ROSARIA BERTOLUCCI, romana di nascita versiliese d’adozione

Rosaria Ciampella nasce a Roma il 23 aprile 1927 da una famiglia borghese, riceve una formazione culturale essenzialmente umanistica dalla quale trae l’amore per la letteratura e la storia.

Di fronte alla drammaticità della guerra, al disastro italiano e allo shock del primo grande bombardamento di Roma, il 16 luglio 1943, che causò oltre tremila morti e undicimila feriti, la giovane Rosaria matura la propria scelta di vita, iscrivendosi al Partito socialista – anche se poi non militerà mai attivamente nell’organizzazione –[1]. All’ideale del socialismo è sempre rimasta fedele seppur negli anni della maturità si sia avvicinata anche alla cultura libertaria.

Nel novembre del 1944 supera, con un buon risultato, il concorso di ammissione alla Facoltà di Magistero di Roma per il corso in materie letterarie ma, la precarietà della situazione generale dovuta alla guerra che condiziona la vita della sua famiglia e il successivo precoce matrimonio, la costringeranno con rammarico ad abbandonare gli studi universitari.

Dunque, originaria di Roma ma ‒ come amava definirsi ‒ versiliese d’adozione, in questa terra approda nel 1946 quando si sposa con un giovane di Pietrasanta. Durante questi anni non abbandona la propria voglia di scrivere e di leggere; ne sono testimonianza alcune lettere a direttori di periodici e riviste a cui invia i propri lavori, tra questi lo scrittore Corrado Alvaro che esprime il proprio apprezzamento per la sua scrittura[2].

Nel 1969 approda a Carrara dove gestisce una libreria e dove inizia un’intensa attività culturale e giornalistica. In questi anni conosce e frequenta assiduamente molti esponenti della cultura e dell’arte di Carrara, della Versilia e non solo come il fotografo Ilario Bessi, lo scultore Carlo Sergio Signori, il pittore Mino Maccari, la pianista Pina Telara e lo scrittore Carlo Cassola[3].

Nel 1978 arriva il riconoscimento più importante, è il primo premio assoluto per la narrativa al Morganti di Viareggio per il suo lavoro su Enrico Pea[4], precedentemente il saggio era stato selezionato nella sezione saggistica opera prima al Premio Viareggio, all’epoca ancora diretto da Leonida Repaci[5].

Sibilla_Aleramo_006In pochi anni – dal 1978 al 1983 – pubblicherà cinque monografie di storia della letteratura, oltre a quella su Pea, un saggio su Tomasi di Lampedusa[6], un altro su Cardarelli[7], quello sullo pittore/scrittore viareggino Lorenzo Viani che riceverà poi il premio Montecatini (VII edizione)[8] e, infine, uno studio su Sibilla Aleramo[9].

Di quest’ultima opera si evidenzia, in una recensione pubblicata dalla redazione viareggina de «La Nazione», che la scrittrice “versiliese” ha voluto scegliere «una particolare angolazione» per analizzare l’opera della Aleramo indagando non solo l’aspetto intellettuale ma anche la «donna» e con uno stile asciutto e semplice ha stilato «un profilo squisitamente femminile, al tempo stesso immerso nei problemi contemporanei»[10]. Il testo è aperto da una  presentazione di Carlo Cassola che aveva letto e apprezzato il lavoro in bozze nella primavera/estate del 1980.

Questi saggi rappresentano il principale corpus di critica letteraria di Rosaria Bertolucci, scritti con una lingua ricca e fluida, alimentata da una tensione interna sì che molte sono le pagine in cui la prosa si rivela, a volte, autentica poesia, corredati da un’accurata documentazione, testimonianza tangibile dell’attenzione alla narrativa contemporanea.

In particolare il saggio dedicato a Viani scrittore riesce a ricostruire e reintegrare da un punto di vista storico tutto l’arco dell’esperienza umana del pittore viareggino, narratore e poeta di personaggi della cultura sotterranea e dei senza volto della Versilia.

Il libro verrà presentato alla biblioteca comunale Lorenzo Quartieri di Forte dei Marmi il 17 maggio 1980. Nell’occasione interverrà Vittorio Vettori, poeta, scrittore, critico letterario e dantista[11], che avrà parole di elogio, sottolineando come l’opera critica sullo scrittore Viani della Bertolucci è

un omaggio intelligente e affettuoso alla terra versiliese e all’estroso ed energico genius loci da cui essa è abitata. Chi infatti è più vicino di Viani a tale estro e a tale energia? E anzi si potrebbe dire che il vero genius loci della Versilia sia lui, Lorenzo Viani in persona, così come ci viene incontro dal mirabile monumento viareggino di Arturo Martini, così come – sopra tutto – possiamo sempre ritrovarlo e riscoprirlo nella drammatica galleria delle sue incisioni e delle sue tele non meno che nelle appassionate e appassionanti testimonianze della sua geniale presenza di singolarissimo outsider del Novecento letterario italiano. Rosaria Bertolucci si è accostata appunto al Viani scrittore, rinvenendone fin dal principio il tratto distintivo fondamentale: il colorismo espressionistico e quindi non descrittivo, ma tragico della «parola».
«Parola come colore», la formula critica adoperata dalla Bertolucci nel sottotitolo del suo libro, risulta felicemente indicativa e calzante, se la si intende, com’è ovvio, in rapporto alla speciale figuratività dell’arte di Viani pittore e incisore, in rapporto alla luce cruda e tagliente che si raggruma e si fa colorata espressione (o espressivo colore) in quell’arte[12].

Ma torniamo a Pea: il libro che esce a maggio del 1978[13], è forse quello più amato dalla Bertolucci non solo perché è il primo ma perché le permette di introdursi in punta di piedi nei salotti culturali versiliesi. È presumibile che l’idea del libro sullo scrittore versiliese sia nata qualche anno prima, grazie all’incontro con l’insegnante Emilio Paoli, un testimone attento dell’ultimo periodo di vita di Pea, suo estimatore e critico, autore di un prezioso volume sulla sua poetica[14].

Il volume viene presentato il 15 luglio a Forte dei Marmi, proprio al Quarto platano al caffè Roma di Piazza Garibaldi, luogo simbolo, cenacolo di artisti e scrittori della prima metà del Novecento[15]. Alla presentazione partecipano i figli di Pea, lo scrittore Rodolfo Doni[16], il professore Giovanni Scarabelli, Roberto Monciatti – presidente dell’ACREL di Viareggio – e i titolari della Libreria Internazionale che sono fra gli organizzatori[17].

Pea_Enrico_004L’interesse e gli studi su Pea fanno sì che la Bertolucci incontri l’editore Marco Carpena di Sarzana[18]. Quest’ultimo è stato fondatore tra il 1952 e il 1954, insieme con Renato Righetti e Giovanni Petronilli del premio Lerici, dedicato alla poesia inedita, ai quali si aggiunge poco dopo anche Enrico Pea. Nel 1958, alla morte dello scrittore versiliese e in suo ricordo, l’appuntamento letterario diventerà premio Lerici-Pea.

Dall’incontro con Carpena nascono due progetti editoriali nei quali la Bertolucci è coinvolta pienamente.

Il primo è un instant-book che prende vita proprio sull’onda dell’anniversario della scomparsa dello scrittore versiliese, Pea vent’anni dopo[19], che esce per i tipi di Carpena nel settembre del 1978 e che contiene ben sei interventi della Bertolucci che cura senza firmarla anche la bibliografia finale del volume[20].

Il secondo è collegato alle giornate di studio che si terranno a Viareggio nel mese di aprile del 1980[21]. Nell’occasione si svolge un’importante tavola rotonda cui partecipano oltre alla Bertolucci, i docenti dell’Università di Pisa, Carlo Quiriconi e Anna Barsotti, insieme a Silvio Guarnieri, autorevole critico letterario e titolare sempre presso l’ateneo pisano della cattedra di Storia della Letteratura italiana. Gli atti di quella tavola rotonda verranno editi da Carpena e ancora oggi sono un utile riferimento bibliografico per la conoscenza dello scrittore versiliese[22].

Nel 1979 esce Il principe dimenticato recensito positivamente dallo studioso Emilio Paoli nelle pagine del «La Nazione». L’opera della Bertolucci è considerata «uno studio serio e sereno su tutta l’opera di Giuseppe Tomasi di Lampedusa» e propone «una rilettura» a tutto tondo dello scrittore siciliano rompendo il silenzio della critica a vent’anni dalla prima edizione del Gattopardo[23].

Anche lo studio su Vincenzo Cardarelli, che riceverà il 1° premio Casentino per la saggistica[24], è dedicato ad un aspetto poco conosciuto del poeta quello di pubblicista, soprattutto legato alla sua collaborazione giovanile al quotidiano socialista l’«Avanti!» dove inizia la propria attività come correttore di bozze. In queste cronache, studiate dalla Bertolucci e, allora, poco analizzate dalla critica, Cardarelli mostrava di essere un acuto osservatore del costume e dell’ambiente romano in un momento cruciale e delicato della storia del Paese e attraversato da mille inquietudini, quello che precedette il primo conflitto mondiale[25].

Parallelamente a queste attività dal 1977 la Bertolucci inizia a collaborare stabilmente con la stampa quotidiana locale, suoi scritti si ritrovano sia nella cronaca versiliese che in quella di Carrara de «La Nazione». La collaborazione a questo quotidiano, che si protrarrà per dodici anni consecutivi, verte essenzialmente su due ambiti: quello sociologico e quello storico/culturale cui dedica una produzione attenta di tipo divulgativo.

Per la Bertolucci capire la storia significava comprendere i rapporti causa-effetto che legavano il presente al passato. Per cogliere i frutti della storia, quindi, era necessario che questa fosse conosciuta il più approfonditamente e dal maggior numero di persone possibili. E per raggiungere questo obiettivo era fondamentale che la storia, oltre ad essere insegnata bene nelle scuole, venisse anche divulgata. È dunque soprattutto in questo senso che va letto il suo lavoro che mira alla divulgazione della storia politica, sociale e culturale del territorio attraverso un fiume prorompente di articoli e saggi sparsi su quotidiani, riviste e pamphlet. La scrittrice opera un’intelligente e originale sintesi dei diversi aspetti che connotano il profilo di una comunità, ricostruendo gli eventi in maniera rigorosa, ma non accademico, utilizzando lo stile, piano e ordinato, accattivante e fluido tipico dei divulgatori.

Negli oltre novecento articoli e scritti vari di quegli anni, ne spiccano un centinaio che – direttamente o indirettamente – trattano della storia sociale, economica, politica e culturale nella città del marmo e del territorio apuo-versiliese, ora in parte raccolti in un volume appena uscito[26]. Non sono banali articoli di cronaca, ma veri e propri saggi di ambito storico che il lettore di allora de «La Nazione» poteva leggere come capitoli di un libro in divenire.

L’azione svolta dalla Bertolucci tramite le pagine del giornale non passò inosservata tanto che due “anziani” militanti dell’anarchismo, come Ugo Mazzucchelli e Umberto Marzocchi, la vollero conoscere e coinvolgere nelle loro attività.

La Bertolucci aveva già iniziato da tempo un approfondito studio sulla storia di Carrara e del suo territorio. Ne sono testimonianza diversi articoli che escono nel 1978, sempre sulle pagine de «La Nazione», dedicati a figure locali e/o nazionali la cui storia si è intersecata con quella della città del marmo come Cesare Vico Lodovici, Giovanni Fantoni, Domenico Cucchiari, Gabriele D’Annunzio, Antonio Stoppani, Lorenzo Viani, Ceccardo Roccatagliata Ceccardi e Pellegrino Rossi.

Va ricordato che in questi anni la Bertolucci è un’assidua frequentatrice dell’Archivio di Stato di Massa e dei principali centri culturali del territorio come le Biblioteche civiche di Carrara e di Massa, l’archivio e la biblioteca dell’Accademia di Belle Arti, quella della Camera di Commercio di Carrara. Conosce e frequenta le raccolte private di alcune famiglie, come quella di Paolo Micheli Pellegrini[27] e di Cesare Vico Lodovici, di cui conosce e frequenta il fratello Renato o quella di esponenti politici come il comunista Antonio Bernieri che, proprio nel 1977, insieme a Lorenzo Gestri aveva fondato l’Istituto di Ricerche e Studi Storici Apuo-Lunense. Infine, conosce e studia materiali preziosi per la storia novecentesca della città, come il diario dattiloscritto, dal 21 giugno 1944 al 22 maggio 1945, di Augusto Ciaranfi, direttore della Banca Commerciale, succursale di Apuania, all’epoca ancora inedito[28].

Una prima prova delle capacità che la Bertolucci ha acquisito nella lettura integrata dei fenomeni sociali, culturali e politici si ha in occasione della pubblicazione di un’inchiesta storica sulla nascita e lo sviluppo della stampa periodica nella provincia che esce a puntate tra l’aprile e il giugno del 1979 nelle pagine di cronaca locale della «Nazione»[29].

Dunque, quando la Bertolucci incontra Mazzucchelli e Marzocchi, i due sanno benissimo chi hanno di fronte e capiscono che un accordo tra i tre è potenzialmente foriero di buone iniziative. Gli anziani militanti, ormai prossimi agli ottant’anni, hanno l’urgente bisogno di trasmettere alle future generazioni non solo la propria storia ma anche quella della loro generazione. Si mettono subito al tavolo di lavoro e l’intesa è ben presto trovata. È presumibile che la prima idea sia proprio quella di un progetto che riguarda un momento essenziale delle memorie dei due militanti: l’esperienza spagnola per Marzocchi e quella resistenziale per Mazzucchelli. Non sarà un caso, come vedremo, l’uscita nel 1988 della biografia di Ugo Mazzucchelli[30] mentre per quella di Marzocchi il progetto, a causa della malattia e poi della morte del protagonista nel giugno del 1986, non vedrà la luce.

Novantaquattro_003La creatività e lo spirito d’iniziativa la portano a travalicare l’accordo e a progettare, una storia romanzata del moti del ’94. Durante tutto il 1980 la Bertolucci lavora intensamente e nell’autunno consegna la bozza ai due militanti, che l’approvano senza esitazione, e nel febbraio del 1981 vede la luce Milleottocentonovantaquattro[31].

Nel volume emerge con forza la vene letteraria dell’autrice che, in una lettera di accompagnamento alla pubblicazione, nel rivendicare che i moti «sono un fenomeno carrarese e non genericamente della Lunigiana», avverte «di non aver scritto un testo di storia né tanto meno un saggio rivolto agli addetti ai lavori», ma di aver voluto semplicemente raccontare in forma prosastica ai più giovani quanto era avvenuto alla fine dell’Ottocento. L’aver scelto la «forma del racconto» non vuole minimamente sminuire il significato e la portata politica, sociale e storica di quei fatti ma tentare di «farli rivivere, intatti ed attuali», come un «frammento di storia locale umanamente vissuto sullo sfondo di un più vasto contesto» nazionale e internazionale[32].

Il libro viene presentato a Carrara il 6 aprile 1981 nella sala comunale con la partecipazione di storici come Lorenzo Gestri[33] e Nunzio Dell’Erba.

Contemporaneamente la Bertolucci ha avviato una ricerca riguardante la storia della ferrovia marmifera che, nonostante ormai fosse chiusa da quasi due decenni, continuava a far discutere la politica locale a causa della pratica di liquidazione dei suoi debiti pregressi, insomma, come in anni più tardi scriverà la scrittrice, tutta la storia di questa impresa rappresentava, con i suoi protagonisti e con le sue vittime, una tipica vicenda all’italiana.

Il saggio è il primo lavoro in assoluto che ricostruisce complessivamente tutta la storia di questa ardita arteria ferroviaria, inaugurata nella seconda metà dell’Ottocento, che collegava i bacini marmiferi con la stazione ferroviaria di Avenza e il porto marittimo di Marina di Carrara. Il lavoro venne pubblicato a puntate sulla rivista «Carrara marmi» del Centro studi del marmo del Comune, tra il 1980 e il 1982[34], poi successivamente è stato ripubblicato dal quotidiano «le Città», anche se in forma ridotta, e poi utilizzato per alcune lezioni tenute dalla Bertolucci  all’Università della Terza Età nel secondo biennio di attività dei corsi, tra il 1989 e l’inizio del 1990.

Dunque, la Bertolucci, è un’attenta e curiosa studiosa di storia locale e non manca di partecipare a ogni evento di ambito storiografico che si svolge in città. Nell’aprile del 1980 assiste al convegno organizzato dall’Istituto di Ricerche e Studi Storici Apuo-Lunense sulla resistenza in Apuania che vede la partecipazione di esponenti di rilievo nazionale tra i quali il senatore Leo Valiani, Leonetto Amadei, presidente della Corte costituzionale, lo storico Franco Catalano e Franco Francocivh, presidente dell’Istituto storico regionale della Resistenza. L’incontro, di cui la Bertolucci darà un puntuale resoconto dalle pagine de «La Nazione»[35], è un ulteriore stimolo allo studio della guerra civile che ha insanguinato il nostro paese prima nel biennio nero del 1921-’22 e poi tra il 1943-’45, e che aveva profondamente segnato la storia della provincia di Massa e Carrara.

L’argomento verrà trattato dalla Bertolucci in più di un’occasione e poi, come detto, troverà una sintesi nella biografia del partigiano anarchico Ugo Mazzucchelli.

In quello stesso anno il regista Luigi Faccini presenta il film Nella città perduta di Sarzana che viene poi proiettato nella sezione Controcampo alla Biennale di Venezia. Il film racconta un episodio drammatico della guerra civile, accaduto a Sarzana il 21 luglio 1921, tra fascisti e antifascisti dove i primi ebbero la peggio. Il film è strutturato sulla dettatura del rapporto da parte del prefetto Vincenzo Trani, incaricato dall’allora Presidente del Consiglio Ivanoe Bonomi, di riportare la pace e l’ordine nella cittadina. Il film, che nell’estate dell’anno successivo verrà trasmesso in due serata anche dalla RAI, fu proiettato in diverse città italiane, tra cui Carrara, suscitando dibattiti e prese di posizione.

Anche la Bertolucci intervenne con un articolo pubblicato dalla «Nazione» in due parti ai primi di settembre. Lo scritto si soffermava in particolare sul ruolo del ras Renato Ricci, ricostruendone anche in parte la biografia. Ad analizzare l’articolo si comprende come la scrittrice tentasse di capire come fosse nata, anche in una città di provincia come Carrara, quella frattura nella società italiana, causata dalla guerra civile proclamata dal fascismo, che avrebbe avuto un seguito non solo nel 1943-’45 ma anche nefaste influenze nella storia repubblicana.

Successivamente si impegna nello studio della Resistenza a Carrara di cui un primo abbozzo viene pubblicato a puntate nella primavera del 1984 in sette puntate da «La Nazione» tra l’aprile e il maggio 1984. La ricerca, costruita sulla documentazione dell’archivio del CLN conservato a Firenze presso l’Istituto Storico Regionale della Resistenza, e su testimonianze dirette di alcuni protagonisti come lo stesso Mazzucchelli, Antonio Bernieri e altri.

Nell’autunno del 1988 esce l’ultima monografia della Bertolucci, quella dedicata proprio a Ugo Mazzucchelli, con la quale si completa il ciclo di studi avviato dieci anni prima sulla genesi dell’antifascismo locale e sull’esperienza resistenziale.

Il libro viene presentato sabato 19 novembre 1988 al Centro culturale Amendola di Avenza, con la partecipazione accanto all’autrice e a Ugo Mazzucchelli, degli storici Enzo Santarelli e Pier Carlo Masini. Per il primo il libro non vuole essere un saggio e nemmeno una semplice biografia e ha la sua ragion d’essere nell’«aria» di Carrara e nella figura particolare di Mazzucchelli, un anarchico ragionante. Mentre, per Masini il libro rappresenta bene lo spirito di questa terra «incline al radicalismo», come altri territori dell’Italia centrale, Umbria, Marche, Romagna e parte dell’Emilia, dove la «spinta verso forme politiche tese alla libertà e alla democrazia» è stata la principale risposta a lunghi anni di governi reazionari e repressivi.

Un’ampia recensione del libro viene pubblicata dal quotidiano «le Città» nel quale si sottolinea forse il pregio maggiore del libro che è quello di essere volutamente «divulgativo, scritto non per storici o per specialisti di storia locale, ma per far conoscere questa figura di uomo a tutti», al di là degli schieramenti precostituiti. Uno strumento utile per comprendere non solo la vita di Mazzucchelli, che l’editorialista definisce «costruttore di storia», ma anche le peculiarità di un movimento, come quello libertario, che ha avuto una storia così complessa e articolata nel territorio apuano. Un libro «dichiaratamente di parte» dove, inevitabilmente, la «Bertolucci subisce il fascino del personaggio» ma con uno stile giornalistico sa renderlo nella sua più piena dimensione umana e politica[36].

L’approccio biografico scelto dalla Bertolucci, per raccontare una pagina importante della storia novecentesca dell’anarchismo a Carrara, si inserisce bene sul piano storiografico in quegli anni nei quali il genere biografico si va affermando nella ricerca storica. Un approccio innovativo che mette al centro delle attenzioni del lettore l’individuo come entità al quale ricongiungere la ricostruzione storiografica. Una narrazione nella quale vengono coniugati oltre agli aspetti prettamente storico-politici anche quelli di natura sociologica, culturale, antropologica e psicologica, un approccio che troverà nei decenni successivi ampia fortuna nella storiografia dedicata al genere biografico. Una questione, quella dell’affermazione del genere della biografia nella storiografia contemporanea, che solleciterà Alceo Riosa, nei primi anni Ottanta, a interrogarsi sulla relazione tra la «crisi dello storicismo» e l’ingresso della biografia nel tempio di Clio:

La perdita della dimensione teologica della storia ha favorito una più larga attenzione verso gli agenti storici, gli uomini, le motivazioni delle loro scelte, non più riportabili allo Spirito del Mondo né più unicamente riferibili alle leggi della struttura economica. L’uomo nella storia certo, ma con una sua autonomia e relativa libertà di scelta[37].

Nel febbraio 1988 la Bertolucci è tra le promotrici dell’Università della Terza età organizzata dalla Comunità montana e dalla Circoscrizione 4 del Comune di Carrara. È titolare del corso di storia locale e, nell’estate del 1988 e in quella successiva, anche di un corso di latino per le prime classi dei licei e dei ginnasi sempre su incarico dell’amministrazione comunale.

Le forze iniziano a mancare: nella primavera del 1989, gli effetti della malattia si fanno più palesi e deve ridurre le sue attività, alla fine dell’anno chiude l’agenzia libraria e sospende le sue collaborazioni alle diverse testate giornalistiche. Ha ancora la forza per portare a termine le lezioni del secondo ciclo dell’Università della Terza Età e completare il suo ultimo libro, quello dedicato al fotografo Ilario Bessi, scomparso tre anni prima, testo che cura, come già accennato, con due dei colleghi giornalisti, Romano Bavastro e Vittorio Prayer, con cui ha condiviso dodici anni di professione e lavoro comune[38].

Una stagione unica e irripetibile crediamo, quella vissuta dalla scrittrice, nella quale la cultura locale trovò una persona sensibile, leale e generosa che ha fatto conoscere ad un ampio pubblico la storia sociale e politica del territorio apuo-versiliese e della città del marmo, una città – e con essa molti dei suoi cittadini –  che la scrittrice ha tanto amato e che l’ha resa felice. Per questo le siamo infinitamente grati e riconoscenti.

Rosaria Ciampella Bertolucci muore all’ospedale civile di Camaiore il 28 ottobre 1990.

Note

[1] Nell’archivio personale della Bertolucci è conservata la tessera n. 261300, anno 1945, della Sezione del rione Trevi di Roma. Nelle carte è conservato anche un biglietto/invito, con data 15 maggio 1945, della sezione ANPI III zona Monte Sacro indirizzato alla “partigiana Rosaria Ciampella” per una conferenza pubblica il 20 maggio del partigiano Riccardo Antonelli, in occasione dell’inaugurazione della Sezione partigiani del Circolo socialista. Quest’ultimo è stato il comandante della III zona, arrestato dai nazi-fascista il 16 maggio 1944 è torturato in via Tasso senza cedere ai suoi aguzzini. Durante gli anni dell’occupazione nazi-fascista di Roma è probabile che Rosaria abbia stretto vincoli sodali di collaborazione, soprattutto in ambito socialista, nella lotta antifascista e questo biglietto ne è una prova ma, per la sua giovane età e per la mancanza di ulteriore documentazione non possiamo stabilire una sua partecipazione diretta alla Resistenza.
[2] Archivio BFS, Carte R. Bertolucci, Corrispondenza, Lettera di C. Alvaro a R. Bertolucci, Roma, 28 agosto 1946.
[3] Carlo Cassola (1917-1987), antifascista, partigiano scrittore e saggista di fama internazionale, quando conosce la Bertolucci è particolarmente impegnato con il progetto della Lega per il disarmo unilaterale e nell’ambito di queste attività conosce e frequenta gli anarchici, in particolare Ugo Mazzucchelli e Umberto Marzocchi.
[4] Premio 1978 «A. Morganti». Resi noti i vincitori, «Il Tirreno» (cronaca di Viareggio), 12 lug. 1978.
[5] Viareggio, seconda rosa, «La Nazione», 2 giu. 1978; I concorrenti al «Viareggio» per l’opera prima, «Il Tempo», 2 giu. 1978.
[6] R. Bertolucci, Il principe dimenticato, Sarzana, Carpena, 1979.
[7] R. Bertolucci, Cardarelli sconosciuto, Firenze, La Ginestra, 1980.
[8] Lorenzo Viani scrittore e Cardarelli pubblicista. Due nuovi libri di Rosaria Bertolucci, «La Nazione» (cronaca di Carrara), 2 aprile 1980. Cfr. A Rosaria Bertolucci il premio Montecatini, «La Nazione» (cronaca di Carrara), 28 novembre 1981.
[9] R. Bertolucci, Sibilla Aleramo, una vita, prefazione di Carlo Cassola, Viareggio-Avenza, Centro studi di letteratura contemporanea-Centro studi sociali e Sea, 1983.
[10] Fr. A., Saggio su Sibilla di Rosaria Bertolucci, «La Nazione» (cronaca di Viareggio), 25 set. 1983.
[11] Vittorio Vettori (1920-2004) originario del casentino ha vissuto tutta la sua vita a Firenze, è stato presidente dell’Accademia Pisana dell’Arte-sodalizio dell’Ussero, segretario generale dell’Associazione «Amici della Rassegna di Cultura e vita scolastica», Membre d’honneur della Société libre de poésie di Parigi e fondatore nonché direttore della «Lectura Dantis Internazionale» di Pisa.
[12] Il testo del suo intervento si può leggere in V. Vettori, Figuratività e scrittura di Lorenzo Viani, «Messaggero Veneto», 18 mag. 1980.
[13] Esce «Pea uomo di Versilia» nel ventennale della morte, «Il Tirreno» (Cronaca della Versilia), 23 mag.1978; Un libro su Pea «uomo di Versilia», «Il Tirreno» (Cronaca della Versilia), 24 mag. 1978.
[14] Cfr. E. Paoli, Pea: la poesia della malizia, Sarzana, Carpena, 1973.
[15] Cfr. R. Pellegrino, Vent’anni fa moriva Pea, oggi solenne commemorazione, «Il Tirreno» (cronaca regionale), 11 agosto 1978.
[16] Rodolfo Doni, nom de plume di Rodolfo Turco (1919-2011), è stato uno scrittore e banchiere considerato uno dei più rappresentativi intellettuali d’ispirazione cattolica del ’900.
[17] Ricordato Enrico Pea nel ventennale della morte, «La Nazione» (cronache della Versilia), 20 lug. 1978. In ricordo di Enrico Pea, «La Nazione» (cronache della Versilia), 14 lug. 1978; Commemorato E. Pea, «Il Tirreno» (Cronaca di Viareggio), 18 lug. 1978; Presentato al Forte il libro «Pea uomo di Versilia», «La Nazione» (cronache della Versilia), 21 lug. 1978. M.B., Incontro su «Pea uomo di Versilia», «L’Ariete», set. 1978, p. 19.
[18] Marco Carpena (1914-1985) è un noto animatore culturale soprattutto nei decenni Cinquanta-Settanta non solo nell’ambito editoriale.
[19] Pea vent’anni dopo, Sarzana, Carpena, 1978. Contiene interventi oltre che della Bertolucci di Emilio Paoli, Marco Carpena, Alfredo Catarsini, Danilo Orlandi, Eugenio Pardini, Giovanni Petronilli e Renato Santini. Si v. a proposito la recensione di A. Caggiano, Pea vent’anni dopo, «Giustizia nuova», 15 dic. 1978.
[20] Si tratta dei saggi: Nella libreria di Franceschi; L’amicizia con Ungheretti; Primo ritorno in patria; La capanna della Bohème; Confidenze in libreria, pp. 27-37; Sintesi biografica, pp. 69-71. La bibliografia delle opere di Pea, l’elenco dei racconti ed articoli per quotidiani e riviste e la rassegna hanno scritto su Enrico Pea, pp. 72-83.
[21] La settimana di studio su Enrico Pea si svolge a Viareggio dal 14 al 20 aprile 1980 con una mostra bio-bibliografica alla Biblioteca comunale, la tavola rotonda il 19 aprile e una rappresentazione del Maggio in Passeggiata di fronte a Piazza Mazzini. Cfr. Viareggio ricorda il «suo» Enrico Pea, «Il Popolo», 13 mag. 1980.
[22] Dedicato a Enrico Pea: settimana di studio, 14-20 aprile 1980, Biblioteca Comunale “Guglielmo Marconi”, Viareggio, curatori: O. De Ambris, M. Simoncini, A. Vannucci; tavola rotonda: A. Barsotti, R. Bertolucci, S. Guarnieri, A. Quiriconi, Sarzana, Carpena, 1980.
[23] E. Paoli, Scrittrice versiliese ripropone Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Il Principe dimenticato, «La Nazione» (cronaca della Versilia), 15 apr. 1979.
[24] A Rosaria Bertolucci il premio «Casentino» di saggistica, «La Nazione» (cronaca di Carrara), 9 ago. 1979.
[25] Rosaria Bertolucci: due preziosi saggi, «La Nazione» (cronaca di Viareggio), 9 apr. 1980.
[26] R. Bertolucci, La città perduta. Storie e ritratti di Carrara e del territorio apuano-versiliese tra ’800 e ’900, Pisa, BFS edizioni, 2020.
[27] Paolo Micheli Pellegrini (1924-2007), discendente di una famiglia aristocratica. persona di grande erudizione, nonché formidabile collezionista di documenti storici è stato nel 1994 tra i fondatori dell’Accademia Aruntica.
[28] Cfr. A. Ciaranfi, Diario della Banca commerciale italiana succursale di Apuania Carrara dal 21 giugno 1944 al 22 maggio 1945, Carrara, Edizione per il comune di Carrara a cura di Acrobat Media ed., 2005.
[29] L’inchiesta venne pubblicata su «La Nazione» (cronaca di Carrara) in cinque puntate.
[30] Cfr. R. Bertolucci, A come anarchia o come Apua: un anarchico a Carrara, Ugo Mazzucchelli, introduzione di P. C. Masini, Carrara, FIAP, 1988, ristampato poi con il titolo Ugo Mazzucchelli un anarchico e Carrara, Carrara, Società editrice apuana, 2005.
[31] R. Bertolucci, Milleottocentonovantaquattro storia di una rivolta, Carrara, Gruppo anarchici riuniti (G.A.R.), 1981.
[32] Cfr. Storia di una rivolta. Edito dai Gar è uscito un interessante saggio di Rosaria Bertolucci sui «moti» del 1894, «La Nazione» (cronaca di Carrara), 11 mar. 1981.
[33] Lorenzo Gestri (1943-2002), docente di storia contemporanea presso l’Università di Pisa è stato un fine e profondo conoscitore della storia sociale e del movimento operaio carrarese e in generale della Toscana Nord-Occidentale.
[34] R. Bertolucci, La Ferrovia marmifera forse una storia (1a parte), «Carrara marmi», mar. 1980, pp. 16-21. 2a parte, mar. 1981, pp. 21-24; 3a parte, mar. 1982, pp. 17-24; 4a parte, giu. 1982, pp. 13-18; 5a parte, set. 1982, pp. 21-23.
[35] R. Bertolucci, Al convegno di studi storici. La Resistenza cominciò nel ’21, «La Nazione» (cronaca di Carrara), 3 aprile 1980.
[36] Ugo Mazzucchelli costruttore di storia. È uscito il libro edito dalla SEA, «le Città», 3 nov. 1988.
[37] Cfr. Biografia e storiografia, a cura di A. Riosa, Milano, F. Angeli, 1983, p. 13.
[38] «Luci di marmo». Omaggio al maestro e alla sua città, «La Nazione» (cronaca di Carrara), 10 dic. 1989.




La Camera sindacale del Lavoro di Livorno

La storia non può cancellarsi davanti agli storici: così ha scritto Marc Bloch. Infatti, anche se per molto tempo è stata pressoché ignorata dalla storiografia locale, dal 1920 al ’22, a Livorno fu attiva una seconda Camera del Lavoro, aderente all’Unione Sindacale Italiana e punto di riferimento operaio nei conflitti tra capitale e lavoro, prima che il fascismo distruggesse, assieme alle sedi del movimento operaio, anche le conquiste dei lavoratori.

Una prima sezione livornese dell’USI si era costituita dopo la fine della Prima guerra mondiale, «in questa città ove il riformismo ha sempre imperato»: lo riferisce un comunicato pubblicato il 15 dicembre 1918 sul giornale dell’USI, «Guerra di Classe», da cui si apprende del rilevante apporto di alcuni ferrovieri e che, ottimisticamente, venivano prenotate 500 tessere per l’anno seguente.

1920 USI LivornoNel gennaio 1919, si giungeva quindi alla ricostituzione del Fascio operaio “Emancipazione e lavoro” – già attivo prima del conflitto, con sede in via dei Cavalieri – che raccoglieva un certo numero di giovani operai, attorno ad alcuni vecchi militanti, che non si riconoscevano nella Camera confederale del Lavoro, rivendicando l’assoluta autonomia della classe lavoratrice da tutti i partiti politici e dai governi. Nel programma pubblicato su «Guerra di Classe» dell’11 gennaio 1919, si rendeva nota la sua adesione all’USI, «l’unica organizzazione nazionale che sia rimasta incorruttibile e fiera sul terreno della più rigida lotta di classe».

Lo sviluppo della realtà sindacalista veniva favorito dall’inasprirsi della situazione economica e sociale post-bellica e della conseguente radicalizzazione delle lotte operaie, tanto che «a malapena trascorreva anche una sola settimana senza scioperi, ostruzionismi, tumulti, cortei, comizi ed altre forme di azione politica di sinistra». In questo clima, tra febbraio e marzo 1919, «un gruppo di animosi» si attivò per la creazione di una Camera del lavoro alternativa e in antitesi a quella, fondata nel 1886, aderente alla Confederazione Generale del Lavoro (CGdL), con sede in via Vittorio Emanuele 24, nei pressi di piazza Colonnella.

Tale Camera confederale era ormai controllata da una maggioranza socialista riformista, ad eccezione della Federazione dei metallurgici (FIOM) a prevalente indirizzo massimalista, con sempre meno spazio d’iniziativa per le minoranze repubblicana e anarchica, e a promuovere questo primo tentativo sindacalista di scissione erano stati alcuni ferrovieri socialisti, lavoratori repubblicani e, soprattutto, operai e scaricatori anarchici, uniti dall’opposizione verso la condotta, ritenuta inadeguata e perdente, della dirigenza riformista.

Peraltro, a Livorno vi era stata una precedente esperienza di sindacalismo conflittuale nel 1904, durante il periodo in cui il noto agitatore sindacalista Alceste De Ambris si era trovato a Livorno con l’incarico di segretario della Federazione nazionale dei Bottigliai. Fu infatti dopo lo sciopero generale del 19 settembre di quell’anno che comparve il combattivo Gruppo di propaganda sindacalista che raccolse un certo numero di sindacalisti rivoluzionari di matrice socialista-soreliana, fautori dell’azione diretta e dello sciopero generale espropriatore.

Tra il 1905 e il 1906, il principale esponente del socialismo riformista livornese, l’on. Giuseppe Emanuele Modigliani, si preoccupò di osteggiare accanitamente «l’infatuazione direttista» all’interno del Partito socialista, riaffermando la centralità della politica parlamentare. De Ambris rispose alle sue argomentazioni, precisando che l’azione sindacale non escludeva quella parlamentare purchè subordinata ad essa, ricordando che «l’emancipazione dei lavoratori deve essere opera dei lavoratori stessi».

Il “sindacalismo puro” nel contesto livornese non aveva però avuto seguito, stretto come era tra la predominanza socialista – sia riformista che massimalista – e la consistente e storica presenza anarchica; anche perché a livello nazionale i sindacalisti rivoluzionari nel 1907 decisero di separarsi dal PSI ma di rimanere nella CGdL.

Infatti, il processo che avrebbe portato all’affermazione dell’USI a Livorno fu possibile soprattutto grazie al consistente apporto degli “anarco-sindacalisti” che, peraltro, fornirono ad essa la quasi totalità dei quadri dirigenti.

Lo scoppio dei moti del caroviveri, nel luglio 1919, che videro l’iniziativa unitaria della Camera del Lavoro, del Partito socialista e dei gruppi anarchici, nonché la susseguente ondata di arresti e denunce, presumibilmente ritardò la costituzione della Camera sindacale; appare comunque significativo che, durante la sommossa popolare, all’Ardenza fu approvata una risoluzione assembleare che ricalcava quella rivendicata dalla forte Camera sindacale di Piombino, Elba e Maremma, aderente all’USI.

Nei mesi seguenti, a Livorno, gli attivisti che facevano riferimento al sindacalismo d’azione diretta – così come la minoranza anarchica all’interno della Camera confederale del Lavoro – ebbero un ruolo decisivo nello sciopero generale indetto per la libertà di Errico Malatesta, arrestato a Tombolo nel febbraio 1920.

Un prima occasione in cui emerse il crescente dissenso nei confronti della linea moderata della Camera confederale del Lavoro fu lo sciopero generale attuato il 6 e il 7 aprile, per protestare contro l’eccidio avvenuto a San Matteo della Decima, frazione di S. Giovanni in Persiceto (Bo), dove le forze dell’ordine avevano ucciso 8 lavoratori ad un comizio indetto dall’USI. In tale frangente, a Livorno, il 6 aprile si erano mobilitati soprattutto anarchici e repubblicani, mentre i dirigenti confederali e socialisti avevano cercato di abbassare la tensione, così come l’on. Modigliani parlando al comizio, mentre l’anarchico Natale Moretti aveva sostenuto lo sciopero generale ad oltranza. L’indomani però la situazione era del tutto sfuggita di mano ai dirigenti riformisti e – come titolò «Il Telegrafo» del 9 aprile – «i socialisti [furono] esautorati dagli anarchici». Una moltitudine di operai e sovversivi, dopo aver fatto irruzione nella Camera del Lavoro ed essersi impadroniti del vessillo di questa, dettero vita ad un corteo non autorizzato che, cantando Bandiera Rossa, giunse sino alla stazione ferroviaria dove fu caricato due volte dalle forze dell’ordine. Erano quindi seguiti scontri da piazza Dante sino a piazza del Cisternone, con un bilancio di alcuni feriti, tra i quali l’anarchico Oreste Gori e Vittorio Colombini, operaio del Catenificio Bassoli.

Ulteriore significativa rottura fu conseguente alla sollevazione cittadina contro la repressione governativa, agli inizi di maggio, quando la direzione della Camera confederale era riuscita – seppure a stento – a far rientrare la sommossa popolare sul piano della protesta civile e contenere l’agitazione anarchica, aprendo così al sindacalismo rivoluzionario nuove possibilità di sviluppo nel contesto sovversivo.

Appare infatti evidente, come osserva Luigi Tommasini, che «i fatti del maggio segnarono una grave frat­tura fra movimento anarchico e Partito socialista, e ebbero ripercussioni evidenti a livello sindacale, dato lo stretto coinvolgimento degli organismi camerali nello svolgimento degli avve­nimenti».

Se la Camera confederale del Lavoro, attraverso il segretario Zaverio Dalberto, stigmatizzò il comportamento dei «facinorosi», da parte loro gli anarchici e i sindacalisti rivoluzionari, subito dopo il Consiglio nazionale dell’USI tenutosi a Firenze, concordarono un’azione comune verso gli aderenti dei «partiti sovversivi» (socialista, repubblicano e anarchico) di serrata critica verso la dirigenza confederale della Camera del Lavoro.

Inoltre, in luglio, in occasione del Congresso della Camera del Lavoro confederale i dirigenti erano stati contestati per la mancata mobilitazione in solidarietà con la rivolta antimilitarista di Ancona del mese precedente. Nel corso della stessa assemblea, rispetto all’annunciata nascita della Camera sindacale, fu approvato all’unanimità un reciso ordine del giorno che riteneva incompatibile l’iscrizione ad entrambe le strutture.

Mentre all’interno della Camera confederale rimaneva un’incalzante minoranza anarchica, il progetto sindacalista portò, come primo passo, alla nascita ufficiale di una sezione livornese dell’USI con alcune decine di lavoratori aderenti. La notizia venne comunicata su «Guerra di Classe» del 17 e del 24 luglio 1920, con il seguente commento: «Era ora! Tutte le ottime illusioni sulla unità proletaria, che molti nostri compagni si facevano, e che in omaggio a queste avevano sempre ostacolato una nostra separazione dai confederalisti, oggi, dopo gli ultimi avvenimenti, sono completamente cadute, e i compagni fiancheggiano con fede ed entusiasmo l’opera nostra».

Nell’ambito dell’intenso lavoro organizzativo intrapreso dalla neonata sezione dell’USI verso alcune categorie (operai, muratori, calzolai, falegnami, lavoranti in crogiuoli…), il 25 luglio, presso le scuole Benci, venne promosso un nuovo partecipato comizio riguardante la vertenza metallurgica – con interventi di Moretti, Attilio Chichizzola e Augusto Consani – che approvò un ordine del giorno a sostegno del contegno dell’USI nei confronti della FIOM «tendente ad una unità d’azione nell’attuale agitazione metallurgica».

Il 27 agosto, mentre nelle fabbriche era in atto l’ostruzionismo operaio, in piazza del Municipio si svolse un comizio sulla vertenza metallurgica con gli interventi di Russardo Capocchi per la FIOM, Sereni per la Camera confederale del Lavoro e Moretti per l’USI, prefigurando la presa di possesso delle industrie.

Gli sviluppi della dura agitazione nazionale dei metallurgici fece però rinviare ancora l’apertura della Camera sindacale a Livorno, vedendo i militanti e dirigenti dell’USI impegnati a partecipare assieme alla FIOM, diretta dal socialista massimalista Capocchi, all’Occupazione delle fabbriche e alla loro difesa.

Dopo che a metà agosto in diverse fabbriche erano stati attuati scioperi bianchi e forme di ostruzionismo, il 2 settembre, alle ore 15, gli operai di undici stabilimenti – ai quali se ne aggiunsero almeno altri cinque – entrarono in sciopero e li occuparono, innalzandovi bandiere sia rosse che nere, e in alcuni di questi, come alla Metallurgica e al Cantiere Navale F.lli Orlando, si continuò a produrre in autogestione.

Se per gli anarco-sindacalisti la pratica autogestionaria, quale forma di lotta prefigurante l’espropriazione dei mezzi di produzione, dimostrava «ai pescicani dell’industria siderurgica e meccanica, che la classe lavoratrice è matura per gestire da sé le fabbriche»; ben diversa era la posizione del Partito socialista, così come risulta da un articolo contro «la gestione diretta delle officine occupate […] nel senso che gli [sic] danno gli anarchici», pubblicato in prima pagina sull’«Avanti!» del 5 settembre e, non casualmente, ripreso l’indomani sul principale quotidiano padronale livornese («Il Telegrafo», 6 settembre 1920).

Al contrario, sin dalla prima settimana, i solidali sindacati dei ferrovieri e dei lavoratori del porto garantirono le forniture di materiali e materie prime alle fabbriche occupate.

Gli stabilimenti furono sgomberati dalle maestranze dopo oltre trenta giorni di resistenza, con risultati inferiori alle aspettative; ma il referendum sul concordato tra FIOM e padronato a Livorno registrò la contrarietà di circa 4.270 operai metalmeccanici, rivendicando il pagamento per intero delle giornate d’occupazione ed esigendo che negli aumenti salariali conquistati non rientrasse l’aumento di L. 2,60 al giorno già ottenuto a maggio, ma anche per la contrarietà all’istituzione della Commissione paritetica che avrebbe dovuto sanzionare presunti atti di indisciplina avvenuti durante l’occupazione.

Il progetto sindacalista riprese quindi impulso, in sintonia con la radicalizzazione dei settori operai più risoluti, dopo l’esito deludente del grande movimento delle occupazioni industriali e il contestato accordo nazionale sottoscritto dalla CGdL. In tal senso, da parte dell’USI livornese, furono intensificati gli incontri con gli operai di alcune fabbriche e le iniziative di propaganda, come il comizio rivolto ai lavoratori dell’edilizia, presso le Case Popolari, tenuto da Eugenio Bini e dal muratore anarchico Filippo Filippetti, referente sindacale del settore edile.

A fine settembre del 1920, in un clima di persistente tensione sociale si giunse quindi all’attivazione della nuova Camera sindacale, che poteva contare, oltre ai lavoratori già aderenti all’USI, su consistenti nuclei operai che, non sentendosi più rappresentati dalla FIOM, stavano aderendo al Sindacato Metallurgico dell’USI.

Nel mese di ottobre del 1920, mentre a Bologna venivano arrestati tutti i componenti del Consiglio generale dell’USI, a Livorno, sulla stampa anarchica locale, si trova riscontro dell’avvenuta apertura della Camera sindacale, con sede in viale Caprera – angolo via delle Lance, nel popolare quartiere “Nuova Venezia”, pur se la prima segnalazione in merito da parte delle autorità di polizia comparve tardivamente, in un rapporto datato 22 novembre.

La Camera sindacale, oltre ad essere luogo di riunione per le diverse categorie, sarebbe stato anche uno spazio di socialità, ospitando anche  feste ed altre iniziative di solidarietà, quasi come una Casa del popolo.

Al 2 dicembre, un’ulteriore nota prefettizia – secondo la quale la Camera sindacale si era costituita nei primi giorni di novembre – indicava in circa 600 gli iscritti, di cui 120 al Cantiere navale Orlando, 100 alla Società Metallurgica Italiana, 100 nelle cooperative sul porto e i restanti suddivisi nelle altre medie e piccole industrie cittadine (Prodotti Chimici, Fabbrica carbone fossile Ruchat, Fabbrica Isolatori, Conduttori Elettrici, Officine meccaniche Vestrini, Oleifici Nazionali, Cementeria, Stabilimento Petrolio, Semoleria…).

Tale rilevazione doveva però essere “arretrata” di qualche mese, oppure limitata al settore industriale, in quanto in un nuovo rapporto, datato 8 dicembre, il prefetto informava il Ministero dell’Interno che l’USI aveva raggiunto i mille iscritti mentre, nello stesso periodo, apparivano in calo quelli alla Camera del lavoro confederale che, pochi mesi prima, aveva dichiarato 15 mila tesserati dei quali circa quattromila della FIOM. Infatti, sull’organo nazionale dell’USI, «Guerra di Classe», del 1° gennaio 1921, veniva riferito che il giornale a Livorno era diffuso settimanalmente in 700 copie e che gli iscritti alla Camera sindacale erano ormai duemila e altre categorie andavano organizzandosi (muratori, ferrovieri, elettricisti, arte bianca, facchini del mercato, calzolai, vestitrici di damigiane, etc.).

La rilevanza numerica del passaggio di iscritti dalla Camera confederale a quella sindacalista è indirettamente confermata dal tono polemico del dirigente della FIOM, Adolfo Minghi, giunto a sostenere, davanti ad un’assemblea di metallurgici, che la Camera sindacale era «dannosa alla classe lavoratrice e di vantaggio alla borghesia», nonché altre accuse che dovette ritrattare. Peraltro, il successo di adesioni alla Camera sindacale livornese appare del tutto in linea con le dinamiche nazionali che vedevano l’USI in rapida crescita con 180.000 iscritti a metà del 1919, 305.000 alla fine dello stesso anno e circa 500.000 nell’autunno del 1920.

Alla Camera del lavoro dell’USI aderivano – riconoscendosi nella sua autonomia classista – lavoratori anarchici di diversa tendenza, senza-partito, repubblicani, socialisti ed anche comunisti, «molti dei quali militavano nella Camera sindacale». Inoltre, la stessa componente comunista della CGdL – legata prima alla frazione “intransigente” di Firenze del Partito socialista e poi al PCdI, con a capo il ferroviere Spartaco Lavagnini – avrebbe optato per privilegiare le intese con i sindacalisti rivoluzionari, in funzione antiriformista, così come avvenne all’inizio del 1921, durante gli scioperi contro i licenziamenti di massa nelle fabbriche livornesi, soprattutto nel settore metalmeccanico, per la “crisi” ritenuta «una bassa manovra egoistica e reazionaria per gettare sul lastrico migliaia di lavoratori».

Su tali posizioni di forte antagonismo, la Camera sindacale si rafforzò, divenendo anche punto di riferimento delle Commissioni interne di fabbrica, mentre lo scontro fra la linea confederale e quella sindacalista si fece sempre più aspro. La Camera del Lavoro della CGdL, infatti, era orientata a contrattare (oggi si direbbe concertare) le modalità di attuazione dei licenziamenti, cercando di mitigarne gli effetti con la richiesta di contributi e sussidi per i disoccupati, nonché suggerendo i criteri – discriminanti per sesso, anzianità e provenienza – con i quali il padronato doveva effettuarli. All’opposto, la Camera del Lavoro sindacale rifiutava recisamente tale contrattazione per regolare i licenziamenti, sostenendo la necessità di una lotta contro quella che riteneva una manovra politica degli industriali per indebolire il movimento operaio e annullarne le recenti conquiste salariali e normative. Su queste posizioni, con impostazione sindacalista rivoluzionaria, lotte importanti furono attuate dagli operai allo Stabilimento Italo Americano Petrolio, alla Società Molini, alla Mattoni Refrattari dell’ing. Mathon, alla Società Conduttori Elettrici e agli Oleifici Nazionali, non senza scontri fisici tra “estremisti” (ossia sindacalisti rivoluzionari, anarchici e comunisti) e confederali.

Nel settembre 1921, durante la vertenza alla Società Metallurgica Italiana contro un taglio salariale del 10%, la Camera sindacale sostenne con forza la lotta degli operai e, durante una partecipata manifestazione, intervenne il dirigente nazionale dell’USI e segretario della Camera sindacale di Sestri Ponente, Antonio Negro, che accusando i riformisti del PSI e della CGdL per i numerosi cedimenti, ricordò come «un anno fa le bandiere rosse sventolavano su tutte le officine: avevamo le armi, eravamo i padroni, e dovevamo restare tali. Ma i dirigenti di allora hanno tradito e bisogna spodestarli, e d’accordo con Lenin occorre fare la rivoluzione». Il 20 ottobre seguente il prefetto ebbe quindi a paventare come «il partito sindacalista, e per esso la Camera del Lavoro sindacale, tende ad impadronirsi del movimento operaio, sostituendosi alla FIOM e qualora vi riuscisse l’ordine pubblico certamente non se ne avvantaggerebbe».

Per contrastare l’ondata di scioperi e insorgenze sociali, oltre al consueto intervento poliziesco (come avvenuto, ad esempio, contro l’occupazione operaia degli Oleifici Nazionali), anche a Livorno il padronato, le gerarchie militari e i settori più reazionari della borghesia locale avevano affidato la «controrivoluzione preventiva» alle squadre fasciste e nazionaliste, per cui la Camera del Lavoro sindacale dovette attivarsi anche su questo fronte, divenendo un punto di riferimento per la difesa proletaria e per l’organizzazione degli Arditi del popolo.

A tragica conferma del ruolo sostenuto dalla Camera sindacale nella battaglia antifascista, vi è la morte sotto il piombo degli squadristi e delle forze dell’ordine di due aderenti all’USI durante l’attacco fascista a Livorno del 2 agosto 1922, costato ben otto vittime. Nella periferia nord, nel corso di uno scontro a fuoco, cadde il già citato Filippetti, ardito del popolo e rappresentante sindacalista per il settore edile; mentre nel quartiere S. Marco rimase ucciso Gisberto (o Gilberto, secondo altre fonti) Catarsi, operaio del Cantiere “Parodi e Del Pino”, facente parte del consiglio direttivo della Camera sindacale e militante del gruppo anarchico “C. Cafiero” di Montenero.

In quelle giornate di reazione, assassinii e distruzioni sistematiche delle sedi sindacali e politiche della sinistra, dopo che la Camera confederale fu devastata una seconda volta, soltanto la Camera sindacale rimase inespugnata, difesa con le armi dai suoi militanti e forte della collocazione nel quartiere sovversivo della “Nuova Venezia”. Imposto lo stato d’assedio alla città, il 10 agosto la Camera sindacale subì una seconda perquisizione, venendo interdetta su ordine dell’autorità militare, dopo essere stata mezza devastata dai carabinieri col pretesto di scovarvi armi ed esplosivi. Per la sua chiusura definitiva i fascisti dovettero però attendere di governare, dopo la Marcia su Roma. Pur senza sede e senza giornale, i sindacalisti dell’Unione ancora in libertà continuarono la propria attività, sempre più illegale, sino al gennaio 1925 quando, a livello nazionale, con un decreto prefettizio l’USI fu formalmente dichiarata fuorilegge, costringendola ad agire all’estero o in clandestinità.

[Il presente testo è un estratto della ricerca: Marco Rossi, L’altra Camera del Lavoro. Livorno 1920 – ’22. L’azione dell’U.S.I. e Augusto Consani, sindacalista rivoluzionario, Gruppo editoriale USI-CIT, Livorno 2020]




Le Stanze della Memoria di Siena si rinnovano

La vecchia caserma della Guardia nazionale repubblicana di Siena, luogo famigerato in quanto sede di reclusione e torture di antifascisti dall’ottobre del 1943 fino alla liberazione, era stato trasformato in percorso museale nel 2007, grazie soprattutto alla volontà di Vittorio Meoni, fondatore e presidente dell’Istituto storico della Resistenza senese e dell’età contemporanea che oggi porta il suo nome.

In questi primi anni di esistenza, la casermetta – appellativo con cui è ancora nota ai senesi – o le Stanze della Memoria se si vuol essere più rigorosi, ha avuto migliaia di presenze, soprattutto da parte dei giovani delle scuole. I visitatori hanno potuto approfondire in questi ambienti le varie tematiche di storia locale, e non solo, come per esempio il lavoro a inizio ‘900, l’istaurazione della dittatura fascista, le leggi razziali, la Shoah, la Seconda guerra mondiale, la Resistenza e la Liberazione; tuttavia la particolare tipologia del percorso museale, posto in una città come Siena – ancorata alle proprie tradizioni ma anche storicamente votata all’accoglienza – ha posto, sin dalla sua apertura, la sfida costante dell’aggiornamento necessario per dialogare con un pubblico multiculturale e multietnico.
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All’esigenza di rinnovamento, recentemente, l’Istituto storico della Resistenza senese e dell’età contemporanea, ente che gestisce le Stanze della Memoria, ha deciso di rispondere su tre piani, ossia la multimedialità, l’allestimento e l’accessibilità da parte di un’utenza che non sempre conosce la lingua italiana; tutto ciò è stato possibile grazie al contributo della Regione Toscana, a una convenzione con il dipartimento di informatica dell’Istituto di istruzione superiore “Tito Sarrocchi” di Siena, a donazioni di oggetti da parte di collezioni private, nonché alla disponibilità di alcuni volontari.

Il primo intervento ha interessato il sito web dell’Istituto Storico della Resistenza senese all’interno del quale, la pagina ‘Stanze della Memoria’ è stata arricchita con un accesso virtuale e aperto a tutti al percorso museale (qui il link) proposto sia in lingua italiana che in inglese. Sempre dal punto di vista multimediale, per i visitatori ‘fisici’ sono state messe a disposizione delle video-audio-guide su tablet che permettono di approfondire i contenuti del percorso con la possibilità di operare delle scelte relative agli argomenti d’interesse.

L’intervento sull’allestimento ha riguardato due aspetti, ossia la cartellonistica e l’oggettistica. Nel primo caso sono stati attinti documenti e immagini dall’archivio dell’Istituto storico per arricchire il percorso iconografico di testimonianze ma anche di dati e di carte geografiche. Per quanto riguarda invece l’oggettistica si è proceduto sia al restauro di alcuni pezzi, ma anche a esporre dei cimeli donati da collezioni private.IMG-20200929-WA0005_resized

La sfida dell’aggiornamento è tuttavia costante. L’obiettivo principale delle Stanze della Memoria che, come tutti i musei del nostro Paese deve combattere quotidianamente con budget limitati e spese di gestione elevate, è quello di allargare ancora il teatro della propria utenza sia in presenza che virtuale. Per fare ciò, l’Istituto storico della Resistenza senese si sta già muovendo per realizzare un percorso virtuale in altre lingue straniere e per incrementare ancora la collezione da proporre all’utenza in modo tale da consolidare ulteriormente la propria presenza tra le istituzioni culturali del territorio.

Il percorso museale delle “Stanze della Memoria” si trova a Siena in via Malavolti 90 ed è aperto al pubblico martedì e giovedì dalle 9:00 alle 13:00 nonché il mercoledì e il venerdì dalle 15:30 alle 18:30.

Per informazioni e contatti: stanzedellamemoria@gmail.com

Articolo pubblicato nell’ottobre 2020.




Ersilio Ambrogi: antifascista o informatore dell’OVRA?

Un quadro: i termini della questione

«Non rischiamo di essere smentiti affermando che il Pnf ha ricevuto l’apporto di gruppi compatti da tutti i partiti politici, eccetto che dal partito comunista»[1]. Nell’aprile 1928, in una serrata difensiva sulle pagine di «Stato operaio», Secondino Tranquilli tentava di scagionare così il presunto cedimento di alcuni militanti comunisti di fronte alle pressioni della polizia fascista. Pur cariche di impegno politico, tuttavia, le parole dell’intellettuale marsicano – poi conosciuto con lo pseudonimo di Ignazio Silone – poggiavano su fondamenta decisamente instabili. Ad oggi, infatti, il graduale accesso alle fonti archivistiche ha mostrato quanto e come – in realtà – le cellule comuniste si fossero rivelate uno dei terreni d’infiltrazione più fertili per il regime[2].

D’altronde, fin dal 1923, il modo in cui il partito si era attrezzato ad una situazione di semilegalità ne aveva fatto il principale obiettivo della Polizia politica guidata da Arturo Bocchini. Già nel 1925 una prima retata aveva assestato forti danni a molte federazioni, permettendo all’Ovra di acquisire preziose informazioni su militanti di base, segretari e dirigenti; operazioni destinate a moltiplicarsi tra il 1926 e il 1927, quando i fascisti riuscirono ad intercettare anche uomini e indicazioni orbitanti attorno al Centro estero del Pcd’I[3]. Come ciò avvenne non è difficile da immaginare: l’ampiezza e la profondità organica della rete clandestina comunista – studiate con accuratezza dalla macchina poliziesca – avevano reso relativamente semplice l’inserimento di agenti segreti, spie e osservatori in borghese, nonché la creazione di canali diretti con alcuni dissidenti dalla linea adottata dall’Internazionale. Se l’individuazione degli emissari del Centro costituiva una priorità assoluta, inoltre, quella disposta nei confronti dei simpatizzanti restava una morsa flebile, avvolta dalla consapevolezza che prima o poi sarebbero serviti da esche per intercettare i militanti più significativi. Una volta arrestati, interrogati e incarcerati, i funzionari si rendevano così conto del labirinto di delazioni entro il quale si erano inconsapevolmente mossi, finendo spesso per subire il peso e le pressioni delle torture e degli interrogatori: non stupisce pertanto che alla fine dell’estate 1927 i comunisti arrestati risultassero «almeno duemila […] e che, in quasi tutti i casi, la loro cattura [fosse] stata assicurata da spie, informatori o agenti provocatori premiati con notevoli somme di denaro dalle varie polizie che [concorrevano] alla caccia al comunista»[4].

Ciò detto, è comunque importante isolare l’arco temporale in cui il fenomeno si consolidò: quello tra il 1927 e il 1932. Di fatto, nel gennaio 1927 l’istituzione del Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato aveva aperto una fase di crescenti tensioni che, pochi mesi dopo, sarebbero sfociate nel cosiddetto «processone» contro i comunisti e nelle conseguenti condanne a dirigenti del calibro di Gramsci, Terracini, Scoccimarro e Roveda. A queste si aggiunsero le difficoltà scaturite dalla rovinosa crisi economica del 1929 e – soprattutto – dalle crescenti tensioni legate all’esistenza di linee antitetiche all’interno del partito, crepe in cui la polizia fascista fu capace di penetrare con efficacia. In questo quadro, la paura, le minacce e le perquisizioni – al pari delle generose offerte di denaro, degli adescamenti e dei presunti favoritismi avanzati dalle forze fasciste – generarono un progressivo stravolgimento degli itinerari esistenziali e dei percorsi ideologici di numerosi militanti: un meccanismo del quale peraltro cadde vittima lo stesso Silone, probabilmente ricattato dopo l’arresto del fratello Romolo e protagonista di una vicenda segnata da risvolti familiari, politici e psicologici mai completamente chiariti[5].

Proprio la vicenda Tranquilli, ad ogni modo, risulta utile per introdurre la figura al centro di questo breve contributo: quella di Ersilio Paolo Giuseppe Ambrogi. In particolare, assieme ad essa sembra configurare un osservatorio privilegiato allo scopo di analizzare in che misura le lotte di fazione finirono con il contraddistinguere lo spionaggio comunista.

La vicenda Ersilio Ambrogi: antifascista o collaborazionista?

SovCome già evidenziato, le divergenze interne all’Internazionale erano ben note alla polizia fascista. Da un lato, ciò consentì all’Ovra di insinuarvisi per accentuarne le contrapposizioni; dall’altro – recuperando le parole di Mimmo Franzinelli – gli scontri toccarono punte talmente accese da «indurre esponenti del partito a denunziare identità e recapiti degli avversari interni, con la giustificazione machiavellica di favorire, insieme alla prevalenza della propria corrente, l’interesse generale del movimento comunista»[6]. Non è certo se furono queste motivazioni, assieme a quelle familiari, a spingere Silone – uscito profondamente amareggiato dalla sua esperienza come delegato al VII Plenum dell’Internazionale, dove aveva assistito all’espulsione di Grigorij Zinov’ev – ad intrecciare la sua fitta corrispondenza con l’ispettor Bellone; è forse più sicuro che lo furono nel caso di Ersilio Ambrogi, nonostante un percorso biografico segnato da ombre (tra cui quella di essere stato, viceversa, una spia stalinista) che attendono ancora di essere chiarite.

Nato a Castagneto Carducci (LI) il 16 marzo 1883, figlio di Antonio e Corinna Belli, Ambrogi crebbe in un ambiente di estrazione borghese. Il padre, medico condotto, gli aveva impartito un’educazione vicina alle posizioni del cattolicesimo liberale. Un’impostazione dalla quale si allontanò molto presto, attratto piuttosto dalle idee anarchiche che Pietro Gori aveva contribuito a diffondere lungo la costa toscana[7]. Recatosi a Pisa per studiare legge, dopo essersi iscritto al Psi prese parte – nel 1904 – ad in gruppo rivoluzionario internazionalista e antimilitarista in cui conobbe future figure di spicco dell’Alleanza Internazionale Antimilitarista quali Alfredo Polledro, Ugo Nanni, Domenico Zavattero e Cesare Maragoni. Sempre nello stesso anno, incaricato di cercare proseliti, si trovò coinvolto nella sparatoria che la polizia di Sestri Levante aprì sulla folla durante un  comizio del socialista Giovanni Pertini. Ne seguì un durissimo sciopero generale indetto dalle organizzazioni sindacali alla cui testa si pose lo stesso Ambrogi, il quale finì arrestato e condannato ad undici mesi di reclusione. Uscito dal carcere, iniziò così una fitta serie di viaggi che lo portarono a maturare contatti con soggetti libertari tra Svizzera, Francia (dove nel 1906 prese parte alle manifestazione indette dalla Confédération générale du travail) e Germania, prima di rientrare al paese natale (1911) e di contribuire – assieme ai braccianti Cesare Morganti e Giacinto Bongini – alla nascita del gruppo anarchico castagnetano “P. Gori”. L’anno successivo, dopo essersi laureato in legge all’Università di Bologna, aprì uno studio di consulenza legale a Milano: allo scoppio del primo conflitto mondiale venne richiamato alle armi, ma, come riportano le informazioni presenti nel suo fascicolo del Casellario Politico Centrale (aperto nel 1905 e chiuso nel 1942), finì più volte incarcerato per propaganda antimilitarista e disfattista. Ormai sempre più distante dall’anarchismo, nel 1919 scelse di rientrare nel Psi. Eletto deputato, esponente di spicco della corrente massimalista del partito, emerse ben presto come una delle personalità più incisive del socialismo tirrenico: una popolarità che, nel 1920, gli valse contemporaneamente l’elezione a sindaco di Cecina (rimasta fino al 1925 sotto la provincia di Pisa) e a presidente dell’Amministrazione provinciale di Pisa.

Tuttavia, fu la scissione di Livorno a segnare definitivamente il suo percorso politico: nel 1921 aderì infatti al Pcd’I, trovandosi da subito protagonista di violenti scontri contro le milizie fasciste. Destituito dall’incarico di primo cittadino per aver «levato dagli uffici del Municipio di Cecina  i ritratti dei Sovrani e la targa della Vittoria»[8], venne arrestato per «omicidio» e «tentato omicidio» nei confronti di alcuni squadristi. Grazie all’elezione come deputato comunista per la circoscrizione Livorno-Pisa-Lucca-Massa riuscì comunque ad eludere la condanna a 21 anni e ad uscire di carcere già nel maggio 1921 (la complessità della vicenda giudiziaria meriterebbe adeguati approfondimenti). In un clima di crescente violenza, ad ogni modo, decise di lasciare l’Italia e di iniziare in Germania un’attività di stretta collaborazione con il Kommunistische Partei Deutschlands. Non solo: nel 1922-1923, assieme ad Antonio Gramsci, venne eletto delegato a Mosca nel Komintern e successivamente nominato emissario dell’Internazionale comunista nell’Europa Occidentale. Fu in questo periodo che, pur in stretti rapporti epistolari con Terracini, Grieco e Togliatti, iniziò ad avvicinarsi sempre più alle posizioni di Amadeo Bordiga; e fu sempre in questa fase, in seguito ai durissimi contrasti emersi in seno al VI Plenum del 1926, che maturò un graduale adesione alle teorie di Lev Trockij. Dopo aver paventato – fallendo – la possibilità di creare anche in Russia un piccolo nucleo in contatto con il Centro estero del Pcd’I (di stanza in Francia e Belgio), si trovò così marginalizzato dal partito, finendo con l’esserne espulso nel 1929[9].

Ciononostante, i suoi rapporti con il Komintern proseguirono. Tornato a Berlino e guardato a vista da quella Gpu di cui aveva fatto parte, vi rimase dal 1930 al 1932. Fu proprio nella capitale tedesca che la polizia fascista, ormai perfettamente a conoscenza – dopo aver decapitato le sfere dirigenziali – di «tutto il meccanismo dell’organizzazione comunista»[10], iniziò a seguirlo più da vicino. Alcuni mesi prima, dettagliate informazioni su di lui erano state rilasciate al ministero dell’Interno dal prefetto di Livorno, Guido Farello, il quale aveva scorto nella linea politica intrapresa da Ambrogi una concreta possibilità di avvicinamento:

L’Ambrogi è uno dei capi del gruppo di sinistra tra gli emigrati politici. In una delle ultime riunioni del gruppo egli ebbe a manifestare la sua contrarietà che i componenti di esso non sanno discutere, accettando ogni relazione ed ogni risoluzione con una disciplina che non ha nulla di intelligente. Ciò non può dare nessuna utilità pratica e se non vi fosse il gruppo sinistro che discute e solleva obiezioni che illustrano e chiarificano le idee e i concetti manifestati da taluni oratori si avrebbero delle riunioni notevoli soltanto per l’apatia generale. Finì testualmente così: “i fatti dimostrano il mio dire, anche in questa riunione il compagno Garlandi ha parlato a lungo e contro la destra. Voi non dite nulla e fate blocco con essa contro di noi, questo dimostra che il gruppo non solo non ha capacità ma neanche serietà”. [11]

Le lettere inviate al padre, intercettate dall’Ovra, avevano rivelato al regime anche un’altra potenziale carta di adescamento: Ambrogi versava in drammatiche condizioni economiche. Nonostante tutto, la polizia scelse comunque di adottare nei suoi confronti la tipica tattica dispiegata nei confronti dei gruppi della «sinistra comunista»: fu infatti lasciato libero di operare tranquillamente, controllato e addirittura agevolato nei suoi spostamenti al fine di trarre profitto dalla opera disgregatrice procrastinata all’interno del partito. Dopo essersi trasferito in Belgio, egli aveva quindi fatto ritorno in Unione Sovietica senza incontrare alcun tipo di ostacolo: tuttavia, i suoi rapporti con Stalin e il temporaneo rientro nel partito bolscevico conobbero una brusca interruzione nel 1935, quando – passato nuovamente all’opposizione e ancora attivo nell’ala vicina a Bordiga – sfuggì alle «purghe» solo grazie all’intervento dall’ambasciata italiana a Mosca. Ripartito nuovamente alla volta di Bruxelles, fu qui che i fascisti tentarono definitivamente l’aggancio.

Il 31 luglio 1936, la Regia ambasciata d’Italia a Bruxelles inviò un telegramma riservatissimo e urgente a Roma. L’oggetto riportava la dicitura di «Ambrogi avv. Ersilio» e il contenuto una chiara sintesi della sua manifestazione d’intenti:

Ho l’onore di informare V. E. che ho potuto avvicinare l’Ambrogi allo scopo di conoscere i di lui intendimenti. Da tale colloqui è risultato che trattasi, come V. E. conosce, di un comunista dissidente, divenuto tale non per aver abbandonato le sue opinioni comuniste, ma per aver avuto campo di osservare da vicino il Governo sovietico all’opera. Egli (sono parole dell’Ambrogi), d’accordo con le diverse opposizioni, ritiene che la propria posizione politica sia insufficiente senza una lotta efficace contro la influenza della III° Internazionale. Ma, in considerazione del fatto che la III° Internazionale si appoggia sopra uno Stato potentissimo, ed avvantaggia la sua influenza dalle varie coalizioni di questo Stato con altri Stati, creando e sfruttando movimenti diretti a favorire e a rafforzare tali coalizioni nello esclusivo interesse del nazionalismo russo (che non sempre coincide con le esigenze del movimento rivoluzionario di cui essa si dice banditrice), ogni movimento di opposizione, ha continuato l’avvocato Ambrogi, limitato ai gruppi proletari dissidenti è a priori votato all’insuccesso ed è quindi necessaria la coordinazione di altre forze di opposizione coincidenti. Inoltre (sono ancora parole dell’Ambrogi) si può constatare la esigenza di tutti i punti di coincidenza anche fra lo Stato fascista e la opposizione comunista nella questione della lotta contro la influenza della III° Internazionale. L’Ambrogi intende in questa lotta mettere a profitto tutta la propria esperienza ove sia possibile un accordo diretto alla coordinazione di forze contro la influenza moscovita. Ma tale accordo sarebbe possibile (anche per ragioni tattiche) solo se non si escludesse a propri quella attività politica che spinge il Sig. Ambrogi alla lotta contro la III° Internazionale. In altri termini, l’Ambrogi teme che le varie frazioni di comunisti attualmente in opposizione con la III° Internazionale siano, a causa della loro debolezza, assorbite nuovamente dal Governo dell’Urss o dalle sue emanazioni; ad evitare ciò l’Ambrogi domanda un’intesa col Governo Fascista e l’appoggio di essa. Circa i termini concreti di tale accordo e delle attività dell’Ambrogi, questi ritiene che non potrebbe altrimenti discutersi che in colloqui che un incaricato del Governo Fascista dovrebbe avere col sig. Ambrogi, probabilmente in un tempo molto prossimo. [12]

Furono questi contatti e la percezione che i comunisti maturarono di essi a spingere Dante Corneli, nel suo ricordo del 1979, a dipingere Ersilio Ambrogi come un «agente staliniano e spia fascista che aveva fornito alla polizia italiana importanti notizie sull’attività clandestina che il partito svolgeva in Italia»[13]. Certo, le due parti in causa cercarono in quei contatti – frequenti tra il 1936 e il 1937 – favori vicendevoli: la polizia mussoliniana indicazioni finalizzate ad intercettare i movimenti dei principali esponenti attivi nella rete clandestina comunista; Ambrogi un appoggio alla sua causa politica, aspetto che il fascismo cercò di promuovere anche attraverso l’offerta di vantaggiose concessioni quali la promessa di una radiazione dal Casellario politico centrale o la cancellazione del suo nome dall’elenco dei «sovversivi attentatori o capaci di atti terroristici»[14]. Eppure, nonostante i contatti, Ambrogi conservò sempre una scaltrezza che – in realtà – gli consentì di non cadere nella trappola dell’Ovra, evitando di trasmutarsi come altri suoi compagni in un fiduciario dei servizi segreti.

Constatata l’impossibilità di incidere sulla linea intrapresa dal Pcd’I e ormai sempre più emarginato, egli decise così di interrompere ogni forma di relazione con la polizia politica. A confermarlo un telegramma rigido e nervoso inviato da Guido Leto, capo della Polizia politica, alla Divisione affari generali e riservati il 15 ottobre 1940:

Si comunica che l’arresto dei connazionali Ambrogi Ersilio e Carrà Renzo è stato provocato – come quello di vari altri sovversivi – da questo Ministero allo scopo di eliminarli dal loro campo di azione all’estero, cosa più che opportuna specie nell’attuale momento. Per quanto riflette il contenuto del rapporto della Gerenza degli Affari Consolari a Bruxelles e, più specificatamente, l’accenno che vien fatto, in tale rapporto, ai contatti avuti dall’Ambrogi Ersilio con la R. Ambasciata a Bruxelles, codesto stesso Ministero sa come ebbero origine e come si risolsero, invero in ben poca cosa, i contatti stessi. È noto che l’Ambrogi, il quale nel 1924 fu condannato dalla Corte di Assise di Livorno in contumacia ad anni 21, mesi 10 e giorni 18 di reclusione per essersi reso moralmente e materialmente responsabile del grave eccidio di Cecina del 1921, nei primi del 1922 riuscì a raggiungere il “paradiso sovietico” ove, accolto con tutti gli “onori”, si mise a servizio della Gpu, dirigendone la sezione italiana. Egli lasciò poi la Russia soltanto per circostanze e contrasti ideologici, ma, come ricorderà codesto Ministero, egli dichiarò esplicitamente, quando noi tentammo approcci e contatti con lui, che “era comunista e rimaneva tale”, rifiutandosi recisamente di relazionarci su cose, uomini e metodi della Gpu. Ragioni di opportunità consigliarono, sul momento, di mantenere ugualmente i contatti con lui per poter trarre almeno qualche profitto della campagna giornalistica che egli si proponeva di svolgere in dipendenza dai contrasti ideologici che gli avevano fatto abbandonare la Russia. Ma, anche da questo lato, l’Ambrogi servì ben poco tanto che fummo costretti a troncare i rapporti iniziati con lui. L’Ambrogi è sempre stato un elemento pericoloso e resta tale, pertanto, non vi sono motivi di sorta che possano consigliare di avere per lui qualsiasi considerazione e di dispensarlo dal rendere, come gli altri, i dovuti “conti” sull’attività sovversiva da lui svolta all’estero. [15]

Allontanato dai compagni e messo al bando dal fascismo, nel 1940 Ambrogi venne arrestato dopo l’invasione del Belgio, rilasciato dai tedeschi e poi nuovamente catturato ed estradato in Italia. Assegnato al confino politico per un anno, dopo l’armistizio di Cassibile fu deportato in Germania.

La sua esperienza politica sarebbe rimasta ai margini anche al termine della guerra, quando si ritirò a Livorno per riprendere l’attività di avvocato. Il Pci lo tenne infatti sempre a debita distanza, condizionato dalle voci sul suo conto e da un ruolo mai definitivamente chiarito. Ottenne la riammissione solo nel 1957, sette anni prima di morire – l’11 aprile 1964 – a Venturina. A favorirne il rientro, arrivato dopo molteplici tentativi di riammissione, furono probabilmente l’età ormai avanzata e l’allentamento delle norme di accesso al partito che seguirono alle conseguenze dei fatti di Budapest e alla dura requisitoria con cui Kruscev aveva condannato i crimini di Stalin nel corso del XX Congresso del Pcus (1956). La sua storia, oltretutto, non venne neppure accennata da Paolo Spriano nei sui volumi sulla Storia del Partito comunista (nominato solo due volte, ma nei volumi antecedenti a quelli relativi al secondo dopoguerra) [16], specchio di un insabbiamento politico che difficilmente poteva trovare la sua ragion d’essere nella mancanza di informazioni al riguardo.

Il resoconto dei rapporti di Ambrogi con i fascisti, tuttavia, non ci consegna il profilo di un informatore. Piuttosto, emerge il quadro di un militante tanto avverso alla causa fascista, quanto apparentemente ostile alla direzione imboccata dall’Urss di Stalin e dalla maggioranza dei comunisti italiani. Una vicenda qui solo scalfita ed in attesa di scavi più accurati, eppure ugualmente utile per problematizzare più a fondo la complessa cornice degli anni della clandestinità e del collaborazionismo.

[1] S. Tranquilli, Borghesia, piccola borghesia e fascismo, in «Stato operaio», aprile 1928.

[2] Cfr. M. Franzinelli, I tentacoli dell’Ovra. Agenti, collaboratori e vittime della polizia fascista, Bollati Boringhieri3, Torino 2020, pp. 311-312; M. Canali,  Le spie del regime, Il Mulino, Bologna 2004.

[3] Cfr. C. Pinzani, Il partito nella clandestinità: problemi di organizzazione (1926-1932), in M. Ilardi – A. Accornero (a cura di), Il Partito comunista italiano. Struttura e storia dell’organizzazione (1921-1979), Feltrinelli, Milano 1982, pp. 975-1005.

[4] P. Spriano, Storia del Partito comunista. Gli anni della clandestinità, II, Einaudi, Torino 1969, p. 110.

[5] Romolo Tranquilli era stato fermato a Como con l’accusa – mai confermata – di aver preso parte all’attentato che il 12 aprile 1928 aveva provocato 20 morti e 23 feriti alla fiera di Milano, arrestato e tradotto nel carcere di Marassi, a Genova. La vicenda colpì profondamente Silone, il quale, forse nell’invana speranza di una sua scarcerazione, intrecciò fino al 1930 un intreccio di informazioni con l’ispettore Guido Bellone sotto il falso nome di «Silvestri»: cfr. M. Franzinelli, I tentacoli dell’Ovra, cit., pp. 335-342. Cfr. anche: M. Canali – D. Biocca, L’informatore: Silone, i comunisti e la polizia, Luni, Milano 2000.

[6] Cfr. M. Franzinelli, I tentacoli dell’Ovra, cit., p. 320.

[7] Cfr. A. Mettewie Morelli (a cura di), Lettres et documents d’Ersilio Ambrogi (1922-1936), in «Annali della Fondazione Giacomo Feltrinelli», 1977, pp. 173-291.

[8] Cfr. «Il Messaggero Toscano» 4 febbraio 1921.

[9] Per un breve quadro biografico di Ersilio Ambrogi, si veda: F. Andreucci – T. Detti (a cura di), Il Movimento operaio italiano. Dizionario biografico, I, Editori Riuniti, Roma 1975, pp. 58-60; F. Bertolucci, Ambrogi, Ersilio, in http://www.bfscollezionidigitali.org/entita/12902-ambrogi-ersilio/ (ultima consultazione: 21 settembre 2020); M. Franzinelli, I tentacoli dell’Ovra, cit., pp. 334-335.

[10] P. Spriano, Storia del Partito comunista. II, cit., p. 353.

[11] Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione generale della Pubblica Sicurezza, Casellario Politico Centrale, b. 92, fasc. 747, Ambrogi, Ersilio Paolo Giuseppe, Telegramma del prefetto di Livorno al ministero dell’Interno, 7 giugno 1929. Nel comunicato, il nome di Garlandi è sottolineato.

[12] In ibidem, Telegramma della Regia ambasciata d’Italia a Bruxelles al ministero dell’Interno con oggetto Ambrogi avv. Ersilio, 31luglio 1936

[13] D. Corneli, Lo stalinismo in Italia e nell’emigrazione antifascista, III,  Ripoli, Tivoli 1979, p. 32.

[14] Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione generale della Pubblica Sicurezza, Casellario Politico Centrale, b. 92, fasc. 747, Ambrogi, Ersilio Paolo Giuseppe, Comunicato del capo della Polizia politica alla Divisione affari generali e riservati del ministero dell’Interno, 15 ottobre 1940. Il telegramma, datato 29 novembre 1937 e firmato dal prefetto di Livorno, Emanuele Zannelli, recitava in chiusa che «in questi ultimi tempi [Ambrogi] si è dichiarato favorevole ai troschisti e desideroso di combattere di più il comunismo che il fascismo italiano. Richiami al riguardo la ministeriale n° 14064747 dell’11 Marzo 1936».

[15] In ibidem.

[16] Nei primi due volumi, il nome di Ambrogi compare solo saltuariamente: cfr. P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano. Da Bordiga a Gramsci, I, Einaudi, Torino 1967, pp. 90; 100; 130; 163; 175; 217-220; 228n; 296n.; Id., Storia del Partito comunista italiano, II,  cit., p. 9.




Il “crudele morbo” dell’autunno 1918.

L’influenza spagnola del 1918-19, tornata d’attualità a causa del Covid-19, non risparmiò la Toscana. Nella regione, come nel resto del Paese, il momento di maggior difficoltà fu vissuto nell’autunno 1918, con la seconda ondata. Tuttavia, la pandemia seminò morte in un clima di silenzi e false notizie. Il governo impose una “propaganda tranquillante” volta a minimizzare l’emergenza, con il contributo della stampa, della politica interventista e dei comitati patriottici, censurando quanti non si fossero allineati. Tuttavia, lo sfoglio della stampa coeva rivela che la pandemia era un elemento onnipresente: lunghe colonne di necrologi dove figuravano giovani (i più colpiti dal virus) uccisi da “crudele morbo” (nome dietro cui si celava l’influenza), articoli che ridimensionavano la crisi sanitaria, pubblicità di prodotti antinfluenzali (come il Lindol, antisettico il cui «uso preserva dalla Febbre di Spagna») e, occasionalmente, trafiletti sulla grave situazione. Allo stesso modo, le testimonianze popolari offrono importanti informazioni sull’incedere del virus. Il soldato Lorenzo Meleddu, di stanza a Pisa, scrisse al fratello una lettera per descrivergli le processioni funebri che andavano e venivano dai cimiteri «come la formica», perché «qui ne muore anche cinquanta tre e quattro a famiglia e per questo dico io peggio di stare in zona di guerra». L’angoscioso racconto contrastava con la narrazione pubblica delle autorità sanitarie pisane, che alla fine di settembre annunciarono che l’influenza era «stata subito debellata» ed era «in grande decrescenza».

La politica censoria mirava a tutelare lo spirito pubblico e a occultare le mancanze assistenziali dello Stato, tra le cause principali del disastro sanitario. In Toscana, come altrove, gli abitanti, soprattutto delle aree periferiche, patirono la carenza di medici e infermieri, in gran parte mobilitati. Il Ministero della Guerra fu parco, nonostante gli appelli: l’ispettore sanitario fiorentino richiese con urgenza farmaci e personale, ma venne solo parzialmente soddisfatto. Alcuni medici privati e locali benefattori offrirono i propri servigi e risorse: la ex first lady Rose Elisabeth Cleveland finanziò l’ospedale di Bagni di Lucca, dove perì confortando i malati. Tuttavia, il concorso privato non poteva risolvere le deficienze dello Stato.

Il governo demandò molte incombenze alle autorità locali, il cui spazio di manovra fu assai limitato (le quotidiane mancanze furono aggravate dalla congettura bellica e dalla presenza dei profughi), soprattutto se non coadiuvate dai comitati di preparazione civile. Le amministrazioni ritardarono a novembre-dicembre l’apertura delle scuole, chiusero cinema e teatri, organizzarono massicce disinfezioni dei luoghi pubblici. Il prefetto di Firenze tentò di ridurre gli accessi sui treni, ma il provvedimento era inattuabile in tratte affollate, come la Firenze-Pistoia, difettando di materiale rotabile (risorse assorbite dall’esercito). Misure profilattiche non furono imposte alla attività industriali e produttive. Inoltre, l’eccesso di mortalità aggravò le difficoltà di pulizia mortuaria. Per la mancanza di materiali e di necrofori, nelle aree rurali seppellire i deceduti senza cassa e avvolti in un telo bianco imbevuto di sublimato divenne la prassi.

La questione più delicata riguardò la gestione annonaria. Gli assembramenti fuori dagli spacci alimentari agevolavano il contagio, ma non si imposero limitazioni per non turbare i ceti popolari, timorosi di rimanere senza viveri. I modesti sforzi dei municipi, tra cui Firenze, Pistoia e Sesto fiorentino, per regolare la distribuzione, sollevarono critiche. «L’Avanti» attaccò l’autorità fiorentina che «si preoccupa di evitare la frequenza di agglomeramento nei teatri e non agisce […]  onde far cessare il continuo e veramente pericoloso agglomeramento di centinaia e centinaia di persone, per la massima parte donne e bambine, pigiate all’ingresso degli spacci di generi alimentari». All’ansia della popolazione contribuì la contrazione dei rifornimenti e l’aumento dei prezzi, causati dell’impatto della spagnola sui cicli produttivi. Nel Mugello, i lavori agricoli patirono estese interruzioni: «famiglie intere di coloni sono ammalati, tantoché si vede la difficoltà o meglio l’impossibilità di raccogliere il granoturco, le uve e le castagne. È un disastro dei più grandi data la scarsità di uomini validi al lavoro».

Tutti questi aspetti incisero sulle mentalità e sui comportamenti, come prova il generalizzato smarrimento della popolazione toscana. Si registrarono avvelenamenti per l’ingerimento di disinfettanti, nel tentativo disperato di curarsi. Avvennero suicidi di persone soverchiate dalla paura, come la donna che, nel Mugello, si gettò in un fiume con la figlia una volta contratto il virus. Al pari della guerra, il “cataclisma pandemico” favorì la domanda “dal basso” di funzioni religiose propiziatrici: a Campi Bisenzio il SS. Crocifisso della pieve di S. Stefano, venerato nelle calamità, fu esposto nel novembre 1918 per ottenere la cessazione del morbo.

La seconda ondata si attenuò nel dicembre 1918. Il demografo Giorgio Mortara stimò 30.000 vittime (490-600.000 in Italia, 50-100 mln nel mondo). Le zone più colpite furono le aree urbane di provincia. La malattia continuò a colpire la regione, con aggressive recrudescenze (nel febbraio 1920, vi furono oltre 2.200 vittime).

La pandemia aggravò i lutti di una popolazione già flagellata dall’altro cataclisma, la guerra mondiale. Eppure, la spagnola è ricordata nelle memorie familiari, mentre in ambito pubblico ha lasciato flebili tracce. In Toscana, si è individuata una sola lapide, a Borgo San Lorenzo, in ricordo dei combattenti del locale distaccamento morti «per fiero morbo […] nell’anno della vittoria». Poco: forse, al pari di altre nazioni, potrebbe essere il momento di erigere una testimonianza concreta e durevole alla memoria delle vittime della pandemia novecentesca.

 

Mortalità per spagnola nei capoluoghi di provincia toscani (attuali) nel 1918.

 

Morti imputabili alla pandemia nel 1918 Morti imputabili alla pandemia ogni 1.000 abitanti
Arezzo 524 10
Firenze 2.761 10,4
Grosseto 307 18,7
Livorno 1.071 9,4
Lucca 630 7,4
Massa 452 13,2
Pisa 754 10,8
Pistoia 957 12,7
Prato 483 8,3
Siena 323 7,1
 Francesco Cutolo è dottorando in Storia alla Scuola Normale di Pisa. Si è laureato all’Università di Firenze nel 2016 con un lavoro sull’influenza spagnola. E’ membro del consiglio direttivo dell’Isrpt e della redazione della rivista “Farestoria”. Ha pubblicato nel 2020 “L’influenza spagnola del 1918-1919. La dimensione globale, il quadro nazionale e un caso locale” (Isrpt). 



8 settembre 1943: il disarmo e la deportazione degli Internati militari italiani

8 settembre 1943: per centinaia di migliaia di soldati italiani presenti sui fronti di guerra in Grecia, nei Balcani, di stanza in Italia, la firma dell’armistizio da parte del maresciallo Badoglio significa la cattura e la deportazione nei lager nazisti. Questo il destino di circa 650000 Internati militari italiani, la cui esperienza è stata a lungo dimenticata.
La notizia dell’armistizio infatti in pochi casi comporta la realizzazione di azioni armate di resistenza ai tedeschi, come a Cefalonia, ma anche come a Pisa, dove il maggiore Gian Paolo Gamerra, il 9 settembre decide di andare incontro alle truppe tedesche con la 12° batteria, rifiuta di cedere le armi e cade nello scontro armato insieme a otto dei suoi soldati. Nella maggior parte dei casi però i soldati non ricevono ordini dai superiori e si sbandano, nel tentativo di tornare a casa. I più fortunati riescono a salvarsi, spesso grazie a donne, madri e mogli putative, che forniscono loro abiti civili e cibo, riuscendo così a metterli in salvo, in quella sorta di maternage di massa di cui ha parlato Anna Bravo. È il caso anche dell’appena citata 12° batteria che, dopo il combattimento coi tedeschi, riesce a rientrare al comando di Riglione, dove le donne del paese, dopo aver dato sepoltura ai nove martiri, che vengono accolti nel cimitero cittadino come membri della comunità locale, assistono i soldati sbandati, riuscendo a farli fuggire prima dell’arrivo dei tedeschi.
Per 650000 soldati però il destino è invece quello del disarmo, della cattura, del rifiuto di combattere nelle file dell’esercito nazista e del rinnovato esercito fascista repubblicano, e dunque della deportazione in Germania. I diari e le memorie degli internati toscani, che sono raccolti in molti archivi, tra cui nel fondo ANEI dell’Istituto storico della Resistenza in Toscana e presso l’Archivio diaristico di Pieve Santo Stefano, fondi da cui questi appunti sono ispirati, si aprono infatti spesso con l’8 settembre, con l’annuncio dell’armistizio, la mancanza di direttive, lo sbando e la cattura.
Al viaggio verso il lager sono dedicate pagine cariche di emozioni: vengono infatti raccontate il sovraffollamento e le inumane condizioni in cui avviene il viaggio, alcuni tentativi di fuga, talvolta le conseguenti punizioni o fucilazioni e il viaggio insieme ai cadaveri. Vengono descritti anche gli espedienti che alcuni soldati escogitano per riuscire a sopportare meglio il viaggio. È il caso per esempio di un soldato che con alcune coperte crea una sorta di amaca legata alla struttura del treno. Infine viene talvolta ricordato l’aiuto e i tentativi di assistenza che la popolazione civile fornisce ai militari durante il trasporto.
Arrivati nel lager, vengono poi sempre descritti i momenti della disinfezione, della schedatura e della requisizione degli oggetti personali. Sono in molti a fare cenno del sentimento di spersonalizzazione provato dopo essere stati spogliati delle proprie cose ed essere divenuti numeri.
La realtà del lager mostra dunque da subito tutta la sua crudezza. In ogni diario o memoria sono infatti descritte le inumane condizioni di vita nei campi di concentramento e nei comandi di lavoro: il vestiario inadeguato, gli zoccoli di legno, gli interminabili appelli fuori al gelo, il freddo, il lavoro duro, la fame.
immagine imi gavettaCostante è il riferimento allo scarso e disgustoso vitto, alla “sbobba”, e ricorrenti sono i racconti sull’arte di arrangiarsi, sulle modalità di reperire il cibo e sulle strategie di sopravvivenza. Numerosi sono gli episodi di furti di cibo sia ai tedeschi che ai compagni di prigionia. Inoltre gli internati riferiscono dei commerci e degli scambi di cibo che avvenivano anche con annunci su bacheche. Altrettanti i racconti in cui gli internati decidono di sfidare le punizioni e la fucilazione per uscire dai reticolati, soprattutto la notte, per reperire qualche patata o rapa nei campi vicini al lager. Si descrivono poi i racconti di litigi coi compagni per il cibo “che riduceva uomini fatti a livello di ragazzacci di strada per non dire peggio” e dunque l’ideazione di stratagemmi per dividere in modo equo le razioni. Numerosi anche i racconti in cui gli internati ricercano nell’immondizia o tra le macerie resti di alimenti e in cui escogitano e mettono in atto piani per catturare ogni genere di animali di ogni sorta. (cfr. testimonianza allegata)
È sottolineata spesso la sensazione di essere diventati come bestie, talvolta in racconti tragicomici, in cui si tenta di abbeverarsi come aveva fatto un cane, si ruba e si mangia il cibo che veniva dato alle anatre o si divide un osso trovato nell’immondizia con un cane. (cfr. testimonianza allegata)
Molti i riferimenti al lavoro, alle violenze e alle punizioni messe in atto dagli aguzzini nazisti per i più disparati motivi, che giungevano anche alla fucilazione anche solo per un’esitazione di fronte alla fatica per il duro lavoro.
Gli ultimi aspetti che vengono spesso delineati sono quelli della liberazione, dell’arrivo degli alleati “che fanno di tutto per far[li] risentire esseri umani”, offrono agli internati cibo a volontà tanto che alcuni ne fanno indigestione e rischiano anche la vita. Alcuni descrivono poi l’attesa del rientro e i campi alleati post-liberazione. In alcuni casi viene denunciato un sentimento di rabbia per il fatto di venire considerati nuovamente prigionieri, nonostante la liberazione, e di non ricevere un buon trattamento. Infine alcuni si soffermano sul tema del rientro, e sul rimpatrio disorganizzato realizzato con ogni mezzo di fortuna: carretti, biciclette, a piedi. L’uscita dal lager è l’inizio di un viaggio a ritroso nello spazio, la strada per tornare a casa spesso compiuta lungo le linee ferroviarie dissestate o a piedi, ma anche un percorso intimo, un primo momento di rielaborazione di quella tragica esperienza, spesso non compresa una volta rientrati.
L’ultimo aspetto che emerge dalle memorie riguarda infatti l’incomprensione e l’isolamento rispetto alla società italiana postbellica, che celebra la Repubblica nata dalla Resistenza e la vittoriosa lotta di liberazione antifascista del “popolo alla macchia” nelle narrazioni e nella storiografia dominante marginalizzando e escludendo dalla memoria pubblica le esperienze degli IMI, che resteranno a lungo taciute.




Il Prefetto della Liberazione

Il patrimonio bibliografico della Biblioteca Franco Serantini si è appena arricchito di alcune importanti acquisizioni, tra queste il «Bollettino Ufficiale della Regia Prefettura di Pisa», periodico “amministrativo” pubblicato dal 1871 al 1972. Il bollettino rileva le più importanti e significative comunicazioni del Prefetto ai Sindaci della Provincia, al Questore, al Rettore dell’Università, ai vari Ordini professionali (medici, farmacisti…), all’Ufficio delle Imposte e ad altre istituzioni del territorio. Si tratta di comunicazioni di varia natura che richiamano l’attenzione dei destinatari sull’applicazione di norme e circolari che intervengono su molteplici tematiche.

Il ruolo che traspare in modo evidente dalla lettura del «Bollettino della Prefettura», riguarda la competenza dell’istituto in oggetto rispetto ai rapporti tra lo Stato e quelle che oggi chiamiamo le autonomie locali, istituzioni delle quali la prefettura deve assicurare il regolare funzionamento.

La figura del prefetto, nelle varie normative che hanno regolamentato l’istituto, si caratterizza infatti come rappresentante del potere esecutivo e supremo organo dell’amministrazione statale della provincia, assumendo ruolo di controllo delle attività delle amministrazioni locali: da un lato rappresenta l’accentramento politico e amministrativo, dall’altro il decentramento burocratico.

Attraverso le comunicazioni del Prefetto di Pisa, contenute nei bollettini relativi agli anni 1944 e 1945, proviamo ad inserire ulteriori elementi di riflessione per una lettura della condizione economica, sociale e politica della provincia pisana, nel periodo immediatamente successivo alla liberazione dall’occupazione nazi-fascista.

Prima di entrare nel merito delle comunicazioni contenute nel bollettino, è utile ricordare due aspetti che, negli anni precedenti e nel periodo in analisi, hanno caratterizzato la figura del prefetto.

Il primo aspetto da sottolineare, riguardante il periodo immediatamente precedente a quello preso in analisi, vede il ripetuto tentativo da parte del regime di permeare il corpo prefettizio con uomini del partito, con l’obiettivo di creare una nuova figura, quella del prefetto fascista.

La seconda questione riguarda invece il periodo immediatamente successivo alla liberazione del centro Italia, quando si assiste ad una sorta di braccio di ferro fra il Governo italiano e i C.L.N., convinti della necessità di epurare i prefetti provenienti dal partito fascista e di sostituirli con funzionari più vicini ai valori della lotta di liberazione. Questo ultimo aspetto ha fortemente marcato l’agenda politica del momento e ha contribuito a mettere seriamente in discussione, nel nuovo sistema democratico in fase di costruzione, la figura stessa del prefetto. Il 17 luglio 1944 il futuro Presidente della Repubblica Luigi Einaudi pubblica, con lo pseudonimo Junius, sul  supplemento della «Gazzetta Ticinese» dedicato all’Italia, un articolo intitolato Via il Prefetto! con il quale esprime senza mezzi termini la propria posizione: «Elezioni, libertà di scelta dei rappresentanti, camere, parlamenti, costituenti, ministri responsabili sono una lugubre farsa nei paesi a governo accentrato del tipo napoleonico». Il tema viene successivamente assunto nel dibattito della Costituente: il Partito d’Azione, per voce di Emilio Lussu, chiede espressamente la formale soppressione della figura del prefetto. In sede di Assemblea costituente non viene però adottata alcuna deliberazione precisa in merito, nonostante anche le discussioni della competente sottocommissione si erano orientate per l’abolizione dell’istituto prefettizio. Il tema viene più volte ripreso nel dopoguerra a partire dal convegno di Napoli, del 1950, dell’Associazione nazionale dei comuni italiani (A.N.C.I.). Negli anni successivi il dibattito sull’opportunità di mantenere questa figura prosegue, con le voci contrarie provenienti per lo più da parti politiche avverse al centralismo: movimenti e partiti sia autonomisti che di sinistra.

Un altro utile approfondimento, introduttivo alla lettura del «Bollettino», riguarda la storia della Prefettura di Pisa dalla data dell’Armistizio alla liberazione della città. Nel periodo che va dal 8 settembre 1943 alla liberazione della provincia di Pisa (stabilita nella data del 3 settembre) i prefetti che si susseguono sono Ferdinando Flores (12/08/1943–30/09/1943), poi Francesco Adami (1/10/1943–24/10/1943) ex Console della milizia e fondatore del Fascio Repubblicano locale. Ad Adami, che aveva caratterizzato il suo incarico con atti di violenza e arresti di antifascisti e badogliani, succede Mariano Pierotti (25/10/1943–1/07/1944) ex Segretario dei Sindacati dell’Agricoltura, anch’egli uno dei fondatori del Fascio Repubblicano di Pisa. Durante l’estate del 1944, quando il fronte si ferma sulle rive dell’Arno, con la città di Pisa occupata dalle forze nazi fasciste e, a sud del fiume gli alleati, il Prefetto Pierotti, dopo aver tentato improduttivi contatti con il CLN locale, si dà alla fuga dopo aver fatto scarcerare alcuni detenuti politici. Il successore di Pierotti è il pisano Enzo Leoni che rimane in città fino al 19 luglio, quando fugge al nord con altri fascisti locali portando con sé una cospicua somma di denaro sottratta alla Prefettura e abbandonando la città sotto il continuo cannoneggiamento delle forze alleate[1]. Il nome di Leoni non è riportato sulla pagina ufficiale della Prefettura di Pisa nella quale sono ricordati i prefetti che ivi hanno ricoperto l’incarico. Nel periodo che va dalla fuga di Leoni alla liberazione della città, avvenuta il 2 settembre, il commissario prefettizio è Mario Gattai, nominato dell’Arcivescovo Gabriele Vettori unica autorità rimasta in città[2].

Il 7 settembre del 1944 si insedia il Prefetto Vincenzo Peruzzo, persona che nella memoria collettiva rimane un prefetto democratico, ma che non ha buon rapporto con il CLN, con la sinistra pisana e soprattutto con Italo Bargagna, primo sindaco di Pisa liberata[3].

Appena insediatosi, il Prefetto Peruzzo si dedica celermente alla cura dei rapporti con il territorio: venti giorni dopo la sua nomina incontra i trentotto sindaci della Provincia ai quali comunica personalmente le direttive più significative sui problemi più urgenti che interessano i loro comuni[4]. Il Prefetto, nel suddetto incontro, tra le varie questioni trattate, pone l’accento sulla necessità di prevenire, con azione equilibrata, ogni turbamento dell’ordine pubblico e di favorire la ripresa immediata della civile convivenza, stroncando sul nascere eventuali velleità di ritorni reazionari.

Apriamo adesso il «Bollettino della Regia Prefettura». Dalla lettura degli atti e delle comunicazioni pubblicate si percepisce il quadro delle priorità istituzionali e amministrative del momento e il ruolo di controllo esercitato, attraverso l’istituto prefettizio, dal governo sul territorio.

Il nuovo Prefetto nel dicembre del ‘44 interviene su vari quesiti giunti da diversi comuni della provincia riguardo la questione dei sussidi, ricordando che il soccorso giornaliero militare spetta ai soldati che, dopo l’8 settembre non sono rientrati in famiglia (o comunque per il periodo in cui non siano rientrati) e per i partigiani, purché abbiano l’attestazione dei ministeri militari competenti o dei relativi Comandi partigiani. Il rilascio dei sussidi è, in questo periodo, competenza degli uffici di assistenza dei comuni. In un momento di povertà e di difficoltà molti degli interventi del Prefetto vertono principalmente proprio sulla questione dei sostegni economici, non solamente per chi ha combattuto, ma anche per chi è stato prigioniero, per i parenti bisognosi dei dispersi in guerra, per i confinati politici e comuni, per i profughi dell’ex Africa Italiana, per i connazionali rimpatriati, per gli infortunati civili e militari di guerra. Il governo italiano riconosce forme di assistenza e di sostegno anche ai cittadini dei paesi alleati internati nei campi di concentramento sul territorio italiano. La questione del sussidio per il caro pane rimane oggetto di comunicazione anche durante tutto il 1945 e la Carta annonaria – entrata in vigore con la Legge n. 577 del 1940 relativa al razionamento dei generi alimentari – la cui emissione è di competenza del comune di residenza, rimane, per tutti gli anni quaranta, lo strumento di accesso al sussidio.

I bollettini della Prefettura riportano anche varie comunicazioni riguardanti la questione della gestione dei medicinali forniti dagli alleati, con particolare attenzione al prezzo. Per evitare speculazioni su una popolazione allo stremo, il Prefetto, in una nota ai sindaci e all’Ordine dei farmacisti, precisa che il prezzo di vendita non può essere superiore a quello previsto dalla tabella con la quale gli stessi medicinali vengono distribuiti ai punti di smercio.

Altro aspetto di particolare attenzione riguarda la questione del cibo, il controllo sulle contraffazioni dei prodotti, il sollecito ad un’attenta e continua verifica da parte degli uffici comunali dei pesi e delle misure utilizzati nelle rivendite e, in ultimo, la revisione di tutte le licenze di commercio. In questo momento, per favorire la ripresa del paese, sono molte le forme di agevolazione tributaria, in particolare per le località danneggiate dal passaggio del fronte di guerra, una di queste riguarda l’esenzione del pagamento dell’imposta di consumo sui materiali utilizzati per la riparazione degli immobili danneggiati in seguito ad eventi bellici.

La questione sanitaria è un’altra materia insistentemente trattata nelle comunicazioni riportate dal bollettino: riguarda le modalità di macellazione e conservazione della carne,  l’obbligo della vendita su ricetta dei prodotti antibatterici, le modalità di distribuzione dell’insulina, le misure di difesa profilattica contro le malattie di importazione esotica in occasione del rimpatrio dei reduci, la profilassi della poliomielite e della febbre tifoide e il controllo della potabilità dell’acqua. Di rilievo sanitario in questo periodo è la lotta contro la scabbia che diventa una malattia con un elevato livello di diffusione, per la quale vengono istituiti, nei singoli comuni, i centri di bonifica dotati di docce, di sapone e di sali di medicazione. Una specifica circolare prefettizia è dedicata all’utilizzo della penicillina che, essendo un prodotto estremamente limitato nella disponibilità, viene assegnato solamente alle città capoluogo di regione dove viene costituito un comitato che decide a quali cittadini della regione dovrà essere somministrato il farmaco.

Una circolare prefettizia dei primi mesi del 1945 ci dà il senso dei bisogni presenti in questo primissimo dopoguerra e riguarda l’impiego lavorativo dei fanciulli bisognosi. In una nota ai sindaci il Prefetto ricorda le deroghe previste dalla Legge n. 653/1934 che interviene sulla tutela del lavoro delle donne e dei minori. Scrive il Prefetto che il Ministero dell’Industria, del Lavoro e del Commercio, resosi conto della necessità di sottrarre dall’ozio e da attività illecite o immorali i fanciulli abbandonati o appartenenti a famiglie in stato di povertà, ha deciso di avvalersi dell’ipotesi di deroga prevista dalla suddetta norma, riguardo ai limiti di età relativi all’impiego di manodopera minorile. Il Ministero, avvalendosi di suddetta deroga, apre così le porte del lavoro ai bambini con meno di dodici anni, un fenomeno sociale poi raccontato con maestria, in questi stessi anni, dal cinema neorealista italiano. La questione del lavoro e della sopravvivenza come sempre genera il fenomeno della migrazione, ma in un paese distrutto e appena liberato non vi sono città che fuggono alla miseria. Anche Milano è in ginocchio e i migranti che arrivano, non trovando lavoro, si presentano agli uffici di assistenza che già non riescono a garantire supporto ai residenti: nel luglio del 1945 il Prefetto di Pisa, su indicazione del Ministero dell’Interno, invita tutti i sindaci della provincia a fare opera di persuasione e ad adottare le misure che riterranno più opportune per bloccare il flusso migratorio verso Milano e le altre città del nord Italia.

Altro aspetto interessante, recuperabile dal Bollettino, riguarda il rastrellamento degli ordigni esplosivi; il Prefetto scrive a tutti i Sindaci dei comuni per assicurarsi se, per iniziativa privata o da parte dell’Amministrazione comunale, sia stato provveduto al rastrellamento di armi, munizioni e ordigni esplosivi eventualmente esistenti sul territorio e se sono stati costituiti depositi occasionali. La circolare prefettizia svela anche la preoccupazione del governo: si chiede se gli eventuali depositi sono sotto controllo e se sotto le dovute norme di sicurezza. Il Prefetto chiede ai Sindaci di fornire l’esatta ubicazione e la quantità del materiale contenuto negli eventuali centri di raccolta adibiti, in modo che il Comando Artiglieria di Firenze possa disporre sopralluoghi, interventi di competenze e procedere alla distruzione del materiale. È evidente che si tratta di un’azione volta al controllo dell’attività di occultamento delle armi praticato da alcuni gruppi che avevano partecipato alla Resistenza.

Ultimo aspetto, non per importanza, che andiamo a evidenziare dalla lettura del Bollettino della Regia Prefettura di Pisa, riguarda la toponomastica stradale, una nota del Prefetto ai sindaci, datata gennaio 1945, riporta la loro attenzione sul tema, ricordando che la necessità di cambiare il nome delle strade e delle piazze che inneggiano al fascismo e ai suoi personaggi non deve assolutamente coinvolgere anche le denominazioni riferite ad avvenimenti storici, personaggi o date  riguardanti il Risorgimento,  periodo storico che rimane un riferimento intoccabile per il futuro. Con la nota prefettizia del 9 agosto 1945 (N. 6576) ad oggetto: “Scritte murali fasciste. Toponomastica stradale”, il Prefetto ritorna sul tema e riprende la circolare del Ministero dell’Interno del 17 luglio: È stato rilevato che in molti comuni non si è ancora provveduto alla cancellazione delle scritte murali fasciste. Esse, come è ovvio, rappresentano una tipica sopravvivenza delle manifestazioni esteriori di megalomania di cui il cessato regime usava far pompa per accattivarsi l’ammirazione delle masse. Ora che l’Italia si è liberata […] si impone l’eliminazione, anche nelle apparenze esteriori, di ogni falso orpello che ha nell’animo degli italiani la triste risonanza di una amara e dolorosa esperienza. La circolare ministeriale invita i sindaci a procedere celermente ad una accurata revisione della nomenclatura stradale eliminando nomi e date che richiamano eventi del cessato regime o che comunque tendono a conservarne il ricordo. Analoga revisione deve essere fatta anche per quanto concerne monumenti, targhe o ricordi dedicati a persone o eventi del fascismo […] un regime che il paese ha ripudiato.

Due anni dopo la nomina, nel settembre del 1946 Peruzzo viene nominato Prefetto di Verona e conclude la sua esperienza pisana; nelle sue memorie ricorda così il suo saluto alla città:

Riporto volentieri le parole che il sindaco comunista di Pisa, Italo Bargagna, volle rivolgermi nel Palazzo Gambacorti, sede del Comune:

A Vincenzo Peruzzo, Prefetto della Liberazione, esprimo la riconoscenza di Pisa e la mia personale gratitudine per l’opera meritoria da lui svolta per la rinascita della città. […] Nella mente e nel cuore dei Pisani rimarrà sempre vivo il ricordo della sua bontà e della umana comprensione dimostrata nello svolgimento del suo alto ministero.[5]

 Note:

[1] Per una breve storia della Prefettura di Pisa nel periodo che va dal 8 settembre 1943 al 25 aprile del 1945 cfr. A. Cifelli, I Prefetti della Liberazione. Scuola Superiore dell’Amministrazione dell’Interno, Roma, 2008.
[2] Sul periodo relativo alla reggenza di Mario Gattai cfr. Pisa nella bufera: note dell’avvocato Mario Gattai commissario del Comune di Pisa. Giugno Settembre 1944, a cura di G. Bertini. Pisa, Circoscrizione 6, 2001.
[3]  C. Forti, Dopoguerra in provincia microstorie pisane e lucchesi 1944-1948, Milano, F. Angeli, 2007, p. 105.
[4]  Il contenuto della prima riunione con i sindaci della provincia è riportato in Vincenzo Peruzzo. Ricordi del primo Prefetto di Pisa dopo la Liberazione a cura di C. Forti. pp. 57-61. Pisa, Pacini, 2012. La pubblicazione raccoglie i ricordi della vita personale e professionale di Peruzzo.
[5]Vincenzo Peruzzo. Ricordi del primo Prefetto di Pisa dopo la Liberazione, cit., p. 79.




Il terribile agosto del 1944 a nord delle Alpi Apuane

Nell’estate del 1944 l’attività partigiana nell’area apuano-lunigianese stava crescendo a ritmi sostenuti. Piccole bande formate da giovani provenienti da Carrara, dalla Lunigiana toscana, dalla Val di Magra e dalla Spezia contendevano il controllo del territorio alle autorità fasciste e ostacolavano i lavori di fortificazione tedeschi lungo la futura Linea Gotica/Linea Verde.

E’ in questo contesto che si colloca l’operato della 16a Panzergrenadier Division “Reichsführer-SS” nell’area apuana durante l’agosto 1944. Analogamente a quanto stava già facendo in Versilia, la divisione comandata dal generale Max Simon s’impegnò infatti a isolare i partigiani e a rendere sicura l’area per i tedeschi colpendo in modo indiscriminato e terroristico la popolazione civile.

Il primo scontro tra SS e partigiani locali avvenne il 24 luglio presso Canova di Aulla, quando due automezzi tedeschi furono attaccati dai partigiani. Per l’uccisione di un militare SS e il ferimento di altri tre furono fucilati quattro uomini e il paese incendiato. Alcuni giorni dopo, il 2 agosto, membri di un battaglione genieri SS di stanza a Fosdinovo furono attaccati dai partigiani della formazione “Ulivi” nei pressi del paese di Marciaso. Non ci furono vittime, ma la sparizione di due militari, datisi alla fuga e ritenuti morti, diede l’avvio a una nuova rappresaglia. Le SS circondarono Marciaso e catturarono decine di uomini, donne e bambini, poi liberati alla ricomparsa dei militari dispersi. L’intero paese fu comunque minato e fatto saltare il 3 agosto e sei anziani che non avevano lasciato le proprie case rimasero uccisi.

Walter Reder

Walter Reder

Lo spaventoso salto di qualità nelle pratiche repressive avvenne però nella seconda metà di agosto: il 17 i partigiani dell’ “Ulivi” si scontrano nuovamente con un reparto di genieri SS a Bardine di S.Terenzo Monti, nel comune di  Fivizzano. Nel combattimento i partigiani subirono alcune perdite, ma ebbero la meglio: 16 militari tedeschi rimasero uccisi e uno gravemente ferito. Nello stesso giorno le SS recuperarono i corpi dei loro commilitoni, incendiarono alcune case e uccisero due anziani coniugi, ma la vera rappresaglia sarebbe avvenuta due giorni dopo.

Il 19 agosto quattro compagnie del battaglione esplorante della 16a divisione SS, sotto il comando del maggiore Walter Reder, si portarono insieme ad altri reparti della stessa grande unità sul luogo dello scontro con i partigiani e vi uccisero 53 uomini rastrellati in Versilia alcuni giorni prima, lasciandone esposti i corpi legati agli alberi e ai pali dei filari delle viti. SS agli ordini di Reder si diressero poi a S.Terenzo Monti, dove uccisero il parroco, e nel vicino podere di Valla, presso il quale catturarono più di cento persone sfollate dalle proprie case per paura della rappresaglia. I prigionieri, in maggioranza donne e bambini, furono uccisi con raffiche di mitragliatrice. Si salvarono solo una donna e sua figlia, fuggite prima del massacro, e una bimba di sette anni che si  finse morta.

Come in Versilia, anche nel territorio apuano la “Reichsführer-SS” aveva ormai oltrepassato i limiti della semplice rappresaglia giungendo a pratiche di sterminio generalizzato di un’intera comunità che richiamavano quelle attuate sul fronte russo. La zona immediatamente a nord delle vette delle Alpi Apuane era stata inoltre identificata dalle SS come un covo di pericolosi “banditi”. Nei giorni successivi il comando della 16a divisione SS pianificò quindi un rastrellamento generale destinato a “ripulire” l’area da partigiani e presunti fiancheggiatori.

Il rastrellamento del 24 agosto (cartina di M.Fiorillo)

Il rastrellamento del 24 agosto (cartina di M.Fiorillo)

Il 24 agosto i rastrellatori circondarono da tutti i lati il basso fivizzanese, mentre il battaglione esplorante SS e reparti della Brigata Nera di Carrara risalivano la valle del torrente Lucido fino alla conca montana di Vinca. L’operazione, diretta dal maggiore Reder, si trasformò presto in un eccidio generalizzato di civili lungo tutto il percorso dei rastrellatori e soprattutto nell’area di Vinca.

Un totale di 171 persone, quasi tutti donne, bambini, anziani, infermi, furono uccisi nei giorni del rastrellamento. I partigiani presenti nell’area, formalmente uniti in un’unica brigata ma incapaci a coordinarsi, non furono in grado di contrastare efficacemente i rastrellatori.

Fino al suo trasferimento in Emilia, verso la metà di settembre, la “Reichsführer-SS” continuò a seminare il terrore nell’area settentrionale delle Apuane, mietendo vittime innocenti sia nel fivizzanese che nel carrarese.

Maurizio Fiorillo, dottore di ricerca presso l’Università di Pisa, collabora con l’Istituto spezzino per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea; si occupa di storia della seconda guerra mondiale e della Resistenza. Ha pubblicato saggi su riviste e un volume sulle formazioni partigiane della Lunigiana.