed altre armi, cosa che sfumò a causa dell’arresto. Deferito al Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato il 24 dicembre 1930, viene condannato nel maggio successivo a quattro anni di reclusione, tre anni di vigilanza ed esclusione perpetua dai pubblici uffici per il reato di ricostituzione del Partito Comunista e per propaganda sovversiva, condanna che sconta nelle carceri di Roma e Civitavecchia. Scarcerato nel novembre 1932, in quanto beneficia dell’amnistia del “Decennale”, rientra a Livorno, dove viene costantemente vigilato. Fermato nel marzo 1933, insieme a moltissimi altri comunisti, in occasione dei funerali di Mario Camici e per l’esplosione notturna di due ordigni presso il Dopolavoro San Marco e la caserma della MVSN, viene rilasciato dopo pochi giorni. In un elenco del 1934 dove sono segnalati i nomi dei militanti del Partito comunista espulsi per attività controrivoluzionaria (elenco rinvenuto dalla Polizia politica fascista), risulta essere stato espulso dal Partito comunista non per aver inoltrato domanda di grazia, cosa che fece nel settembre 1931, ma per un non meglio precisato tradimento, forse perché probabilmente vicino alle posizione bordighiste o trotskiste. Dopo aver esercitato il mestiere di venditore ambulante, nel maggio 1937 viene assunto in qualità di operaio al cantiere navale Odero Terni Orlando, ma nell’ottobre dello stesso anno viene nuovamente arrestato per aver rifiutato di dare indicazioni sulla propria identità personale alle forze dell’ordine e condannato al pagamento di un’ammenda di L. 50. Nel gennaio 1938 viene scarcerato e riprende l’attività lavorativa presso il suddetto cantiere Orlando. Costantemente vigilato, in quanto ancora comunista, Ferrari muore a Livorno nel corso del bombardamento aereo alleato del 28 maggio 1943 che distrusse buona parte della città.

FONTI: Archivio Centrale dello Stato (Roma), Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, Casellario Politico Centrale, ad nomen; Comune di Livorno, Archivio di Stato Civile.




Livorno 1921. Ipotesi su una bandiera

Il Telegrafo / La Gazzetta Livornese 1º maggio 1923:

Due bandiere rosse sequestrate dai fascisti.

Dai fascisti dalla Sezione delle Case Popolari sono stati sequestrati nelle case di due ferrovieri due vessilli rossi: uno di seta con frangia nera, appartenente alla Sezione comunista di Livorno e l’altra al gruppo socialista «Spartaco».

Le bandiere sono state consegnate ai dirigenti del Fascio.

  Da questo vecchio articolo potrebbe iniziare una nuova ricerca per ricostruire la vera storia della bandiera della Sezione di Livorno del Partito Comunista d’Italia, attualmente esposta a Livorno presso il Museo della Città, dopo il difficile recupero e restauro compiuto nel 2015, durante cui è andato perduto ciò che restava sui bordi delle frange originarie (nere o dorate).

La sua storia – orale – è abbastanza nota: cucita da compagne livornesi, si sarebbe salvata dalle incursioni fasciste e durante il periodo della clandestinità, dopo essere stata nascosta da Ilio Barontini e da Armando Gigli sino alla Liberazione. Dopo di che sarebbe stata conservata presso le sedi della Federazione del PCI per approdare al Circolo democratico S.Marco-Pontino “Lanciotto Gherardi” con sede in via Garibaldi.

Sempre secondo la memoria tramandata, questa sarebbe stata la prima bandiera della sezione livornese del Partito Comunista d’Italia, risalente alla fondazione nel gennaio 1921 e avrebbe persino sventolato sul Teatro S. Marco.

Telegrafo 1MAGGIO23

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L’articolo del maggio 1923 sembra però contraddire tale datazione. Innanzitutto, va precisato che all’epoca i vessilli delle organizzazioni politiche e sindacali del movimento operaio erano uniche e quindi è da escludersi l’esistenza di due bandiere per la stessa sezione locale del PCdI, come di qualsiasi altro sodalizio sovversivo.

Infatti, il momento dell’inaugurazione era politicamente e simbolicamente importante, tanto che avveniva in forma solenne in occasione di manifestazioni, come il Primo Maggio, o con feste collettive dedicate proprio a tale presentazione, comprendenti significativi discorsi degli esponenti del partito o della lega.

Soltanto l’usura o la perdita accidentale di tale bandiera poteva motivare la fabbricazione e la comparsa in pubblico di una nuova.

L’articolo in questione non lascia quindi molti dubbi sul fatto che il sequestro si riferisce con ogni probabilità alla prima bandiera della sezione comunista livornese.

La successiva consegna della stessa, come trofeo di guerra, alla sede del Fascio in piazza Cavour era poi una “consuetudine” fascista, così come ricordato da Garibaldo Benifei nelle sue memorie che vi aveva veduto: «una sala in cui stavano in bella mostra, come trofei di caccia, le bandiere conquistate ai “rossi” durante le spedizioni, gli agguati, gli scontri».

Almeno parte di tale raccolta venne trasferita a Roma, assieme ad altri cimeli, nel 1932 per la Mostra della Rivoluzione Fascista, ma soltanto alcune bandiere provenienti da Livorno sono state recuperate e si trovano conservate presso l’Archivio Centrale dello Stato; per cui, si può affermare che quella comunista è andata perduta, magari nelle contingenze belliche.

Il dettaglio della frangia nera è inoltre comune a numerose bandiere comuniste – ed anche socialiste – dell’epoca.

La bandiera che è arrivata sino a noi potrebbe dunque, pur essendo del tutto autentica, essere quella che sostituì, in un momento successivo, quella sequestrata dai fascisti.

A rafforzare tale sospetto, ci sono due elementi. La scritta nera nella parte inferiore del campo rosso, con la dicitura Sezione di Livorno, appare in caratteri diversi e meno elaborati, rispetto all’iscrizione superiore – Partito Comunista d’Italia – ricamata in un bellissimo stile Liberty.

Anche in fase di restauro, è stato osservato che la scritta inferiore risulta realizzata in un momento successivo, come per adattare e connotare una bandiera pre-esistente, circostanza questa alquanto improbabile se si fosse trattato della prima bandiera del neonato partito.

In secondo luogo, può essere interessante una considerazione iconografica, in base al confronto con tutte le bandiere comuniste note del periodo; talvolta senza simboli (come quella di Pitelli). Il simbolo centrale della stella con inscritta la falce e martello (peraltro posizionati in senso contrario rispetto all’orientamento tradizionale) risulta del tutto inconsueto, per non dire eccezionale, nel 1921. Come si può constatare pure nelle tessere del Partito, la stella, di derivazione sovietica, entrò infatti nella simbologia comunista soltanto anni dopo – anche perché in Italia era legata ad altri movimenti e contesti culturali – e quindi rafforza la convinzione dell’esistenza di un’altra storia, ancora sommersa e tutta da scrivere.

Un’altra bandiera comunista scomparsa nel vortice della guerra civile è quella della Federazione giovanile di Livorno, con sede in via Solferino devastata nel 1922 dai fascisti, ricordata dal militante Ilio Paperi (“I giovani livornesi affrontano i fascisti sulle piazze”): «anche noi giovani comunisti s’aveva una bandiera bellissima più grande di quella della federazione adulta, e che purtroppo non è stata mai ritrovata».

 




Danilo Mannucci

All’interno della rassegna di alcuni profili biografici di militanti comunisti internazionalisti di Livorno e provincia, i quali contribuirono alla fondazione del Partito Comunista d’Italia, sezione della IIIª Internazionale, avvenuta a Livorno nel gennaio 1921, presentiamo quello di Danilo Mannucci, arricchito in allegato da un ricordo commosso del figlio Giuseppe.

MANNUCCI Danilo (Livorno 28.8.1899 – Gardanne (Bocche del Rodano, Marsiglia, Francia) 21.3.1971)

Danilo Mannucci nasce a Livorno nel 1899 da Gastone ed Anna Peruzzi; il padre, soprannominato Libeccino, dal vento Libeccio che soffia a Livorno, è un repubblicano dirigente dell’associazionismo mazziniano e anticlericale. Di professione è rappresentante di commercio.

Il giovane Mannucci cresce in seno a un’umile famiglia proletaria nella quale, grazie all’influsso educativo paterno, ma anche a quello del nonno Giuseppe, si leggono giornali e libri, si studia e si discute di diritti sociali e civili e della difesa della libertà del proletariato.

A l’età di 16 anni, dopo aver appreso della morte di Amedeo Catanesi (1890-1915), segretario generale della Federazione Giovanile Socialista Italiana, avvenuta il 17 luglio 1915 nelle trincee d’Andraz sul Col di Lana, poi ribattezzato Col di Sangue aderisce alla detta Federazione.

Chiamato alle armi non ancora diciottenne nel maggio 1917, Danilo Mannucci fu un Ragazzo ’99, e viene inviato in zona di operazioni nell’estate del medesimo anno, dove partecipa ai rastrellamenti dei reparti dispersi e sbandati dopo la sconfitta di Caporetto (ottobre 1917). Nel gennaio 1918 viene inviato sul Monte Grappa dove prende parte alla battaglia del Solstizio (giugno 1918) e alla controffensiva di Vittorio Veneto (ottobre 1918), restando al fronte anche dopo l’armistizio del 4 novembre 1918, venendo nominato caporale nel gennaio 1919. Ha seguito col commando gruppo i differenti spostamenti dalla zona del fronte fino a Cittadella (Padova) dove è rimasto fino all’invio in congedo illimitato nel febbraio del 1920.

Immediatamente, partecipa attivamente al biennio rosso nelle file della Lega Proletaria dei Combattenti Livornesi, prima formazione di autodifesa armata operaia nella città portuale toscana.

Il 21 gennaio del 1921 è presente al Teatro San Marco di Livorno, (pur non essendo tra i 58 delegati della Frazione Astensionista) dove assiste alla nascita del Pcd’i, al quale aderisce immediatamente contribuendo a fondare il 29 gennaio 1921 la Federazione livornese della quale ricopre ruoli direttivi a partire dal marzo successivo.

Tra i fondatori degli Arditi del Popolo a Livorno, fa parte del suo Esecutivo Segreto, diventa comandante di una compagnia formata da comunisti e grazie alla sua esperienza al fronte viene nominato insieme ad Athos Freschi, comandante in seconda degli Arditi del Popolo livornesi, diretti dal socialista Dante Quaglierini, ex ufficiale di fanteria. Nel luglio del 1922 è costretto, con suo sommo dispiacere, a lasciare gli Arditi del Popolo dietro ordine esplicito della direzione del Pcd’I.

Attivo oppositore dello squadrismo, a causa delle sue idee comuniste e anche per aver diffuso il Manifesto della iii Internazionale Ai Lavoratori d’Italia, viene arrestato ed imprigionato più volte dalle forze dell’ordine oltre ad essere aggredito e bastonato in più di una occasione dalle camicie nere.

Mannucci CPC (1)Nel febbraio 1923 venne arrestato nel corso della famosa operazione di polizia, voluta dal primo governo Mussolini appena insidiatosi, che colpì la maggior parte dei dirigenti (a incominciare da Bordiga), quadri e militanti del Pcd’I, con l’accusa di Complotto contro la sicurezza dello Stato tuttavia nell’aprile 1923 viene rilasciato in seguito all’intervento dei dirigenti della Camera del Lavoro, tra i quali Augusto Consani.

Ricercato ancora dai fascisti per aver partecipato ai funerali di un anarchico, dove aveva presenziato insieme alla sua vecchia compagnia degli Arditi del Popolo, nel maggio 1923, grazie all’aiuto di alcuni compagni liguri, emigra clandestinamente in Francia, dove chiede l’asilo politico.

Stabilitosi a Marsiglia entra da subito nelle file del Pcf, venendo chiamato alla segreteria del partito per il cantone di Gardanne (nel circondario di Marsiglia); inoltre diventa il comandante di una formazione comunista, una compagnia della centuria proletaria Luigi Gadda.

Per più di 10 anni dirige il Sindacato Unitario dei Lavoratori del Sottosuolo nelle Miniere di Carbone di Provenza (Cgtu) di orientamento comunista. Come si può leggere nel verbale dell’interrogatorio di polizia a Livorno nel gennaio del 1936, svolge anche attività clandestina a Lione, Cannes, Beziers e in Alsazia.

Nel corso del 1935, in qualità di segretario regionale dirige gli scioperi delle miniere che coinvolgono circa ottomila lavoratori per circa 50 giorni, attività che gli frutta un’espulsione dalla Francia il 4 gennaio 1936.

Riconsegnato a Ventimiglia nelle mani della polizia fascista italiana, viene processato dal Tribunale Speciale e condannato a cinque anni di confino, con una prolunga di due anni alla scadenza, che sconta dapprima ad Amantea e Fuscaldo in Calabria, successivamente a Ponza e Ventotene, a Pisticci (Matera) e infine a Baronissi (Salerno). In quest’ultima località lavora alla stesura di manifesti di propaganda per il partito che i compagni Matteo Romano e Luigi Rarita si incaricano di portare a Salerno.

Dopo lo sbarco delle truppe americane a Salerno, in una situazione piuttosto caotica, da subito presta la sua opera per l’organizzazione del Fronte di Liberazione Nazionale, della CGdL e della Federazione Salernitana del PCd’I.

Il 21 dicembre 1943 è sancita la nascita della Camera del Lavoro affiliata alla  CGdL, di cui diventa il primo segretario nel dopoguerra, dimettendosi però nel settembre 1944 rifiutando l’adesione alla Cgil imposta dal tripartito, in seguito al patto di Roma firmato il 9 giugno 1944 da Giuseppe Di Vittorio per il PCI, Achille Grandi per la DC e da Emilio Canevari per la componente socialista.

Il 10 gennaio 1944 si svolge a Salerno il I Congresso della Federazione Salernitana del Pci, che lo vede tra i relatori e che elegge segretario l’avvocato Ippolito Ceriello, comunista legato ad Amadeo Bordiga. Questo congresso ancora oggi non è riconosciuto dagli stalinisti-togliattiani, i quali individuano come primo congresso solo quello del 27-28 agosto 1944.

La federazione salernitana del Pci inizia la pubblicazione del suo organo Il Soviet, senza l’autorizzazione del Psychological Warfare Branch e per questo sia Mannucci che Ceriello sono condannati ad un mese di carcere. Il Soviet proibito dalle autorità alleate su pressione della dirigenza nazionale del Pci, esce quindi come numero unico, poiché in esso sono contenute le linee politiche che Ceriello e Mannucci intendono portare avanti.

Infatti in contrasto della Svolta di Salerno, voluta da Togliatti su ordine di Stalin, Mannucci e Ceriello si oppongono anche alla concezione togliattiana di Partito Nuovo, ragion per cui Mannucci, insieme a Mario Ferrante e Bernardina Sernaglia, viene espulso dal Pci dal Comitato di Riorganizzazione composto di stalinisti nelle prima decade di luglio 1944 per corruzione e indegnità. Mannucci ne vene a conoscenza solo il 14 luglio dal giornale locale Il Corriere. Mannucci reagisse immediatamente con una lettera pubblicata nel stesso giornale Il Corriere del 15 luglio, affermando che la sua espulsione arriva un poco in ritardo «poiché io ero già non solo spiritualmente, ma anche materialmente molto lontano dal partito, che mi sta sempre nel cuore, ma dalla cricca dei suoi dirigenti che con la loro azione hanno falsato e sovvertito tutto il suo programma.» Circa la motivazione dell’espulsione, Mannucci averte che si accinge «a dare querela a chi di dovere con la più ampia facoltà di prove.» La lettera è firmata «Danilo Mannucci, comunista della vecchia Guardia, ex confinato politico.» Ippolito Ceriello invece ne viene espulso per ‟acclamazione” al Congresso della Federazione di Salerno del 27-28 agosto successivo.

Nei mesi successivi Mannucci, Ceriello e insieme al liberatorio Ettore Bielli, costituiscono la Frazione della sinistra salernitana che in qualche modo si ricollega alla Frazione di sinistra dei comunisti e dei socialisti, già presente nel variopinto quadro alla sinistra del Pci togliattiano e riconducibile all’altrettanto variegata tradizione bordighista.

L’unico giornale della frazione salernitana che ottiene l’autorizzazione, il 3 maggio 1945, è il quindicinale L’Avanguardia, il cui direttore responsabile è proprio Ippolito Ceriello, tuttavia l’autorizzazione alla pubblicazione del giornale viene revocata poco dopo e anche in questo caso del giornale ne esce solo un numero.

In quei primi mesi del 1945 Mannucci stringe una feconda collaborazione politica con il vasto movimento anarchico meridionale, scrivendo una serie di articoli per il giornale anarchico Umanità Nova, con lo pseudonimo di Spiritus Asper e intrattenendo (secondo alcune fonti di polizia) rapporti politici con il vecchio anarchico siciliano Paolo Schicchi e il suo “gruppo insurrezionale”.

A Napoli il 29 luglio del 1945 la maggioranza della Frazione decide lo scioglimento e di confluire quindi nel Partito Comunista Internazionalista, per cui anche Ceriello e Mannucci aderiscono al Pc.int.

Anche in questo caso tuttavia i contrasti con la direzione del Partito sono così aspri da costringere il Mannucci ad uscire dallo stesso partito, soprattutto a causa sia dell’adesione di Mannucci, Bielli ed altri all’associazione vi Braccio, organizzazione malvista dal PC.int. perché considerata interclassista e apartitica, che della decisione di Ippolito Ceriello di candidarsi alle elezioni amministrative nel Comune di Laviano.

In seguito ciò Mannucci aderisce al Psiup negli anni 1947-1948, entrando in contatto con Lelio Basso e Alfonso Di Stasio e ricoprendo un doppio incarico, sia come funzionario di partito che come funzionario sindacale in zone difficili del Meridione, segnato dalle lotte contadine per l’occupazione delle terre in Calabria, Puglia e Basilicata.

Si stabilisce in Puglia per un anno e mezzo, dove partecipa e dirige le lotte dei braccianti del Tavoliere ed entra in contatto con Natino La Camera a Cosenza, tuttavia il nuovo percorso politico da lui intrapreso risulta assai illusorio, in quanto è costretto ad affrontare nuove e più forti difficoltà burocratiche spesso capziose per cui tutte le promesse che gli furono fatte si riveleranno assai vane.

Nel 1949 compiuti i 50 anni, dei quali più di trenta passati fra lotte politiche e sindacali e aver subito anche sette anni di confino, ora ha anche la responsabilità di una famiglia con moglie e tre figli piccoli, decide lasciare l’Italia e trasferirsi definitivamente in Francia, permettendo così ai suoi cari un’altra e migliore opportunità di vita.

Qui continua ad interessarsi di politica, legge Le Monde, La Marseillaise (giornale locale del Pcf) e L’Humanitè e spesso ogni domenica mattina si reca al mercato di Gardanne, per diffondere L’Humanitè-Dimanche.

Dei giornali italiani trova a Gardanne solo La Stampa, La Domenica del Corriere, e la Gazzetta dello Sport, tuttavia riceve dall’Italia anche altra stampa: Umanità nova, l’Avanti, l’Antifascista e forse altri. Una certa attenzione ai problemi e alla politica italiana e francese nel corso di quegli anni c’è stata, lo testimoniano la presenza alla Conferenza di Gardanne sul tema del sindacalismo e della storia italiana e due articoli scritti su Umanità Nova nel 1957, sempre con lo pseudonimo di Spiritus Asper.

Durante gli avvenimenti del 1968 prende posizione in favore degli studenti in sciopero e in particolare di Daniel Cohn-Bendit, Jacques Sauvageot e Alain Krivine.

Muore il 21 marzo 1971 a Gardanne, dove viene sepolto accompagnato dal canto dell’Internazionale durante funerali civili a cui partecipano esponenti del Pcf e della Cgt.

FONTI ARCHIVISTICHE E DOCUMENTARIE: Archivio Centrale dello Stato (Roma), Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, Casellario Politico Centrale, ad nomen; Archivio Fondazione Istituto Gramsci (Torino), Archivio Partito Comunista, Fondo Mosca; Archivio Giuseppe Mannucci (Banon, Francia); Archivio Nazionale Francese, Fascicolo Danilo Mannucci 8383; Battaglia Sindacale, 29 agosto 1944; Libertà, a. ii, n. 2, 6 gennaio 1944; Libertà, a. ii, n. 3, 13 gennaio 1944. Il nome di Mannucci, come quello di Ceriello, Bielli e Vincenzo Nastri, appare in una lettera della Regia Questura di Roma del 14/4/1945, con la menzione attività insurrezionale attribuita a Paolo Schicchi.




Vittorio e gli altr*: storie di guerra, di scelte e di lotta in terra di Siena

Per il comunista Vittorio Bardini, noto al regime fascista fin dalla seconda metà degli anni Venti per la sua attività “sovversiva”, condannato al carcere e al confino, emigrato in Unione sovietica, combattente come volontario a difesa della Repubblica nella guerra civile spagnola, la scelta della Resistenza dopo l’8 settembre del ’43 è una strada segnata, la tappa decisiva di una lunga sfida, che lo sottopone ancora a prove estreme come la detenzione nel lager di Mauthausen, ma che lo porta nel 1946 a Montecitorio, eletto all’Assemblea costituente, “padre” della nuova Italia, anche in nome dei compagni caduti nella lotta, come Aldo Borri che negli anni Trenta aveva rinunciato al lavoro di insegnante piuttosto che iscriversi al partito fascista e che dopo l’8 settembre era diventato membro del Comitato militare clandestino senese, ma che era morto in conseguenza del primo bombardamento alleato sulla città, il 23 gennaio 1944.
Così era stato per gli “antifascisti storici” (p. 77), quelli che avevano fronteggiato il regime negli anni dell’Italia in camicia nera e che, dopo l’armistizio, non indugiano nella scelta della lotta armata, come ad esempio Giovanni Guastalli, commissario politico della Brigata Garibaldi Spartaco Lavagnini. Non solo uomini, è lo stesso per Norma Soldi e Alva Bucci che di quella brigata si definiscono “staffette di vigilanza”, sempre attente a riferire ogni mossa di tedeschi e fascisti. Accanto alle convinzioni ideologiche che guidano i comunisti, vi sono anche altri percorsi.
Per il giovane Vittorio Meoni è l’ambiente dell’Azione cattolico che lo spinge a posizioni sempre più critiche con il fascismo negli anni della guerra, fino all’avvicinamento al comunismo e alla scelta partigiana. Mentre non mancano ufficiali che, fedeli al giuramento al re, organizzano gruppi armati, come il colonnello Adalberto Croci, comandante del Raggruppamento Monte Amiata.
E poi vi sono coloro che, senza impugnare le armi e più per adesione ai valori umani che per consapevolezza politica fronteggiano la guerra e l’occupazione nazi-fascista boicottandone le direttive e proteggendone i “perseguitati”: dai propri figli richiamati alla leva fascista a perfetti sconosciuti, ma riconosciuti sempre come uomini (ebrei, disertori, ex prigionieri di guerra..), fino agli stessi partigiani. Fra questi spiccano figure di sacerdoti e religiosi, come il francescano Quirino Bulletti che aveva fatto nascondere ai partigiani le armi nel cimitero della confraternita della Misericordia di cui era cappellano, subendo poi l’arresto da parte dei fascisti o come i padri del Monastero di Monte Oliveto impegnati a nascondere gli ebrei e quindi a ricercare rifugi più sicuri rispetto alla loro stessa residenza. Ma fra i resistenti vi sono anche gli ufficiali e i soldati, ben 1328, che per essersi rifiutati di combattere con i nazisti e fascisti sono trasferiti nei campi di prigionia nel Reich, privati dello status di prigionieri – con le relative tutele, ridotti a “schiavi” a servizio dell’economia nazista, come Martino Bardotti ufficiale di Poggibonsi, reso fermo nella difficile scelta dalla formazione ricevuta in Azione cattolica.

CopertinaQuesti sono solo alcune delle figure che aprono – o che animano – i capitoli della nuova Storia della Resistenza senese pubblicata dall’Istituto storico senese della Resistenza e dell’età contemporanea: un volume importante e “ambizioso”, come ricorda Nicola Labanca nel suo saggio introduttivo non solo perché presenta una sintesi compiuta ed al tempo stesso agile, a molti anni dal precedente volume di Tamara Gasparri (allora, nel 1976, innovativo ed approfondito) e alla luce dei successivi sviluppi della storiografia, ma anche per il metodo adottato.

Il libro è infatti prodotto dal “gruppo di lavoro” dell’Istituto senese, composto non solo da generazioni, ma anche da professionalità diverse. Un lavoro in comune che deve aver comportato un complesso, ma certamente arricchente, processo di scambio e confronto, arricchito dall’apporto di competenze diverse, quali quelle dell’antropologia, visibili in particolare nelle pagine sul mondo mezzadrile, ma ben amalgamate lungo tutto il volume. Le diverse sensibilità infatti, probabilmente per la consuetudine ad un lavoro comune consolidatasi nel tempo, hanno infatti prodotto un testo omogeneo, scorrevole, intenso, dove le singole individualità degli autori possono apparire fra le righe, ma senza disorganicità. Il testo è stato indubbiamente possibile per il vasto impegno svolto fin dalla sua fondazione dall’Istituto per la promozione della conoscenza storica di quegli anni così complessi, alla luce delle nuove domande e sfide poste dalla storiografia dagli anni Novanta, a partire dalle fondamentali questioni poste da Claudio Pavone, fino alle preziose banche dati sulle azioni della Resistenza e sulla nuova classe dirigente post-Liberazione realizzate o in via di elaborazione. Ma nella sua efficace configurazione è certo frutto delle scelte del “gruppo di lavoro”, probabilmente consolidate dalla positiva esperienza vissuta nel 2019 all’interno del progetto “Pillole di Resistenza”, la serie di video-documentari sulla Resistenza Toscana, realizzata dallo Studio RUMI, coordinata dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea, insieme a tutti gli istituti provinciali, grazie al sostegno della Regione Toscana.

Il libro è, infatti, articolato, come rileva Nicola Labanca “per temi, classici in questo tipo di studi, intrecciati ad un certo filo cronologico” (p. 12) che consentono di toccare tutte le questioni principali, a partire da profili biografici “esemplari” che le introducono. Nello scorrere delle pagine, ai volti di uomini e donne, colti nella loro complessa umanità, si succede così la narrazione dei fatti essenziali e l’individuazione dei nodi essenziali della riflessione storica: il rapporto della Resistenza con le precedenti generazioni dell’antifascismo e con la stagione della violenza politica avviata dallo squadrismo fascista nel primo dopoguerra, lo spaesamento delle istituzioni e delle persone nella convulsa estate del 1943, il tema essenziale delle scelte dopo l’8 settembre, del collaborazionismo fascista a servizio dell’occupazione nazista e delle sue dinamiche di sfruttamento del territorio e della popolazione (delineato con cura anche per “decostruire” la falsa narrazione diffusasi nella memoria locale sulla natura “blanda” dell’ultimo fascismo senese), delle forme molteplici della Resistenza a partire dalla dimensione della lotta partigiana cui viene data una dovuta centralità, senza per questo dimenticare le altre forme di Resistenza, cui viene dedicato il capitolo ottavo e dando un giusto rilievo alla presenza e al ruolo delle donne (gravemente segnate dalle violenze di guerra, basti solo pensare ai numerosi stupri ad opera delle truppe marocchine del Corpo di spedizione francese), il ruolo dei Comitati di liberazione nazionale, la complessa stagione stretta fra la liberazione del territorio e l’attesa della conclusione del conflitto in Italia.
Menzione specifica merita il settimo capitolo dedicato al mondo della campagna, travolto dal conflitto totale, per la rilevanza della mezzadria e in generale della dimensione rurale nella realtà sociale della provincia senese, ma anche per la comprensione della mentalità e della cultura della maggioranza della popolazione, così da comprendere meglio l’impatto avuto dal conflitto. L’analisi delle scelte dei contadini nel contesto dell’occupazione e di fronte al movimento partigiano evidenzia, infatti, tutta la complessità della vicenda storica, al di là di facili ed illusori schematismi che hanno animato annosi dibattiti e polemiche e aiuta a cogliere il carattere dirompente che l’impatto del conflitto ha su quella classe sociale, segnandone mentalità, scelte, comportamenti ben oltre l’esaurirsi dell’evento bellico. Ma opportuno e significativo è anche il terzo capitolo che tratteggiando l’impatto della “guerra totale” sul territorio senese e sulla popolazione, a partire dalle conseguenze degli attacchi aerei anche a fronte della sostanziale assenza di “qualsiasi struttura difensiva a tutela della popolazione e del ricco patrimonio storico-artistico” (p. 55), contestualizza bene il vario formarsi delle resistenze nel processo di disgregazione del rapporto fra italiani e regime favorito dal conflitto.

IMG_4134La dimensione del volume (oltre 270 pp.) significativa, ma “ridotta” in relazione alla complessità delle questioni trattate ne evidenzia il carattere “coraggioso” di sintesi che quindi inevitabilmente può scontare l’opportunità di alcune scelte o la minor trattazione di alcuni temi o aspetti (come ad esempio quelli dell’avvio del processo di ricostruzione e della formazione della nuova classe dirigente in un difficile rapporto con i comandi alleati, tratteggiati nell’ultimo capitolo), ma che ha in ciò il suo merito. A fronte di tanti contributi specialistici che indagano nei dettagli singoli aspetti, ciò che spesso manca (anche a livello di sintesi regionale) è un contributo che possa richiamare l’integrità del quadro senza “spaventare” il potenziale lettore per il numero eccessivo di pagine, ma piuttosto stimolandolo a proseguire un cammino di conoscenza grazie ad un apparato di note puntuali, ma non invasivo e pletorico.

Infatti, in conclusione, ritengo che il merito principale del volume sia quello di rivolgersi a tutti. L’assenza di retorica e soprattutto le scelte narrative accattivanti, la capacità di evidenziare i nodi più interessanti per la realtà locale ma anche in una chiave nazionale, lo stile e il linguaggio adottati, lo rendono “piacevolmente” leggibile per un pubblico vasto di interessati e non (solo) di specialisti (oltre che adatto per un sistematico uso didattico) in una stagione che, privata dai testimoni diretti, deve vedere proprio nel ritorno alla conoscenza storica la strada principale per rendere patrimonio comune della cittadinanza questi snodi essenziali della nostra storia comune. Direzione nella quale, con questa pubblicazione, l’Istituto di Siena aiuta tutti a fare un passo importante.