20 aprile 1945: la liberazione di Castelnuovo Garfagnana

Gli ultimi mesi della seconda guerra mondiale sono molto difficili per la popolazione della Garfagnana, benché la zona rappresenti un fronte secondario per le truppe Alleate presenti in Italia.

Lo scenario di guerra si è stabilizzato sin dall’autunno precedente. A nord della Linea Gotica (che taglia la valle dal Monte Altissimo e dal gruppo delle Panie fino al Monte Romecchio attraversando Cascio, Perpoli, Palleroso), i territori di Castelnuovo di Garfagnana, Camporgiano, Careggine, Pieve Fosciana, Castiglione di Garfagnana, Villa Collemandina, San Romano, Piazza al Serchio, Minucciano e Sillano sono ancora occupati dall’esercito tedesco e dai soldati della Repubblica Sociale Italiana, mentre Barga, Vergemoli e Gallicano sono già liberate da tempo.

I primi mesi del 1945 scorrono senza grandi battaglie, tutt’al più scaramucce che impegnano anche formazioni partigiane, ma con continui bombardamenti e cannoneggiamenti che mettono a dura prova i garfagnini. In una di queste circostanze, il 13 febbraio, muoiono ben 30 persone in un rifugio antiaereo che viene centrato da un bombardiere americano.

Nel mese di aprile è prevista l’offensiva finale sulla Linea Gotica da parte degli Alleati. Il fronte tirrenico si muove con qualche giorno di anticipo: il 442° Reggimento nippoamericano “Nisei” e il resto della 92ª Divisione “Buffalo” avanzano in modo graduale e costante nell’area apuano-versiliese.

Le conseguenze si fanno sentire, com’è ovvio che sia, pure in Garfagnana. I partigiani della formazione “Luigi Dini” – operativa nella zona occupata – si impegnano sempre più spesso in scontri con soldati tedeschi e italiani, sottraendo loro armi, munizioni e cavalli. Le diserzioni nell’esercito repubblicano diventano giorno dopo giorno sempre più numerose. Il generale Carloni, dopo un’azione partigiana nei pressi di Castiglione, ordina il prelievo di un numero di ostaggi non inferiore a cinque in ognuna delle giurisdizioni affidate ai suoi ufficiali affinché tali arrestati siano uccisi, in rapporto di uno a uno, “per ogni aggressione e cattura e danni arrecati ai militari sul luogo dove il fatto è avvenuto”. Il maggiore Mario Bin rifiuta di eseguire l’ordine di catturare ostaggi.

Lunedì 16 aprile 1945 la Divisione Italia, scoperta per decine di chilometri su entrambi i lati dopo l’avanzata americana verso Carrara (liberata l’11 aprile), riceve l’ordine di abbandonare le posizioni sulle Apuane e di spostarsi verso il passo del Cerreto e dei Carpinelli, verso la Lunigiana.

castelnuovo - via testiMercoledì 18 aprile anche i tedeschi ripiegano. Padre Nicola D’Amato, rettore del Santuario della Madonna della Stella di Migliano (Fosciandora), che si trova proprio a ridosso del fronte, scrive:

“Alle 15.20 l’ultima cannonata, e per sempre. Deo gratias! (…) Fervono i preparativi delle truppe da ogni parte: passano a lunghe teorie gruppi di tedeschi equipaggiati di ritorno dal fronte. Partono i turchestans coi loro asini stracarichi, parte nuovamente anche l’autoambulanza. Pian piano si fa il vuoto intorno a noi, nei nostri paesi. Noi guardiamo colla gioia negli occhi, ma cerchiamo di nasconderla per quanto sia possibile. Siamo ormai alle 15.30. Giù in fondo, verso la stazione, una forte detonazione ci avverte che anche il ponte di Ceserana è saltato in aria”.

Giovedì 19 aprile l’obiettivo dei partigiani – pochi e disorganizzati – rimasti nel territorio occupato è salvare i ponti che i tedeschi in ritirata hanno minato. Non riescono nel loro intento e così molti viadotti (tra cui quello ferroviario in località Villetta) vengono fatti saltare. Nella relazione della formazione “Dini” ecco come viene raccontata la distruzione di un piccolo ponte in località Pontecosi:

“La notte del 19/4/45, nel tentativo di salvare il ponte e la centrale (idroelettrica, NdR) di Pontecosi, dopo aver preso posizione nella prossimità, si attendeva il momento opportuno poiché le truppe tedesche erano in ritirata, le quali impartivano ordini ad alta voce alle guardie site sul ponte, dicendo loro di far saltare il medesimo appena passate le ultime tre compagnie. La prima e la seconda passarono, mentre attendevamo la terza per aprire il fuoco si sentì un ordine riferitoci da un partigiano austriaco, il quale era di accendere le mine. Ci affrettammo a far fuoco, ma il ponte saltò ugualmente, però la centrale, anch’essa da informazioni avute destinata a saltare, rimase incolume. Al nostro fuoco rispose la 2° Compagnia Tedesca lì vicina”.

Intanto, a Vergemoli, nella zona sotto controllo Alleato, il Plotone C – guidato da Giovanni Battista Bertagni, già protagonista nell’autunno precedente di una serie di azioni di sabotaggio nei territori occupati – del Battaglione Autonomo Patrioti Italiani “Pippo”, in collegamento con i servizi segreti americani, riceve l’ordine di avanzare verso nord, mentre gli americani avanzano fino a Perpoli e Palleroso.

La mattina di venerdì 20 aprile è proprio Bertagni a entrare per primo a Castelnuovo: il principale centro della Garfagnana è irriconoscibile: le bombe lo hanno quasi totalmente distrutto. Nelle ore successive arrivano anche gli americani della Buffalo.

Gli ultimi soldati italo-tedeschi a lasciare la Garfagnana saranno i bersaglieri della Divisione Italia, che tra sabato 21 e domenica 22 aprile 1945 abbandoneranno Piazza al Serchio. La popolazione della Garfagnana farà i conti ancora per molti mesi con le conseguenze della guerra e delle sue distruzioni.

Nel 2009 i sedici comuni della Garfagnana sono stati decorati con la medaglia d’oro al merito civile proprio per le privazioni e i danni sofferti a causa della guerra.
Feliciano Bechelli si è laureato in Scienze politiche presso l’Università di Pisa e collabora con l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Lucca. Giornalista pubblicista, è direttore responsabile della rivista dell’Istituto “Documenti e studi”. Di recente pubblicazione il suo volume Storie di guerra e di Resistenza. Garfagnana 1943-1945 (Pacini Fazzi, 2015). 

Articolo pubblicato nell’aprile del 2015.




13 aprile 1921: l’assassinio di Carlo Cammeo, segretario della Federazione socialista di Pisa

A Porta Nuova, in via Contessa Matilde sull’edificio della Circoscrizione n. 6, è posta una lapide che porta il seguente testo:

“Per sicaria mano fascista / cadeva assassinato / il 13 aprile 1921 / Carlo Cammeo / glorificando col sangue / la santità della scuola / e la sua fede nell’idea socialista / la giunta municipale di Pisa / all’alba della libertà / interpretando i sentimenti della cittadinanza”.

L’edificio in cui è murata la lapide è l’ex scuola dove insegnava Carlo Salomone Cammeo (nato a Tripoli il 6 maggio 1897) e dove fu assassinato. La via che oggi dall’incrocio di Porta Nuova si congiunge a Piazza Manin è dedicata al militante socialista e, dove è sepolto Cammeo – ebreo e ateo –, sul monumento funebre è incisa una falce e martello su di un libro aperto, caso unico per il cimitero israelitico. A parte la strada, la lapide e la tomba con i suoi simboli, oggi a Pisa resta ben poca cosa della memoria di Cammeo. All’epoca dei fatti il suo nome però era ben conosciuto e nonostante la giovane età aveva alle spalle già un discreto curriculum vitae, tanto da ricoprire ruoli importanti ai vertici del Partito socialista. La sua tragica morte segnò una svolta nella storia politica e sociale della città della torre pendente, che fu contrassegnata negli anni seguenti dall’affermarsi della violenza fascista e statale contro il movimento dei lavoratori e le sue organizzazioni politiche.

La guerra civile scatenata dai fascisti, con la complicità di buona parte delle forze dell’ordine dello Stato liberale, fu una risposta politica e militare alle lotte del “Biennio rosso” (1919-1920). Il primo dopoguerra fu caratterizzato da una grande partecipazione popolare, spesso spontanea, alle lotte di rivendicazioni salariali e sociali. Si era creato un clima diffuso di attesa per un cambiamento radicale della società, si aspettava l’esplodere della rivoluzione, com’era successo in Russia nel 1917 e questo aveva fortemente intimorito le classi dirigenti che sembravano impotenti a contrastare tale movimento. La nascita del fascismo toscano, la riorganizzazione delle organizzazioni padronali e la ripresa su vasta scala della repressione statale coincise con il declinare dell’iniziativa politica delle forze della sinistra che non seppero cogliere l’occasione per dare una svolta al paese. La violenza fascista e statale aprì un periodo, che per numero di vittime e di distruzioni, potremmo definire il “Biennio nero” (1921-1922) e che segnò la fine della democrazia liberale.

La Toscana nei primi mesi del 1921 fu attraversata da uno scontro violentissimo tra le squadre di fascisti, organizzate soprattutto dalla direzione fiorentina del movimento, e le forze della sinistra, anarchici, comunisti, socialisti e sindacalisti. Angelo Tasca in un suo noto volume sulla nascita del fascismo afferma che nei primi sei mesi del 1921 in Toscana furono distrutti 137 edifici: 11 case del popolo, 15 camere del lavoro, 11 cooperative, 70 circoli socialisti e comunisti, 24 circoli operai e ricreativi, 2 società mutue, 1 sindacato operaio e 3 redazioni di periodici.

Pisa non fu esente da quest’ondata di violenza. Il fascismo locale, riorganizzatosi da poco dopo una prima infruttuosa esperienza, guidato dal capitano Bruno Santini, ex ardito di guerra originario di Carrara, aveva raggiunto la notorietà all’inizio del 1921 con l’attacco alla nuova Giunta provinciale guidata da Ersilio Ambrogi socialista – poi comunista –. Il fascismo trovò consensi fra gruppi di studenti, ex militari, liberi professionisti, esponenti delle forze dell’ordine – soprattutto carabinieri – e giovani esponenti delle principali famiglie benestanti tra cui alcuni della comunità ebraica.

Il 25 marzo 1921 da Pisa una squadra di fascisti parte dirigendosi a Lucca e precisamente a Ponte a Moriano. Scopo della missione è di dar man forte ai camerati locali per togliere dalla sede del circolo ricreativo socialista il simbolo dei “soviet”, cioè la falce e martello. L’obiettivo è raggiunto ma gli operai avuta notizia del fatto corrono in paese e i fascisti si danno alla fuga; alcuni di loro rimangono staccati dal gruppo principale a causa di un guasto all’autocarro su cui viaggiano e ben presto vengono circondati dagli operai. Nasce una rissa e alla fine a terra rimane ferito mortalmente il fascista pisano Tito Menichetti. Sulla dinamica della sua morte ci sono versioni discordanti, il processo, che si tenne un anno dopo i fatti, individuò come unico responsabile il ferroviere Giuseppe Neri, originario di Castagneto Carducci, che subisce una condanna a 17 anni e 7 mesi di reclusione.

Pisa venne listata a lutto, un manifesto fascista invitava allo scontro:

“Cittadini. Si muore per voi. Si muore per salvare la nostra Italia travagliata dalla rovina e dal terrore ove tentano di trascinarla i folli criminali del comunismo e dell’anarchia per ricondurla sulla via della pace e del lavoro. Fascisti! Il corpo sanguinante di un’altra giovane vita si frappone fra noi ed i nostri nemici. Nessuno pianga. Nessuno si pieghi di fronte alla bara. Tutti in piedi! Con la fronte alta giuriamo. Tito Menichetti sarà vendicato! Senza pietà!”.

Lo stesso Bruno Santini durante i funerali incita pubblicamente alla vendetta.

Carlo_CammeoCarlo Cammeo scrisse un articolo sul settimanale socialista pisano «L’Ora nostra» del 1° aprile 1921, in risposta alle minacce fasciste, nel quale si richiamavano le responsabilità di chi, sulla morte di Tito Menichetti, stava imbastendo una “indegna speculazione patriottica”. È un j’accuse che espone il giovane socialista alla reazione fascista, che non si farà attendere. Un nuovo articolo di Cammeo, uscito sul numero successivo del settimanale, nel quale si ironizzava sulla partecipazione di alcune donne alle marce fasciste, fa scattare la vendetta fascista: la mattina del 13 aprile Mary Rosselli-Nissim e Giulia Lupetti raggiungono la scuola dove sta insegnando Cammeo e con una scusa lo invitano ad uscire dalla classe. Il maestro appena raggiunto il cortile è fatto segno di due colpi di pistola, sparati dal fascista Elio Meucci, cade a terra esangue, di fronte ai bimbi terrorizzati, mentre il gruppo di fascisti si dilegua repentinamente.

L’autore dell’assassinio è uno studente di farmacia dell’Università di Pisa mentre le due donne sono figlie di alti ufficiali del distaccamento militare. In particolare la Lupetti, che pochi mesi dopo per i suoi meriti sarà nominata segretaria del fascio femminile, è figlia del comandante del presidio militare. I fascisti responsabili della morte di Cammeo, grazie alla complicità delle autorità e all’interessamento del sottosegretario alla giustizia Arnaldo Dello Sbarba, saranno tutti prosciolti dall’accusa di omicidio. Le coperture di cui beneficia il gruppo di fuoco rappresentano la testimonianza dell’intreccio che da subito s’instaura fra i gruppi di fascisti locali, le autorità militari e quelle di carabinieri e guardie regie. Questo stretto rapporto è testimoniato anche dal prefetto di Pisa De Martino che in una missiva del 21 aprile al presidente del consiglio Giolitti testimoniava questa complicità.

Le organizzazioni della sinistra pisana – la Federazione prov.le socialista, il Gruppo comunista, la Camera del lavoro confederale (CGdL), la Camera del lavoro sindacale (USI), i Sindacati ferrovieri, la Lega Proletaria e l’Unione anarchica pisana – firmano un manifesto di condanna dell’assassinio di Carlo Cammeo e proclamano due giorni di sciopero generale.

I funerali di Cammeo sono imponenti per partecipazione popolare e di associazioni, alcuni esponenti politici prendono la parola, tra gli altri il segretario della Camera del lavoro (CGdL) Giuseppe Mingrino, il socialista Amulio Stizzi, il repubblicano Italo Bargagna e l’anarchico Gusmano Mariani. Questa volta sono funerali di classe, proletari, a rimarcare ormai il netto distacco tra il movimento operaio organizzato da una parte e lo Stato e le forze reazionarie dall’altra.

Articolo pubblicato nell’aprile del 2015.




“Abbasso la guerra!”

Quando, con l’ “impresa” dell’ottobre 1911, il governo Giolitti dà il via alla conquista della Libia, sono molte le voci che esprimono con forza l’opposizione delle donne.

Come per esempio aveva ricordato Maria Goja in un articolo di “Su comapgne!”  del 1911 (vedi materiali correlati), le “donne d’Italia” si erano già mobilitate in occasione della “guerra d’Africa”, il tentativo di conquista dell’Etiopia culminato nella disfatta di Adua del 1896. Nelle manifestazioni popolari contro il governo Crispi e per il ritiro delle truppe dall’Africa, infatti, è massiccia la presenza delle donne, che indirizzano anche petizioni e proteste al parlamento.

L’emergere del protagonismo delle donne in questi due tragici momenti dell’‘avventura’ coloniale italiana non sarebbe forse possibile, tuttavia, se non fosse preceduto da una storia di crescita di pensiero e azione per la pace che inizia già nella seconda metà dell’800 e proseguirà, pur tra differenziazioni e defezioni, fino alla Prima guerra mondiale.

La Guerra di Libia

È all’inizio della Guerra Italo-turca nel 1911, tuttavia, che si determina in campo femminile una netta spaccatura, e mentre tra le emancipazioniste e pacifiste prevale lo spirito ‘patriottico’, socialiste e anarchiche restano le sole a rappresentare una dura e coerente opposizione alla guerra.

Nella redazione de La Difesa delle lavoratrici, diretta da Anna Kuliscioff, che inizia le pubblicazioni nel gennaio 1912, confluiscono, tra le altre, le più attive e riconosciute militanti socialiste: Angelica Balabanoff, Giselda Brebbia, Carlotta Clerici, Rosa Genoni, Maria Giudice, Maria Goja, Linda Malnati, Margherita Sarfatti, Giuseppina Moro Landoni, Maria Perotti Bornaghi, Abigaille Zanetta.

La propaganda contro la guerra – che dalla fine del 1912 s’intreccia a quella contro l’incombente conflitto europeo – non solo occupa le prime pagine e quelle interne del giornale con editoriali, novelle antimilitariste, rubriche rivolte ai bambini, citazioni da Tolstoj e De Amicis, ma è portata tra le donne con comizi e “agitazioni”.

Leda_Rafanelli

L’anarchica toscana Leda Rafanelli

Nel campo libertario s’intensifica l’attività antimilitarista di Maria Rygier, mentre dalla “Palestra femminile” dell’Avvenire anarchico Priscilla Fontana e la figlia Jessa e da La Donna Libertaria Amelia Legati rivolgono accorati appelli “Alle madri” perché si mobilitino contro la guerra. Su Libertà la toscana Leda Rafanelli stigmatizza non solo il sopruso e l’arroganza dei conquistatori italiani contro “i liberi figli d’Africa”, ma anche “l’odio di razza” delle potenze europee nei confronti di tutti i popoli colonizzati.

La “Grande guerra”

All’inizio della guerra europea nell’agosto 1914 sulla prima pagina de La Difesa appare a caratteri cubitali il manifesto “Non vogliamo la guerra!” e da quel momento fino all’entrata in guerra dell’Italia nel maggio 1915 socialiste e anarchiche intensificano la propaganda e la mobilitazione delle donne nelle piazze.

Sui giornali, non solo di donne, si moltiplicano gli interventi: sull’Avanti!, oltre che su La Difesa, appaiono quotidianamente gli articoli della Balabanoff, di Rosa Genoni e Maria Giudice, ma anche di Leda Rafanelli. Su La Pace quelli di Fanny Dal Ry e sui giornali libertari quelli della Rafanelli e delle “irriducibili” Priscilla Fontana e Jessa Pieroni.

Nei loro ripetuti appelli, tuttavia, si avverte un crescente pessimismo sulla volontà di tutte le donne di opporsi alla guerra. È in questo momento, infatti, che l’idea della “guerra giusta” – la “guerra di difesa” – crea quelle divisioni che rompono la linea unitaria all’interno del fronte sia socialista, sia anarchico. Margherita Sarfatti prima e Giselda Brebbia poi, e come loro Maria Rygier, seguono Mussolini (espulso dal PSI) e la linea editoriale del Popolo d’Italia.

La grande maggioranza delle socialiste, tuttavia, continua a riconoscersi nelle posizioni di Clara Zetkin, che a dicembre lancia un nuovo appello alle donne di tutti i paesi, e dell’Internazionale femminile socialista, la cui vicenda di questi anni è tra l’altro molto significativa per quanto riguarda la specificità dell’opposizione delle donne alla guerra. Dopo la dissoluzione della Seconda Internazionale in seguito alla votazione dei crediti di guerra da parte dei maggiori partiti socialisti nel 1914 e a partire dal convegno di Berna del marzo 1915, infatti, l’Internazionale Femminile assume le caratteristiche di movimento autonomo. La rete di donne socialiste sia dei paesi belligeranti che di quelli neutrali si autoconvoca ed agisce indipendentemente dalle posizioni e direttive dei rispettivi partiti nazionali. Spesso in contrasto con questi, mantenendo la fedeltà all’internazionalismo tradita dai compagni.

In campo anarchico, contro il tradimento di Maria Rygier ed altri, Leda Rafanelli ribadisce in articoli sui giornali libertari e sull’Avanti!, oltre che nell’opuscolo Abbasso la guerra!, l’opposizione della maggioranza degli anarchici sia alla guerra coloniale che a quella contro altri popoli europei. Nella Giacomelli, a sua volta, si rivolge con un manifesto a tutte le donne perché dimostrino contro il conflitto.

Benché in generale resti incontestabile il fatto che – come nel resto d’Europa – il nazionalismo nelle donne fu più forte (e soprattutto più visibile) del pacifismo, anche dopo l’entrata in guerra dell’Italia, dunque, permane tra le socialiste e le libertarie una maggioranza di ‘resistenti’.

Mentre su L’Avanti! continuano ad uscire (pur con tagli sempre più pesanti della censura) interventi della Balabanoff, di Leda Rafanelli, Rosa Genoni, La Difesa delle Lavoratrici, nonostante le divisioni interne, mantiene viva l’informazione sulle iniziative per la pace delle donne anche degli altri paesi. All’attività internazionale della Balabanoff  (tra gli organizzatori della conferenza dei partiti socialisti di Zimmerwald nel 1915) si affianca quella delle altre militanti, come l’organizzazione di leghe di resistenza femminile e della protesta  delle donne torinesi da parte di Maria Giudice e il lavoro nelle scuole e nel campo dell’educazione di Linda Malnati, Carlotta Clerici e Abigaille Zanetta. Rosa Genoni, fondatrice dell’associazione Pro Humanitate e delegata al Congresso Internazionale dell’Aja del maggio 1915, promosso dalla statunitense Jane Addams, sarà poi rappresentante italiana della Women’s International League for Peace and Freedom che da questo ha origine.

L’opposizione delle donne italiane, dunque, resta viva attraverso e oltre la guerra. E tra le altre saranno proprio alcune delle ‘veterane’ – come Maria Giudice e Giuseppina Moro Landoni, arrestata la prima e internata la seconda nel 1916, Abigaille Zanetta, arrestata nel 1918 – a rappresentarne la continuità e a scrivere altri capitoli di storia del protagonismo delle donne anche durante la resistenza al fascismo.

Articolo pubblicato nell’aprile del 2015.




19 marzo 1922. L’uccisione di Comasco Comaschi

Il 19 marzo 1922 Comasco Comaschi, anarchico cascinese e maestro ebanista, è fermato sul Fosso Vecchio mentre è in calesse di ritorno insieme a tre compagni da una riunione a Marciana e ucciso con armi da fuoco in un agguato fascista.

Comasco Comaschi era nato a Cascina il 27 ottobre 1895 da Ippolito e Virginia Bacciardi. Comasco nella sua formazione politico-sociale è influenzato dal contesto cittadino, dove l’economia si basa sulla presenza di piccoli artigiani del legno e l’associazionismo operaio si è rivelato vivace e attivo sin dall’Unità d’Italia, e dal padre, che milita nel movimento anarchico fin dagli anni ottanta dell’800. Comaschi è dunque tra i promotori della locale sezione della Pubblica Assistenza e stimato insegnante alla Scuola d’arte di Cascina. Sotto la sua guida il gruppo anarchico di Cascina è molto attivo.

D’altra parte dopo gli anni del Biennio rosso, lo scontro con i membri delle squadre fasciste è divenuto molto forte. Numerose sono infatti le violenze e le uccisioni che gli squadristi realizzano nel 1921. La prima è quella di Enrico Ciampi, fondatore a Barca di Noce della prima sezione pisana del Partito comunista, che il 4 marzo viene ucciso da un colpo di pistola sparato da Domenico Serlupi, fascista locale, proprio mentre Ciampi si sta dirigendo verso la sua villa a San Casciano, in una dimostrazione antifascista. Domenico Serlupi è protagonista di un’altra delle vicende cascinesi di questo periodo. Il giorno successivo ai fatti di Sarzana del 21 luglio infatti impone a tutte le famiglie della zona di esporre la bandiera a lutto per i morti fascisti. Entrato nella trattoria di Luigi Benvenuti impone la stessa operazione ma, di fronte al fermo rifiuto dell’esercente, gli spara. Ne nasce uno scontro tra i presenti, in seguito al quale sia il Benvenuti, sia il Serlupi rimangono uccisi. La stessa notte quindi gli squadristi di San Frediano si recano alla Chiesanuova, dove si è costituito un gruppo antifascista composto da alcuni giovani. I fascisti hano l’obbiettivo di sfogare la loro rabbia contro il consigliere comunale Bartoli. Non trovandolo però ripiegano verso il figlio Archimede, che viene ucciso con quattro pugnalate e viene gettato nell’acqua, nei pressi del fosso Emissario, mentre è intento ad attaccare le bestie al carro. Il 19 settembre sono invece Corrado Bellucci e Paris Profeti, Segretario della sezione giovanile del Partito socialista di Pontedera, ad essere freddati a bruciapelo, assaliti da squadristi mentre si recano a Cascina ad una manifestazione contro l’arresto del sindaco Guelfi. Le uccisioni dei rappresentanti dei partiti socialisti e dei sindacalisti hanno l’intento di controllare il territorio e portare alla distruzione dell’intera rete associativa proletaria.

Comaschi

Comasco Comaschi

In questo contesto di scontro e violenza politica, Comaschi aveva avuto un ruolo di primo piano, poiché era stato tra gli organizzatori degli Arditi del popolo a Cascina che, secondo Eros Francescangeli, contavano almeno 200 componenti alla metà di agosto 1921, che scendono però presto a una cinquantina, in seguito al giro di vite della fine dello stesso mese, che provoca l’arresto di molti di loro. È proprio in agosto che Comaschi, assieme ad altri compagni, irrompe alla cerimonia di fondazione del Fascio di Cascina, salendo su un palchetto del teatro comunale, sventolando la bandiera nera del gruppo anarchico. Alcuni mesi dopo inoltre difende alcuni suoi studenti dalle minacce fasciste.

L’omicidio di Comaschi era stato inoltre preannunciato da un’altra azione punitiva di cui era stato vittima: circa 40 giorni prima della sua uccisione infatti era stato inseguito da circa 100 fascisti e bastonato. Il fratello Vasco, compreso il pericolo propone a Comasco di emigrare, ma questi rifiuta, rispondendo che non avrebbe voluto lasciare la scuola e che inoltre sarebbe stato da vigliacchi allontanarsi.

Le violenze erano divenute molto gravi, e i fascisti tra 1921 e 1922 si erano molto rafforzati anche grazie alla connivenza con i carabinieri, che consentivano l’illecito porto d’armi dei fascisti, con i quali, come denunciava il capo del gabinetto del Ministero degli Interni il 22 gennaio 1922, in un telegramma al Prefetto di Pisa, “fraternizzerebbero”. [Bertolucci, 2003] Nonostante Comaschi avesse denunciato l’aggressione che aveva subito due mesi prima della notte del 19 marzo, infatti, niente era stato fatto dalle autorità e dal pretore di Cascina.

L’omicidio di Comaschi ebbe un vasto eco nella cittadina, tanto che il giorno successivo Cascina intera è in lutto: viene organizzato uno sciopero spontaneo e i negozi chiudono per lutto cittadino. Il funerale di Comasco è un momento di grande partecipazione, tanto che è stato anche definito l’ultima libera manifestazione prima dell’avvento definitivo del fascismo.

Il giorno successivo all’uccisione di Comaschi i Carabinieri di Cascina iniziano le indagini e arrestano i presunti responsabili dell’omicidio: Pilade Damiani, Giovanni Barontini, Orfeo Gabriellini, Vasco Paoletti, Gaetano Diodati, Antonio e Italiano Casarosa, Francesco Del Seppia e Arturo Masoni. Tutti negano la propria responsabilità nell’omicidio, provvedendo a fornire prove di alibi. Anche alcuni testimoni non hanno il coraggio di denunciarli, per timori di ritorsioni e rappresaglie, così tra il 20 marzo e l’11 luglio tutti gli accusati vengono scarcerati per insufficienza di indizi e successivamente, l’8 novembre 1922 la Corte di Appello di Lucca dichiara non dover procedere per insufficienza di prove.

L’affaire Comaschi doveva però riaprirsi molti anni dopo, alla fine della seconda guerra mondiale, quando si apre la stagione dei conti con il fascismo e quando ai processi per collaborazionismo si affiancano spesso accuse sui crimini dello squadrismo degli anni ’20.

Il 10 maggio 1945 intorno alle ore 19, di ritorno dal Nord, dove aveva fatto parte della GNR a Malarno (Brescia) fino alla liberazione di Bologna, Orfeo Gabriellini viene percosso dalla folla sul Corso Vittorio Emanuele, perché riconosciuto come uno dei responsabili dell’omicidio Comaschi. Il Maresciallo Adolfo Mascolo, di servizio per la vigilanza di sicurezza, sottrae quindi Orfeo Grabriellini alla furia popolare e lo porta in caserma, dove il fascista confessa la propria colpevolezza. In seguito alla nuova denuncia deposta da Vasco Comaschi, fratello della vittima, si apre quindi una nuova istruttoria. Alla fine del processo Orfeo Gabriellini, Dante Bertelli (fino ad allora rimasto fuori dall’elenco degli imputati) ed altri vengono condannati a pene tra i due e i dieci anni, ma ben presto, a seguito della fase di pacificazione siglata con l’amnistia Togliatti, godranno di larghi sconti di pena e dunque saranno scarcerati.

L’uccisione di Comasco Comaschi è una vicenda che è rimasta impressa nella memoria pubblica cascinese: è presente infatti in Piazza dei Caduti per la libertà una statua che lo celebra, un busto in bronzo in cui Comaschi è rappresentato a braccia conserte con atteggiamento risoluto a simboleggiare la decisa scelta antifascista. In occasione del 70° della liberazione saranno inaugurati i “Sentieri della libertà e della Resistenza” con i quali il Comune di Cascina, insieme all’ISREC Lucca, vuole ricordare i luoghi e le persone, tra cui Comasco Comaschi, che si sono opposte al fascismo, sacrificando la propria vita, e permettendo di aprire la strada alla libertà e alla democrazia.

Articolo pubblicato nel marzo del 2015.

 




L’occupazione nazista di Monsummano, 1943-1944

I giorni successivi all’Armistizio furono terribili per l’Italia e per i suoi abitanti: anche Monsummano, paese pistoiese di 9647 abitanti nel 1944, fu profondamente sconvolto con l’immediato arrivo di colonne motorizzate naziste.

Durante la guerra furono più di 800 i monsummanesi richiamati alle armi e a settembre la maggior parte di loro fece ritorno a casa fra pericoli e difficoltà. I meno fortunati vennero catturati dai tedeschi e sfruttati come forza lavoro o imprigionati nei lager con la qualifica di Internati Militari Italiani: nell’archivio locale sono presenti ben 26 domande di liberazione redatte dalle famiglie o dai datori di lavoro.

Un fenomeno nato con l’occupazione nazista fu quello degli helpers, persone che dettero protezione agli ex-prigionieri militari alleati in fuga dai campi d’internamento italiani: assicurarono loro vitto, vestiti e alloggio. A Monsummano le richieste di riconoscimento nel dopoguerra furono soltanto due, da parte di Matteo Mattei e Ulderigo Giovannelli, ma non siamo a conoscenza dell’esito; tuttavia, sappiamo che Mattei, residente a Montevettolini, dopo aver dato riparo ad alcuni soldati alleati ed esser stato denunciato dai repubblichini locali, fu arrestato e rinchiuso in un campo di lavoro, riuscendo poi a fuggire.

Casa del fascio di CintoleseIn tutta la RSI furono organizzate retate dai tedeschi e dai repubblichini per la cattura e la deportazione degli ebrei. Il 5 novembre 1943 una perlustrazione organizzata dal fascio monsummanese portò al fermo di sei ebrei: Giulio Melli (74) e sua moglie Giuseppina Coen (74); Elio Melli (39), figlio di Giulio, e sua moglie Vilma Finzi (33); Sergio (10) e Giuliana Melli (3), figli di Elio. Un altro uomo, Carlo Levi (72), fu imprigionato il 14 febbraio 1944. I sette furono internati nel campo di concentramento di Fossoli e da lì partirono con i treni in direzione Auschwitz: nessuno tornò più a casa.

Il comando provinciale nazista era collocato a Pistoia mentre leggi e ordinanze venivano divulgate nei comuni dal commissario prefettizio, ruolo ricoperto prima da Gildo Rubino poi dal professore Italo Giampieri. Fra i numerosi decreti emanati occorre ricordarne alcuni: la presentazione obbligatoria per i militari rientrati dopo l’8 settembre; il divieto di aiutare i soldati angloamericani; la consegna di tutte le armi; le speciali disposizioni sulla circolazione dei veicoli; la proibizione di ascoltare canali radio ostili; il coprifuoco dalle 22 alle 5; le norme sull’oscuramento; la lotta al mercato nero; l’obbligo di eliminare ogni riferimento alla passata monarchia dalle intitolazioni.

Un grave problema che afflisse la comunità fu quello degli sfollati, persone provenienti dai luoghi più disparati che cercavano rifugio e protezione. Nella città valdinievolina furono ospitati in case libere o abbandonate, negli edifici scolastici, in locali di fortuna, spesso sprovvisti di sufficienti condizioni sanitarie e alimentari.

Quotidiani allarmi risuonavano nell’abitato, soprattutto nelle ore notturne: la sirena era installata in casa del capo guardia Nazzareno Pieri presso il palazzo comunale. A Montevettolini, Giuseppe Francini suonava le campane della chiesa per informare la popolazione. Durante gli allarmi, gli abitanti solevano scappare nella campagna e nei rifugi; già dal febbraio ‘44 gli enti comunali avevano provveduto a costruire trincee e difese antiaeree. La città termale non subì mai un completo bombardamento aereo, fu però cannoneggiata e mitragliata diverse volte dagli alleati che causarono 12 vittime.

In paese fu attiva l’organizzazione nazista Todt con sede nello stabilimento termale e hotel della Grotta Giusti, reclutando personale civile in parte aderente e in parte obbligato: innalzarono un fortino in cemento armato, edificarono varie baracche in legno e scavarono una galleria a forma di ferro di cavallo nella Cava Rossa. Un distaccamento dell’amministrazione tedesca fu alloggiato alla Grotta Parlanti e le due grotte vennero collegate telefonicamente con un filo volante spesso sabotato. Inoltre, da inizio giugno fino al 14 luglio, il quartier generale di Albert Kesselring, comandante della Wehrmacht in Italia, fu situato alla Grotta Giusti.

Nel corso della stagione estiva i nazisti in ritirata furono colpevoli di una scia di massacri perpetuati ai danni della popolazione civile ed esportarono, senza nessun accorgimento giuridico, bestiame, cibo, vestiti e beni di qualsiasi valore. Ben 7 civili monsummanesi persero la vita prima dell’eccidio del Padule di Fucecchio (174 morti) avvenuto il 23 agosto 1944: Sereno Romani (45), colpevole di aver difeso una parente vittima di un tentativo di stupro; Bruno Baronti (20) e Foscarino Spinelli (20, di Lamporecchio) accusati di essere partigiani; Brunero Giovannelli (22), colpito nel tentativo di fuga durante un rastrellamento; Marino Agostini (34), Italo Laserdi (29), Fausto Franceschi (66), Antonio Boninsegni (18 anni), accusati di effettuare segnalazioni luminosi.

Le formazioni partigiane dell’area si distinsero per attività di sabotaggio, di raccolte armi e informazioni. Erano tre: la Stella Rossa, comunista, la Corallo, partito d’azione e la Faliero. I partigiani monsummanesi furono almeno 17, i patrioti 15. Il 4 settembre 1944 un’azione congiunta delle varie squadre portò all’occupazione della città già abbandonata dai tedeschi.

Il potere politico fu assunto a partire da fine agosto da Aurelio Pestelli, proprietario della Grotta Giusti. Il C.L.N. locale cominciò la propria attività nel giugno 1944 aiutando, in ambito economico e politico, la cittadinanza e al 5 settembre risaliva la prima riunione post-liberazione nella sala podestarile del comune.

Il 9 settembre il comunista Fulvio Zamponi fu nominato all’unanimità primo sindaco di Monsummano mentre il democristiano Giulio Bendinelli divenne vicesindaco.

Matteo Grasso, laureato in storia, svolge quotidianamente attività di ricerca archivistica, orale e bibliografica finalizzata all’approfondimento locale e nazionale di particolari momenti storici legati al periodo contemporaneo. Collabora sia con l’Istituto Storico della Resistenza di Pistoia (ISRPt), gestendo il sito web e facendo parte del consiglio direttivo, sia con l’Associazione Culturale Orizzonti di Lamporecchio che diffonde il mensile Orizzonti. Ha pubblicato una monografia dal titolo Guerra e Resistenza. Vicende partigiane per uno della «Bozzi», la storia personale di Doriano Monfardini e alcuni saggi riguardanti il periodo della seconda guerra mondiale sui Quaderni di Farestoria, periodico quadrimestrale dell’ISRPt. Inoltre ha partecipato a presentazioni di libri, tra i quali Achille Occhetto, a conferenze e a incontri su temi storici sia a livello comunale sia in ambito provinciale. Attualmente svolge un tirocinio per la valorizzazione storico-artistica di una villa medicea a Firenze.

Articolo pubblicato nel marzo del 2015.




Dalle trincee ai corridoi del manicomio

I corridoi e le stanze del Frenocomio San Girolamo di Volterra si riempirono, tra il 1916 e il 1919, di individui silenziosi, allucinati, amnesici, eccitati, alcolisti, dementi precoci, isterici, malati con sintomi strani (che includevano possessioni demoniache, regressioni all’infanzia, deliri), traumatizzati. Era la tormentata umanità dei soldati che avevano manifestato al fronte dei disturbi mentali in seguito a episodi traumatici o a causa del surmenage emotivo della guerra.

Le presenze di ricoverati registrate al Frenocomio di Volterra negli anni della Grande Guerra aumentarono vertiginosamente: in particolare nel 1918 i malati arrivarono a raddoppiare rispetto a quelli del 1915. L’Istituto volterrano, al pari degli altri istituti italiani mobilitati per la guerra, si inserì nel contesto dell’emergenza bellica delle nevrosi, fungendo da luogo di transito e smistamento dei soldati che avevano ricevuto una diagnosi psichiatrica al fronte: una volta riconosciuti malati di mente i soldati avevano davanti a sé due vie, essere rimandati al fronte o essere internati nelle strutture manicomiali italiane. Nel primo caso i soldati venivano sottoposti a cure di scarso effetto o anche dolorose come l’elettroterapia, per smascherare i numerosi simulatori o cercare di eliminare i disturbi psichici. In seguito alla riorganizzazione della macchina bellica post-Caporetto, nel gennaio 1918, fu creato il Centro di Prima Raccolta a Reggio Emilia, un centro diagnostico dove i medici decidevano se rispedire il malato al fronte o rinchiuderlo in manicomio. I soldati iniziavano allora un viaggio a scendere la penisola, ricoverati per brevi periodi in varie strutture psichiatriche: la meta finale di questo viaggio era l’ospedale psichiatrico della loro provincia d’origine, vicino alle famiglie. A Volterra i soldati, provenienti da ospedaletti da campo sul fronte, da istituti del Nord Italia o dal Centro di Prima Raccolta di Reggio Emilia, venivano ricoverati per brevi periodi, spesso senza neanche venire sottoposti ad una vera e propria terapia o a visite mediche, per poi essere mandati nel manicomio della loro provincia d’origine.

Il tema del legame tra guerra e follia era emerso insieme alla guerra moderna. Nei conflitti Russo- Giapponese, durante la guerra civile americana, si era osservata una moltiplicazione dei disturbi mentali legati agli eventi bellici. Alcuni storici, come Antonio Gibelli, interpretano questo fatto come una conseguenza della realtà alienante della guerra moderna, con la sua organizzazione da officina, l’utilizzo massiccio di nuove e sempre più distruttive armi, la concezione spersonalizzante dei soldati visti come meri ingranaggi della macchina bellica. La Grande Guerra rappresentò una cesura per la scienza psichiatrica, pesantemente ancorata alle convinzioni ottocentesche di organicismo ed ereditarietà nei disturbi.

Soldato ricoverato al S. ServoloMa torniamo nelle stanze sovraffollate del frenocomio volterrano durante la Grande Guerra. Il caso di C.B., soldato del 105° battaglione M. T., può esserci d’aiuto per comprendere un aspetto del rapporto medico-paziente durante la Grande Guerra. Il soldato fu ricoverato al S. Girolamo per i sintomi di un sordo-mutismo di origine isterica: questo ispirò nei medici un sentimento di ripulsa e disprezzo, come si può leggere persino nella cartella clinica. L’isteria, da secoli ritenuta una malattia esclusivamente femminile, veniva adesso riscontrata nell’ideale virile del guerriero: per questo molte volte i sintomi isterici venivano associati ad altre malattie o ignorati, mentre nei casi diagnosi isterica gli psichiatri osservavano con sdegno o con frustrante perplessità al crollare delle loro convinzioni. Stesso disarmato atteggiamento dei medici nell’osservare pazienti come L.G., ricoverato al S. Girolamo nel ’17, convinto di vedere diavoli e di esserne posseduto lui stesso, tanto da tentare di aprirsi la pancia per far uscire gli spiriti maligni: sin dal Medioevo le possessioni demoniache riguardavano soprattutto le donne. Come interpretare allora queste visioni nei virili soldati, così comuni in tutto l’esercito?

La Grande Guerra rappresentò un laboratorio per la scienza psichiatrica, poiché venivano velocemente demolite molte convinzioni ottocentesche. Nelle cartelle cliniche, soprattutto nei primi anni di guerra, si può trovare una ricerca ossessiva delle tare ereditarie del paziente o di predisposizioni organiche a sviluppare malattie mentali, spesso ignorando o dando poco peso ai traumi ricevuti in trincea; nell’intensa discussione tra gli psichiatri, che avveniva in tutti i Paesi coinvolti nel conflitto, assunse sempre più peso – anche se la questione rimase dibattuta – il trauma bellico come causa di molti disturbi. A Volterra, tra il 1918 e il ’19, i soldati, qualsiasi sintomo presentassero, venivano ammessi con la diagnosi di Demenza Precoce: un fatto che può essere interpretato come un gesto di resa dei medici di fronte all’impossibilità di penetrare i segreti delle nuove psicosi. Del resto gli psichiatri, che sin dal XIX secolo avevano dato il via ad un processo di istituzionalizzazione, di avvicinamento ai centri del potere statale e che sin dalla guerra in Libia avevano una presenza capillare all’interno dell’esercito, nel clima della mobilitazione generale si comportavano spesso più da soldati che da uomini di scienza, cercando di curare i malati per rispedirli a combattere.

In sede storiografica i disturbi psichici legati alla guerra sono stati visti come una fuga dall’incubo delle  trincee: tuttavia essi possono anche essere intesi come un riemergere in forma morbosa del proprio io sepolto dal nuovo status di soldato. È il caso, ad esempio di B.G., muratore romano ricoverato a Volterra nel 1918 che presentava un delirio allucinatorio in cui pensava di vedere il fratellino correre nei corridoi del manicomio, facendo arrabbiare la madre. La regressione infantile era diffusa tra i soldati, i quali tornavano alla condizione primaria dell’essere umano, quella del fanciullo. Altro modo molto diffuso di imporre il proprio essere e di ribellarsi allo stato di soldato era quello di spogliarsi della divisa: T.C. e M.A. prima di essere ricoverati a Volterra vennero trovati a correre nudi per le vie dei paesi vicino al fronte; non si erano solo spogliati del simbolo di un’identità imposta, ma avevano portato alla luce la parte più pura di sé, il proprio corpo. Oppure il caso del geniere P.D., molto legato alla moglie, il quale era affetto da allucinazioni e deliri di grandezza e gelosia che si esprimevano in una logorrea ininterrotta in cui insultava la moglie che vedeva tradirlo con i suoi superiori – spesso indicati come i veri nemici dei soldati – e in cui si vantava di possedere terre e bestiame: P.D.  trasformava quindi il suo amore per la moglie in una gelosia morbosa, mentre il delirio di grandezza celava la sua condizione subalterna nel suo paesino aquilano.

Infine occorre accennare ai moltissimi soldati ricoverati al S. Girolamo che si presentavano ostinatamente muti e silenziosi: la quiete della malattia era un’arma per combattere il fragore della guerra e tentare di riappropriarsi – follemente – di una tranquillità che era ormai perduta.

Marco Gualersi nel 2008 si è laureato a Pisa in Storia e civiltà con una tesi dal titolo “La follia e la Grande Guerra. Il caso del frenocomio di S. Girolamo di Volterra”. Collaboratore della Fondazione Memorie Cooperative, per la quale ha curato i volumi “Custodire il futuro. L’Archivio Storico di Unicoop Tirreno” (insieme ad Antonella Ghisaura ed Enrico Mannari) edito nel 2011 da Mind, e “Un’isola cooperativa. Cent’anni di cooperazione a Castagneto Carducci” (Bruno Mondadori, 2014).

Articolo pubblicato nel febbraio del 2015.




Andrea Devoto

Il lavoro di Andrea Devoto (fiorentino, 1927-1994), psichiatria, psicologo, ma anche storico, attraversa tutta la seconda metˆà del Novecento. Docente in psicologia sociale, fu tra i primi a occuparsi dei lager. Nel 1960 usciva La tirannia psicologica (Sansoni), seguito a un anno di distanza da Il linguaggio dei lager: annotazioni psicologiche (in «Il movimento di Liberazione in Italia», n. 65, 1961), mentre nel 1962 pubblicava Psicologia e psicopatologia del lager nazistan. 9, 1962). Giàˆ nel 1964 dava alle stampe uno strumento di orientamento, la Bibliografia dell’oppressione nazista (Olschki, a cui aggiungevaˆ un secondo volume nel 1983), dove elencava le prime opere di memorialistica, antologie e studi.

In questa prima fase, un’epoca durante la quale gli studi erano ancora pochi, Devoto, lavorava assiduamente alla ricostruzione di quanto avvenuto, ricostruendo i meccanismi di funzionamento dei campi, collezionando immagini, elaborando e confrontando le piante dei lager, delineando le differenze tra KL e VL. Al tempo stesso, iniziava a riflettere, partendo dalla propria disciplina, su quanto avvenuto alle persone, sulla loro esperienza fisica ma anche emotiva-mentale durante il trasporto e poi dentro il lager, discutendo i primi lavori usciti sul tema, come quelli di Betteleheim (giˆà del 1943), Kogon (1946), Frankl (1947) e Cohen (1952). Devoto rifletteva sui processi all’interno dei quali passava la vittima, dallo sradicamento, con la conseguente crisi d’identitàˆ e il portato di stress continuo, fino alla desocializzazione/risocializzazione dell’individuo nel nuovo contesto concentrazionario, che poteva portare a vari esiti, dalla resa completa allo sviluppo di meccanismi di autodifesa fino a forme di resistenza, sia individuali che collettive.

Il suo interesse per le istituzioni totali, seguendo Goffman, lo porta ad analizzare le esperienze della deportazione e del lager alla luce delle categorie analitiche a lui più familiari. L’oppressione nazista può˜ essere scomposta in tre aspetti: persecuzione, deportazione e sterminio, ed il lager, come sistema, un elemento fondante del nazismo, uno strumento di cui nessun regime “assolutista” potràˆ mai più fare a meno nel futuro. Devoto sostiene, anticipando molti, la necessitàˆ di smettere di considerare il nazismo, ed i suoi crimini, come un qualcosa di unico e di irripetibile. Si deve semmai capire come sia possibile giungere, in determinate situazioni, ad estremizzazioni del genere. Ritiene pertanto che si possano mutuare utili strumenti d’indagine facendo collegamenti e paragoni con situazioni, se non normali, almeno accettate, quali i disastri, le istituzioni totali, l’aggressivitàˆ e l’uso della violenza.

Da psicologo, lavorando sui testimoni, sviluppa ricerche prossime ai metodi della storia orale. Non a caso, partendo dai testimoni, arrivaˆ ad interrogarsi e ad analizzare le esperienze dei sopravvissuti dopo la liberazione. Comincia qui la seconda fase del suo lavoro, giunta a piena maturazione negli anni ′80, in collaborazione con l’Aned del Piemonte. Non solo la raccolta delle testimonianze, ma anche le forme e i modi per la loro condivisione paritaria ed empatica, che liberi i sopravvissuti dalla sindrome di diversitàˆ che trattiene ancora il lager dentro di loro.

Per Devoto non solo un’operazione psicologica e didattica, ma una vera e propria proposta di pace da rivolgere al mondo. Su questa scorta lavoraˆ con l’Aned alla raccolta di circa 70 interviste a sopravvissuti toscani tra il 1987 ed il 1989. Sono gli anni in cui, come testimonia il suo archivio recentemente riordinato, Devoto si dedica a un’opera, rimasta incompiuta, per la quale prevedeva vari titoli compresi nella dizione “dall’isolamento alla condivisione del ricordo”, e che solo parzialmente hanno visto la luce in forma stampata nell’ultimo frutto dei suoi lavori, affidato nel 1992 ad Ilda Verri Melo, dal titolo emblematico de La speranza tradita.

Stefano Bartolini è ricercatore presso l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia e coordina le attività di ricerca storica, archivistiche e bibliotecarie della Fondazione Valore Lavoro. Ha partecipato al recupero dell’archivio Andrea Devoto ed attualmente si occupa di storia sociale, del lavoro e del sindacato. Tra le sue pubblicazioni: Fascismo antislavo. Il tentativo di bonifica etnica al confine nord orientaleUna passione violenta. Storia dello squadrismo fascista a Pistoia 1919-1923Vivere nel call center, in La lotta perfetta. 102 giorni all’Answers.

Articolo pubblicato nel marzo 2014.




Il rovescio della trincea

Io non mi so dar ragione che l’omo debba essere uno strumento del suo governo e deve cessare tutto nell’uomo poesia, amori, doveri di padre, doveri di figlio doveri di lavoro per quale ragione?

(Giuseppe Manetti, contadino fiorentino al fronte, maggio 1917)

Gli elementi che hanno reso tragicamente nota, anche nella memoria comune, la Prima guerra mondiale sono sicuramente molti: i milioni di morti, mutilati e dispersi; la durissima vita nelle trincee; gli scellerati quanto inutili assalti alla baionetta; le carneficine causate dai gas asfissianti; i primi carri armati e i più o meno romantici duelli aerei.

Assieme a questi aspetti più conosciuti ed anche maggiormente studiati, soltanto in tempi relativamente recenti in Italia si è cominciato a considerare anche la faccia meno gloriosa della medaglia, quella riguardante le rese e le diserzioni di massa, le rivolte collettive di interi reparti, la disfatta di Caporetto, il fenomeno dell’autolesionismo, le condanne alla fucilazione comminate dai tribunali militari, le esecuzioni sommarie compiute contro soldati  insubordinati o accusati di viltà di fronte al nemico. Logica conseguenza del prolungarsi del conflitto, della disperante visione della continua strage e dei bisogni essenziali negati nelle trincee e nei cunicoli scavati sottoterra, il sordo malcontento s’andò trasformando nelle diverse forme assunte dal rifiuto attivo della guerra.

Al termine del conflitto risultarono emesse 870.000 denunce per indisciplina, rivolta, diserzione, resa al nemico, mutilazione volontaria, renitenza, simulazione, etc., con circa 15.000 condanne all’ergastolo e 729 condanne a morte eseguite su sentenza dei Tribunali militari. Imprecisato invece il numero delle vittime delle esecuzioni sommarie e delle decimazioni, quasi sempre compiute da plotoni di carabinieri, ma comunque nell’ordine delle migliaia. Difficilmente stimabili le perdite subite dai reparti italiani sottoposti al tiro delle artiglierie e delle mitragliatrici su ordine dei propri comandi in caso di «codardia di fronte al nemico», così come resta ignoto il numero dei fanti morti per essere stati puniti dai loro ufficiali mediante l’infame «supplizio del reticolato».

In questa guerra dentro la guerra, i contadini e gli operai, costretti ad indossare un’uniforme e ad uccidere i loro fratelli di classe prigionieri di una divisa di diverso colore – anche se resa uguale dal medesimo fango – si resero peraltro protagonisti di numerosi tentativi di ribellione, anche armata, contro gli ufficiali e gli ordini superiori che portavano, invariabilmente, alla carneficina. Secondo la tattica d’attacco pianificata dai comandi francesi, fatta propria dallo Stato maggiore italiano, era stata infatti preventivata la perdita dell’80% degli effettivi alla prima ondata, del 40% alla seconda e del 20% alla terza.

I primi significativi episodi di insubordinazione furono registrati negli ultimi mesi del 1915, con un crescendo che raggiunse il suo culmine nel 1917, così come sugli altri fronti europei, quando anche nelle campagne e nelle città l’opposizione alla guerra si tramutò in aperta rivolta sociale.

Sin dall’11 gennaio i carabinieri denunciarono un episodio emblematico avvenuto nell’astigiano, a  Castagnole Lanze, dove almeno quattro soldati in licenza avevano preso parte ad «una dimostrazione contro la guerra organizzata da alcune donne e da alcuni bambini», lanciando sassi e rape contro i militi intervenuti, istigando la popolazione, minacciando un capo-reparto di una fabbrica e compiendo atti vandalici alla stazione ferroviaria[Monticone 1972].

Dal 1° dicembre 1916 al 15 aprile 1917, in quasi tutte le province, a partire dai piccoli comuni rurali, si erano furono registrate circa 450 agitazioni con la partecipazione in tutta la penisola di oltre 100 mila lavoratori contro la guerra e la miseria, nonché contro il padronato per i profitti che stava realizzando; mentre dalle prefetture del regno veniva segnalato un crescendo di segnali di insofferenza.

Tra i mesi di marzo e settembre nello stesso anno, vennero altresì segnalati casi di sabotaggio industriale: azioni o tentativi di sciopero si ebbero a Milano, Genova, Firenze, Bologna, Modena, Parma, Reggio Emilia, Arezzo, Livorno, per cui i moti insurrezionali protrattisi per quasi una settimana a Torino a fine agosto 1917 appaiono tutt’altro che un caso circoscritto.

Parallelamente al saldarsi delle insorgenze antimilitariste tra le truppe, gli operai militarizzati e le popolazioni civili, si riscontra lo sviluppo di un rapporto di reciproca solidarietà che vede protagonisti anche soggetti e contesti toscani.

Se a Verona nel 1917, l’anarchico di Certaldo Ferruccio Scarselli, assieme ai concittadini Giulio Calvetti e tale Garosi, arruolati in cavalleria ma impiegati in funzione di ordine pubblico, si rifiutarono di caricare le donne che stavano manifestando in piazza per la fine della guerra e il ritorno dei soldati dal fronte, schierandosi invece con le dimostranti, in Toscana ovunque vennero segnalate connivenze tra popolazioni locali e disertori o renitenti che si erano dati alla macchia.

In provincia di Firenze questi trovarono rifugio e complicità sul monte Morello e nei boschi della Val d’Elsa, mentre nel livornese si nascondevano in alcune grotte in località Castellaccio. In Lunigiana fu l’anarchico individualista Renzo Novatore (ossia Abele Ricieri Ferrari) a fornire assistenza ai ricercati. Nel grossetano, nei boschi di Tatti, tra Massa Marittima e Roccastrada, si ritrovarono una sessantina di disertori che formarono la Banda del Prete (dal soprannome dell’anarchico Curzio Iacometti), tra i quali numerosi sovversivi locali di entrambi i sessi, che effettuarono espropri ai danni di proprietari terrieri e commercianti, finché nella primavera del 1918 furono debellati da venti compagnie di carabinieri.

Il fenomeno della diserzione assunse in Toscana una dimensione tale da entrare anche nell’immaginario popolare, com’è possibile riscontrare sia nelle narrazioni orali che nei canti sociali, così come confermano questi versi:

Montesanto e Montecucco / son due monti traditori, / viva viva i disertori / che per la patria non voglion morir./ Dagli ufficiali siamo maltrattati,/ dal governo siamo malnutriti,/ quattordici stati si sono riuniti / per distruggere la povertà./ Quante madri e quanti mogli / tutte quante desolate / che sole a casa sono restate / mentre gli uomini li mandano a morir.

 Appare inoltre interessante la circostanza che vede sovente gli stessi luoghi usati successivamente nella lotta antifascista e partigiana, a conferma della continuità di un antagonismo popolare strettamente connesso ai rispettivi territori.

D’altronde, è notorio che i comandi militari riponevano scarsa fiducia nell’affidabilità dei reparti composti da toscani e, consultando le spietate sentenze pronunciate contro i non-sottomessii, non è infrequente imbattersi in soldati originari delle nostre province. E’ il caso, ad esempio, del caporal maggiore Alessandro Signorini, del distretto militare di Livorno, fucilato nel giugno 1917 assieme ad altri dieci fanti ammutinati del 117° reggimento della Brigata Padova. Incriminato per aver incitato alla sedizione i suoi compagni gridando «vigliacchi, perché non vi armate e non sparate?», al momento di essere fucilato, dopo aver rifiutato l’assistenza del cappellano militare, gridò ancora: «Maledetta patria, schifosa bandiera, girate la schiena a chi vi fucila» [Pluviano, Guerrini 2004].

Articolo pubblicato nel gennaio del 2015.