Lungo l’aspra via dell’idea

A Livorno!
Ancora una tappa. È necessario. Lungo l’aspra via dell’Idea ogni tanto ci fermiamo, raccogliamo le forze, le passiamo in rassegna, ci volgiamo indietro, la guardiamo intorno e davanti, vicino e dietro.
Qualcuno stanco per l’asperità del terreno si ferma e ritorna, gli altri riprendono la marcia in file serrate che si ingrossano sempre di più strada facendo.

Così, il 4 gennaio 1921, «L’Avvenire» salutava il congresso di Livorno, dove, più divisi che mai, i socialisti erano chiamati a votare l’adesione alle 21 condizioni poste per l’ingresso nella Terza Internazionale. Organo della federazione circondariale socialista e dotato di una storia ultratrentennale, il settimanale era allora gestito dalla corrente maggioritaria nel partito: quei “socialisti massimalisti” che, rappresentati dal direttore de «L’Avanti!» Giacinto Menotti Serrati, avevano inizialmente guardato con favore sia al ruolo guida della Russia rivoluzionaria sia alla Terza Internazionale.

Molti erano però i motivi che stavano incrinando gli entusiasmi. La disgregazione dei partiti socialisti francesi e tedeschi suscitava analoghe paure per il partito italiano; decisivi erano stati anche i dubbi sulla possibilità di organizzare una rivoluzione in breve tempo, esibiti dall’occupazione delle fabbriche nel settembre 1920. Soprattutto il mancato appoggio dei massimalisti scavò un fossato profondo tra di loro e le frange più radicali: il gruppo torinese di «Ordine Nuovo» (rappresentato da Gramsci, Terracini e Togliatti), gli “astensionisti” campani di Amedeo Bordiga e l’eterogenea «terza componente» tosco-emiliana.

Se dal panorama nazionale spostiamo lo sguardo su quello pistoiese poco netta fu, a questo proposito, la posizione de «L’Avvenire», impegnato in quanto organo ufficiale del PSI locale a giostrarsi tra le sue litigiose correnti. Confusa era anche la situazione politica locale: nel 1919 la giunta clerico-moderata di Arrigo Tesi era stata commissariata per irregolarità nella gestione dei magazzini comunali e venne destituita. Tra il maggio e giugno  1919 erano stati organizzati numerosi scioperi tra i lavoratori dell’industria; il 4 luglio, durante la manifestazione contro il caro-vita, un esasperato gruppo di lavoratori assaltò il centrale Emporio Lavarini.

Come il direttivo nazionale, anche quello del PSI locale era discorde sulla linea da adottare. Buona parte della rivista – gestita allora da Pietro Querci – e del gruppo dirigente pistoiese era legata ai serratiani. A Capostrada forti erano i bordighiani, mentre in montagna il punto di riferimento era Savonarola Signori, sindacalista di simpatie ordinoviste e sindaco di San Marcello tra 1921 e 1922. Roccaforte dei riformisti era invece la Camera del Lavoro, presieduta da Alberto Argentieri.

Se l’editoriale A Livorno!, auspicava sì una scissione, ma a destra, i comunisti erano infatti favorevoli a creare un partito autonomo. Tra questi figurava l’autore de I comunisti al congresso di Livorno (pubblicato il 15 gennaio 1921), ON-DA:

Credo – scriveva infatti – che la frazione comunista, già a [sic] Partito Politico vibrante di vita e di fede, a Livorno debba iniziare la sua battaglia, non nell’orbita del passato, ma lontano da questo per un principio di purezza e di vitalità.

Ugualmente orientata verso la scissione a sinistra era la corrente riformista. Nel suo editoriale Da Genova a Livorno (pubblicato il 22 gennaio) V., nel ricordare le precedenti scissioni (quella degli anarco-sindacalisti, negli anni ’90; dei sindacalisti rivoluzionari, nel 1904; della minoranza favorevole all’intervento nella guerra italo-turca, nel 1912), bollava quella futura «una dolorosa ineluttabilità».

L’esito del congresso minò il complesso equilibrio del PSI pistoiese. La mancata adesione alla Terza Internazionale – che li rigettava a favore del PCd’I – contrastava con gli entusiasmi per la Rivoluzione russa e la convinzione di essere il partito più radicale dell’Europa occidentale. Con la scissione acquistavano un peso maggiore i riformisti e la CGL. Per di più, entro pochi mesi dal congresso, gli iscritti alle singole federazioni dovevano decidere se restare nel PSI o migrare nel PCd’I: scarsa era quindi la consapevolezza di quali strutture sarebbero rimaste ai socialisti.

Questo disorientamento ben emerse nel primo editoriale sull’argomento il 19 febbraio 1921. «Il Congresso della Terza Internazionale»,

non potrà nulla addebitare al nostro Partito Socialista Italiano, il più puro, il più intransigente partito socialista del mondo e finirà col conservarci nei ranghi, perché tenemmo e terremo il nostro posto con onore.

Fu questa una convinzione che venne ribadita anche nei mesi successivi, quando il voto del 10 marzo tra gli associati pistoiesi sancì il passaggio della sede e del settimanale al Pcd’I. Mentre con il numero 19 marzo «L’Avvenire» diventava l’“Organo della Federazione circondariale comunista”, gli esuli socialisti confluivano ne «L’Avvenire socialista», che ancora il 12 marzo ribadiva la vicinanza tra socialisti e comunisti:

I proletari che amano la causa rivoluzionaria non possono voler la divisione del Proletariato, sia pure nel solo campo politico. L’unione fa la forza!

Una condivisione messa fortemente in dubbio dall’altro elemento della diade. «Il partito socialista» chiosavano infatti i comunisti sul primo numero de «L’Avvenire»

prima e durante la guerra non à [sic] dimostrato chiaramente di possedere qualità rivoluzionarie […]. Il dopoguerra à [sic] poi lumeggiato tutta l’impotenza rivoluzionaria di questo partito […]. Ed allora come si fa a chiamare ancora rivoluzionario questo partito socialista?

 




Note di Memoria: il pianoforte di Maria Einstein

Il suono del pianoforte Blüthner è la colonna sonora armoniosa della casa colonica di Quinto, borgo alle porte di Firenze sulla strada di Sesto fiorentino, dove vivono i coniugi Paul e Maria Winteler, sorella di Albert Einstein. Proprio il noto scienziato le ha fatto dono del prezioso strumento musicale nel 1931, conoscendone bene l’intesa passione per la musica che, peraltro, condivide. Nonostante la lontananza fisica i due Einstein (lui in Germania, lei in Italia) sono infatti profondamente legati ed Albert non esita a sostenere ed aiutare la sorella nella vita semplice scelta per amore del suo Paul, avvocato svizzero, “ritirandosi” nella campagna fiorentina. Arte e cultura riempiono le giornate dei coniugi, lui dedito alla pittura lei alla musica, che allietano così i loro ospiti a partire da Albert nelle sue visite e soprattutto Hans-Joachim Staude giovane pittore tedesco.

 Nei turbolenti anni Trenta, segnati dal crescente rimbombare di  inni e rumori di guerra, in un’Italia in camicia nera, inquadrata dal regime fascista, l’abitazione pare una “bolla”, impermeabile all’esterno, definita non a caso da Maja “Samos”, quasi fosse una’incantata isola greca sottratta al tempo e allo spazio reale.

Ma anche le bolle prima o poi esplodono. La prospettiva bellicista e la svolta razzista del razzismo rendono sempre difficile astrarsi dalle preoccupazioni del presente e, infine, impossibile la loro stessa permanenza. A seguito dell’entrata in vigore della legislazione razzista contro gli ebrei varata dal governo fascista nell’autunno del ‘38, gli ebrei stranieri che non abbiano contratto matrimonio con cittadini italiani devono lasciare il Regno entro il 12 marzo 1939. Per Maria non ci sono alternative. Per la sola colpa di essere ebrea deve lasciare il proprio “paradiso terrestre”. Sollecitata dal fratello Albert che, fortemente preoccupato dall’evoluzione della politica tedesca dopo l’avvento al potere di Hitler e del nazismo, già nel 1933 era rimasto negli Stati Uniti al termine di un soggiorno di studi, non tornando più in Germania, anche Maria si decide a raggiungerlo. Ma prima di partire si preoccupa di mettere in salvo il suo pianoforte. Lo strumento, assai prezioso, non può correre i rischi di un viaggio, né può essere lasciato all’incuria di una casa abbandonata. Decide così è di affidarne la custodia a Staude, l’amico più caro, che lo conserva presso il proprio studio-abitazione nel cuore di Firenze. Poi Maja deve abbandonare la sua isola e congedarsi anche dal marito che intende prima tornare in Svizzera, iniziando così un viaggio che non avrà ritorno.

Ma la scelta si rivela, anche inconsapevolmente, perfetta. Infatti, negli anni successivi, quando divampa la seconda guerra mondiale – e lo stesso Staude deve arruolarsi per combattere per il Reich suo malgrado -, e, dopo l’8 settembre 1943 – armistizio italiano – i nazisti occupano la penisola,  l’essere nell’appartamento di un cittadino “ariano” salva il prezioso strumento sia dalle mire di questi che da quelle dei fascisti che, sotto l’autorità della repubblica sociale italiana, si scatenano in una feroce caccia agli ebrei e ai loro beni.  Proprio i pianoforti, così come ogni strumento musicale, sono peraltro fra i beni più ambiti dai nazisti che hanno costituito un vero e proprio comitato di esperti per valutarli e spedirli nelle destinazioni più opportune, a partire da uffici ed abitazioni dei vertici del partito, dello Stato e degli stessi campi di concentramento. A Firenze in particolare gli uomini del maggiore Carità e un fitto reticolato di apparati di sicurezza e di “gente comune” si specializza delle denunce e nei saccheggi delle abitazioni di ebrei, catturati e condotti sui vagoni destinati ad Auschwitz. Li fronteggia la rete di protezione voluta dal cardinale Elia Dalla Costa e da esponenti della Comunità ebraica e delle forze antifasciste: una vera e propria resistenza civile che, con consapevolezza diversa da parte dei suoi protagonisti riafferma, nell’ora più buia, il valore universale della fraternità umana. Nell’ora dell’indicibile e delle scelte supreme che interpellano la coscienza di ciascuno, tace il pianoforte di Maja, non è il tempo dell’armonia, ma del dolore, delle grida e del pianto.

Ma il pianoforte si salva: supera il pericolo di furti e saccheggi e rimasto illeso anche dal drammatico passaggio del fronte che investe Firenze nell’estate del 1944, con la decisione dei nazisti di minare i ponti e parte del centro storico per fare della città una trincea sulla quale rallentare l’avanzata nemica. E nel dopoguerra, dal ritorno dalla prigionia britannica, Saude può così ritrovarlo e sedervisi per ascoltarne le armonie, anche se ormai da solo.

Oggi il suono del pianoforte di Maja, deceduta a Princeton presso il fratello nel 1951, risuonano ancora sulla collina di Arcetri, presso l’Osservatorio astrofisico, grazie auna scelta illuminata della famiglia Staude, restituendo anche a noi le sue note di incantevole armonia, messaggere di memorie tragiche, di vite spezzate, di grandi passioni e ideali civili, monito per il presente e il futuro.

Il libro di Valentina Alberici  Il pianoforte di Einstein guarda le stelle non solo svela i dettagli di questo esito sorprendente della vicenda del pianoforte, ma soprattutto, con agilità e delicatezza, ripercorre, attraverso la storia dello strumento, qui richiamata, le tragiche esperienze degli Einstein segnati dalle persecuzioni e dalle terribili violenze perpetrate negli anni del conflitto. Accanto a Maria, si delinea quindi la tragica storia di suo cugino Robert, con il quale erano frequenti i contatti, risiedendo con la famiglia prima a Firenze poi presso la Villa del Focardo dove ha il suo drammatico epilogo. Attenta a richiamare con puntualità e correttezza il contesto storico, l’autrice sa restituire con efficacia l’atmosfera della casa dei coniugi Winteler, evidenziando così tutto il valore e la forza universale dell’arte, superiore ad ogni prova, sia pur pagando prezzi altissimi. Una lezione e un monito validi per l’oggi, che rendono opportuna oltre che piacevole e interessante la lettura di questo piccolo racconto.




“Comunisti d’acciaio”

Giovani e giovanissimi, di un’età compresa fra i 18 e 25 anni, a formare una serie di nuclei in alcune località del territorio provinciale, soprattutto laddove più forte era il tradizionale insediamento socialista. Un unico punto di riferimento nazionale in Amedeo Bordiga (di Antonio Gramsci e dell’Ordine Nuovo, nel Senese nessuno aveva sentito parlare, o quasi). Forti motivazioni ideologiche per separarsi dal Psi. Una fede altrettanto robusta nella rivoluzione proletaria sul modello leninista. Una sostanziale incomprensione e sottovalutazione del fascismo montante, nonostante le evidenze della sua aggressività pagata spesso sulle proprie ossa. Infine, una presa elettorale minoritaria, ma non irrilevante (2.072 voti provinciali alle politiche del 1921, pari al 3,7%; percentuale confermata tre anni dopo alle politiche del 1924). Sono questi alcuni dei tratti del PCd’I della provincia di Siena ai suoi albori.
Fra le biografie dei primi iscritti, tratteggiamo di seguito quelle di Vittorio Bardini, Giovanni Guastalli e Pietro Borghi, nelle quali l’impegno politico attraverso i decenni della dittatura, fino alla Resistenza, lascia intuire l’importanza della fase fondativa del partito sulla formazione di uomini che, con una retorica riecheggiante il nome di Stalin, ma non priva di agganci alla realtà, sarebbero stati definiti “comunisti di acciaio”.
Vittorio Bardini era nato a Sovicille nel 1903. Figlio di muratore e muratore lui stesso, aderì alla gioventù socialista su posizioni massimaliste, passò al PCd’I subito dopo Livorno e divenne segretario provinciale dei giovani comunisti. Presente fra i 67 difensori della Casa del Popolo di Siena dall’assalto fascista avvenuto nel marzo 1921 con il sostegno delle forze di polizia, subì altre aggressioni squadriste. Nel 1927, dopo le leggi eccezionali, venne arrestato per ricostituzione del Partito comunista. Inviato al Tribunale speciale, ebbe una condanna a otto anni di carcere. Dopo essere uscito di galera espatriò clandestinamente in Unione Sovietica, frequentò la scuola di partito, partì per combattere in Spagna nelle brigate internazionali. Dopo aver lasciato la Spagna ormai franchista, trascorse un periodo nei campi di concentramento frances. In seguito alla sconfitta della Francia da parte dei tedeschi e alla nascita del regime fantoccio di Vichy, fu riconsegnato alle autorità italiane finendo di nuovo in carcere e al confino. Tornato libero dopo il 25 luglio 1943, dall’8 settembre si dedicò al lavoro organizzativo nella lotta contro il nazifascismo, a Siena e a Milano. Seguirono la cattura, la deportazione a Mauthausen, la sopravvivenza al campo di prigionia, il ritorno e, nel 1946, l’elezione nelle liste del Partito comunista all’Assemblea Costituente.
Anche Giovanni Guastalli era del 1903, nato a S. Lorenzo a Merse (comune di Monticiano), licenza di terza elementare, mestiere boscaiolo. Nell’ottobre 1921, da segretario giovanile della sezione del PCd’I, partecipò insieme al padre ad una manifestazione di protesta di fronte alla caserma dei carabinieri che avevano arrestato alcuni lavoratori, finendo agli arresti lui stesso. Nel 1924 espatriò in Francia unendosi a quel flusso di emigrazione che era insieme economica (la speranza di occasioni di lavoro e remunerazioni migliori) e politica (sfuggire allo squadrismo). Nella zona di Draguignan, dipartimento del Var, riprese a tagliare alberi e proseguì nel suo impegno politico e sindacale. Inviato dal partito in Italia nel 1933 per svolgere attività clandestina, fu individuato a Modena, deferito al Tribunale speciale, assolto per insufficienza di prove, scarcerato e spedito in soggiorno obbligatorio al suo paese natale, poi condannato a tre anni di confino nell’isola di Ponza.
La sua scheda biografica, redatta dalla polizia, ne descrive il comportamento: «25 febbraio 1935, denunciato per aver preso parte ad una protesta e condannato a dieci mesi di arresto; 12 marzo 1937, dimesso dal carcere viene reintrodotto nella colonia di Ponza; […] 23 giugno 1938, con disposizione ministeriale […] viene trasferito da Ponza a Tremiti; 21 luglio 1938, il consiglio di disciplina della coloniale lo punisce con 20 giorni di divieto di libera uscita per essersi rifiutato di salutare romanamente; 4 luglio 1938, 30 giorni di divieto per lo stesso motivo; 4 agosto 1938, il Ministero […] aggiunge anche due mesi di detenzione alla pena del 4 luglio; 19 dicembre 1938, ritradotto a Tremiti […]; 21 dicembre 1938, ritradotto carceri Foggia, in attesa punizione, essendosi nuovamente rifiutato di ottemperare all’obbligo del saluto romano; 31 dicembre 1938, l’On. Ministero […] autorizza infliggergli un altro mese di detenzione e lo trasferisce a Ventotene».
Infine Guastalli, senza mai aver alzato il braccio con la mano tesa venne rimandato a casa. Durante il periodo resistenziale divenne commissario politico della Brigata Garibaldi Spartaco Lavagnini.
Pietro Borghi era nato a Poggibonsi nel 1898, di mestiere falegname. La data di nascita gli aveva garantito il “privilegio” di partire soldato nella Grande Guerra. Essendo iscritto a Psi dall’età di 18 anni fu uno dei tanti socialisti a vivere la contraddizione fra il rifiuto politico e morale del conflitto e l’onorevole partecipazione ad esso sancita dalla Croce al merito. Nel 1921 passò al PCd’I e ne condivise le fasi organizzative fra Poggibonsi e Colle Val d’Elsa, le due località che per un certo periodo ospitarono la sede della Federazione provinciale. Con la legislazione eccezionale passò all’attività clandestina fino al 1932, quando l’organizzazione comunista poggibonsese di cui faceva parte venne individuata. Borghi fu arrestato insieme ad altri suoi compagni, ma eludendo la sorveglianza, riuscì a scappare dalla caserma dei carabinieri dove era stato portato. La fuga lo condusse in Francia, ad Antibes e a Tolone, a svolgere azione politica e sindacale nell’emigrazione antifascista e in collaborazione con i comunisti francesi, poi in Spagna dove, come mitragliere antiaereo, si guadagnò una decorazione e il grado di tenente.
La Prefettura di Siena così ne delineava il profilo nel 1937: “Non ha desistito giammai dallo esternare i suoi inveterati sentimenti di inconciliabile odio verso il fascismo e il suo Capo del quale […] non ha esitato spesso, nelle lettere alla moglie, a preconizzare la morte. […] Tali suoi sentimenti hanno di recente avuto piena rispondenza nel gesto da lui compiuto arruolandosi nelle file rosse, il che rivela in lui maggiori sintomi di pericolosità […] esasperata anche dalla forzata lontananza dalla moglie e dal figlio per i quali nutre grande affetto e sa privi di aiuti”.
Tornato in Francia dopo la vittoria dei fascisti spagnoli, Borghi transitò in vari campi di prigionia per essere infine estradato in Italia e confinato a Ventotene. Rientrato a Poggibonsi nell’agosto 1943, divenne uno degli organizzatori del Cln della sua città e dei Gap Val d’Elsa.

BIBLIOGRAFIA

Bardini Vittorio, Storia di un comunista, Firenze, Guaraldi 1977

Guastalli Giovanni, Il boscaiolo, Mulano, La Pietra 1979

Burresi Francesco, Minghi Mauro, Poggibonsi dal fascismo alla liberazione, Poggibonsi 2019

Archivio di Stato di Siena, Questura, cat. A8, b. 93, f. Giovanni Guastalli

Archivio Isrsec, Fascicoli del Casellario politico centrale, Pietro Borghi




“Agire, Agire, Agire!”

Davanti alla scelta di entrare nel conflitto mondiale, i socialisti pistoiesi risentirono delle divisioni del PSI nazionale. La linea ufficiale era di neutralità assoluta, ma le correnti erano in disaccordo, fronteggiandosi su «L’Avvenire», organo locale del partito. I riformisti, maggioritari in città, adottarono un orientamento attendista. I massimalisti, forti nelle zone bracciantili e nelle industrie della montagna, erano fermamente neutralisti. Le sezioni pistoiesi risentirono dell’ambigua linea di condotta della dirigenza nazionale, mettendo al primo posto la salvaguardia dell’unità del partito. Al di là di organizzare conferenze contro la guerra per mobilitare i ceti popolari, il partito non seppe farsi guida delle spontanee agitazioni antibelliciste. Solo nell’area di Lamporecchio, per merito del sindaco Idalberto Targioni, le manifestazioni ebbero caratteri più organizzati, ma si esaurirono con l’intervento (maggio 1915).

Dopo l’ingresso in guerra, le fratture si acuirono. Alcuni importanti esponenti, come il riformista Amulio Cipulat (direttore de «L’Avvenire») e Targioni, lasciarono il PSI e si “convertirono” all’interventismo. Questi abbandoni provocarono un’emorragia di iscritti, che indebolì soprattutto i riformisti. I massimalisti – tra i quali emerse una frangia di sinistra animata da giovani militanti, che rivendicava una linea rivoluzionaria – guadagnarono posizioni nel partito e nel giornale, che divenne assai critico con la giunta comunale. Intanto, a partire dal 1916 si acuirono le tensioni sociali, con scioperi dei lavoratori e proteste delle donne delle campagne contro la guerra. Nei moti, i socialisti locali mantennero però un ruolo passivo. Il partito era stato minato dalle defezioni, dalla coscrizione obbligatoria e dagli arresti. La dirigenza era poi divisa sul da farsi. I riformisti non appoggiavano le proteste e favorivano la collaborazione con l’amministrazione. L’ala intransigente intendeva supportare le agitazioni popolari e operaie. I massimalisti ebbero la meglio nel convegno collegiale del luglio ’17 e votarono di seguire il modello bolscevico, spogliandosi «di tutte quante le ideologie borghesi e anteporre alla patria l’internazionale proletaria». Nondimeno, la stretta repressiva successiva a Caporetto frenò le pretese rivoluzionarie. «L’Avvenire» interruppe le pubblicazioni per le divisioni della redazione.

Concluso il conflitto, il PSI pistoiese ebbe una crescita considerevole. Nonostante il peso acquisito, nei moti popolari contro il caroviveri e negli scioperi del 1919, i dirigenti, in linea con la segreteria nazionale e d’accordo con i rappresentanti della Confederazione Generale del Lavoro, non tradussero in pratica il motto “Fare come in Russia”, mantenendo le proteste nella legalità. Per «L’Avvenire», dove era forte la componente riformista, i tumulti erano il male del proletariato perché «peggiorano la sua condizione, allontanano il giorno della sua completa emancipazione […] suo compito è quello di prendere il timone della cosa pubblica». La base locale, ormai radicalizzata, chiedeva però una svolta rivoluzionaria e guardò alla frangia comunista, strutturatasi attorno al gruppo dei giovani militanti estremisti. Dopo le elezioni nazionali del novembre 1919, vinte dal PSI nel circondario di Pistoia (49 %), i comunisti presero il sopravvento nella sezione cittadina e su «L’Avvenire», come prova la scelta dei redattori di inserire nella testata il motto di «Ordine Nuovo», la rivista di Antonio Gramsci: «Istruitevi perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi perché avremo bisogno di tutta la nostra forza». Nell’agosto 1920, anche la Camera del Lavoro passò sotto il loro controllo. Proprio per l’influenza dei comunisti, le proteste del ’20 assunsero caratteri anticapitalisti. Culmine delle agitazioni furono le occupazioni delle fabbriche nell’agosto-settembre, che nel pistoiese interessarono le officine metallurgiche, come la San Giorgio, e gli stabilimenti più piccoli. Gli scioperanti locali speravano nell’insurrezione, ma l’accordo tra sindacati, governo e industriali pose fine alle occupazioni ed esaurì la spinta rivoluzionaria.

Nonostante il fallimento delle proteste, il PSI vinse le elezioni amministrative dell’autunno, strappando ai moderati vari Comuni del circondario e il capoluogo, dove fu eletto l’avvocato Bartolomeo Leati. Le fratture interne al partito divennero, però, insanabili. Il congresso nazionale di Livorno, previsto per il gennaio 1921, appariva una resa dei conti tra i riformisti di Turati, i massimalisti di Serrati e i “comunisti puri” di Bordiga. Quest’ultimi erano maggioritari nel pistoiese ed richiesero la direzione nazionale, su «L’Avvenire», ad espellere i riformisti e ad avere una linea politica più vicina alla III Internazionale. Ugo Trinci invitò a mettere da parte le discussioni e ad «agire, agire, agire!». Intanto, lo squadrismo fascista intensificava le sue violenze.

Nel congresso circondariale del dicembre 1920, la mozione comunista ottenne una maggioranza netta, mentre in gran parte d’Italia prevalse la mozione massimalista. Al Congresso di Livorno (gennaio 1921) si consumò la spaccatura: prevalse la linea di Serrati, ossia tenere dentro i riformisti senza però sciogliere i nodi politici, mentre i comunisti si scissero dando vita al Partito Comunista d’Italia (PCdI). A Pistoia, gran parte della dirigenza, tra cui Trinci, e dei militanti del PSI passarono alla neonata formazione, che controllava anche la Camera del Lavoro – dove sedeva il bordighista Onorato Damen, un giovane poeta locale – e «L’Avvenire». Nel marzo, i resti del PSI pistoiese mandò alle stampe il nuovo organo: «L’Avvenire socialista». Iniziava una contesa politica che indebolì il movimento socialista e operaio, nel momento in cui l’unità era necessaria per opporsi al fascismo. La giunta Leati non resse alla scissione, dimettendosi nel maggio 1921. L’amministrazione comunale, per le divergenze tra comunisti e socialisti, rimase vacante fino all’agosto 1922 quando i fascisti ottennero il commissariamento del Comune.

Francesco Cutolo, perfezionando presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, si è laureato in Scienze storiche all’Università di Firenze con una tesi dal titolo “L’influenza spagnola del 1918-1919: la dimensione globale, il quadro nazionale e un caso locale” , rielaborata e pubblicata nel 2020 per i tipi dell’Isrpt. È consigliere dell’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea di Pistoia e membro dell’associazione “Storia e città”. Fa parte delle redazioni delle riviste «Farestoria» e «Storialocale». È stato curatore delle mostre: “La città in guerra. Cittadini e profughi a Pistoia dal 1915 al 1918” (Pistoia, 2017); “Memorie d’autore. I grandi personaggi e la prima guerra mondiale” (Firenze,  2018; Montespertoli, 2019); “Le cicatrici della vittoria. Pistoia e le memorie della Grande Guerra” (Pistoia, 2019).




Lasciare l’Italia fascista, per un mondo migliore

L’emigrazione intellettuale dall’Italia durante gli anni del governo fascista è un fenomeno ancora poco conosciuto. Nel tracciare la parabola della persecuzione degli ebrei, l’attenzione degli storici è stata indirizzata maggiormente verso i risvolti più drammatici, come la deportazione, mettendo in secondo piano le vicende di quelli che furono costretti a lasciare l’Italia prima dell’inizio della Seconda guerra mondiale.

La fascistizzazione nelle istituzioni pubbliche spinse alcuni ‘indesiderabili’, ebrei e non – come il ben noto Gaetano Salvemini –, a partire prima che le leggi razziali emanate nel 1938 estromettessero dagli incarichi scolastici e universitari tutti gli studenti, studiosi, ricercatori e professori censiti come ebrei che si ritrovarono senza lavoro e senza possibilità di future assunzioni in Italia.
Le perdite per la cultura italiana furono significative e spesso irreparabili anche perché molti non ritornarono in patria dopo la fine della Seconda guerra mondiale, a volte per volontà stessa dei protagonisti o dei loro figli di restare all’estero, più spesso per gli ostacoli frapposti specialmente dalle università italiane che preferivano mantenere gli organici già formati con chi aveva preso il posto degli espulsi. Venne così sprecata l’opportunità di recuperare risorse con un bagaglio culturale arricchito da esperienze in altri paesi dopo un ventennio di autarchia e isolamento internazionale della cultura e della scienza, per il progredire delle quali è necessaria un’apertura mentale che solo la circolazione delle idee permette. Una fuga di cervelli paragonabile per certi versi a quella che attualmente caratterizza la vita culturale italiana, soprattutto nei casi in cui la scelta di partire precedette il 1943 e non fu quindi propriamente obbligata.

Analizzando e collegando tra loro queste vicende, il progetto di ricerca Intellettuali in fuga dall’Italia fascista. Migranti, esuli e rifugiati per motivi politici e razziali ha lo scopo di rendere più completo il quadro di un fenomeno relativamente ignorato anche perché sottostimato numericamente. Gli elenchi degli espulsi dalle università nel 1938, che solo dal 1997 sono stati ricostruiti non definitivamente, non rendono conto delle perdite effettive nella cultura italiana, che non si limitano agli allontanamenti ufficiali o al solo anno 1938: i liberi docenti non furono ufficialmente espulsi, ma dichiarati “decaduti” dal titolo, mentre al personale universitario non strutturato semplicemente non fu rinnovato il contratto. Si devono includere inoltre gli studenti e i neolaureati a cui di fatto fu preclusa qualsiasi carriera, così come i neodiplomati che non potevano immatricolarsi all’università. È su questa complessità, quantitativamente meno definita ma più realistica rispetto al contesto dell’epoca, che si basa il lavoro di censimento e di ricostruzione storica diretto dalla Professoressa Patrizia Guarnieri, promosso dall’Università di Firenze, finanziato dalla Regione Toscana e patrocinato dalla New York Public Library, dal Council for At-Risk Academics di Londra, dal J. Calandra Italian American Institute e dal Central Archives for the History of Jewish People di Gerusalemme. I profili biografici estrapolati dalla ricerca hanno reso necessaria l’analisi di numerose fonti di diversa natura, come gli archivi delle organizzazioni internazionali di aiuto, quelli delle istituzioni e dei luoghi dove approdarono i fuoriusciti, le loro eventuali memorie e corrispondenze; o ancora le testimonianze degli eredi, fonti preziose ma da verificare con cautela perché a volte discordanti dai documenti ufficiali.

Il focus della ricerca sugli intellettuali ha rivelato un campione eterogeno di profili. Le storie raccontano di donne e uomini, tra cui alcuni scienziati famosi come Rita Levi Montalcini o il fisico Bruno Rossi, che partivano da condizioni molto diverse e che dovettero affrontare difficoltà di varia natura legate all’età, al genere, alla situazione familiare, alla disciplina o alla professione praticata, alla conoscenza di altre lingue, alla rete di contatti personali. Difficoltà e disagi in genere sottaciuti, anche dagli stessi protagonisti a distanza di tempo, ma che emergono dalle lettere di allora, dai diari e dalle richieste di aiuto: l’angoscia della lontananza dai propri cari, la difficoltà di procurarsi i documenti per emigrare e di cercare lavoro altrove, gli stereotipi che colpivano sia gli italiani che gli ebrei, discriminati dalle stesse comunità degli emigrati italiani soprattutto se antifascisti. Chi si recò in Francia o in altri paesi vicini dovette poi scappare altrove a causa dell’occupazione nazista. Alcuni andarono in paesi con situazioni politiche e militari di cui rimasero vittime, come Anna Di Gioacchino Cassuto e Enzo Bonaventura in Palestina o Aldo Mieli in Argentina. Chi rimase in Italia fu costretto a nascondersi o a tentare la fuga in Svizzera nel 1943. Se gli studiosi e i professionisti italiani ricorsero in parte alle organizzazioni internazionali di aiuto che erano sorte per gli intellettuali tedeschi nel 1933, soprattutto all’Emergency Committee di New York e alla Society for the Protection of Science and Learning di Londra, o ai comitati di aiuto per i rifugiati creati da varie associazioni scientifiche e professionali americane, in molti casi contarono altre conoscenze: quelle antifasciste o quelle del sionismo, entrambe reti internazionali; o ancora i contatti di tipo professionale, gli amici e i parenti, proprio come nell’emigrazione comune.

Il perno principale del progetto dal punto di vista divulgativo è costituito dal sito internet ad accesso gratuito http://intellettualinfuga.fupress.com, presente anche in lingua inglese al link http://intellettualinfuga.fupress.com/en.
Il portale è costituito da pagine introduttive agli argomenti indicati nel sommario: una sezione, per esempio, è dedicata alle norme discriminatorie e persecutorie del regime fascista nonché al lungo percorso riparatorio avviato nel dopoguerra nei confronti di quanti erano stati colpiti dalle precedenti disposizioni. Al centro, un elenco alfabetico di intellettuali in fuga, donne e uomini, che è stato finora possibile identificare e che viene via via aggiornato. Ad oggi sono circa 380 nomi, http://intellettualinfuga.fupress.com/schede/indice/6: tutti in qualche modo legati alla Toscana. Per ogni nome viene costruita una scheda in cui è possibile leggere o scaricare il pdf dell’articolo che narra non una biografia generale ma la storia personale, spesso avventurosa e travagliata, dell’esperienza di espatrio; sono poi presenti degli approfondimenti sintetici sui i familiari emigrati, la rete di contatti che favorì l’emigrazione, la ricerca del lavoro, una mappa della mobilità, una linea temporale che segnala i vari spostamenti e una galleria di fotografie, per lo più offerte dai parenti proprio per questa ricerca. Oltre a essere utile per lezioni e ricerche scolastiche e universitarie, le storie di vita riportate sono rivolte ad un pubblico non specialista.
La presenza in rete offre una maggiore visibilità che favorisce a sua volta la crescita del progetto stesso, che è in progress e aperto sempre a nuove acquisizioni: chiunque abbia informazioni utili può contribuire con documenti, foto e testimonianze contattando patrizia.guarnieri@unifi.it.




La “Banda Carità”. Il Reparto servizi speciali. 1943-1945.

Nella vicenda dei “seicento giorni di Salò” compaiono storie di reparti che hanno fatto dell’uso della violenza la loro essenza. Spesso la loro parabola è liquidata come fosse romanzesca, tra omissioni e ricerca del gusto dell’orrido, mischiando al sangue il sesso oppure l’uso di stupefacenti. Occorre tralasciare questi aspetti esteriori e tendere invece a uno studio puntale e scientifico di queste formazioni, per comprendere appieno le vicende e le dinamiche spesso ancora nascoste dell’ultimo Fascismo.
La “Banda Carità” è uno dei reparti che operano durante il periodo della Repubblica Sociale. La sua denominazione ufficiale è Reparto servizi speciali, ma il nome di comune utilizzo rimane il primo, poiché è quello conosciuto dalla memoria collettiva, da chi subisce le imprese del reparto: i cittadini della Firenze occupata. Lo stesso nome, peraltro, è utilizzato anche dai giudici della Corte Straordinaria d’Assise di Padova che celebrano il primo processo nell’ottobre 1945. Uscendo dall’aspetto nominale, sappiamo che questo reparto è in realtà efficiente e disciplinato, capace di mettere a segno svariate operazioni antipartigiane con notevole successo.
Il reparto nasce subito dopo l’Otto settembre, come tanti altri reparti fascisti che si riorganizzano dopo l’armistizio. Chi lo crea e lo comanda è il centurione Mario Carità, un milanese trasferitosi per motivi non chiari – forse un allontanamento “politico” – da Milano a Firenze nel 1936. Durante la guerra partecipa come volontario alla campagna in Albania, dove, però, rimane poco. L’Otto settembre si trova a Bologna e qui, da subito, cerca di ricostituire le file fasciste. Tornato poco dopo a Firenze, all’interno della ricostituita Novantaduesima legione della Milizia, organizza un reparto particolare, il Reparto servizi speciali che, nelle intenzioni di Carità, dovrà lottare contro i nemici del Fascismo, sia dentro, sia fuori: i partigiani da una parte, i traditori della Repubblica Sociale dall’altra. I componenti del reparto sono in forza alla Compagnia comando della Novantaduesima legione di sede alla Caserma Caveri, in via della Scala.

villa-triste1Nel corso della sua storia, il reparto cambia poi più volte sede: prima in via Benedetto Varchi, poi in via Foscolo per approdare infine, nell’ultimo periodo fiorentino, nella sede più conosciuta, quella in via Bolognese 67, denominata “villa Triste”. Il reparto coglie diversi importanti successi contro la Resistenza a Firenze, come l’arresto di molti dirigenti partigiani fiorentini, tra cui Max Boris, in via Guicciardini nel febbraio 1944. Riesce a intercettare buona parte del materiale aviolanciato, nascosto in via dei Mille, oltre alla linotype con cui si stampa il giornale della resistenza fiorentina “La Libertà”. Agli inizi del giugno 1944, infine, cattura tutti gli operatori della missione alleata di Radio CO.RA: quest’operazione culmina con la strage al torrente Terzolle in località, dove sono fucilati assieme alla partigiana Anna Maria Enriques Agnoletti e ad un partigiano cecoslovacco, Italo Piccagli e l’avvocato Enrico Bocci, il cui corpo non è più ritrovato.

Nel luglio del 1944 il reparto si sposta a Bergantino, in provincia di Rovigo, città natale di Giovanni Castaldelli, vicecomandante. Agli inizi di novembre si sposta a Padova, probabilmente su richiesta del capo provincia Federigo Menna, che ha impostato una politica esclusivamente repressiva nei confronti della Resistenza. La collaborazione tra gli elementi periferici della Repubblica Sociale e il reparto non viene mai meno, tanto che al reparto è concessa un’autonomia esclusivamente operativa ma non strategica. Nella città veneta la “banda Carità” coglie i più brillanti successi operativi che si possano attribuire a un reparto di polizia di Salò: la distruzione della rete GAP a Padova e provincia, alla fine del novembre ’44 e la cattura quasi per intero del CLN veneto. A Padova il reparto collabora, in modo più stretto che in passato, con il comando SS di piazza.
Alla Liberazione buona parte dei componenti fuggono verso nord, seguendo le truppe tedesche in ritirata. Diversi sono catturati nel mese di maggio, mentre Mario Carità è ucciso a Siusi il 19 maggio in uno scontro a fuoco con soldati alleati.
Seguono due processi, celebrati uno a Padova nell’ottobre 1945, in seguito al quale è eseguita una condanna a morte e uno a Lucca, nel 1951. Molti membri del Reparto sono condannati a pene detentive, ma beneficiano successivamente di amnistie e sconti di pena. Gli ultimi militi condannati sono liberati a metà degli anni Cinquanta.

*Riccardo Caporale, è ricercatore libero professionista presso istituti storici, enti locali e fondazioni. I suoi interessi di studio ruotano attorno ai temi della Repubblica sociale italiana, dei suoi corpi interni e dei mancati processi ai fascisti nel dopoguerra.
Fra le sue pubblicazioni: La “Banda Carità”. Storia del Reparto Servizi Speciali (1943-45), Edizioni S. Marco Litotipo, 2005; Le SS italiane: un corpo ed una memoria, in Le armi della RSI (1943-1945), «Studi bresciani» Quaderni della Fondazione Micheletti, 20, 2010; voci Brigate nere, SS italiane, Legione Muti in G. Albanese – M. Isnenghi (a cura di), Il Ventennio Fascista, vol. IV de Gli italiani in guerra. Conflitti, identità, memorie dal Risorgimento ai nostri giorni con la direzione scientifica di M. Isnenghi, Utet, 2008-2009.




Luigi Bertelli – Vamba

Luigi Bertelli, che diverrà famoso con lo pseudonimo di Vamba, nasce a Firenze il 19 marzo 1860, pochi giorni dopo il plebiscito che decretò con il suffragio universale maschile l’annessione della Toscana al Regno di Sardegna. Cresce in una famiglia censita come benestante impregnato dalle aspirazioni e dalle idee del Risorgimento nazionale. Abbraccia gli ideali mazziniani e la fede repubblicana che lo porteranno, dopo una breve esperienza impiegatizia alle Ferrovie adriatiche del finanziere toscano Piero Bastogi, a intraprendere la strada di giornalista politico, osservatore attento e critico della vita nella capitale romana dove si era trasferito. La politica italiana, nel frattempo, era passata in mano ai governi della sinistra dopo che la destra storica di Minghetti era andata in crisi nella seconda metà degli anni ’70 proprio sul controllo statale delle Ferrovie e per l’abbandono  di alcuni suoi deputati tra i quali Ubaldino Peruzzi.  Agostino Depretis, mazziniano e anticlericale,  fu il principale interprete della sinistra fino a tutti gli anni ’80: quattro volte Presidente del Consiglio, insieme all’eliminazione dell’odiata tassa sul macinato e a importanti riforme sociali, per dar maggiore forza al governo, diede inizio alla politica del ‘trasformismo’ che accettava l’appoggio degli avversari. Bertelli, in questi accordi tra gli opposti schieramenti politici, vedeva gli interessi velati, l’arrivismo personale, la moltiplicazione delle spese dello stato e si diede a evidenziarli con l’ironia, con il disegno caricaturale, cercando sempre una relazione con la realtà dei fatti.
Il nostro scrittore scelse dunque di essere un’anima critica esterna al potere, sempre pronto a evidenziarne le debolezze con ironia e sagacia come un antico giullare. Assunse perciò il nome di Vamba clonandolo dal Wamba, giullare della corte di Cedric, deus ex machina di Ivanhoe  romanzo di Walter Scott. Produsse scritti satirici, disegni e caricature che trovarono accoglienza in «Capitan Fracassa», 1884-1887, «Barbabianca», 1887, «Don Chisciotte», 1887-1899, «Il pupazzetto», 1886-1890 del quale scrisse e disegnò interi numeri.  Rientrò a Firenze per dirigere il «Corriere italiano» nel 1889 ma non riuscì ad ottenere l’autonomia e indipendenza  desiderata. Fondò e diresse «L’O di Giotto» un settimanale spigliato, di facile lettura, aperto al teatro e alle arti che fustigava ironicamente negli scritti e nei disegni i vizi civili dei personaggi politici, le spese militari eccessive, l’adesione alla Triplice alleanza, il pareggio di bilancio elevato a idolo supremo dell’azione governativa .

Il fervore delle idee radicali repubblicane non abbandona Bertelli che inizia a provare anche nuove vie. Molti aderenti al movimento risorgimentale che non avevano visto concretizzarsi gran parte delle loro aspirazioni ideali nella nuova nazione, si erano dedicati all’educazione del popolo: il fiorentino Pietro Dazzi, accademico della Crusca, diede vita alle Scuole del popolo; Carlo Lorenzini,  il famoso Collodi, fondatore e direttore di uno dei maggiori giornali umoristici della metà dell’Ottocento «Il lampione», volontario combattente nelle guerre d’Indipendenza,  si dedicò all’educazione dei giovani con Giannettino, Minuzzolo e le Avventure di un burattino che fecero assurgere Pinocchio a emblema della presa di coscienza di sé nel processo di crescita. Il torinese Edmondo De Amicis pubblicò Cuore nel 1886 che divenne la summa etico morale degli ideali risorgimentali laici. Senza dimenticare Ida Baccini con il grandissimo successo del suo Memorie di un pulcino, 1875, che utilizza l’antromoporfismo per affascinare i giovani lettori. Bertelli pubblica nel 1896 il suo primo libro di lettura per ‘giovanetti’: Ciondolino, storia di una ragazzo insofferente alle regole che aspira alla libertà del mondo animale e in particolar modo delle formiche, ma viene trasformato in una formichina e scopre le regole, il lavoro, l’organizzazione del formicaio e della sua ‘società’. Un processo di apprendimento fondamentale per la crescita e per la partecipazione cosciente alla vita.  L’autore non si limita al solo messaggio etico ma coglie l’occasione per iniziare una vera e propria divulgazione scientifica entomologica.

Il polemista ironico Bertelli-Vamba, sempre più disilluso dalla politica praticata nelle istituzioni e dal qualunquismo degli adulti, concentra ora le sue capacità nel messaggio educativo verso il mondo giovanile ideando, nel 1906 con l’editore Bemporad, un nuovo settimanale, «Il giornalino della domenica». Leggero, illustrato con disegni di qualità e foto, ricco di rubriche con interventi di scrittori affermati e di giovani intellettuali dal carattere spigliato, si propone di creare una comunità giovanile con organi associativi, tematici e decisionali per preparare alla vita adulta. I giovani vengono invitati a diventare attori della propria esistenza e a produrre un notiziario, «Il passerotto», per provare a esprimere opinioni e idee.  «Il giornalino della domenica» ha una confezione elegante a colori e un costo elevato (25 centesimi contro i 10 del «Corriere dei ragazzi») e si rivolge alle famiglie del ceto medio coinvolgendole non solo nell’acquisto della pubblicazione, ma nel messaggio pedagogico che si vuol trasmettere contro le ‘finzioni’ del mondo adulto.  In questo ambito Bertelli-Vamba viene a conoscenza di un racconto americano A Bad Boy’s Diary pubblicato dalla scrittrice progressista Metta Victoria Fuller sotto lo pseudonimo di Walter T. Gray e tradotto da Ester Modigliani con il titolo Memorie di un ragazzaccio. Bertelli-Vamba ne riprende la forma di diario e nasce Giannino Stoppani: dà una continuità temporale agli episodi che vedono questo ragazzino protagonista nel dissacrare l’ordine fasullo e formale degli adulti e affermare, scherzando, irriverenti verità non sempre accettabili. È un successo, Il giornalino di  Gian Burrasca esce a puntate su «Il giornalino della domenica» e poi in volume sempre da Bemporad nel 1912, la prima di centinaia di edizioni. Mentre il governo elimina gli ultimi ostacoli, di censo e istruzione, al voto universale maschile e nazionalizza le ferrovie aprendo a riforme sociali, Bertelli-Vamba fonda la sua repubblica tra i lettori de «Il giornalino della domenica» per liberare le energie della gioventù avvalendosi di numerosi intellettuali che condividono il suo intento. Tra questi ricordiamo: I. Baccini, P. Calamandrei, L. Capuana, E. De Amicis, G. Deledda, R. Fucini, D. Garoglio, P. Mantegazza,  U. Ojetti, G. Pascoli, D. Provenzal. Aveva parlato a tutti i giovani italiani, anche a quelli delle terre ancora nell’Impero austriaco, creando un legame personale e una immedesimazione nell’irredentismo.  Se il successo culturale del «Il giornalino della domenica» è indubbio, le vendite non sono sufficienti a sostenerlo e nel 1911 è costretto a chiudere. Bertelli continua l’attività scrivendo un libro scolastico per le scuole elementari, Il giardino, e articoli polemici anti-imperiali e di rivendicazione antiaustriaci nel clima sempre più aspro dell’interventismo e della prima guerra mondiale.

Nel dopoguerra è affascinato dall’esperienza fiumana di D’Annunzio e dalla costituenda Repubblica del Carnaro che mescola patriottismo, eroismo, volontarismo e aspirazioni sociali e di democrazia. Vi trascorre alcuni mesi alla fine del 1919. L’Italia usciva dalla guerra fortemente indebitata e Bertelli-Vamba volle impegnarsi per il successo del Prestito nazionale, il primo per la ricostruzione e la vita, dopo i tanti investimenti governativi per la guerra e la morte. Girando il paese per propagandare il Prestito, nel 1920 contrasse l’influenza spagnola, l’epidemia  che proprio cent’anni fa stava falcidiando le popolazioni di tutto il mondo, e morì a 60 anni a Firenze il 27 novembre 1920.

Fu sepolto al cimitero delle Porte Sante e il monumento funebre venne commissionato allo scultore Libero Andreotti.  I necrologi e i ricordi furono numerosi e retorici:  vogliamo citare tra i tanti un brano di Piero Calamandrei, già giovane autore del  «Giornalino della domenica», su un numero unico del Comitato delle città redente: “… L’insegnamento di Vamba si compendia in due concetti: Patria e Umanità. Il suo programma, schiettamente mazziniano, non si fermava alla Patria: come l’amor della famiglia fu per lui il punto di partenza per ascendere a un più ampio senso di solidarietà nazionale, così dall’idea di Patria egli trasse l’ispirazione per assurgere all’idea di una Umanità pacificata nella fratellanza di tutti i popoli liberi. …




La nascita della Democrazia Cristiana a Siena

La liberazione della città del Palio, come era logico, vide l’immediato riaffiorare dalla clandestinità dei partiti democratici. Già il tre di luglio 1944 (giorno in cui terminò l’occupazione tedesca), in via dei Fusari, si tenne la prima assemblea cittadina della Democrazia cristiana presieduta da Giovanni Cresti, Cesare Viviani, Alberto Radicchi e Antonio Guasparri, nonché dal domenicano Giacinto D’Urso.

Il movimento affondava le proprie radici nel Partito popolare, ma soprattutto nell’Azione cattolica, guardando, all’interno di quest’ultima, con simpatia verso coloro che provenivano dalle file dell’antifascismo[1] come lo stesso Giovanni Cresti, membro del CLN, o Martino Bardotti, un militare che aveva preferito restare in un campo di prigionia tedesco anziché aderire alla Repubblica sociale[2].

Le sfide che si presentarono al nuovo partito, una volta che il conflitto ebbe termine su tutto il territorio nazionale e che iniziò a profilarsi lo spettro della Guerra fredda, furono numerose e tra queste, nell’area senese, ebbero un gran peso l’organizzazione e la costruzione del consenso, la definizione della natura sociale del movimento, il rapporto nei confronti della forza politica che appariva il nuovo nemico, ossia il Partito comunista e, ultima ma non priva di spine, l’autonomia dalla gerarchia cattolica, gerarchia che era ben decisa a giocare un ruolo fondamentale nella DC e di fatto, almeno per i primi anni, lo fece. Furono proprio i vescovi del territorio, con il metropolita Mario Toccabelli in testa, a prendere l’iniziativa intensificando le manifestazioni religiose e conferendo, in molti casi, a queste ultime una connotazione politica più o meno evidente come nel caso della commemorazione, celebrata nel 1945, dell’offerta delle chiavi della città alla Madonna del voto per scongiurare lutti e rovine avvenuta l’anno precedente poco prima della liberazione (il 18 giugno 1944), o l’istituzione della giornata dei cattolici militanti nell’ambito della festa patronale di Sant’Ansano del 1945.

Dal canto loro i laici, costretti a fare perno sulle strutture delle parrocchie e dell’Azione cattolica, tentarono di rafforzare la loro presenza, soprattutto a partire dalla primavera-estate 1945, creando, in città e sul territorio, le prime Acli, per far breccia nel mondo del lavoro, e i centri italiani femminili, destinati a innestarsi sulle forme di filantropismo femminile già presenti in città e a operare in campo assistenziale nei confronti dei minori nonché della promozione del lavoro casalingo delle donne[3]. Gli interventi furono particolarmente intensi all’interno delle mura del capoluogo dove si tenne una vivace attività culturale organizzando lezioni su temi particolarmente attuali come ‘monarchia e repubblica’, ‘i sistemi elettorali’, ‘lo Stato e i comuni’, ‘cos’è il comunismo’, ‘perché il fascismo aveva vinto’ e si provvide, già nel primo semestre del ’45, a mettere in piedi un corso di preparazione politica per i giovani della provincia[4] mentre nel settembre successivo vide la luce il primo settimanale democristiano della provincia di Siena, ossia “Popolo e liberà”, che tuttavia ebbe un’esistenza breve e travagliata cessando le pubblicazioni nell’agosto del 1948[5].

La prima verifica sul campo a cui dovette sottoporsi la giovane DC senese furono le elezioni amministrative del 1946.

Elezioni amministrative del 24 marzo 1946

Elezioni amministrative del 24 marzo 1946per il comune di Siena[6]
Votanti 34.766
Voti validi 29.078
Partito Voti Percentuale Seggi in c.c.
PCI-PSI 14.867 51,1% 21
DC 7.849 26,9% 11
Balzana 3.977 13,6% 6
PRI 1.899 6,5% 2
PdA 466 1,6% 0

Come si può osservare dalla tabella proposta, i risultati del nuovo partito, nel capoluogo, furono tutt’altro che disprezzabili in quanto la Democrazia cristiana ebbe quasi il 27% dei consensi divenendo la seconda forza cittadina alle spalle del Partito comunista, ma non solo. Il nuovo sindaco, Ilio Bocci, probabilmente per stemperare le polemiche nate nelle zone rurali dove i democristiani, talvolta, erano visti con un certo sospetto, chiese ai cattolici di entrare nella giunta e costoro, dopo una certa esitazione, decisero di accettare ottenendo tre assessorati che vennero ricoperti da Vittoria Adami Piccolomini Clementini, Arturo Viviani e Adolfo Agostini[7].

A decretare il positivo risultato per la DC cittadina era stato, prevalentemente, il voto degli impiegati pubblici, delle casalinghe, dei commercianti, degli artigiani e degli studenti medi superiori[8]. Al lusinghiero risultato del capoluogo faceva da contraltare il netto insuccesso patito nel resto del territorio dove in ben 34 comuni le sinistre avevano riportato delle affermazioni piuttosto nette lasciando al predominio cattolico la sola Gaiole in Chianti. Le ragioni di questo insuccesso furono molteplici. In primo luogo aveva giocato a favore del Partito comunista italiano l’indiscusso prestigio acquisito nell’ambito della guerra di liberazione che si era combattuta sul territorio, il nuovo clima creatosi con la guerra fredda, nonché una linea politica chiara per quanto riguardava la mezzadria. Dal canto loro i cattolici, arroccati sul tema dell’anticomunismo, non avevano saputo organizzare una strategia convincente per dare una risposta ai problemi dei contadini che, numericamente, costituivano buona parte degli abitanti delle zone rurali. Il solito Toccabelli, in una lettera al vescovo di Montalcino di qualche anno dopo, sintetizzava il nocciolo della questione affermando che “Una delle difficoltà ad avvicinare il mondo operaio da parte del clero è l’accusa che il clero è dalla parte dei padroni. Parte è pregiudizio e parte è dolorosa realtà.” In effetti all’interno della DC erano confluiti anche numerosi proprietari terrieri che, in contrasto con i compagni di partito ex antifascisti e con i cattolici sociali, erano ostili all’idea della riforma agraria, ma anche poco inclini a finanziare sul territorio l’apertura dei nascenti centri di aggregazione cattolici (all’ombra dei quali nascevano le sezioni della DC) che i parroci più intraprendenti stavano aprendo[9] per dare una risposta efficace all’associazionismo di sinistra.

Nonostante l’aspro dibattito interno legato al tema della mezzadria, il partito dovette ben presto organizzarsi per il secondo banco di prova di quell’anno, ossia le elezioni del 2 giugno 1946.

L’organizzazione per il delicato appuntamento iniziò a partire con il congresso provinciale che si tenne a Siena il 3 aprile dello stesso anno (presieduto da Amintore Fanfani, mentre il segretario provinciale era Aldo Buonomini); l’incontro era in funzione propedeutica ai lavori del primo congresso nazionale che si sarebbe tenuto a Roma dal 24 al 28 aprile successivi[10], tuttavia si decisero anche le strategie da mettere in campo sul territorio. L’orientamento della DC senese, per quanto riguarda il referendum, fu favorevole alla repubblica, ma il tema maggiormente dibattuto fu quello legato all’elezione dell’Assemblea costituente. Per quest’ultima venne fatta una campagna elettorale serrata che, come di consueto, vide il massiccio intervento della gerarchia ecclesiastica con la proclamazione per il 19 maggio 1946, da parte di Toccabelli, della giornata di preghiera per la Costituente ma non solo: si ribadì a chiare lettere, e in modo martellante, che il comunismo era inconciliabile con il cattolicesimo[11].

La macchina organizzativa democristiana, almeno per quanto riguarda la città, vide premiati i propri sforzi poiché per soli 43 voti non strappò la leadership di primo partito al PCI[12].

Elezioni 2 giugno 1946 per l’Assemblea Costituente

Elezioni 2 giugno 1946 per l’Assemblea CostituenteComune di Siena[13]
Elettori   36.709
Votanti   34.092
Partito Voti Percentuale
PCI 9.839 29,96%
DC 9.796 29,83%
PSIUP 5.456 16,62%
FR.UOMO QUALUNQUE 3.379 10,29%
PRI 1.992 6,07%
DEMOC. NAZIONALE 1.181 3,60%
PARTITO D’AZIONE 439 1,34%
BLOCCO NAZ.LIBERTA’ 409 1,25%
PARTITO CRISTIANO SOCIALE 344 1,05%

Il sorpasso era tuttavia soltanto rimandato poiché, pur continuando a perdere negli altri comuni della provincia nonostante un certo rafforzamento, alle politiche del 18 aprile 1948, la DC divenne il primo partito a Siena con 15.902 consensi contro i 14.420 del fronte delle sinistre nonostante i sempre maggiori dissidi interni e l’inevitabile corsa ai posti di potere[14].

Note:

[1] Balocchi Enzo, Un democristiano senese, pp. 162-168, in La nascita della democrazia nel senese dalla liberazione agli anni ’50, Atti del convegno, Colle Val d’Elsa, 9-10 febbraio 1996, a cura di Alessandro Orlandini, Firenze, ed. regione Toscana, 1997, pp.162-165.
[2] Per questa ragione, Martino Bardotti non poté partecipare alla vita politica senese fino alla seconda metà del 1945. Per quanto riguarda la sua esperienza in prigionia si veda Diario di prigionia del sottotenente Martino Bardotti. Internato militare settembre 1943 – dicembre 1944, a cura di M. Borgogni e A. Vannini, Siena, Cantagalli, 2007.
[3] Mirizio Achille, La minoranza inquieta e silenziosa: DC e mondo cattolico nella provincia di Siena 1945-1955, in La nascita della democrazia …, cit., p.138.
[4] Balocchi Enzo, Un democristiano senese …, cit., p.166 e ss.
[5] Mirizio Achille, La minoranza inquieta e silenziosa …, cit., p.158
[6] Sindaci e consigli comunali nel territorio senese del Secondo dopoguerra. Banca dati a cura di Michelangelo Borri, https://www.istitutostoricosiena.it/admin/DOC/Banca%20Dati%20Sindaci%201946.xlsx, visitato il 17 settembre 2020.
[7] Ivi.
[8] Balocchi Enzo, Un democristiano senese …, cit., pp.163-165.
[9] Mirizio Achille, La minoranza inquieta e silenziosa …, cit., p.145.
[10] Democrazia Cristiana (DC) – 1946-1994, in http://www.dellarepubblica.it/congressi-dc, visitato il 18 settembre 2020.
[11] Mirizio Achille, La minoranza inquieta e silenziosa …, cit., pp.145-146.
[12] Nella circoscrizione Arezzo-Siena-Grosseto, i costituenti eletti furono otto; quattro comunisti, due socialisti e due democristiani: Amintore Fanfani e l’avvocato senese Francesco Ponticelli, il quale tuttavia, nel settembre dello stesso anno fu costretto alle dimissioni per motivi di salute lasciando il seggio a Reginaldo Monticelli.
[13]Assemblea costituente 02/06/1946, area ITALIA, circoscrizione SIENA-AREZZO-GROSSETO, Provincia SIENA, https://elezionistorico.interno.gov.it/index.php?tpel=A&dtel=02/06/1946&tpa=I&tpe=P&lev0=0&levsut0=0&lev1=17&levsut1=1&lev2=75&levsut2=2&ne1=17&ne2=75&es0=S&es1=S&es2=S&ms=S, visitato il 17 settembre 2020.
[14] Mirizio Achille, La minoranza inquieta e silenziosa …, cit., pp.142-144.