Abbasso la guerra, viva la rivoluzione!

Questa breve nota storica comincia da venticinque anni dopo i fatti che ne sono l’oggetto. Frugando fra i documenti del Casellario Politico Centrale del periodo fascista mi capitò di incontrare, ormai diverso tempo fa, il nome di Natalina Barbieri, arrestata a Siena nel 1942 perché in una salumeria, mentre “la proprietaria del negozio affettava il salame, si permise di fare delle odiose e sboccate allusioni dicendo: vorrei affettare la fava di Mussolini”. Frase che – forse la spia fu la salumiera, forse un’altra cliente – le costò la condanna al confino. Nella sua scheda, oltre alle consuete, nelle relazioni del Casellario, notizie denigratorie – vedova di guerra unita more uxorio con un sovversivo, dedita al vino, sboccata – lessi anche che nel 1917, poco prima di venire a trovarsi in stato di vedovanza – il marito sarebbe morto in Albania nel 1918 –, aveva partecipato, a Sinalunga dove era nata nel 1889 e dove allora risiedeva, ad una manifestazione piuttosto burrascosa. Era un indizio che confermava che alcune proteste contro la guerra, di cui si aveva, fino ad allora, soltanto vaga e frammentaria memoria, si arano verificate anche nel territorio senese. Magari in forma meno estesa ed eclatante che in altre zone della Toscana, ma pur sempre significativa.

In seguito, grazie agli studi preparatori della mostra “Fotografi in trincea. La Grande Guerra negli occhi dei soldati senesi” (2016), curata da Gabriele Maccianti, venne individuato, all’Archivio Centrale dello Stato, un fascicolo che ha consentito una ricostruzione finalmente più puntuale e ha innescato la possibilità di altre ricerche negli archivi comunali e giudiziari.

Oggi è dunque possibile raccontare, anche con una certa dovizia di particolari, le manifestazioni che si verificarono in due distinte zone della provincia di Siena, il Chianti (Radda 7 maggio; Gaiole 8 maggio) e la Val di Chiana (Sinalunga 6 gennaio; Montepulciano e Chiusi 6 agosto), nel contesto più ampio di gesti individuali e di parole contro la guerra il cui moltiplicarsi, proprio nel corso del 1917, è attestato dal notevole aumento delle denunce e dei processi contro chi si comportava in modo tale da “deprimere lo spirito pubblico e altrimenti diminuire la resistenza del paese o recar pregiudizio agli interessi connessi con la guerra e con la situazione interna internazionale dello Stato”.

A Sinalunga furono circa trecento le donne e i ragazzi che, dalle campagna circostanti, si diressero in paese aggregando man mano una folla di un migliaio di persone. I carabinieri chiesero rinforzi, ma sorpresi dall’evento di cui non avevano avuto sentore, furono nell’impossibilità di disperdere la manifestazione, durante la quale vennero lanciati sassi che infransero i vetri di alcuni uffici pubblici e delle case del sindaco e di altri amministratori comunali. Meno violenta, ma comunque intensa risultò la protesta di fronte al municipio di Chiusi durante la quale fu deciso di rifiutare il sussidio statale spettante ai parenti dei richiamati, come atto di insubordinazione verso uno strumento che sembrava voler favorire la prosecuzione del conflitto. Alla periferia del centro abitato di Montepulciano furono invece fermate, ma non senza tafferugli, le donne provenienti da Acquaviva e da Abbadia, quest’ultima località già teatro, nell’agosto del 1916, di un assembramento di fronte alla villa di un possidente per chiedere che il prezzo del grano non venisse aumentato, assembramento conclusosi in una sassaiola per l’intervento troppo rude di un fattore verso le manifestanti. Sempre nella zona fra Acquaviva e Abbadia di Montepulciano, nel medesimo periodo venne lanciato un appello clandestino alle famiglie mezzadrili affinché si rifiutassero di seminare il tabacco perché sottraeva terreno e forza lavoro alle colture alimentari tanto più indispensabili nella penuria del tempo di guerra, iniziativa che, accompagnata da due incendi dolosi, preoccupò molto i grandi proprietari terrieri e le autorità.

Chiara è la matrice sociale e di genere di questi sommovimenti, così come confermato anche dagli elenchi degli arrestati, composti per la stragrande maggioranza da nomi di donne, quasi tutte salariate agricole, qualcuna mezzadra, qualche altra “dedita alla casa”. Più difficile dirimere il rapporto fra spontaneità e organizzazione. Indubbiamente i disagi e i lutti causati da un conflitto di cui, nonostante le offerte dei pace degli Imperi Centrali di fine 1916, non si intravedeva il termine, la certezza che ogni giorno in più di combattimenti avrebbe causato chi sa quanti ulteriori morti e feriti, i vuoti affettivi delle assenze, i racconti delle sofferenze, dei rischi, delle insensatezze di tante azioni militari al fronte fatti da quanti tornavano in licenza, ne costituirono la base materiale e psicologica. La sola richiesta di riavere vivi ed integri i mariti, figli, fratelli era di per sé un possente elemento di comunità di intento avverso al conflitto e al suo perdurare, senza il bisogno di troppi indirizzi e indottrinamenti politici. Ma almeno in Val di Chiana – più incerta è la valutazione nel Chianti, dove forse andrebbe studiata con molta attenzione la presenza di un clero orientato dal vescovo di Arezzo che fu, in Toscana, fra i più ostili al conflitto – traspare una regia di matrice socialista.

Traspare nelle convocazioni effettuate non solo con il passaparola, ma anche con i manifesti, traspare nel fatto che l’epicentro del movimento furono le località in cui il socialismo, con le sue strutture organizzate e le sue sedi, era più radicato, traspare in obiettivi quali il rifiuto del sussidio o in parole d’ordine esplicite come quella annotata nella sentenza che condannò le donne di Abbadia di Montepulciano per i fatti del 1916, e cioè “abbasso la guerra, vogliamo la pace, viva la rivoluzione”.

Articolo pubblicato nel settembre del 2017.




Guerra, fame, malattia

La pandemia d’influenza “spagnola” scoppiò nell’autunno 1918, quando la Grande Guerra stava terminando. Nessun angolo del globo fu risparmiato: la malattia si diffuse rapidissima, grazie ai traffici di uomini e mezzi causati dal conflitto. Nei Paesi occidentali, la macchina statale fu messa in ginocchio mentre altrove, come in Africa, la malattia stravolse ritmi economici e produttivi cristallizzati da decenni. Nel mondo, il virus uccise tra 24 e 100 milioni di persone, con un indice di mortalità tra i 2,5 e i 21,7 decessi ogni 1.000 abitanti. Le vittime prescelte della malattia furono le persone nella fascia d’età dai venti a quarant’anni: infatti, la spagnola sviluppò complicazioni non tanto negli elementi deboli o malnutriti, quanto tra gli individui più sani e forti.

L’Italia fu tra i Paesi europei che più soffrirono della pandemia: le stime, discordi tra loro, oscillano tra 600.000 e 350.000 morti. La difficoltà a ricostruire una storia e una statistica della malattia in Italia è diretta conseguenza dell’oppressiva censura imposta dal governo. I bollettini sanitari vennero contraffatti e ai giornali fu imposto di pubblicare notizie rassicuranti. Le autorità vietarono persino i normali riti funebri. L’interesse del governo fu tutelare lo sforzo bellico in un momento decisivo, mentre il virus avanzava nel fronte interno. La Toscana risultò la regione centrosettentrionale più colpita, stimando circa 30.000 morti.

La malattia investì tutta la regione, ma ebbe conseguenze più nefaste nella provincia. In queste zone limitrofe, i costi e le necessità della guerra avevano ridotto al minimo i servizi essenziali. In questa casistica rientra Pistoia, all’epoca parte della provincia di Firenze, dove fin dal 1915 le condizioni delle classi meno abbienti, per l’aumento del costo della vita, erano peggiorate. Le condizioni sanitarie, già precarie nell’anteguerra per lo sconquasso finanziario dei Regi Spedali del Ceppo, si deteriorarono per il passaggio giornaliero di truppe e per la mancanza di medici. Alla situazione non giovò, dopo Caporetto, l’afflusso in città dei profughi veneti bisognosi di assistenza.

L’influenza pandemica si manifestò l’area pistoiese dalla metà di settembre, contagiando dapprima le fasce più esposte come i funzionari della pubblica amministrazione. All’inizio dell’emergenza, il sottoprefetto invitò i cittadini ad avere cura della propria igiene – facendo ricadere la responsabilità della malattia sul singolo – mentre raccomandò i sindaci di smentire «ogni notizia che abbia carattere di gravità». Minimizzare l’esplodere del contagio fu l’obbiettivo anche della stampa locale. Il periodico «La Difesa religiosa e sociale» affermò che «uno dei mezzi più efficaci per andare immuni dal contagio è quello di non avere paura. Morale alto, ecco il miglior disinfettante, e insieme con questo morigeratezza di vita e preghiera umile a Dio». Il giornale consigliava quale rimedio l’uso di stimolanti come il caffè.

In ottobre, tuttavia, la situazione precipitò. Il prefetto decretò la chiusura dei cinematografi e delle scuole. Il vescovo di Pistoia e Prato, Gabriele Vettori, impose la disinfezione dei luoghi di culto e delle acquasantiere, e raccomandò di areare le Chiese prima e dopo le funzioni. Il vescovo, però, decise di non sospendere o limitare le messe.

Il sistema di approvvigionamento annonario divenne difficoltoso per la mancanza di manodopera, in larga parte contagiata dalla spagnola. Le lunghe file fuori dai negozi si ingrossarono, diventando tra i principali vettori del virus. Il Comune emanò misure contro gli affollamenti e fu limitato ai malati l’accesso ai punti di distribuzione. Nonostante i divieti, molti malati, per timore di non ricevere la propria quota, si recavano ugualmente nei luoghi preposti all’approvvigionamento, esponendo al contagio i cittadini ancora sani. L’amministrazione di Pistoia, sull’esempio di altre città, istituì delle rivendite alimentari riservate agli ammalati in possesso di certificato medico.

La spagnola decretò il collasso dei Regi Spedali: la struttura completò la sua crisi finanziaria e amministrativa, tanto che la prefettura di Firenze dovette commissariarla. La mancanza di medici – buona parte era stata richiamata al fronte – lasciò intere condotte, soprattutto della montagna, con poca assistenza. I dottori rimasti operavano in condizioni disagiate e senza i mezzi di trasporto necessari a coprire le grandi condotte. Diversi medici, debilitati dai massacranti turni di lavoro, furono contagiati e tornarono a lavoro solo dopo lunghe convalescenze. Non mancarono casi eclatanti. Scoraggiato dalla grave situazione, il dottor Lai abbandonò la condotta di Cireglio. L’amministrazione comunale, minacciando di denunciarlo, impose al dottore di riprendere servizio. Dietro la diserzione del medico, si celava il malessere per le estreme condizioni in cui operava.

A metà ottobre, la situazione era talmente grave che la Misericordia di Pistoia si trovò senza i cavalli sufficienti per trasportare il gran numero di salme. Scarseggiavano persino le casse da morto tanto che il sindaco ordinò alla direzione ospedaliera di far trasportare i cadaveri «avvolti in un lenzuolo bagnato con disinfettante». Soltanto davanti alle proteste dei necrofori, il Comune ritirò la misura e attese la fabbricazione di nuove bare.

Davanti all’incapacità di aiutare la popolazione, le autorità pistoiesi si posero in linea con quelle nazionali: la spagnola andava censurata. Fu imposta la chiusura dei cimiteri per la festa del 2 novembre, per «evitare l’immancabile depressione degli animi allo spettacolo evidente e palpabile della tanta mortalità». Furono approntate nuove norme per il trasporto dei feretri al cimitero, che doveva avvenire «nelle prime ore della sera e anche nelle prime ore della mattina».

A metà novembre, le condizioni sanitarie migliorarono timidamente: il prefetto riaprì i cimiteri benché il contagio non fosse concluso, come si intuisce dalla colletta «pro vitanda mortalite finché non sia cessato il morbo influenzale» promossa dal vescovo. Ai primi di dicembre le condizioni della città tornarono alla normalità: il provveditore della provincia di Firenze decise per la riapertura delle scuole. La spagnola lasciò dietro sé molti strascichi nella popolazione, colpita da innumerevoli lutti, come nelle autorità. Nel timore di nuovi episodi pandemici, il Comune progettò l’ampliamento dei cimiteri per far fronte a improvvisi picchi di mortalità.

Un conteggio preciso del numero dei morti nell’area pistoiese non è di facile stima: le fonti documentarie sono lacunose e vari decessi riconducibili alla spagnola furono refertati sotto altre cause (come le polmoniti). Stando ai pochi dati a disposizione, si può ipotizzare un numero di morti per la spagnola oscillante tra le 1.500 e le 1.800 persone nel pistoiese.

Francesco Cutolo si è laureato in Storia contemporanea all’Università di Firenze con una tesi sull’influenza spagnola. Lo scorso giugno è stato eletto nel Consiglio direttivo dell’Istituto storico della Resistenza di Pistoia, con cui da anni collabora. A novembre inizierà il dottorato in Storia presso la Scuola Normale di Pisa.

Articolo pubblicato nell’agosto del 2014.




19 luglio 1944: gli alleati liberano Livorno, “città fantasma”

«L’opposizione e la resistenza [sono] costrette dentro un fazzoletto di terra a ridosso di una città morta ed impraticabile»; questa frase, scritta da Cesare Ciano, rende meglio di tante descrizioni le terribili condizioni in cui si trovava Livorno nel 1944. Parole simili si ritrovano nella descrizione fornita da un soldato americano, al suo ingresso in città: «a ghost town, lying in ruins, pulverised by Allied bombing» («una città fantasma, che cade a pezzi, polverizzata dai bombardamenti alleati»). Non è un caso se quando Luigi Comencini diresse il film Tutti a casa, nel 1960, molte scene furono girate a Livorno, che ancora in pieno boom economico era lo scenario adatto per fingere di essere ancora in guerra.

Il 1943 era stato un anno particolarmente funesto per la città: luogo di imbarco per il materiale bellico che doveva servire all’esercito italiano e a quello tedesco per sostenere le battaglie contro gli Alleati nell’Africa settentrionale, oltre che principale centro logistico per gli spostamenti delle truppe da e per la Corsica e la Sardegna, il porto di Livorno fu sottoposto a una serie di bombardamenti devastanti per l’intera città, in particolare quello del 28 maggio. Le vicende successive non fecero che aggravare la situazione: i combattimenti successivi all’8 settembre con il tentativo di resistenza all’occupazione tedesca da parte delle truppe italiane (e l’uccisione tra gli altri del maggiore Gamerra a Stagno), così come l’istituzione da parte dei comandi nazisti della “Zona nera” il 12 novembre, che imponeva per decreto lo sgombero completo del porto e del centro urbano, contribuirono ad annichilire la vita nella città portuale. La strategia militare degli Alleati mirava a far mantenere sulla costa toscana un grande quantitativo di truppe tedesche, facendo credere all’imminenza di uno sbarco navale che avvenne invece ad Anzio, nel gennaio 1944. I bombardamenti continui nell’area labronica si devono spiegare anche con questa funzione di ‘diversivi’, per quanto la cosa possa suonare paradossale.

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Piazza Grande, un cumulo di macerie (Raccolta Giancarlo Sandonnini, Archivio Istoreco Livorno)

Quando poi si realizzò l’avanzata di terra, tra il giugno e il luglio 1944, i combattimenti furono durissimi. Mentre procedeva l’avanzata alleata, l’importanza della Resistenza divenne sempre più evidente: i partigiani furono decisivi nelle azioni di contrasto ai tedeschi e nel mostrare il territorio alle truppe alleate per accelerare il processo di liberazione. Dopo la battaglia di Rosignano del 12 luglio, l’obiettivo per gli angloamericani divenne Livorno, la cui liberazione fu preceduta da un accerchiamento della corona di paesi che vanno dal Castellaccio a Collesalvetti. Il contributo alla liberazione di Livorno venne proprio dai partigiani del 10º Distaccamento: dopo aver fatto alcuni sopralluoghi nei giorni precedenti, il 19 luglio 1944 entrarono a Livorno insieme alle truppe americane.

La storia della liberazione di Livorno non può prescindere da questi elementi, dalla vicenda di un tessuto urbano devastato dalle bombe e dalle truppe tedesche. Il valore della Resistenza sta anche in questo, nella capacità di rinascere dalle rovine provocate dal fascismo e dalla tragedia bellica, creando un nuovo tessuto connettivo a partire dai germi diffusi dell’antifascismo. Quest’aspetto si coglie molto bene in un brano scritto da Mario Lenzi, uno dei primi a entrare nella Livorno liberata: «Dall’alto delle Rocce Rosse, sul Castellaccio, mi fermai a guardare Livorno, distrutta dalle bombe americane e dalle mine tedesche, con il cannocchiale che gli americani mi avevano assegnato. Si vedevano distintamente le rovine del porto, decine di navi affondate che emergevano dall’acqua bassa, le macerie della piazza Grande, il Duomo sventrato. Percorsi lentamente tutto il panorama della città morta: via Ricasoli, via Roma, Piazza Magenta. Puntai il cannocchiale dove era Villa Medina, ma la mia scuola non c’era più. […] Forse quel mondo non era mai esistito. E se era esistito, poi era scomparso. Un baratro si era aperto, ingoiando per sempre la scuola, le strade, i miei compagni. Erano andati via tutti e con loro se n’era andato anche il ragazzo che io ero stato. Dalla città che c’era una volta, ora si alzavano pigramente nell’aria colonne di fumo».

*Stefano Gallo è assegnista di ricerca presso l’ISSM-CNR di Napoli. Il suo principale campo di ricerca è la storia delle migrazioni e del lavoro, ma si dedica anche alle vicende della Seconda guerra mondiale e della Resistenza. Collabora con l’Istoreco di Livorno, per il quale sta conducendo una ricerca sulla storia della Resistenza, ed è socio fondatore della SISLav (Società Italiana di Storia del Lavoro), di cui copre attualmente il ruolo di segretario coordinatore.

Articolo pubblicato nel luglio del 2014.




Il salto del muro: don Sirio Politi, preteoperaio a Viareggio.

“Hanno affittato anche le barche”. Con questa constatazione inizia un articolo dello scrittore viareggino Silvio Micheli, pubblicato sulle pagine del quotidiano comunista l’Unità all’indomani del ferragosto del 1961. Viareggio è in quegli anni una delle mete preferite del neonato turismo di massa, frutto di una crescita economica che proprio in quell’anno raggiunge il suo apice, con un aumento del PIL dell’8,3%. Sono gli anni del cosiddetto “miracolo italiano”, quando la lira conquista nel 1960 il riconoscimento di moneta più salda fra quelle del mondo occidentale. Milioni di italiani possono permettersi l’acquisto del televisore e del frigorifero: tuttavia, diventa l’automobile il sogno di molti. La FIAT, che nel 1955 mette in produzione la 600, presenta due anni dopo la 500, al costo di 490.000 lire, pari a tredici stipendi di un operaio: nonostante il prezzo sia elevato, inizia proprio in quegli anni la motorizzazione di massa degli italiani. L’utilitaria, spesso acquistata dopo la firma di numerose cambiali, permette di raggiungere, soprattutto in estate, le località balneari. “Tutta Viareggio” scrive Micheli “ha dovuto far posto ai ferragostini, una volta completati alberghi e pensioni. Ma i ferragostini continuavano ad arrivare rigati di sudore dalle città e dalle campagne cotte dal sole”.

Un’immagine del Lungomare viareggino in pieno boom economico: sullo sfondo, i cantieri della Darsena.

Un’immagine del Lungomare viareggino in pieno boom economico: sullo sfondo, i cantieri della Darsena.

Ma se esiste una Viareggio che fa del turismo, di élite e di massa, la sua risorsa principale e cerca di sistemare i villeggianti come può, c’è un’altra Viareggio che vive una situazione ben diversa. Da quando inizia la costruzione del porto-canale nel 1819, la città versiliese si sviluppa nei decenni successivi prendendo due direzioni: da una parte, la città turistica e commerciale con i suoi alberghi e i ritrovi per gli artisti, dall’altra, la Darsena con i cantieri navali, regno dei maestri d’ascia e calafati prima e della carpenteria metallica poi. A dividere queste due realtà, il porto-canale.

Tuttavia, nella Darsena viareggina non si costruiscono solo navi di ogni genere. In quella parte della città è situata anche una delle fabbriche più importanti: la F.E.R.V.E.T., acronimo che significa Fabbricazione E Riparazione Vagoni E Tramway, con sede principale a Bergamo e succursali in altre città. Le cronache e le testimonianze dell’epoca ci raccontano di un lavoro particolarmente duro, svolto in un ambiente malsano e con attrezzi inadeguati per il tipo di produzione richiesto. Per questo motivo gli operai, all’epoca circa 270, sono tra i più combattivi e politicizzati della città. Quando nel 1955 la FIOM subisce una pesante sconfitta nelle elezioni della commissione interna alla FIAT, passando dal 65% al 36%, nello stesso anno alla F.E.R.V.E.T. la FIOM aumenta i consensi, raggiungendo il 73% dei voti operai. Per tutti gli anni ’50 la conflittualità operaia si manifesta con scioperi e occupazioni dello stabilimento, come in quella estate del 1961. Dalla metà del mese di luglio, gli operai occupano lo stabilimento, contro la smobilitazione paventata dall’azienda, trascinando i lavoratori viareggini in più scioperi di solidarietà. Tuttavia, quella lotta passerà alla storia cittadina per un gesto di solidarietà e di disobbedienza di un prete, anzi di un preteoperaio.

Don Sirio Politi (1920-1988), preteoperaio

Nativo di Capezzano Pianore (Camaiore, Lu), don Sirio Politi (1920-1988), assieme al fiorentino don Bruno Borghi (1922-2006), fu il primo preteoperaio italiano.

Dall’estate del 1956 don Sirio Politi, nato nel 1920 e fino all’anno prima parroco di Bargecchia, una piccola frazione collinare del comune di Massarosa, si è stabilito nella Darsena, in un piccolo edificio trasformato in una chiesina che si affaccia sul Canale Burlamacca, e lavora come scaricatore di porto. Fino al 1959 ha lavorato in un cantiere navale, poi si è dovuto licenziare: le autorità ecclesiastiche romane hanno infatti posto fine all’esperienza dei pretioperai, nata in Francia nei primi anni ’40. Insieme a don Bruno Borghi di Firenze, Politi è il primo preteoperaio italiano.

Don Sirio chiede più volte alla direzione di poter effettuare la messa all’interno della fabbrica occupata, ma il permesso viene ripetutamente negato. Finché una domenica, dopo l’ennesimo rifiuto, prende una valigia e la riempie con gli arredi sacri. Porta con sé anche una scala, per permettergli di scavalcare il muro di cinta della fabbrica, e, con l’aiuto degli operai, riesce ad entrare. “Ho scavalcato questo abisso di divisione”, scriverà don Sirio, “e mi sono sentito come in terra libera, fra uomini liberi”. Gli operai gli fanno visitare la fabbrica: “Una attrezzatura primitiva, un macchinario antiquato di quarant’anni fa, un’organizzazione di lavoro assurda e un disordine inconcepibile”. Intanto viene preparato l’altare “con attrezzi di lavoro e lamiere”. Ricordando quella esperienza, scrive don Sirio: “Può darsi che molti non siano credenti. Forse alcuni hanno voluto questa Messa per interesse di pubblicità: ma a me non importava nulla dei motivi e delle intenzioni – e nel caso ero felice che almeno quella Messa servisse a dei poveri, a degli operai… l’importante era che Dio fosse lì tra i poveri, che Gesù Cristo consumasse lì, fra gli operai, il Suo Sacrificio di Redenzione… a dare senso, significato, valore infinito ed eterno a questa povera vicenda umana, a queste situazioni di ingiustizia, a questa sofferenza per i diritti fondamentali alla vita”.

Darsena viareggina: la "Chiesina del Porto" (o "Chiesina dei Pescatori") subito dopo la ristrutturazione del 1961, realizzata per mano dello stesso don Politi.

Darsena viareggina: la “Chiesina del Porto” (o “Chiesina dei Pescatori”) subito dopo la ristrutturazione del 1962, voluta e realizzata dallo stesso don Politi, che, poeta, uomo di lotta e di pace, era pure un abile artigiano.

La F.E.R.V.E.T. continuerà ancora per un trentennio l’attività, fino ad una ennesima occupazione e alla definitiva chiusura nel 1991. Don Sirio Politi proseguirà nel suo cammino, svolgendo l’attività di fabbro e continuando nelle battaglie nonviolente a difesa degli obiettori di coscienza, per la pace e contro l’opzione nucleare, attraverso una feconda attività editoriale. Morirà nel febbraio del 1988.

Articolo pubblicato nel luglio del 2017.




Giornali di classe. Cronaca di una guerra dai banchi di scuola

I documenti custoditi negli archivi delle scuole sono una fonte per la ricerca storica e la ricostruzione di vicende collettive esposte da un osservatorio particolare. In particolare i Giornali di Classe delle scuole elementari riportano sia notizie quotidiane della vita della scuola e della classe che informazioni su avvenimenti importanti culturali e politici, descritti e commentati dagli insegnanti. La sezione cronaca e osservazioni dell’insegnante sulla vita della scuola è redatta dai singoli docenti spesso con cadenza settimanale, alle volte anche giornaliera. L’insegnante generalmente registra i fatti più importanti, l’adunanza e l’inaugurazione dell’anno scolastico, le disposizioni del dirigente scolastico che a sua volta ricalca le circolari del provveditore agli studi, le visite delle autorità scolastiche, le ricorrenze civili e religiose, le feste scolastiche, gli scrutini e la chiusura dell’anno scolastico. Nella relazione finale dell’insegnante si trovano osservazioni sulla scuola, sull’edificio scolastico e l’aula, l’arredamento e i sussidi didattici, sulla biblioteca di classe e la mutualità scolastica, sulla frequenza degli alunni nei vari mesi scolastici e lo stato dei tesseramenti alle Organizzazioni Giovanili.

La presente ricerca ha preso in esame i Giornali di Classe delle scuole elementari del Comune di San Casciano in Val di Pesa dall’anno scolastico 1929/1930 fino all’anno scolastico 1944/1945. L’analisi fornisce sia alcuni elementi di quotidianità scolastica degli anni della dittatura fascista, utili a comprendere il grado e la modalità di fascistizzazione delle istituzioni scolastiche che a ricostruire il periodo della guerra e i tragici eventi conseguenti al passaggio del fronte tra la Val di Pesa e la Val d’Elsa . Le cronache degli insegnanti a partire dal 1940 diventano difatti una cronaca delle vicende della guerra.

Nelle cronache sono riportate un numero impressionante di giornate commemorative dedicate al regime che si svolgevano nell’orario scolastico a discapito dell’attività didattica. Gran parte delle lezioni poi erano dedicate all’indottrinamento e all’istruzione fascista. Come annota una maestra di Cerbaia, in occasione dell’inaugurazione dell’anno scolastico 1928/29, gli insegnanti avevano la nobilissima missione di modellare l’animo del popolo italiano secondo lo stile, il costume, la dottrina e la religione fascista. [Giornale della Classe, III e IV, La Romola, Anno scolastico 1928/29]. La maestra aggiunge che la formazione dei piccoli Balilla, ordinata dal signor Podestà, mi ha tenuta onoratissima per l’opera di propaganda verso le famiglie dei miei alunni, le ore di lezione di oggi sono occupate nel preparare e completare la divisa che sarà indossata stasera dai nostri Balilla, invitati ad una riunione nel capoluogo. [Giornale della Classe, II e IV, Cerbaia, Anno scolastico 1928/29]. Nel novembre del 1927 anche le Piccole Italiane e Giovani Italiane passarono sotto l’Opera Nazionale Balilla, cosi la maestra di Cerbaia: mi sono recata a San Casciano dalla signora segretaria politica del Fascio femminile per intenderci circa la formazione delle Piccole e Giovani Italiane: per le quali alacremente lavoro data l’importanza patriottica di questa nobile istituzione. [Giornale della Classe, II e IV, Cerbaia, Anno scolastico 1928/29]. Le feste e le celebrazioni del Pane e del Fiore e simili, erano tutte occasione di raccolta di fondi e molte furono legate alla particolarità del momento bellico:

…Fino da ieri ho cominciato la vendita dei panini, Pro Oriente, oggi 2° Celebrazione del Pane, dopo aver spiegato agli alunni l’alto significato di questa nobile Festa[…]stamani insieme alla mia Collega ho proseguito la vendita dei panini e abbiamo incassato, in breve tempo la somma di 100 lire…. [Giornale della Classe, II e IV, Cerbaia, Anno scolastico 1928/29]

Il processo di indottrinamento e disciplinamento paramilitare nelle scuole, inteso a formare i futuri soldati, subì un’intensificazione con l’invasione dell’Etiopia nell’ottobre 1935. Le “inique sanzioni” che furono applicate all’Italia conseguentemente all’invasione divennero argomento di lezione anche nelle scuole elementari. La data del 18 novembre venne da allora annotata sulla cronaca come Anniversario delle Sanzioni. L’altra iniziativa di cui si fece carico la scuola fu la raccolta di metalli, carta e stoffe e il dono della fede nuziale (Oro alla Patria) quale contributo degli italiani alla guerra in Africa. Anche la scuola doveva applicare un sistema di rigida economia. Le circolari bandivano l’uso della doppia copia dei documenti e ordinavano la riduzione del consumo di energia elettrica. Il paese si preparava alla guerra anche attraverso la scuola con la consapevolezza che i piccoli italiani forti e coraggiosi, sono i valorosi soldati di domani. [Giornale della Classe, III e IV, La Romola, Anno scolastico 1935/36]. Una circolare del 30 maggio 1935 esortava l’acquisto della radio per le classi delle scuole del Comune. L’8 marzo del 1938 un comunicato del Provveditorato agli Studi di Firenze esprime, a nome del Ministero dell’Educazione Nazionale, «il compiacimento per il continuo incremento della radifonia scolastica» [Cir. 2238, 8 marzo 1938]. Così tra il 1938 e il 1939 anche nelle scuole del Comune di San Casciano si ebbe l’apparecchio radio per «educare fin dalla più tenera infanzia secondo i dettami della dottrina fascista, completare e illustrare le lezioni impartite dagli insegnanti…».

Dall’anno scolastico 1940-41 gli insegnanti avevano il compito di leggere quotidianamente i bollettini di guerra agli alunni ed esaltarne gli eventi favorevoli al Regime. Il maestro della Romola scrive che i suoi alunni non si stancherebbero mai, in particolare i ragazzi di quinta di sentire parlare della guerra. Dopo la lettura del bollettino quante domande!…noi la chiamiamo la “storia viva”, il parlare dei nostri soldati e della guerra. [Giornale della Classe, III e IV, La Romola, Anno scolastico 1940/41]. Il regime attraverso la scuola cercava di mantenere il consenso che stava progressivamente venendo meno con il procedere del conflitto. Gli stessi alunni, nell’inverno del 40-41, sono mobilitati per la guerra:

E’ un momento in cui si lavora intensamente. Anche materialmente si lavora, specialmente le femmine a confezionare maglieria per i soldati. Abbiamo raccolto 70 lire. Dividiamo gli indumenti i due pacchi e li spediamo a due soldati del popolo della Romola che si trovano attualmente in Albania. [Giornale della Classe, III e IV, La Romola, Anno scolastico 1940/41]

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Notizie statistiche della scuola elementare mista di Romola (S. Cascano V.P) – Anno scolastico 1938-39

L’anno scolastico 1940-41 termina in anticipo, il 24 maggio. All’inizio del 1942 la situazione in Italia era catastrofica. Iniziarono la penuria di risorse e le requisizioni da parte del regime. Nell’autunno 1942 tra i militari sancascianesi si contavano 70 prigionieri di guerra, 20 feriti, 7 dispersi, 31 morti. Nel biennio scolastico 1942-1943/ 43-44 nelle cronache degli insegnanti, la propaganda di guerra, i riti e le celebrazioni del regime lasciano spazio progressivamente alle preoccupazioni, ai timori suscitati dalla guerra, e al racconto tragico dei bombardamenti. L’orario di lezione venne ridotto, le chiusure delle scuole anticipate e l’ inizio posticipato. L’attività didattica diventava quasi impossibile, numerose sono le annotazioni degli insegnanti sui programmi non conclusi. Nelle classi si aggiungono i bambini sfollati dalle città bombardate:

Questa mattina, accompagnata dalla mamma, si presenta una bimba da Grosseto. E’ sinistrata nel bombardamento dell’aprile scorso: il padre e lo zio periti nel bombardamento, la casa crollata e, tutto, disperso. Ascolto, con emozione, il lugubre racconto di questa terribile tragedia e mi associo al dolore di queste creature… [Giornale della Classe, V, San Casciano; Anno scolastico 1943/44].

Le incursioni aeree impressionano e sconvolgono la quotidianità della val di Pesa già dalla fine del 1942. Con l’anno scolastico 1943-44 la guerra arriva tra i banchi della scuola, tra gennaio e giugno 1944 vi sono 6 incursioni aeree da parte di bombardieri medi e pesanti:

I continui allarmi disturbano l’andamento delle lezioni. Quando gli alunni odono la sirena diventano irrequieti, vogliono le mamme, ed i più piccini tremano e si mettono a piangere. Proprio oggi, un bombardamento molto vicino ha fatto tintinnare paurosamente tutti i vetri. Subito le mamme son corse a prendere i loro piccini. Tutti i giorni è cosi! [Giornale della Classe, II e IV, La Romola, Anno scolastico 1943/44]

Gli effetti dei bombardamenti sul territorio regionale si hanno anche nel Comune di San Casciano:

Oggi poi è stata una giornata nera. Gli apparecchi hanno cominciato a passare alle 10.30 e quando ho visto che si dirigevano verso Firenze ho sentito il cuore farsi piccino per il pensiero di tutti ma soprattutto dei miei. Il bombardamento è stato visibile perché contemporaneamente a quello su Firenze c’è stato quello su Poggibonsi e la terra tremava talmente forte che sembrava dovesse aprissi da un momento all’altro. [Giornale della Classe, I, II e III, Bargino, Anno scolastico 1943/44].

Annota anche la maestra di Mercatale:

I vetri e il pavimento della classe tremavano al boato delle bombe, nella piazza era un gridio, un fuggi fuggi. Tutti correvano senza sapere dove rifugiarsi…[Giornale della Classe III e IV, Mercatale, Anno scolastico 1943/44].

L’episodio del duello aereo nel gennaio 1944 e l’abbattimento di un aereo inglese presso San Pancrazio viene descritto nelle cronache degli insegnanti come il primo episodio di guerra osservato dalla popolazione di questa contrada:

Nelle prime ore di pomeriggio di ieri avvenne un duello aereo nei nostri cieli. Ebbero la peggio alcuni apparecchi tedeschi che precipitarono poco lontano da noi. Uno di esse colpito da una raffica di mitragliatrice lasciò cadere, giù nei nostri campi, il serbatoio della benzina e altri oggetti pesanti, che li per li, nel primo momento, parevano proprio delle bombe.[Giornale della Classe I e II, Mercatale, Anno scolastico 1943/44].

Per misure precauzionali da gennaio l’orario delle lezioni venne ridotto dalle 8,30 alle 11. La situazione è sempre più allarmante. Il 29 aprile fu l’ultimo giorno di lezione. Il 27 luglio gli alleati liberarono San Casciano e l’11 agosto il Cln toscano dette l’ordine di insurrezione generale e assunse il governo del capoluogo fiorentino. Fu l’inizio di una lunga battaglia che ebbe termine il 1 settembre con la liberazione di Firenze. Il 2 agosto venne nominata la Giunta provvisoria a San Casciano. Secondo un indagine del novembre 1944, nel Comune chiantigiano erano 202 le famiglie che avevano la casa distrutta, per un totale di 684 persone. Gli sfollati provenienti dagli altri comuni erano 279 famiglie, per un totale di 1412 persone.

il chiesino e municipio

Le rovine di San Casciano dopo il passaggio del fronte (Archivio Associazione “La Porticciola”)

Le scuole, a causa delle distruzioni provocate dal passaggio del Fronte, riapriranno solo tra dicembre e febbraio:

Le scuole al Capoluogo si sono riaperte. Non più gli ampi locali dai grandi finestroni, ma le aule strette e anguste che erano prima quelle addette al giardino di infanzia. Purtroppo il piccolo mondo adolescente viene accolto in queste aule con poca luce meno aria. Ma siamo in tempo di guerra e dobbiamo adattarci. I bambini sono felici di aver ripreso le loro lezioni, le insegnanti pure. Io mi trovo assai bene con una classe seconda che mi è stata affidata dal Signor Direttore. È una classe seconda, composta dagli alunni delle due prime, sono in tutto 33 alunni. Li guardo e purtroppo hanno ancora negli occhi il terrore della guerra che passando dal paese e dalle ridenti campagne ha distrutto le loro case, sentono ancora il rombo del cannone e lo scoppio della mina e mi guardano come istupiditi. No, cari piccoli passeremo insieme, quest’anno e nel lavoro e nell’amore reciproco dimenticheremo gli spaventi passati. [Giornale della Classe I e II, Bargino, Anno scolastico 1944/45].

Nella relazione finale di una maestra della scuola di San Casciano si raccontano le conseguenze del bombardamento del 26 luglio e l’anno difficile appena trascorso:

Causa il tremendo bombardamento avvenuto su questo povero Capoluogo, le scuole ebbero un sinistro tremendo. Scoperchiate, diroccate, non erano più in grado di contenere un alunno. Furono accomodati alla meglio i locali che servivano per i bambini del Giardino infantile ed in esse, alternativamente, gli insegnanti hanno svolto la loro attività. Benché i locali fossero ristretti, bui e privi di luce (mancavano i vetri e furono sostituiti con carta cerata) pure gli alunni hanno frequentato regolarmente la scuola.[Giornale della Classe II, San Casciano, Anno scolastico 1944/45].

Euforia all’indomani della resa della Germania viene espressa dagli insegnati insieme alla consapevolezza degli anni ancora difficili che il paese si troverà ad affrontare :

Grazie, grazie, grazie! Grande entusiasmo, il conflitto mondiale che da quasi sei anni imprigiona i popoli dell’Europa ha avuto termine. La Germania vinta ha deposto le armi e chiede l’armistizio incondizionato agli Alleati e alla Russia. Finisce un momento storico! Ne incomincia un altro. Finita la distruzione, incomincia un periodo di ricostruzione… [Giornale della Classe I e II, San Casciano, Anno scolastico 1944/45].

* Sara Gremoli è laureata in Storia contemporanea presso l’università di Firenze e presidente dell’associazione culturale Sgabuzzini Storici, con sede a San Casciano in val di Pesa. L’associazione si occupa di promozione culturale e organizzazione di eventi. In particolare promuove la valorizzazione del patrimonio documentale e la diffusione della memoria storico-culturale del Chianti attraverso l’organizzazione di conferenze, mostre, letture e spettacoli teatrali in collaborazione con le associazioni del territorio.

Articolo pubblicato nel giugno del 2017.




Comunicare la Resistenza: sfide e proposte

Una riflessione sulla complessa, contraddittoria immagine della Resistenza nel panorama politico italiano può agevolmente partire da un’immagine recente: il corteo per il 25 aprile organizzato a Milano dal centro-sinistra. Scevra di una preventiva discussione capace di giustificarne i presupposti e di evidenziarne i legami con decenni di celebrazioni resistenziali, la giallo-blu festa della libertà e dell’Unione Europea ha attutito la percezione della festa della Liberazione dal nazi-fascismo. Il problema non è l’infondatezza del collegamento, peraltro ragionevole e giustificabile: le dimensioni transnazionali ed europee della Resistenza e l’elaborazione, proprio in quel drammatico contesto e davanti alle atrocità della seconda guerra mondiale, di un’unione politica che scongiurasse simili eventi, danno ai due processi un sostrato comune. A lasciare dubbiosi sono le modalità con cui temi e problemi nuovi sono stati giustapposti all’esistente come una patina, senza alcun legame con la Resistenza e le sue ricorrenze celebrative; e tutto ciò rende evidente, a mio avviso, quanto ora più che mai sia urgente e necessaria una discussione sul tema.

Da diversi anni l’“oblio della Resistenza” ricorre con insistente puntualità in articoli, pubblicazioni e discorsi accademici. Non è certo un vezzo professorale. Per accorgersene, è sufficiente prestare un po’ d’attenzione e osservare tutte le “memorie di pietra” – dai cippi alle lapidi, dalle targhe ai monumenti – dedicate agli anni ’43-45 da enti locali e associazioni, chi ricordano e in quali anni sono state inaugurate. Non è la rarefazione delle nuove testimonianze a saltare all’occhio, quanto piuttosto un cambiamento dei temi e delle modalità espressive: a essere ricordate – con pietre a inciampo o targhe contenute, scarsamente osservabili dall’occhio distratto del cittadino o del visitatore occasionale – sono soprattutto le vittime del conflitto, che siano per i bombardamenti o per le retate naziste. I monumenti, più costosi e maggiormente suscettibili, con la loro stazza, di cambiare il paesaggio cittadino, sono poco presenti nelle nuove politiche della memoria; ugualmente rare sembrano anche le testimonianze a favore di chi attivamente contribuì alla guerra.

Questa consapevolezza apre la strada a ulteriori considerazioni su come guerra e resistenza siano differentemente commemorate e recepite. Non abbiamo guerre sul nostro suolo da più di settant’anni, è vero. Ma chi non sa cosa sia una guerra? Chi non ha letto o guardato un reportage sulle innumerevoli tragedie belliche che ancora si consumano nei più disparati angoli del pianeta? La guerra, nonostante tutto, fa ancora parte del nostro orizzonte mentale e culturale. E la Resistenza, invece? È questo, indubbiamente, un concetto molto più difficile da assumere e da collocare nei nostri schemi mentali, soprattutto da quando, come ha giustamente notato Ersilia Perona, l’89 e la fine del comunismo hanno rivoluzionato i nostre prospettive. Spesso, per incardinarla nella narrazione politica italiana, la Resistenza è stata accostata al Risorgimento fino a farne un “secondo Risorgimento”, come ricorda Aldo Agosti nel volume Resistenza e autobiografia di una nazione: un paragone che alla Resistenza, soprattutto in questi ultimi anni di contestazione e revisione del processo di costruzione nazionale, non ha certo portato fortuna.

È tuttavia indubbio che un’efficace divulgazione della Resistenza e dei suoi valori debba incardinarsi sulle tematiche dell’oggi. Deve sapersi indirizzare alle inquietudini e alle problematiche contemporanee coinvolgendo, e coinvolgendo emotivamente, visitatori e fruitori, fino a renderli parte viva e attiva del reperimento e della costituzione della mostra. È certamente un processo rischioso e denso di pericoli, come è stato giustamente notato nel corso della conferenza: ma, se diretto e controllato passo per passo da storici ed esperti, può garantire, a mio avviso, un apprendimento più radicato e duraturo. In questa prospettiva si sono mossi in questi anni gli Istituti della Resistenza e dell’età contemporanea in Toscani con progetti che, in particolare a partire dal 70° della Liberazione, hanno conseguito significativi risultati di divulgazione scientifica e partecipazione di pubblico: dall’esposizione “Firenze in guerra” curata dall’Istituto storico della Resistenza in Toscana al “La Storia in soffitta” dell’Istituto lucchese, dal progetto “Cantieri della memoria” realizzato dall’Istituto grossetano alla mostra diffusa “Cupe vampe” allestita dall’Istituto di Pistoia per ricordare  il bombardamento dell’ottobre 1943 fino a quella sugli “Ebrei in Toscana” curata dall’Istoreco livornese.

Bisogna innanzitutto puntare al significato di scelta che per molti significò la partecipazione alla Resistenza – sia che vi avessero aderito in modo attivo combattendo nelle formazioni partigiane oppure che, con il sostegno dalle retrovie, avessero assicurato ai combattenti vitto, equipaggiamento e materiale. Non un mero tornaconto personale, ma un fine collettivo ne animò l’azione: quello di poter vivere in una società più giusta e democratica. È un significato che dobbiamo recuperare, perché sottende quella cura dell’altro e del bene pubblico che è alla base del moderno concetto di cittadinanza e che, oggi più che mai, latita. Quel che dobbiamo ricordare con le nostre esposizioni e le nostre mostre, e che ha valore tanto oggi quanto settant’anni fa, è che solo quando si ritiene il benessere della collettività la necessaria condizione per far avverare anche il proprio che si realizza una società giusta e democratica.

Chiara Martinelli ha conseguito il dottorato in storia contemporanea all’Università di Firenze nel 2015. Dal 2013 ricopre la carica di consigliere nel consiglio direttivo dell’Istituto storico della Resistenza di Pistoia, con cui collabora dal 2007. E’ autrice di diverse pubblicazioni sulla storia della scuola, tra cui:  Schools for workers? Industrial and artistic industrial institutes in Italy (1861-1914); in E. Berner and P. Gonon (edd. by), History of Education and Training in Europe: Cases and concepts, Lang, 2016; Branding technical institutes in Italy (1861-1913), in A. Heikkinen and L. Lassnigg (edd. by), Myths and Brands in Vocational Education, Cambridge, 2015; Esigenze locali, suggestioni europee: le scuole industriali e d’arte applicata all’industria in Italia (1861-1886), “Passato e presente”, XXXII (2014); Lo sguardo ambivalente sulla tradizione nei quaderni di scuola durante il periodo fascista: Pistoia 1929, “Società e storia”, 137 (2012).

Articolo pubblicato nel giugno del 2017.




La Resistenza in un piccolo comune pistoiese: Lamporecchio

L’inizio dell’attività partigiana e della Resistenza armata in provincia di Pistoia deve essere collocato poco dopo l’inizio dell’occupazione nazista nel settembre 1943, quando le prime squadre sorsero sulle montagne pistoiesi, nelle aree collinari e nella zona valdinievolina. Erano formate da soldati sbandati, renitenti alla leva, uomini di altre nazionalità fuggiti dalla Wehrmacht, donne e antifascisti.

Nell’accezione più ampia del termine, la Resistenza è un fenomeno complesso che coinvolse, a vari livelli, un’ampia maggioranza della nazione e tutti gli strati sociali della popolazione: dal fornire cibo e alloggio a un estraneo, che sia un partigiano o un soldato sbandato, al rivelare informazioni a un “bandito” o agli alleati; dall’ascoltare Radio Londra al non presentarsi alla leva obbligatoria; dal combattere attivamente i tedeschi all’effettuare sabotaggi.

In Toscana il 9 ottobre 1943 fu costituito il Comitato Toscano di Liberazione Nazionale (CTLN), erede dei comitati interpartiti e dei fronti antifascisti già attivi durante il ventennio fascista. La resistenza pistoiese s’inserisce nel quadro di quella toscana: in parte ebbe origini autoctone e in parte fu promossa, coordinata e supportata dall’esterno e dai partiti. Militarmente fu suddivisa in due zone: undicesima e dodicesima.

A Lamporecchio, l’unica formazione costituita fu la “Squadra di Azione Patriottica” (S.A.P.), chiamata anche “Lamporecchio”, di ispirazione profondamente comunista. Nel comune operarono sporadicamente anche le formazioni “Comunista n. 1”, “Ribelli del Montalbano” e “Silvano Fedi” di Pistoia.

La S.A.P., guidata dal comunista Giovanni Calugi, aveva sede presso la Cisterna di Montefiori, situata sulle colline, svolse la sua attività sul Montalbano e operò nei comuni di Lamporecchio, Larciano, Vinci, Serravalle Pistoiese. La sua forza raggiungeva e superava la cinquantina di uomini, specialmente quando venivano effettuate azioni e si aggregavano vari patrioti; la squadra sostenne dieci scontri a fuoco e inflisse ai tedeschi 4 morti, 13 feriti e 8 prigionieri. Due partigiani morirono, tre restarono feriti; un russo che si trovava nella formazione da due mesi, chiamato Ivan, rimase ucciso da una raffica di mitra durante uno scontro il 12 agosto 1944 e venne sepolto al cimitero di Larciano; Leonetto Neri, residente in Cerbaia, fu ferito in uno scontro il 2 settembre e morì dopo qualche settimana all’ospedale di Siena; Enzo Verdiani, residente a San Baronto, fu ferito a una gamba da una pallottola di mitra il 28 luglio; Ivo Ancillotti, residente in Cerbaia, fu ferito a una mano da una pallottola di mitra; Osvaldo Desideri, residente a Larciano, rimase ferito in seguito allo scoppio del proprio fucile il 12 agosto.

La formazione lamporecchiana, oltre agli scontri a fuoco, si occupò della raccolta delle armi, del servizio informazioni, dei sabotaggi e di aiuto nei confronti dei fuggiaschi e della popolazione. Fu continuamente in contatto con la brigata “Bozzi” con la quale effettuò alcune azioni sulla montagna pistoiese. Un personaggio di spicco della formazione fu Giovanni Frediani con ruoli di comando, di collegamento con altre formazioni e di rifornimento alimentare.

La squadra “Comunista n. 1” si scontrò il 2 e il 4 agosto con pattuglie tedesche nella zona di Lamporecchio; la “Silvano Fedi” di Pistoia effettuò alcune azioni di sabotaggio presso San Baronto il 15 agosto; i “Ribelli del Montalbano” sostennero combattimenti armati il 4 e il 5 settembre lungo la strada che da San Baronto conduce a Casalguidi e obbligarono i repubblichini a ricostruire le vie e i ponti distrutti.

Lamporecchio venne liberata dall’occupazione nazifascista dopo circa un anno, esattamente il 2 settembre 1944. La liberazione ricalcava in molte zone lo stesso schema. Può essere applicato in maniera appropriata al caso lamporecchiano e a quello di parte della provincia pistoiese: i tedeschi scappavano dal territorio e arretravano verso nord, gli angloamericani prendevano contatto con le formazioni partigiane e avanzavano prudentemente, i partigiani assumevano il possesso della città, infine gli angloamericani arrivavano definitivamente e imponevano il proprio controllo sul paese.

Gli alleati a fine agosto si avvicinarono a Pistoia da sud e gli inglesi presero contatto il 1° settembre con le formazioni partigiane valdinievoline.

La formazione partigiana S.A.P. di Lamporecchio partecipò attivamente alla liberazione insieme alla banda Silvano Fedi di Pistoia, comandata da Enzo Capecchi e Artese Benesperi. Giunta la notizia che gli alleati avevano attraversato il fiume Arno, la squadra si divise in varie pattuglie per “rastrellare la zona”. Il paese fu occupato dopo vari scontri a fuoco: il primo avvenuto in Cerbaia e costato la vita a Leonetto Neri, il secondo nei pressi di Lamporecchio, il terzo nella località Giugnano, il quarto nella frazione Vaccareccia.

Quel giorno vennero catturati alcuni nazisti e consegnati agli inglesi, i primi ad arrivare in paese. Successivamente, il 3 settembre, la formazione partecipò alla liberazione di San Baronto, seguita da quella di Pistoia, occupata l’8 settembre in collaborazione con le altre squadre partigiane della provincia.

I partigiani residenti e riconosciuti in città furono 35; i patrioti, invece, 31.

Fu fondamentale la presenza di numerose donne all’interno della Resistenza, anche lamporecchiane, come possiamo intuire dalla relazione sull’attività svolta dai gruppi di “Difesa della Donna” nella provincia di Pistoia: “Tutte le organizzate hanno prestato la loro opera con fede e costanza, senza avvertire la stanchezza e rifiutando la paura, viaggiando attraverso i posti di blocco tedeschi, soggette a perquisizioni e requisizioni. Hanno continuato la loro lotta contro i nazi-fascisti, adoperandosi a seguirne i movimenti, ad ostacolare le loro opere di rastrellamento, fiduciose che i loro sacrifici sarebbero stati coronati dalla vittoria completa”.

Il giorno dopo la liberazione, il 3 settembre 1944, il CLN si riunì nell’ufficio comunale del paese: i componenti progettarono un piano di attività basato sulla collaborazione di tutti e destinato esclusivamente al bene della collettività; vennero anche salutate le truppe di liberazione dell’esercito alleato che, per mezzo di cinque rappresentanti, assistettero all’assemblea.

Il 6 settembre, su richiesta angloamericana, fu nominata la giunta comunale che si sarebbe riunita per la prima volta l’11 settembre alle 9.30. La giunta a sua volta nominò Foscolo Maccioni, già presidente del CLN, come primo sindaco di Lamporecchio dopo la liberazione.

Decine di cittadini lamporecchiani continuarono la lotta di liberazione, arruolandosi nei Gruppi di Combattimento (Legnano, Folgore, Cremona, Friuli, Mantova e Piceno.) e affiancando le truppe alleate durante la risalita nel nord Italia. Furono circa 500 i pistoiesi partiti da piazza del Duomo il 16 febbraio 1945: ex militari, ex partigiani, semplici cittadini che desideravano dare il loro contribuito alla liberazione del resto d’Italia, avvenuta ufficialmente nell’aprile 1945.

Matteo Grasso, laureato in storia contemporanea con una tesi sull’occupazione nazifascista di Monsummano terme, è direttore dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia. Svolge attività di ricerca archivistica, orale e bibliografica finalizzata all’approfondimento locale e nazionale di particolari momenti del Novecento e lavora presso l’Associazione Culturale Orizzonti di Lamporecchio che diffonde il mensile Orizzonti. In precedenza ha svolto un tirocinio annuale per la valorizzazione culturale di Villa La Quiete a Firenze. Fra le pubblicazioni ricordiamo: “Giovanni Fattori. Lettere di un montalese dal lager nazista” (2017); “Sulle tracce della memoria. Percorsi pistoiesi nei luoghi della guerra” (2015); “Guerra e Resistenza. Vicende partigiane per uno della «Bozzi», la storia personale di Doriano Monfardini” (2014).

Articolo pubblicato nel giugno del 2017.




Leggere i manifesti di Oriano Niccolai

La Federazione del Partito comunista di Livorno aveva un grande grafico. Anzi un grandissimo grafico, Oriano Niccolai. L’Istoreco di Livorno gli ha dedicato, nel 2013 e poi di nuovo nel 2014, una bellissima Mostra con un altrettanto significativo Catalogo, dal titolo Rosso creativo.[1]  Le intenzioni dell’autrice di questo brano sono di cominciare, con questo intervento in rete, una sequenza di approfondimenti per raccontare come una visione politica si possa rappresentare graficamente e come si possa proporre una lettura della storia politica dell’Italia a partire dai colori, come suggerisce Maurizio Ridolfi [2], dalle scelte grafiche, dal testo che le accompagna. Perché i manifesti politici utilizzano una modalità polisemica per veicolare il loro messaggio. Parlano attraverso il colore, l’impaginazione, la grafica, le parole, la loro stessa dimensione e la tecnica di realizzazione.

Sez.2_18_0345Per favorire la comprensione di questa affermazione utilizzerò alcune esemplificazioni concrete, collocabili in un tempo ed uno spazio preciso, a partire dal manifesto del 1961 in occasione della vittoria di Castro a Cuba. Il manifesto è firmato lateralmente con un rinvio al committente, che è il Pci ma in particolare la Federazione giovanile comunista di Livorno. E noi sappiamo che per i manifesti della Fgci Oriano, come tutti gli altri grafici comunisti, aveva più libertà d’azione rispetto invece alle direttive che si ricevevano dalla direzione del Partito per quelli, in qualche modo, più ufficiali. Il colore che domina è il bianco dello sfondo. Secondo la lettura più ortodossa in cima al manifesto trionfa una scritta dove si ricorda che ha vinto non il leader, ma il “popolo” di Cuba che si è liberato del dittatore Fulgencio Battista. Poi il manifesto prosegue richiamando Castro e subito dopo ancora la rivoluzione cubana, ma aggiungendo a chiusura un richiamo alla pace. Qual è l’aspetto più significativo di questa comunicazione, della sua realizzazione grafica? Sicuramente festeggiare l’avvenuta presa del potere da parte di Castro. Quale l’intenzione che ci sta dietro? Allacciarsi al tema dell’internazionalismo in una cornice nella quale questo tema appassionava ancora milioni di uomini e di donne. Aver utilizzato l’immagine della bandiera cubana spezzata a cosa rinvia? Spezzata perché i cubani si sono liberati di un dittatore? Può darsi. Ma a mio parere ancora di più perché la bandiera cubana, ironia della sorte, è costruita con strisce blu su sfondo bianco e con una stella su sfondo rosso. Ricorda quasi in modo automatico la bandiera statunitense. Ed allora averla impaginata in questo modo, con le strisce “esplose” è un rinvio alla sconfitta degli Usa che in questa partita giocarono un ruolo decisivo ma pur sempre perdente. Non aver caricato il manifesto di “rosso” evita alla comunicazione di presentarsi come conforme ad una ortodossia comunista ancora molto forte agli inizi del decennio Sessanta, permette alla comunicazione di rimanere su un registro più “leggero”.

punto esclamativoPassiamo adesso ad un altro manifesto di quello stesso periodo, periodo contrassegnato anche dall’impegno militante di tutta la sinistra italiana a favore del popolo vietnamita in lotta contro gli Stati Uniti.  Nel manifesto di nuovo domina il bianco. Sembra impaginato con una disciplina grafica che risponde ad una direttiva artistica del “togliere” e non a quella dell’aggiungere. Il manifesto si può definire minimalista, quasi astratto. Un grosso punto esclamativo che produce un effetto “non centrato” rispetto al foglio, e che a causa di questa sua asimmetricità ha un impatto sul lettore ancora più efficace, produce un richiamo all’attenzione ma nello stesso tempo, e anzi ancora di più, rinvia alla traiettoria di una bomba che cade. La scrittura del testo che accompagna l’immagine, nelle realizzazioni di Niccolai sempre sintetica e mai aggiuntiva o sostitutiva, è collocata a sinistra e a destra della “bomba-punto esclamativo”.  Il messaggio invita ad un’azione di impegno contro la guerra, all’organizzazione di una Marcia della Pace dentro un quartiere periferico, a sud della città, una mobilitazione di quella che oggi potremmo chiamare la “società civile”. Un luogo decentrato nella città, nella sua periferia sud. Noi sappiamo che quel manifesto è uscito dalla Federazione del Partito comunista di Livorno e quindi ha una sua specifica e ben riconoscibile paternità politica, ma sappiamo anche l’originalità di questa composizione che rinvia senza mezzi termini alle avanguardie pittoriche più interessanti e alla migliore grafica italiana. Sappiamo che per Oriano fare il grafico era “l’arte del togliere”, e sappiamo che non l’aveva imparato da Calvino e dalla sua esigenza di leggerezza, ma dal suo maestro, Albe Steiner[3], il più grande e innovativo disegnatore/comunicatore del secondo dopoguerra italiano. E sappiamo[4] anche che quando sceglieva le parole per ogni manifesto, in testa gli giravano sia i racconti di Marcovaldo che le poesie del suo caro amico Gianni Rodari. Quel Rodari che si era ispirato a lui nella filastrocca “Giovannino perdigiorno”, che in primis doveva essere “Orianino perdigiorno[5]”. Perché? Perché Oriano aveva un aspetto minuto, quasi fanciullesco, con un’aria perennemente assorta e riflessiva, sembrava uno un po’ svagato che correva dietro alle nuvole immaginarie che si agitavano nella sua testa.  Chi lo ha frequentato lo ricorda così: concentrato sopra una pagina di giornale, taciturno, quasi assente, eppure Oriano era sempre assai presente, uno capace di ascoltare le richieste, farle proprie per poi trasformarle in un messaggio grafico e linguistico impeccabile, mai superfluo, mai retorico. Con le sue proposte, che difendeva con caparbietà e consapevolezza, riusciva ad interpretare i bisogni della Federazione, del Partito nel suo insieme, o delle singole parti di quella che era una macchina mastodontica, pesante, lenta. Ma nel farlo ogni volta si prendeva lo spazio di affermare la sua scelta grafica, libera e “leggera”, mai monumentale, mai ingombrante. Perché Niccolai metteva la sua capacità a disposizione del Partito non in modo mercenario o opportunista ma da appassionato militante quale si sentiva e voleva essere.

mollettaMolti anni dopo, ancora per un’altra occasione di mobilitazione per la ricerca di pace. Oriano Niccolai disegna un altro manifesto. Siamo nei primi anni Novanta. La guerra stavolta è quella del Golfo. I tempi sono cupi e Niccolai sceglie lo sfondo nero su cui troneggia la data dell’appuntamento politico e sotto, attaccata ad un filo, è sospesa una bomba tenuta ferma soltanto da una molletta per i panni, su un filo pesantemente curvato. La scritta successiva indica il cosa fare e come, rinvia all’appuntamento di una fiaccolata. La manifestazione quindi si fa in notturna e questo può anche aver ispirato Niccolai a fare lo sfondo nero. Ma lo sfondo è nero anche perché siamo entrati in un orizzonte più cupo, il mondo per un vecchio militante comunista non è più così chiaro, c’è già stata la caduta del muro di Berlino e il tentativo di golpe contro Gorbaciov, tutto si è fatto più incerto. Per chi osservava quel manifesto, quel nero e bianco della bomba erano molto più significativi delle tante immagini di orrore che già campeggiavano nella nostra percezione nonostante la volontà di anestetizzare quella guerra da parte dei suoi contendenti. La “bomba” di Oriano non è proprio la bomba “intelligente” della propaganda militarista. È una bomba sospesa che sta per cadere. Che sicuramente cadrà, così come è, appesa ad un filo. L’innocua molletta, oggetto umile, persino casalingo che la trattiene, non la può certo bloccare per molto ancora. Quindi il messaggio implicito ma non troppo è: partecipate numerosi, la pace è in pericolo e forse siamo già in ritardo. Pochi anni fa due giovani artisti livornesi, Valerio Michelucci e Stefano Pilato ispirandosi forse a questa bomba realizzarono una installazione in occasione del 70° bombardamento di Livorno, quello del 28 maggio del 1943, e ne fecero una finta, dipinta di color fucsia magenta, e la attaccarono sospesa ad un palazzo vicino al mercato di Piazza Cavallotti, luogo popolare, deputato a rappresentare la tradizione democratica e pacifista della città. Perché le proposte intelligenti e creative permettono anche questo, di essere riprese e aggiornate e, risultare, nonostante le loro radici nel passato, originali e intelligenti.[6]

[1] Rosso creativo. Oriano Niccolai 50 anni di manifesti (a cura di Margherita Paoletti), Debatte Editore, Livorno, 2013. I manifesti che risultano nel Catalogo corrispondono a quelli della Mostra che fu realizzata a Livorno dall’8 al 22 novembre 2013 presso Villa Henderson e replicata a Pisa l’anno successivo presso il Centro San Michele degli Scalzi. Sono oggi custoditi presso l’archivio dell’Istoreco di Livorno e formano tutti insieme un fondo di circa duemila pezzi.

[2] Maurizio Ridolfi, L’Italia a colori Storia delle passioni politiche dalla caduta del fascismo ad oggi, Le Monnier, Bologna, 2015.

[3] Rosso creativo, cit., p. 15.

[4] L’espressione “noi sappiamo” non è legata a nessuna astuzia retorico-linguistica ma è giustificata dalle decine di ore di interviste e colloqui che prima di fare la Mostra e il Catalogo abbiamo avuto il piacere di realizzare all’interno dell’Istituto. In particolare Margherita Paoletti, che curò tutta l’operazione, costruì con Oriano Niccolai una specie di carta d’identità di ogni manifesto utilizzato.

[5] Rosso creativo, cit., p. 15.

[6] Purtroppo la bomba finta non c’è più. Fu realizzata nel 2013 e mai presa in carico dal Comune di Livorno. Distrutto uno dei fermi che la sostenevano, è stata tolta e mai più reinstallata.

Articolo pubblicato nel maggio del 2017.