La guerra agli inermi. Storia e giustizia (II)

La seconda parte della storia, strettamente connessa alla prima, riguarda una delle più gravi ingiustizie fatte patire ai cittadini di questo paese nella storia dell’Italia unitaria.

È la storia dell’estesa, prolungata e non rimediata negazione di giustizia[1] nei riguardi delle vittime delle stragi naziste e fasciste di cui si è detto finora. Una negazione estesa, in termini strettamente geografici, poiché quel fenomeno, quell’orrore, non risparmiò nessuna parte d’Italia, nessun genere, nessuna classe anagrafica, nessuna religione, nessuna posizione sociale, nessuna posizione politica antifascista. Nessuno, insomma. Ricordiamolo: almeno 5.750 episodi e 24.112 vittime.

Una negazione prolungata, e ormai irrimediabile, perché iniziata immediatamente dopo la guerra – e addirittura prima, perché spesso nei paesi colpiti, subito dopo la partenza dei tedeschi, arrivavano gli Alleati, che cominciavano subito a fare indagini e chi era sopravvissuto cominciava subito a illudersi che la giustizia sarebbe arrivata. Una negazione andata avanti a questo punto per sempre, perché pochissimi furono i processi e ancora meno i responsabili mandati in carcere – Kappler, Reder, Priebke, Seifert e pochissimi altri – sia nel lungo e infruttuoso dopoguerra, sia nella fase molto più proficua, ma inevitabilmente limitata, dei processi che hanno seguito il rinvenimento, nel 1994, delle carte occultate, su cui si tornerà. Questi processi si sono celebrati soprattutto negli anni 2000 presso le procure militari di La Spezia, Verona e Roma sotto la guida di Marco De Paolis.

Dunque, una negazione non rimediata, se riguardiamo i conti: una ventina di processi – dal dopoguerra a oggi – e alcune decine di condanne – perlopiù non eseguite – per 5.750 episodi (e mancano tutti quelli avvenuti all’estero, fatta eccezione per Cefalonia) e più di 24mila vittime.

In realtà, la storia ci racconta che le carte dell’orrore di cui parliamo, e della mancata giustizia che lo ha riguardato, sarebbero state disponibili fin dall’immediato dopoguerra, e questo per ciò che riguardava sia le indagini degli Alleati, alle quali si accennava, sia quelle dei carabinieri, condotte spesso a ridosso degli eventi. Invece, tutto questo materiale fu volutamente occultato, e quindi non lavorato, in un arco di tempo che va almeno dal 1960 al 1994.

La scusa ufficiale fu quella – nel 1960 – del «lungo tempo trascorso dal fatto» – 15 anni dalla fine della guerra! – senza considerare, tra l’altro, che tale suddetto lungo tempo era attribuibile perlopiù all’inerzia di chi non aveva lavorato in quei 15 anni.

Le ragioni effettive, invece, almeno secondo gran parte della storiografia – ma anche di molti membri della Commissione Parlamentare d’inchiesta che ha indagato sull’occultamento negli anni 2003-2006 – sono invece le seguenti, riassunte molto schematicamente: si occultò – con un provvedimento illegittimo quale quello dell’«archiviazione provvisoria» – perché lavorare le carte sui criminali tedeschi avrebbe significato, da un lato, attirare l’attenzione sui criminali italiani, mai consegnati agli stati esteri che li avevano richiesti (Grecia, Etiopia, Jugoslavia etc.); dall’altro, tali indagini avrebbero potuto “imbarazzare” la Germania occidentale, fido alleato dell’Italia nel mondo diviso in due della guerra fredda. Ragioni di politica interna, dunque – quelle carte avrebbero anche riportato alla ribalta i criminali fascisti, frequentemente destinatari di provvedimenti di amnistia nell’immediato dopoguerra – e ragioni di politica internazionale si diedero il cambio e si supportarono le une con le altre nel produrre una delle più grandi ingiustizie praticate dall’Italia-Stato nei confronti dell’Italia-Nazione.

Quando le carte sono state recuperate dagli archivi (quelli della Procura Generale Militare a Roma) era il 1994 e la guerra fredda era appena finita, l’idea di Europa unita sembrava davvero poter sconfiggere le ansie dei vari passati del continente, e non vi poteva quindi essere un momento migliore per tirare fuori le carte che, si sperava, non avrebbero più potuto nuocere a nessuno. Quelle carte andavano però lavorate, perché quello che raccontavano – crimini di guerra atroci, crimini contro l’umanità – non è passibile di prescrizione secondo la legge italiana. Le aggravanti, infatti, come è facilmente intuibile, c’erano tutte.

In realtà le procure militari si presero un bel po’ di tempo – altro tempo sprecato – per cominciare a fare qualcosa, e solo qualcuna fece qualcosa davvero. A quell’impegno di pochi dobbiamo tuttavia dei risultati importanti, cioè le sentenze e le condanne – cosa che significa innanzitutto discorso pubblico della Nazione dinanzi allo Stato e risposta di quest’ultimo – per alcune delle stragi più atroci che si verificarono in Italia o contro italiani nel 1943-1945: Sant’Anna di Stazzema, Civitella in Val di Chiana, Monte Sole, Padule di Fucecchio, Cefalonia sono solo alcuni dei nomi/luoghi-eventi di questa parte della storia.

Se guardiamo oggi questi risultati, sembra straordinario che sia stato compiuto da pochi anni, certo in modo più che tardivo e parziale, ciò che avrebbe dovuto essere normale nel dopoguerra, cioè la giustizia, la condanna pubblica e documentata del crimine di guerra/crimine contro l’umanità.

In questo caso è stata una fortuna che le due regioni – la Toscana e l’Emilia Romagna – dove si era verificato il più alto numero di stragi con il più alto numero di vittime, negli anni 2000 fossero di competenza della volenterosa e produttiva procura militare di La Spezia, in quegli anni una sorta di “cattedrale” in un deserto di disinteresse, pressappochismo, noncuranza e chissà quali altre cause di inoperosità da parte delle altre procure militari, a partire da quella che nel 1994 aveva rinvenuto le carte durante l’indagine sul boia delle Ardeatine Erich Priebke. E da parte dello Stato, in generale: le indagini e i processi che La Spezia (e poi Verona e Roma, negli anni successivi, con l’arrivo di De Paolis) portò avanti furono una sorta di impresa titanica, con milioni di carte da studiare e produrre, testimoni da rintracciare dopo decenni, luoghi irrimediabilmente trasformati e, soprattutto, una mentalità istituzionale spesso indifferente, quando non apertamente ostile, che si chiedeva apertamente perché lo Stato avrebbe dovuto spendere soldi e tempo alla ricerca di innocui ottantenni bavaresi, alsaziani e così via. Dimenticando, innanzitutto, i doveri di legge, cioè l’imprescrittibilità.

Insomma, allo sdegno dell’opinione pubblica che nel 1994 aveva scoperto le stragi e il loro occultamento, corrispose spesso – di nuovo – la sottovalutazione del problema da parte dello Stato, uno Stato che, invece, avrebbe dovuto, avendo molto da farsi perdonare, fornire almeno i mezzi per provvedere all’eccezionale emergenza giudiziaria affrontata in quegli anni a La Spezia.

A tale mentalità istituzionale – spesso non sconfitta neanche oggi – ha fatto però da contraltare una mentalità collettiva diversa, alimentatasi di decenni di silenzio imposto e oblio forzato, prolungata negazione di giustizia e indifferenza da parte delle istituzioni dinanzi a un dolore che sembrava privato ed era invece un lutto collettivo. Una mentalità di comunità e di condivisione, che, in quegli anni e in quelli successivi, era sempre più in emersione, attenta, pronta a farsi sentire e, finalmente, ad essere ascoltata.

Erano le comunità dei borghi inermi straziati della lapide di Calamandrei, le comunità infrante, le comunità delle generazioni successive nutritesi di memoria divisa, che finalmente trovavano – poche di loro, in realtà, si è detto, in aula – e trovano lo spazio e l’ascolto del discorso pubblico, man mano divenendo incisive, cominciando a formare opinione pubblica.

È per questo che oggi possiamo, su questi temi, fare conversazioni pubbliche che interessano un ambito più ampio di quello degli addetti ai lavori, mettere su progetti di ricerca davvero europei come quello dell’Atlante, o pubblicare una collana di volumi – voluta dalla Regione Toscana e dall’Istituto Nazionale Parri – che raccontano i processi per le stragi naziste come fatti di immediata attualità[2], in quanto essi sono fatti di immediata attualità.

Tutto questo impegno è, però, va detto, un pegno pagato. Difatti, chi studia questi temi da storico o da politologo, chi li lavora come magistrato, carabiniere addetto alle indagini o consulente tecnico, chi li pone al centro dell’agenda politica istituzionale, chi, in generale, dedica buona parte della propria attività professionale (e, spesso, del proprio tempo libero) a questi argomenti, lo fa anche in virtù di un sentimento di doverosa restituzione – da parte dello Stato che in qualche modo, o in qualche forma, si rappresenta – nei confronti delle vittime. Queste ultime non sono, a parere di chi parla, solo coloro che allora persero la vita – gli inermi straziati in quelle migliaia di luoghi d’Italia; sono vittime anche coloro che sopravvissero alla morte di madri, padri, figli, sorelle e fratelli, ritrovandosi condannati a vivere per sempre “in morte” dei loro cari, spesso costretti ad abbandonare le proprie case distrutte, i paesi incendiati, i campi devastati. È ciò che ha scritto Caterina Di Pasquale a proposito di Sant’Anna di Stazzema: «la strage frantumò il paese, il suo modo di vivere, la sua cultura. Colpì la quotidianità, distrusse i punti di riferimento, bloccò il fluire della vita uccidendo intere generazioni e discendenze. Interruppe tutti i legami, quelli di parentela, quelli di vicinato, di amicizia e di amore, gli uomini non avevano più mogli, né figli, né sorelle, né genitori»[3].

Quest’obbligo a vivere in morte di chi non c’era più è stato il frutto di una giustizia negata in forma estesa, prolungata e sostanzialmente, purtroppo, non rimediata. È anche a queste vittime, condannate al silenzio e senza il sostegno, neanche, di una giustizia di transizione, che lo Stato deve una restituzione alla quale le istituzioni che sono oggi in questa sala – la Regione Toscana, l’Istituto della Resistenza – stanno volenterosamente e volontariamente provvedendo, con i fatti, almeno da vent’anni, primi tra tutti in Italia. A loro, dunque, un grazie personale e spero collettivo, e un invito a continuare.

[1] Per una panoramica complessiva sul tema si rimanda al recente volume di Paolo Pezzino e Marco De Paolis, La difficile giustizia. I processi per crimini di guerra tedeschi in Italia 1943-2013, Roma, Viella, 2016.
[2] Si tratta della collana I processi per crimini di guerra tedeschi in Italia, curata da M. De Paolis e P. Pezzino e con il mio coordinamento editoriale, per le edizioni Viella.
[3] Caterina di Pasquale, Il ricordo dopo l’oblio, Roma, Donzelli, 2010, p. 55.

Articolo pubblicato nel giugno del 2018.




La guerra agli inermi. Storia e giustizia (I)

Nell’iniziare questa lectio magistralis, mi sia permesso innanzitutto di ringraziare, per l’opportunità concessami, l’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età Contemporanea e la Regione Toscana, due istituzioni che, in vario modo ma sulle rotte dello stesso itinerario, stanno accompagnando il mio percorso lavorativo in una professione, quella della storia, che è anche quotidiano, costante e permanente impegno civile.

Sono onorata di essere qui e di tenere questa lezione in occasione del premio Tognarini. Ivano Tognarini è stato tra coloro che, ormai diversi anni fa, mi hanno introdotto nel mondo della ricerca portata avanti dagli Istituti della Resistenza: con lui sostenni infatti il colloquio che mi ammise alla Scuola Superiore di Storia Contemporanea dell’Istituto Nazionale per il Movimento di Liberazione in Italia, permettendomi così di compiere – insieme a numerosi colleghi con i quali la collaborazione prosegue tuttora, come il direttore dell’ISRT, Matteo Mazzoni – un interessantissimo e importantissimo percorso di studio e di lavoro. A quella Scuola e a quell’esperienza avviata in questa città dinanzi al prof. Tognarini, devo la mia professionalità odierna.

Ciò su cui intendo discorrere oggi è una storia divisa in due parti, connesse tra loro a filo doppio e intrecciato, in maniera irrimediabile quanto inestricabile.

La prima parte riguarda la vicenda, che descriverò per linee generali, dei più di 24.000 morti – 24.112 – censiti dall’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia, un immenso progetto di ricerca voluto dall’Istituto Nazionale Parri e dall’Anpi, finanziato dal Fondo italo-tedesco per il futuro e divenuto un database disponibile online[1].

Quei più di 24.000 morti – una cifra immensa per l’Europa occidentale, che prima dell’Atlante individuavamo in un ordine inferiore di almeno 10.000 unità – raccontano oggi, con tanti e maggiori dettagli, ciò che perlopiù conoscevamo per grandi linee oppure, in casi rari – o, meglio in spazi geografici più attenti, solo apparentemente perché più coinvolti – seri approfondimenti su punti specifici[2].

È la storia, che sembra una scoperta dell’ultimo ventennio, delle stragi contro gli italiani perpetrate dai reparti tedeschi e da quelli fascisti repubblicani nel periodo compreso tra l’estate del 1943 e la primavera del 1945. È quello che la storiografia ha perlopiù, a lungo e a ragione, chiamato «guerra ai civili»[3] e che oggi più frequentemente si tende a indicare – in un censimento di vittime diversificate – come guerra agli inermi.

Non solo civili, dunque, ma chiunque, compresi i partigiani disarmati, fu ucciso quando avrebbe dovuto essere tutelato dal nemico al quale si era arreso o dal quale era stato sconfitto e catturato. Inermi furono così, al fianco di quelli che noi consideriamo “ovviamente inermi”, come i bambini di Sant’Anna di Stazzema, i contadini di Marzabotto e Civitella, i detenuti politici delle Fosse Ardeatine, i prigionieri di guerra catturati a Cefalonia, i partigiani della Benedicta e di Figlìne di Prato.

Ciò non toglie, tuttavia, che i civili continuino a rappresentare il più alto numero di vittime delle stragi: nell’estate di sangue del 1944, ad esempio, erano civili il 66% delle vittime di Toscana ed Emilia Romagna, le regioni in generale più colpite dal fenomeno complessivo. Il «tributo di morte» dei civili, ha scritto Chiara Dogliotti, è infatti «più di cinque volte superiore a quello del resto del paese»[4].

La categoria di «guerra ai civili» resta valida in moltissimi casi, per moltissimi eccidi, come quelli di tipo “eliminazionista”, tesi cioè all’eliminazione di intere comunità e interi gruppi di prigionieri[5]. Eliminazioniste sono ben 9 delle stragi toscane, tra cui Stia-Vallucciole, Sant’Anna di Stazzema, San Terenzo Monti-Fivizzano e Vinca[6]

In generale, la categoria di «guerra ai civili» è valida per tutta l’Italia centrale dell’estate 1944, periodo in cui si assiste anzi, come scrive Francesco Fusi, a una «marcata escalation della “guerra ai civili”» dimostrata dalle cifre, che raccontano come, in quell’estate, la Toscana ebbe l’89% delle sue vittime complessive[7].

In generale, su 660 episodi avvenuti in Toscana tra il settembre del 1943 e i primi giorni dell’aprile del 1945, e 4.071 vittime, 3.762 furono “civili”, con tutto ciò che questo termine poteva rappresentare: uomini, donne, adulti, anziani, bambini. Più di 243 bambini e 161 ragazzi entro i 17 anni, precisamente.

La categoria di «guerra ai civili», pensata, come si diceva, da Michele Battini e Paolo Pezzino nel 1997, era anche declinazione della categoria di guerra civile e stava a indicare – cito da ciò che scrive Pezzino – «l’atteggiamento dell’esercito tedesco di programmatica violenza contro gli inermi, accusati di essere complici dei partigiani»[8].

Tuttavia, parliamo oggi di «guerra agli inermi» perché consideriamo più nel dettaglio le caratteristiche dei loro carnefici – i responsabili, i cosiddetti perpetratori, nel “più neutro” linguaggio scientifico –, che non furono tutti animati da un puro spirito di sterminio, ma che anzi perlopiù si mossero, cioè fecero quello che fecero, nell’ambito della guerra totale. E consideriamo più nel dettaglio le caratteristiche delle stesse vittime, che oltre a essere civili furono spesso qualcosa in più che oggi si conosce meglio, e che si racconta come parte integrante della ricostruzione scientifica complessiva.

La definizione di «guerra ai civili» conteneva già, quindi, il tema della violenza “contro gli inermi”, pur omologando – come si accorgevano già alla fine del secolo scorso i principali studiosi del tema – situazioni e contesti eccessivamente differenti[9]. La successiva categoria di «guerra agli inermi» è perciò un approfondimento della prima, ed è conseguente alla dilatazione, all’ampliamento della specificità delle vittime, non più assunte esclusivamente nel loro ruolo di “morti”.

Le loro morti sono, infatti, in qualche modo, contestualizzate, descritte, interpretate – cosa che assolutamente non vuol dire giustificate – in base alla “causa” per cui sono avvenute. Ciò significa, in pratica, che le 24.121 vittime individuate (una stima comunque destinata a non essere definitiva) non furono uccise in quanto o solo in quanto civili, ma anche in quanto partigiani o militari disarmati, antifascisti o sostenitori dei partigiani, ebrei, disertori e renitenti alla leva di Salò etc.

Di conseguenza, nelle 5.750 schede dell’Atlante – tanti sono gli episodi di strage censiti[10] – si è ritenuto, scrivono Pezzino e Fulvetti, di attribuire «la qualifica di “civili” solo a coloro che erano stati selezionati a caso, differenziandoli da quelli uccisi per una loro chiara attività di opposizione […], o per aver vestito una qualche divisa […] o un abito religioso, o perché colpiti in quanto ebrei, o ancora per il rifiuto di far parte dell’esercito della Rsi […]»[11].

Sebbene in questo quadro i civili restino in ogni caso la maggior parte dei morti – 12.922 su più di 24.000 –, tale “approfondimento” ha restituito alle vittime la qualifica di cittadini, cosa che fanno anche, se non soprattutto, i nomi e cognomi che ci si è ostinati a ritrovare e riportare. Cittadini, non semplicemente travolti dagli eventi della storia, per quanto questo non risolva minimamente la totale “gratuità” e criminalità della loro morte.

Quella di «guerra agli inermi» è definizione che rimanda direttamente all’oggetto, al destinatario dell’esplicitazione di quella violenza: l’inerme, il senza armi, cosa che ha permesso di includere nel computo anche gli stessi partigiani quando, catturati e disarmati, venivano uccisi – spesso, anzi, barbaramente trucidati – senza che fosse loro garantita la tutela che sarebbe spettata a un nemico riconosciuto come legittimo. Nell’Atlante, tra gli inermi, sono così rientrati i partigiani non caduti in combattimento ma, dopo la cattura, fucilati, mitragliati, impiccati, annegati, arsi vivi, torturati a morte. Sono, dopo i cosiddetti “civili”, la seconda categoria di vittime in ordine di grandezza: 7.241.

Contestualizzare e catalogare le stragi non è un mero esercizio statistico, anzi: è qualcosa che ci permette di andare oltre il dato numerico e di fare della storia, di questa storia, un argomento di decifrazione degli eventi. Ci complica le cose, quindi le rende utili. Ad esempio, ci permette di evitare il discorso, non scientifico né tanto meno rispettoso nei confronti delle vittime, relativo all’«irrazionalità del male»[12] come causa di tutto, alla follia di pochi che causarono danni e dolori irreparabili.

È un discorso, questo, si diceva, irrispettoso e giustificazionista, oltre che scorretto, perché nasconde un dato basilare per la comprensione, e cioè il fatto che tutto quello che accadde, accadde sulla base di un piano preciso, attentamente studiato e preparato[13]. Fu qualcosa di voluto dagli uomini, insomma, non un volere del fato.

La guerra contro gli inermi fu infatti una delle tre guerre, così ben individuate e descritte da Carlo Gentile, che i tedeschi svilupparono in Italia tra 1943 e 1945: la prima fu quella contro gli eserciti alleati, la seconda quella contro i partigiani, la terza quella contro le popolazioni[14]. Quest’ultima fu una guerra che si svolse lungo direttrici nazionali (sud-nord) e non risparmiò alcuna piccola e grande terra d’Italia: 24.112 vittime in 5.750 episodi distribuiti dal sud al nord più profondi.

Fu una guerra che cominciò settimane prima dell’armistizio – la bollente estate del 1943 nella Sicilia dello sbarco alleato, dello sbando militare italiano e della furia degli allora ancora alleati tedeschi – e si concluse dopo la grande insurrezione nazionale, la liberazione del Nord intorno al 25 aprile 1945, con le ultime feroci stragi della ritirata, con centinaia di morti – 1.590 furono i morti “di strage” dopo il 25 aprile – inconsapevoli di quella raggiunta libertà, travolti dalla violenza dell’esercito tedesco, e dei suoi alleati fascisti, in una rotta senza speranza.

Fu una guerra in cui si intrecciarono, accavallarono o convissero decine di “ragioni” per le stragi, “modi” per perpetrarle e tipi di vittime. È quindi una storia che racconta l’estrema varietà delle pratiche di occupazione e controllo dei territori, l’estrema labilità nella sicurezza degli abitanti – si veniva uccisi anche perché non si comprendeva un ordine, o per aver difeso la propria figlia da una violenza sessuale – l’estrema molteplicità delle pratiche repressive.

Non furono solo rappresaglie quelle che condannarono gli inermi a una morte brutale e destinata a non avere giustizia, e non sempre fu immediato il rapporto tra l’attività partigiana e la brutalità nazista e fascista, come si è a lungo pensato, in termini di un’accusatoria esclusiva.

Tale brutalità, anzi, si legò molto spesso – lo dicono i numeri – all’andamento della guerra, all’essere il fronte più o meno vicino: come ha scritto Gentile «la topografia delle stragi […] mostra che il grosso dei crimini più gravi andò a concentrarsi nella zona di combattimento o immediatamente alle sue spalle. […] Qui i crimini non erano necessariamente legati all’attività di gruppi partigiani, che al fronte era relativamente rada»[15].

È indubbio e scientificamente provato che vi sia stato spesso un collegamento tra l’attività resistenziale e quella repressiva nazista e fascista; tuttavia, a lungo, a volte ancora oggi, si è voluto vedere in tale collegamento una “responsabilità”, una “colpa” dell’azione partigiana nello scatenamento della strage, in un discorso che delegittima integralmente la giustezza e la moralità della Resistenza, e che serve – sviluppato com’era soprattutto negli anni in cui per le stragi non c’era giustizia né discorso pubblico ma occultamento – a tacere le colpe della ragione di Stato.

È forse superfluo, ma è comunque bene ribadirlo: le stragi furono una – la più atroce – delle forme di esplicitazione, della messa in pratica, della politica di occupazione nazista e fascista sul territorio, occupazione contro la quale la Resistenza italiana lottò a pieno titolo, al fianco degli eserciti alleati e delle ricostituite formazioni regolari delle forze armate regie. I responsabili delle stragi agirono solitamente sulla scorta del principio della “responsabilità collettiva”, identificando volutamente e strumentalmente partigiani e popolazione. La presenza della Resistenza fu anzi spesso una buona scusa per i tedeschi e i fascisti che, come a Sant’Anna di Stazzema, «non tentarono [neanche] – ha scritto Maurizio Fiorillo – di distinguere tra partigiani, collaboratori e non combattenti, procedendo all’uccisione dei civili […] trovati sul posto»[16]. Del resto, gli inermi erano un nemico molto più semplice da affrontare rispetto ai partigiani armati.

Ci furono, però, le rappresaglie, eccome: furono anzi la seconda “tipologia” di eccidio più praticata dai responsabili delle stragi, seconda solo a quella dei rastrellamenti – la Toscana fu molto colpita da questi ultimi, soprattutto nella loro versione antipartigiana[17]. I rastrellamenti colpirono civili, collaboratori dei partigiani e partigiani stessi, e comportarono bandi di sfollamento, razzie, deportazioni, distruzione di raccolti e uccisione di bestiame. In sintesi, un rastrellamento era la cancellazione, dalle fondamenta, di ogni possibilità di sopravvivenza per le singole comunità del paese; era la distruzione del luogo, spesso definitiva, biologica e materiale, a partire, ovviamente, dagli esseri umani. Era, ovviamente, un durissimo colpo all’esistenza partigiana, che in quel contesto viveva e operava, e che quel contesto sperava e tentava di proteggere.

Ci furono poi – ma ci si sta limitando ad alcune delle categorie – le “stragi di desertificazione e ripulitura”, la terra bruciata, che colpì decine di abitanti di paesini e frazioni del territorio nazionale – comprese, anzi particolarmente coinvolte, le terre toscane – che, anche “solo” per “mere” ragioni di sopravvivenza, non volevano abbandonare la loro casa, la loro poca roba, quel po’ di raccolto, il maiale o la mucca, in zone che i tedeschi ritenevano di importanza militare, e così da sgomberare.

Le persone travolte da questa ulteriore modalità della violenza non furono “solo” uccise, magari facendole saltare in aria con le loro case, ma vennero anche, spesso, fatte prigioniere, torturate, stuprate e poi assassinate. La Toscana fu uno dei luoghi principali dell’Italia centrale in cui, tra la primavera e l’estate del 1944, i tedeschi – e i loro alleati fascisti – scatenarono una gigantesca offensiva contro i partigiani, finendo con il far sovrapporre – come scrive Fulvetti – «zona di guerra e spazio partigiano»[18]. In quel contesto tutto era nemico da abbattere: il partigiano in armi, il soldato alleato, il bambino del girotondo di Sant’Anna di Stazzema.

A tutto questo va aggiunto – è anch’esso un dato sostanziato da numeri provenienti da fonti verificabili – un’infinita quantità di cosiddette “violenze connesse”, quelle che, come si accennava, accompagnavano, immancabili e impietose, la violenza letale: incendi, saccheggi, deportazioni, violenze sessuali, torture.

Ancora, la storia che l’Atlante racconta è, per quanto possibile, la storia dei carnefici, compresi i fascisti, responsabili di «un autonomo stragismo di italiani contro italiani, più politico, più urbano, non legato al sistema degli ordini o alla ritirata quanto al revanchismo contro i “traditori”», scrivono Pezzino e Fulvetti[19].

Questi carnefici, per quella che avrebbe dovuto essere la loro storia, sono i protagonisti della seconda parte di questa lezione.

[1] www.straginazifasciste.it. Il sito è accompagnato da un volume di taglio interpretativo, al quale si farà spesso riferimento, curato da Paolo Pezzino e Gianluca Fulvetti: Zone di guerra, geografie di sangue. Le stragi naziste e fasciste in Italia (1943-1945), Bologna, Il Mulino, 2016.
[2] Penso, ovviamente, proprio alla Toscana e anche ad alcuni studi dello stesso Ivano Tognarini o da lui curati, come La guerra di liberazione in provincia di Arezzo. 1943-1944. Immagini e documenti, Arezzo, Amministrazione provinciale, 1987; Guerra di sterminio e Resistenza. La Provincia di Arezzo, 1943-44, a cura di I. Tognarini, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1990; I. Tognarini, Kesselring e le stragi nazifasciste. 1944: estate di sangue in Toscana, Roma, Carocci, 2002; L’Appennino del ’44. Eccidi e protagonisti sulla Linea Gotica, a cura di I. Tognarini, Montepulciano,  Le balze, 2005.
[3] A partire dal volume di Michele Battini e Paolo Pezzino, Guerra ai civili. Occupazione tedesca e politica del massacro. Toscana 1944, Venezia, Marsilio, 1997.
[4] C. Dogliotti, Cronografia. Territori e fasi della politica del massacro, in Zone di guerra, geografie di sangue, cit., p. 107.
[5] Cfr. ciò che scrive Gianluca Fulvetti, in G. Fulvetti-P. Pezzino, L’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia, Ivi, p. 82.
[6] Cfr. http://www.straginazifasciste.it/?page_id=349.
[7] Francesco Fusi, L’Italia centrale, estate 1944, in Zone di guerra, geografie di sangue, cit., p. 267.
[8] P. Pezzino in G. Fulvetti-P. Pezzino, L’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia, Ivi, p. 25.
[9] Ivi, p. 26.
[10] È la stima alla data del 18 maggio 2018, ma l’Atlante è in continuo aggiornamento.
[11] G. Fulvetti-P. Pezzino, L’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia, Ivi, p. 45.
[12] Il richiamo è ancora a P. Pezzino, Ivi, p. 30.
[13] Ibidem.
[14] Carlo Gentile, I crimini di guerra tedeschi in Italia, Torino, Einaudi, 2015.
[15] Carlo Gentile, I tedeschi e la guerra ai civili in Italia, in Zone di guerra, geografie di sangue, cit., p. 133.
[16] Maurizio Fiorillo in Chiara Donati-Maurizio Fiorillo, Le stragi sulla linea Gotica, Ivi, p. 311.
[17] G. Fulvetti in G. Fulvetti-P. Pezzino, L’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia, Ivi, pp. 77-79.
[18] Ivi, p. 69.
[19] Ivi, p. 43.

Articolo pubblicato nel giugno del 2018.




Riflessioni sulla crisi della mezzadria nel Carmignanese

Un paio di anni fa, lavorando ad una ricerca sul tramonto della mezzadria nella zona di Prato con particolare riguardo alla situazione della Val di Bisenzio, ebbi modo di constatare che ben poco era stato scritto sull’argomento per quanto concerneva il Carmignanese, un territorio dove l’agricoltura ha sempre rivestito (e tuttora riveste) un’importanza rilevante e dove esistevano alcune grandi fattorie, prima fra tutte quella di Capezzana, che contava circa 120 poderi (per farsi un’idea delle sue dimensioni, davvero eccezionali, basti pensare che la Fattoria del Mulinaccio, la più grande della Vallata, che si estendeva su di un’area equivalente all’incirca alla metà del territorio dell’attuale Comune di Vaiano, comprendeva in tutto 36 poderi).

Alcune notizie sull’agricoltura a Carmignano si trovavano in opere che, per quanto interessanti e di gradevole lettura (pensiamo ai volumi di Giuseppe Mauro Bindi e di Arrigo Cecchi), rivestivano più il carattere della memorialistica che quello della ricerca storica.

Altri lavori (per esempio Carmignano. Quotidinanità e istituzioni tra Ottocento e Novecento, di Fabio Panerai) avevano un taglio sociologico, oppure fornivano solo degli spunti – sia pure stimolanti ­– sull’argomento in questione (ci riferiamo al libro di Nadia Barducci e di Paolo Gennai sulla Resistenza nel Carmignanese).

L’unica ricerca specificamente dedicata all’agricoltura nella zona (quella di Silvia Palumbo, intitolata Un’indagine sull’agricoltura nel comune di Carmignano) risaliva al 1988 ed abbracciava un periodo successivo a quello di cui ci occupiamo.

Ciò che mancava era una ricostruzione d’insieme, centrata sui fattori che determinarono la fine della mezzadria, l’abbandono delle campagne e le successive trasformazioni economiche e sociali: nacque così l’idea – subito accolta, con squisita sensibilità culturale, dal Comune di Carmignano – di lavorare ad una pubblicazione su questi temi. Il libro, arricchito da un saggio introduttivo di Fabio Bertini ed intitolato “Levassi di cappello e venir via”. Agricoltura e crisi della mezzadria nel Carmignanese, è uscito nell’aprile di quest’anno per i tipi della casa editrice Polistampa di Firenze.

Le fonti su cui lavorare erano, per fortuna, numerose: fonti archivistiche, fonti a stampa, fonti orali e risorse in Rete.

I principali documenti su cui si basa il saggio sono stati reperiti presso l’Archivio del Comune di Carmignano, presso quello della Camera del lavoro di Prato e fra le carte prodotte dalla Confederterra toscana, custodite a Firenze nella sede della CGIL regionale.

Di centrale importanza sono state le fonti a stampa, in primo luogo il periodico Toscana nuova, che pubblicava di frequente delle corrispondenze da Carmignano a firma di Gennaro Meli, scomparso di recente, segretario della Lega coloni e mezzadri e consigliere comunale del PCI nei primi anni Cinquanta.

Come spesso accade in questo genere di lavori, le fonti orali hanno avuto un ruolo di primo piano: con gratitudine voglio quindi ricordare tutte le persone che, in tempi diversi, hanno saputo fornirmi delle informazioni di grande interesse.

Utili sono state infine le risorse in Rete: pensiamo soprattutto all’Archivio della cultura contadina, consultabile online dal sito del Comune, che raccoglie una serie di interviste condotte da Giovanni Contini Bonacossi negli anni Novanta.

Il titolo del volume (“Levassi di cappello e venir via”), tratto da un componimento poetico in ottava rima del contadino carmignanese Luigi Socci, ci pare che riassuma con grande efficacia la natura del rapporto che intercorreva fra padroni e mezzadri, costretti ad obbedire senza possibilità di replica: come spesso accade il poeta popolare riesce a cogliere con precisione il fulcro dell’argomento di cui si occupa, il nocciolo della questione, ed a renderlo con quell’immediatezza che non a tutti è dato di possedere.

“Levassi di cappello e venir via”, dunque. Cerchiamo allora di ricostruire, in estrema sintesi, le condizioni dei contadini carmignanesi negli anni Cinquanta-Sessanta, gli anni che videro la fine del sistema mezzadrile.

Senza alcun dubbio la loro vita era una vita molto difficile: i mezzadri vivevano in case fatiscenti, senza servizi e – spesso – senza acqua corrente (anche qui c’era chi era costretto a percorrere 1-2 chilometri a piedi per approvvigionarsi di acqua alla sorgente più vicina); dovevano fare con le loro braccia il lavoro che avrebbero dovuto fare le macchine; le opere di miglioramento fondiario non venivano realizzate dai proprietari; il ritardo nella chiusura dei saldi era quasi la regola ed altrettanto poteva dirsi della pratica degli addebiti illegali.

Il dato che, tuttavia, balza agli occhi con maggior evidenza è quello della tenuità del reddito mezzadrile: basti pensare che, come è stato rilevato in precedenti studi, un operaio guadagnava in media all’incirca il triplo di un contadino e che nel Pratese il reddito medio mensile di un mezzadro era superiore solo a quello di un ragazzo addetto all’avvolgitrice di filati, “a far cannelli”, come si dice.

Nessuna meraviglia, dunque, che i contadini volessero abbandonare le campagne. Il discorso valeva soprattutto per i giovani, che fuggivano dai poderi rifiutando una vita senza prospettive, identica a quella dei genitori, per cercare in città un lavoro meno massacrante e più redditizio, maggiori possibilità di socializzazione e di divertimento.

La mezzadria era insomma condannata: ma i padroni volevano davvero salvarla?

In realtà, si può sostenere che essi – assumendo un atteggiamento di rigida chiusura nei confronti delle richieste avanzate dal movimento contadino – contribuissero scientemente all’affossamento dell’istituto mezzadrile, dato che il loro vero obiettivo non era la sua difesa, ma piuttosto la trasformazione in senso capitalistico delle aziende agricole, il passaggio alla conduzione a salariati.

E questo fu proprio ciò che accadde anche a Carmignano: non per nulla in un suo libro di memorie l’agrario Ugo Contini Bonacossi, proprietario della Fattoria di Capezzana, ha scritto che la fine della mezzadria consentì ai proprietari una gestione delle aziende più agile e, con l’abbandono delle colture promiscue, necessarie al sostentamento della famiglia colonica, rese possibile un’utilizzazione più razionale del suolo.

Questa fu la linea che finì col prevalere, anche se c’era la possibilità di politiche alternative – imperniate su una riforma agraria strutturale, che desse ai contadini la terra ed i mezzi per lavorarla – la cui realizzazione fu resa impossibile dalle resistenze degli agrari e delle forze politiche di maggioranza, che costituivano il loro referente al governo ed in Parlamento.

Articolo pubblicato nel giugno del 2018.




I bombardamenti su Siena (1944)

La storiografia si è a lungo rivolta allo studio delle incursioni aeree sul territorio italiano da un punto di vista prettamente bellico, dedicando quindi grande attenzione alle operazioni militari e tralasciando spesso le conseguenze prodotte sul territorio e sulla popolazione civile. Tuttavia, come ha osservato Nicola Labanca, quella dei bombardamenti aerei non è storia militare ma è storia à part entière della guerra totale: è la storia non solo delle forze armate che la realizzano ma dei governi che ne decidono gli obiettivi come delle società civili che ne sopportano gli effetti.[i] Questo, peraltro, è ancor più vero per un territorio come quello senese, il quale visse in maniera assolutamente singolare l’esperienza della guerra aerea.[ii]

Come in molte altre città d’Italia, anche a Siena l’allestimento delle misure di difesa antiaerea in vista di futuri conflitti ebbe inizio a partire dagli anni Trenta. Nel 1936 si svolsero le prime prove di oscuramento in tutta la provincia senese,[iii] cui seguirono nel maggio del 1940 due giorni di esercitazioni per eventuali attacchi chimici.[iv] La mancanza assoluta di fondi rese tuttavia impossibile affrontare le spese necessarie alla costruzione di rifugi antiaerei, all’istallazione di un impianto di sirene di allarme e persino all’acquisto dell’equipaggiamento per le squadre di primo intervento. Di questi problemi si lamentò più volte l’Ispettore Provinciale di Protezione Anti Aerea, tenente colonnello Giuseppe Crocini, il quale denunciò inoltre la scarsa coscienza antiaerea dimostrata dagli enti e dalle istituzioni cittadine.[v]

A causa di tali carenze, Siena giunse al momento dell’ingresso in guerra dell’Italia, il 10 giugno 1940, totalmente sprovvista di qualsiasi struttura difensiva.

Inizialmente, le autorità affrontarono il problema realizzando alcuni ripari antischegge nei vicoli del centro storico,[vi] mentre i primi grandi ricoveri pubblici, capaci di ospitare alcune migliaia di individui e di resistere perlomeno all’impatto con ordigni da 100 kg,[vii] vennero completati soltanto nel corso del 1943.

Il primo bombardamento subito da Siena il 23 gennaio 1944, in cui persero la vita venticinque persone,[viii] arrivò in maniera del tutto inaspettata, dopo oltre tre anni di guerra durante i quali la città non era mai stata oggetto di attacchi e, proprio per questo, aveva rappresentato un riparo sicuro per chi fuggiva dal conflitto: basti pensare che le strutture ospedaliere senesi arrivarono a contare oltre 6.000 posti letto[ix] e che in tutta la provincia affluirono più di 18.000 sfollati[x], provenienti da ogni parte d’Italia; numeri enormi per il tempo, considerato anche il difficile contesto nel quale queste persone vennero accolte.

La città del Palio subì alla fine un numero piuttosto limitato di bombardamenti – i più rilevanti furono quelli del 23 e 29 gennaio, 8 e 16 febbraio, 11 e 14 aprile – i quali tuttavia causarono più di quaranta morti, assieme alla distruzione della stazione ferroviaria, della Basilica e del Convento dell’Osservanza e di numerose abitazioni private. A queste operazioni più note, si aggiunse inoltre una lunga serie di spezzonamenti e mitragliamenti, di molti dei quali è andata perduta nel tempo la memoria, ma che produssero comunque danni ed alcune vittime. Tra questi vale la pena ricordare lo spezzonamento avvenuto in Piazza San Francesco il 10 giugno 1944, il quale provocò la distruzione di tutte le vetrate della Basilica e l’uccisione di un soldato tedesco, oppure quello che si verificò in Piazza del Duomo e Via dei Pellegrini nella notte tra l’1 ed il 2 luglio 1944, del quale sono ancora visibili i segni sul Battistero e sulle  mura del Museo dell’Opera. Ma l’elenco comprende pure Via Roma e Fieravecchia, spezzonate il 16 maggio 1944, la Barriera di San Lorenzo, Porta Pispini, Via Pantaneto, Via Diacceto, Via San Pietro e molte altre.[xi]

Sebbene la posizione piuttosto defilata e l’assenza di obiettivi di particolare rilevanza militare – con l’unica eccezione della stazione ferroviaria – abbiano posto Siena al riparo da distruzioni particolarmente estese, la città subì comunque gli effetti della guerra aerea su tutto il proprio territorio, non soltanto nelle aree periferiche e di campagna, ma anche all’interno del centro storico, circostanza quest’ultima conosciuta prevalentemente dagli storici locali ed ignorata dai più.

Note:
[i]Labanca Nicola (a cura di). I bombardamenti aerei sull’Italia. Politica, stato e società (1939-1945). Il Mulino; Bologna, 2012, p. 8.
[ii]Questo breve contributo è tratto dalla tesi di laurea dell’autore: La guerra aerea su Siena. Misure difensive, bombardamenti, iniziative diplomatiche. Tesi di Laurea in Scienze Storiche e del Patrimonio Culturale, Università degli Studi di Siena, anno accademico 2016-2017. Per ulteriori informazioni sui bombardamenti aerei nella provincia senese durante il Secondo conflitto mondiale, si vedano Biscarini Claudio. Bombe su Siena. La città e la provincia nel 1944. Del Bucchia; Massarosa, 2008; e Luchini Luca. Siena 1940-1944. Il dramma della guerra e la liberazione. Il Leccio; Monteriggioni, 2008, pp. 93-112.
[iii]Archivio di Stato di Siena [d’ora in poi ASSI], Prefettura di Siena 1800-1978 (2004), b. 10M, f. 10. 8 settembre 1934 relazione dell’Ispettore Provinciale P.A.A. a Prefetto ed Ufficio dello Stato Maggiore di Firenze.
[iv]Il Telegrafo, 29 Maggio 1940. La perfetta riuscita degli esperimenti di protezione antiaerea.
[v]ASSI, Prefettura di Siena 1800-1978 (2004), b. 8M, f. 3. 28 settembre 1937, relazione dell’Ispettore Provinciale di P.A.A. al Comando del Distretto Militare di Siena.
[vi]ASSI, Prefettura di Siena 1800-1978 (2004), b. 6M, f. 15. 13 febbraio 1941, lettera dell’Ispettore Provinciale P.A.A. al Ministero dell’Interno, prot. 2445 P.A.
[vii]ASSI, Prefettura di Siena 1800-1978 (2004), b. 1M, f. 3. 16 novembre 1942, lettera del Podestà al Presidente del C.P.P.A.A., prot. 13290.
[viii]Questi i nomi delle vittime: Baccheschi Ada; Ridolfi Galeazzo; Carreri Vanda; Carreri Emma; Campolmi Natale; Franci Quirino; Borri Aldo; Saccardi Ubaldo; Centini Fortunato; Colicchi Giulio; Bartoli Elia; Mariti Ezio; Bartalini Giuliana; Pacini Maria; Anatrini Zaira; Anatrini Gino; Anatrini Mario; Del Lungo Primetta; Selvolini Tea; Maccari Santi; Veneri Ida; Maccari Maria; Marzucchi Azelio; Campolmi Duilia; Santi Dina. Cfr. ASSI, Prefettura. Ufficio Gabinetto (1935-1957) – III Versamento (2004), b. 77, f. 41. Elenco delle vittime dell’incursione aerea del 23 gennaio 1944.
[ix]Paoletti Paolo. La vicenda diplomatica del riconoscimento di Siena “città aperta”: tra il falso storico della “città ospedaliera” e la verità oggettiva del centro ospedaliero, in Biscarini Claudio, Meoni Vittorio, Paoletti Paolo. 1943-1944. Vicende belliche e resistenza in terra di Siena. Nuova Immagine; Siena, 1994, p. 44.
[x]La Nazione, 14 Marzo 1944. Relazione del Capo della Provincia sull’attività svolta dal Partito.
[xi]AS-SI, Prefettura di Siena 1800-1978 (2004), b. 17M, f. 4. Diari della P.A.A.; AS-SI, Prefettura di Siena 1800-1978 (2004), b. 17M, f. 5. 1940-1944, Quaderno degli allarmi.

Articolo pubblicato nel maggio del 2018.




Quel 29 giugno del 1944

Il passato imprevedibile

Gli antropologi non sono degli storici, ma hanno una importante componente di formazione legata alle teorie della storicità. L’evoluzionismo, il diffusionismo, il marxismo e lo strutturalismo, che hanno segnato l’antropologia del Novecento, sono teorie che si basano tutte su una idea della storia. Nella mia formazione antropologica mi sono abituato a immaginare il processo storico sulla base di leggi che regolano i comportamenti collettivi (lotta delle classi, evoluzione delle civiltà, diffusione da un centro, modelli simbolici e secondarietà della storia). Con la ‘crisi delle grandi narrazioni’ anche queste idee normative e  generali della storia  si sono fortemente indebolite. A me personalmente, legato come sono – da antropologo – allo storicismo italiano che è attivo anche nel pensiero di Gramsci, si sono aperte possibilità complesse di attenzione e comprensione dei fatti e soprattutto delle rappresentazioni storiche, pur non rinunciando a ricondurle sempre ai processi collettivi di cui ci occupiamo. Nel mio lavoro di collaborazione con l’Archivio Nazionale Diaristico di Pieve Santo Stefano, nel quale sono membro della giuria e quindi ‘lettore’, mi è capitato tante volte di avere tra le mani diari, autobiografie, epistolari i cui contenuti narrativi non corrispondevano alle immagini generali che avevo della storia e dei suoi soggetti. In senso generale ‘scandalosi’ per le mie ‘precognizioni’. Mi abituavo così a non dedurre il passato da un modello generale, ma ad aprirlo vistosamente alla varietà delle forme della vita. Poteva essere un maestro fascista in Dalmazia, che non corrispondeva alla mie idea dei maestri fascisti, o un emigrato italiano in Australia, o un prigioniero italiano in India, ma l’idea di parlare di un ‘passato imprevedibile’ mi è venuta leggendo l’epistolario di un giovane aristocratico  siciliano – Fazio Salvo dei Baroni di Nasari  – che a metà dell’800 faceva il Gran Tour al rovescio, dal Sud al Nord, e raccontava come era Firenze per lui in quell’anno, come erano i vestiti alla moda, le serate mondane, poi raccontava Torino, poi la Germania, chiedendo soldi ai familiari, in modalità simili ai ‘bonifici bancari’ (che io ho appena scoperto) ben note a viaggiatori e commercianti di quel secolo[1]. Ma non è un problema di rivalutazione della storia ‘individuante ’ o ‘evenimenziale’, ma piuttosto di apertura a diversi possibili  modi di immaginazione storiografica e antropologica  di tratti del passato.  Intanto nel 1994 mi ero  imbattuto in un mondo per me davvero inimmaginabile: quello del vissuto dei sopravvissuti alle stragi naziste in Toscana. Una esperienza che mi ha cambiato, come succede quando si fanno ricerche importanti.

Stragi

Nel 1993/94 fui coinvolto da Leonardo Paggi in un progetto di ricerca sulla memoria delle stragi naziste in Toscana, che si svolgeva tra Civitella della Chiana e Bucine. Il caso era caratterizzato – oltre che dalla quantità dei morti civili – dalla ostilità dei sopravvissuti verso i comportamenti delle locali formazioni partigiane. Il fenomeno della  ‘memoria antipartigiana’ è noto e documentato lungo tutto il passaggio del fronte tra Toscana ed Emilia.[2] Lo affrontai con un gruppo di ricerca di giovani ricercatori e studenti che venivano dalla Università di Roma (dove allora insegnavo antropologia culturale) e di Siena (doveva avevo insegnato fino al 1991);  insieme ad altri  colleghi storici e antropologi, tra i quali mi  pare importante ricordare  Francesca Cappelletto che scrisse delle stragi naziste anche su riviste internazionali. La ricordo con particolare emozione perché è morta assai giovane. C’era Giovanni Contini, storico orale della Soprintendenza regionale archivistica e la antropologa visiva Silvia Paggi che realizzò un film. Ci fu anche un convegno internazionale In memory: per una memoria europea dei crimini nazisti. La ricerca produsse molto materiale di intervista poi versato alla Regione Toscana. Anni dopo fu la Regione Toscana a riprendere un progetto più ampio di ricerca delle stragi sulla Toscana a tutto campo. La guidò ancora Leonardo Paggi, e io partecipai con un gruppo di ricerca dell’Università di Firenze, alcuni laureati romani, e la direzione di Fabio Dei. Con alle spalle l’esperienza di Civitella fu più facile, ma non meno doloroso incontrare mondi di una Toscana marginale, montana e contadina, così segnati dal lutto.  Puntammo la ricerca sulla ‘rappresentazione degli eventi e del lutto e sui riti di memoria’[3].

La ricerca di Civitella fu una vera iniziazione. Mi ero formato agli studi sulla Resistenza con una ricerca sulla memoria orale dei testimoni della Spartaco Lavagnini, e della Garibaldi Boscaglia, tra Siena e Pisa. Avevo della Resistenza una immagine un po’ epica, e un po’ radicale. Nei primi anni ’80 collaborai con l’Istituto di Milano (INSMLI), allora diretto da Guido Quazza su temi della didattica della storia, e i miei riferimento cominciarono ad essere meno epici e più legati alla vita quotidiana, Quazza e poi Claudio Pavone – da dentro la loro esperienza – ci avevano insegnato a far calare l’epos e il tasso di ideologia dalla memoria della Resistenza, e a far crescere la comprensione di molteplici storie di giovani, spesso confuse, complesse da discernere, formatesi sul campo talora a partire dai renitenti alla leva. Anche alla Resistenza Quazza aveva osato estendere il tema del ‘personale’ , della spontaneità, che tanto aveva caratterizzato la fine degli anni ’70 e l’esplosione  del femminismo. E Pavone ci aveva inquietato e fatto riflettere sulla nozione di ‘guerra civile’ che chiedeva una nuova complessità dello sguardo storico. Ciononostante fu duro per me affrontare l’incontro con i rappresentanti delle famiglie di Civitella colpite dalla strage, disposte a collaborare solo a patto che noi non li confondessimo con il mondo della resistenza e non difendessimo quella resistenza locale che vedevano come causa prima della strage. Gli antropologi tendono sempre – metodologicamente – ad essere dalla parte dei loro testimoni, e questo ci facilitò l’impresa.  E questo risultò per me poi un arricchimento e una apertura imprevista alla comprensione.

Non sapevo se era la fine del mondo

I risultati condivisi della nostra ricerca non furono accettati facilmente, e fu soprattutto il libro di Giovanni Contini La memoria divisa (Milano Rizzoli 1997) a essere bersaglio di interpreti troppo fedeli alle ideologie e alle letture  più classiche della memoria antipartigiana.

Io ebbi una grande difficoltà ad elaborare questa esperienza. E debbo dire che dovetti accettare la presenza di una forte componente emotiva, un senso di smarrimento e di recupero della ragione, che è giusto raccontare in sede storica e antropologica. Come è giusto fare la storia e l’antropologia dei sentimenti, è anche giusto riconoscere il ruolo dei sentimenti nella ricerca.

La comunità di Civitella si aprì alle nostre interviste, i miei studenti furono adottati e coinvolti nelle memorie luttuose  e nella incessante presenza di un cordoglio mai compiuto del tutto.

Al centro della ricerca si posero decisamente i racconti. I racconti delle vedove, che in parte erano stati già proposti sulla rivista Società nel 1946, con stile orale, colpivano molto . Raccontavano delle giornate di sole, legate all’arrivo dell’estate, ai lavori della campagna, traversate dal dolore, dalla paura, dalle mitragliatrici, dal sangue, da eventi indicibili, fissati nella memoria come sul nitrato d’argento di una pellicola fotografica.

Il racconto su Società della vedova Marsili, mi rimase nella memoria:

 “…Non si vedeva che cadaveri di uomini, ma non potevo conoscerli perché i miei occhi erano velati dal dolore e dalla paura. Non sapevo se era la fine del mondo…” (Giuseppa Marsili vedova Tiezzi, in Società ,7-8, 1946)

La fine del mondo era anche il titolo della raccolta di scritti postumi dell’antropologo Ernesto De martino, dedicate a quelle che lui chiamò ‘apocalissi culturali’. Così mi colpirono i racconti dei corpi portati ai cimiteri, dei bambini testimoni di morti tragiche di persone carissime, il tutto legato a un cielo azzurro, a una giornata di sole, a una presenza delle messi e dei lavori agricoli.  La pioggia compare nella strage di Monte Sole, quando era cominciato l’autunno e il fronte si era spostato più a Nord.

Così anche i racconti dei bambini che trasportando in delle carriole i corpi dei loro cari improvvisamente prendevano velocità e si rincorrevano, e ridevano, e così finivano per far rientrare il  gioco dentro la morte.

I fatti, i ‘nudi fatti’ sono ora – asciutti ma capaci di suscitare ancora interpretazioni – nella scheda su Civitella della Chiana dell’Atlante delle Stragi naziste e fasciste in Italia. Meno di una pagina.  Che senso ha allora questa mia riflessione?

Il vecchio marinaio

Ho spesso raccontato ai miei studenti, ma anche in conferenze esterne all’Università, e di recente anche con un Power Point, questa esperienza di ricerca. E – nel tempo – la ho sentita sempre più attuale. Le morti dei civili si sono moltiplicate nelle guerre che hanno caratterizzato il mondo dopo la caduta del muro. Quel che appariva un episodio ai margini della Resistenza italiana, è diventato paradigmatico delle guerre nel mondo. Mi colpisce che ancora qualcuno parlando pubblicamente dica che bisogna tenere memoria  perché non succeda più. Succede ancora e più di prima. Ma, soprattutto andando a presentare a  Crespino sul Lamione  il libro sulla strage scritto da Valeria Trupiano nel quadro della nostra ricerca,  in quel piccolo centro di montagna[4], dove i riti della memoria si sono radicati in un ambito fortemente religioso, mi parve evidente che gli eredi del dolore e della morte di quella terra di confine dell’Appennino, erano più vicini al dolore del mondo per le stragi dei civili di quanto fossi io, vissuto dentro la guerra ma a distanza di sicurezza. E pensai che ricordiamo per sperare, per non perdere il filo con il passato, per dare senso ai morti e al futuro, per capire meglio il dolore degli altri, non perché non succeda più.

La lettura  che feci di Civitella in una chiave ‘demartiniana’[5] in termini cioè di lutto, di cordoglio, di memoria  e di lamento funebre,  oltre la storia dei fatti, mi apriva ai temi della pietà, del perdono, che hanno traversato la filosofia postbellica ( Paul Ricoeur, su Francia e Germania; Nelson Mandela sulla riconciliazione in Africa Australe etc…) e alla comprensione dei traumi legati alle guerre vicine (in specie quella che ha fatto esplodere la Yugoslavia) , alla possibilità di comprensione e di conciliazione . Mi pareva così di animare la memoria partigiana togliendola da fondamenta un po’ invecchiate e aprendola a nuove implicazioni. Ci sono due temi che ancora mi piace ricordare, ma che chiedono un racconto ulteriore.

Leonardo

Leonardo Paggi è uno storico del quale ho avuto ammirazione già dagli anni ’70 quando tentò una analisi gramsciana della società toscana e del rapporto tra passato e presente in questa regionesulla rivista Critica Marxista , ho poi collaborato al progetto Civitella, e ancora in seguito a delle iniziativa ad esempio dedicate al film di Giorgio Diritti,  L’uomo che verrà  (2009),  sulla strage di Monte Sole, ma mi è piaciuto anche il libro Il popolo dei morti, nelle sue scritture ci sono sempre tentativi di  trovare un senso generale ai processi, di aprire varchi diversi da quelli consueti alla storia – ormai nota nei fatti e nei documenti – dell’Italia nella seconda guerra mondiale, quella in cui lui ed io siamo nati.

Ma a Civitella venni a sapere che lì era stato ucciso dai tedeschi anche suo padre, medico a Firenze, resistente di famiglia ebraica, che era andato a visitare la famiglia e aveva creduto di essere al sicuro dove la famiglia era sfollata. La famiglia ne fu fortemente segnata. Paggi Gastone 37 anni  è nella lista dei morti  della strage. Le liste dei morti sono tra le cose più emotivamente significative di queste memorie.

Una testimonianza locale  dirà:

“Il Dott. Paggi di Firenze, … viene sorpreso nella sua camera matrimoniale. La Signora ed i bambini furono visti uscire ancor seminudi, con le vesti insanguinate mentre la casa bruciava. I resti del Dott. Paggi, ridotti in cenere, furono pietosamente raccolti in una bacinella”.

Leonardo, che dirigeva il nostro gruppo di ricerca aveva fatto quella esperienza in prima persona. Forse fu questo a farmi sentire, piuttosto che un ricercatore-interprete- divulgatore,  un sopravvissuto. Ho all’incirca la stessa età di Paggi, e quando Civitella della Chiana fu messa a ferro e fuoco io avevo appena compiuto i due anni ed era il giorno del mio onomastico. Ma stavo in Sardegna, dove certo era una bella giornata di sole come a Civitella, ma dove la furia della guerra era lontana.  Ed è in questa veste che mi sono idealmente connesso alle pagine di Primo Levi de I sommersi e i salvati, in cui richiama l’obbligo di testimoniare con un brano della a Ballata del vecchio marinaio di Coleridge :

Since then, at an incertain hour

That agony returns:

And till my ghastly tale is told

This heart within me burns.

Da allora, a ora incerta/ quell’ansia ritorna/ e finchè il mio terribile racconto non è concluso/ il cuore dentro il mio petto  brucia.

Si scrive per contagio dell’orrore ed obbligo a raccontarlo.

Innocenti

Forse sono innocenti i morti dei campi di sterminio, come i morti di Civitella, forse lo sono i civili morti di tutte le guerre. Ed il cordoglio per la morte che li accomuna nella tragedia della guerra mondiale  non è poca cosa. Ormai sembra proprio una sciocchezza separare i mondi delle memoria dolorosa, tanto più che essa è diventata sempre più attuale, sempre più capace di farci capire le guerre del mondo. Dal 1994 qualcosa è cambiato. La storia del lutto di Civitella e quella delle formazioni partigiane sono state rilette nel tempo e sono ormai oggettivamente sullo stesso fronte di memoria. Oggi è possibile più che allora, quando scrissi un testo Il ritorno dall’apocalisse[6], immaginare una memoria resistenziale che possa essere rappresentata come la Madonna degli Innocenti, con un grande manto in cui tutti le vedove e gli orfani e i dolori della guerra possano essere accolti sotto il suo mantello, come nella immagine quattrocentesca dell’Istituto degli innocenti di Firenze.

L’estate toscana del 1944, che ho scoperto nella memoria dei sopravvissuti  venendo dalla Sardegna, la ho ritrovata come un segnale forte di memorie bellica in tante storie di vita dei nonni dei miei allievi fiorentini. Cercando di iniziare i giovani antropologi alle interviste e a raccogliere storie di vita facevo intervistare i nonni, e ce ne erano pochi che non erano stati contadini e non avevano avuto i tedeschi in casa.

La memoria della guerra, abbiamo visto, non serve a che la storia non si ripeta, ma a renderci sensibili al mondo in guerra, a fare vivere con noi il ricordo dei morti, a vivere avendo vicina la loro testimonianza, perché , come scrisse Berti Arnoaldi in un passo fulminante, forse il nostro compito fondativo e comune come studiosi e come cittadini di un paese che ha una Costituzione antifascista, è quello di trasformare i cadaveri  in antenati, che è il senso profondo del cordoglio.

Pietro Clemente è attualmente Presidente dell’Istituto storico senese della Resistenza e dell’età contemporanea

[1] P.Clemente, Il passato imprevedibile, in  Primapersona, 2, 1999
[2]  Ora Civitella è ben rappresentata nell’ Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia 2016 ; http://www.straginazifasciste.it/wp- content/uploads/schede/CIVITELLA%20IN%20VAL%20DI%20CHIANA%2029.06.1944.pdf
[3] P.Clemente, F.Dei, Poetiche e politiche del ricordo. memoria pubblica delle stragi nazifasciste in Toscana, Roma, Regione toscana, Carocci, 2005,
[4] V.Trupiano, A sentirle sembran storielle. Luglio 1944. La memoria della strage di civili nell’area di Crespino del Lamone, Pisa, Pacini,
[5] E.De Martino, Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre al pianto di Maria, Torino, Bollati Boringhieri, 1958
[6] Apparve poi nei primi anni 2000 sul sito della Regione Toscana nella pagina dedicata alle stragi, e nle volume che concluse la seconda ricerca, generalizzata a tutta la Toscana e condotta in collaborazione con Fabio Dei : P.Clemente, F.Dei, Poetiche e politiche del ricordo. memoria pubblica delle stragi nazifasciste in Toscana, Roma, Regione toscana, Carocci, 2005.

Articolo pubblicato nel maggio del 2018.




Aspettando Hitler: la seduzione della bellezza e l’allontanamento da Firenze dell’ebreo Castelfranco.

Di tutti i luoghi che Hitler avrebbe desiderato con forza visitare anche semplicemente da turista, Firenze era la meta più agognata. Ci riuscì, accolto con inquietante bellezza e sfarzo imperiale, il 9 maggio 1938, ottanta anni fa esatti. Hitler, dalla stazione di Firenze, attraversò con l’auto scoperta il centro cittadino addobbato con sequenze ininterrotte di svastiche e bandiere gigliate, per poi dirigersi come prima tappa a Palazzo Pitti e alle sue collezioni artistiche. Quando l’auto varcò il cortile interno della reggia, probabilmente il Führer mai avrebbe immaginato che l’artefice della risistemazione di tanta magnificenza fosse stato proprio un ebreo.

La Toscana e Firenze erano la terza e ultima tappa programmata nella visita ufficiale in Italia, dopo Roma e Napoli, dopo un tour che, dal 3 al 9 maggio, avrebbe fatto fermare l’Italia per una settimana, convogliando energie e masse per salutare al meglio l’alleato nazista. In molte città fu decretata festa nazionale, gli esercizi commerciali furono chiusi, gli alberghi furono attrezzati per accogliere giornalisti e operatori cinematografici. Per Roma e provincia furono confezionate ben 13.000 bandiere tricolori con croce reale e fascio littorio, mentre i monumenti più emblematici della Capitale furono illuminati dalla luce di migliaia di fiaccole e fari, con suggestive e imponenti scenografie che riecheggiavano gli antichi fasti imperiali. Anche Napoli non fu da meno. La suggestiva visione del Golfo di Napoli, con lo sfondo del Vesuvio e della collina del monte Echia, si aprì a Hitler con la gigantesca scritta “Heil Hitler”, mentre di lì a poco avrebbe assistito alla sfilata di 200 unità navali a bordo del transatlantico Rex, con tanto di radiocronaca in italiano e in tedesco sullo sfondo.

Ogni città, in base alla sua vocazione storica e agli intenti del Duce, doveva impressionare il Führer per alcune sue peculiarità intrinseche. A Firenze era stato riservato il compito di sedurre l’alleato con la sua bellezza e armonia rinascimentale, con tanto di Ranuccio Bianchi Bandinelli, tra i maggiori archeologi di tutti i tempi, nel compito -per lui odiatissimo- di Virgilio dell’arte per i due dittatori.

Vorace collezionista e pittore mancato, Hitler amava Michelangelo, Leonardo, Raffaello, il rinascimento fiorentino e i ponti artistici che si erano creati all’epoca con il rinascimento d’Oltralpe. Legami artistici e spirituali che rinascevano nuovamente con l’alleanza dell’Asse: non a caso in una sala degli Uffizi erano stati collocati dipinti fatti arrivare direttamente dalla Germania a dialogo con la collezione di artisti tedeschi già presenti nei musei cittadini.

In questo gioco di seduzione, sotto il controllo di Alessandro Pavolini da Roma e dell’apposito ufficio festeggiamenti istituito in Comune, si erano adoperati schiere di architetti, fotografi, giovani artisti che diedero vita ad apparati effimeri degni di una corte cinquecentesca. Ma soprattutto e suo malgrado si era adoperato Giorgio Castelfranco, lo storico dell’arte ebreo direttore di un luogo altamente significativo per la visita fiorentina, un luogo dove bellezza e regalità si sposavano perfettamente: la Reggia di Palazzo Pitti.

Giorgio Castelfranco, figura di primo piano nel panorama della cultura italiana del Novecento, sia come funzionario della Soprintendenza che come critico militante e mecenate di artisti quali De Chirico e Savinio, nel 1936 era stato promosso a direttore della Galleria di Palazzo Pitti. La meritata carica sarebbe durata pochissimo: dopo aver alacremente lavorato per il riordino e la risistemazione della galleria e degli appartamenti dove il Führer, nel pomeriggio del 9 maggio, avrebbe riposato per un breve tempo le stanche membra, Castelfranco nell’aprile del 1938 fu allontanato dalla città e dal suo museo. Nella studiatissima macchina scenografica del grand tour hitleriano l’ebreo Castelfranco doveva momentaneamente scomparire.

Furono le inquietanti prove generali di disposizioni messe in atto con le successive leggi razziali. Così Castelfranco, all’inizio del 1944, in una relazione all’allora Ministro dell’Educazione Nazionale ricordava quei momenti:

È curioso che riuscii ad avere mezzi abbondanti nella primavera del 1938 sui fondi per le trionfali accoglienze fatte in Italia a Adolfo Hitler; avendo già da tempo studiato le questioni relative, potei, rapidamente, in poche settimane, realizzare un riordino parziale, che diede nei suoi limiti ottimi risultati. Mi occupai io anche del restauro del passaggio tra Pitti e Uffizi e del riordino delle collezioni di ritratti ivi esposte. Durante la visita di Hitler fui mandato con ridicoli e finti pretesti a Modena a reggere la R. Galleria Estense; avevo comunque accelerato i lavori intrapresi, che lasciai oramai terminati. Dall’estate del 1938 in poi la mia attività fu, per ovvie ragioni, ridotta; curai però ancora qualche piccolo lavoro ai locali di Pitti. Da allora cessarono anche le mie pubblicazioni e in genere, debbo dirlo, la mia attività di studi ebbe una brusca interruzione.

Nel settembre 1938 lo storico dell’arte siglò uno degli ultimi documenti, se non l’ultimo, come direttore di Palazzo Pitti, ovvero la relazione di tutti i lavori condotti tra il gennaio e il maggio 1938 nella Galleria Palatina. Il grande cantiere d’accoglienza aveva previsto il tappezzamento in seta delle sale di Marte, Apollo e Venere, la pavimentazione o il restauro di essa in tutte le sale, l’apertura di finestre sul giardino, l’abbellimento con pastelli -cari al Führer- dell’ambiente tra Palazzo Pitti e Corridoio vasariano. Niente era stato lasciato al caso: “sistemate adeguatamente  anche le latrine nell’ammezzato del Rondò di destra del palazzo” chiosava Castelfranco nella sua relazione conservata negli archivi della Soprintendenza fiorentina.

Il 20 gennaio 1939, dieci giorni prima del suo definitivo licenziamento per l’applicazione del R.D. del 15 novembre 1938, sarebbe giunto a Castelfranco, dal Ministero dell’Educazione Nazionale, il diploma a Ufficiale dell’Ordine della Corona d’Italia, prestigiosa e beffarda onorificenza.

Alessia Cecconi (Prato, 1981), storica dell’arte, è direttrice della Fondazione CDSE (Centro di Documentazione Storico Etnografica, Vaiano, Prato); collabora inoltre da molti anni con la Fondazione Memofonte di Firenze. Le sue ricerche e pubblicazioni sono dedicate alla letteratura artistica di età moderna, alla storia della tutela del patrimonio, al rapporto tra arte e memoria. Ha coordinato per la Regione Toscana il progetto ”Resistere per l’arte: guerra e patrimonio artistico in Toscana”, tema al quale ha dedicato le sue ultime pubblicazioni e mostre. Da sempre interessata all’educazione al patrimonio, è co-autrice del manuale di storia dell’arte per la scuola media inferiore Arte e Immagine (Gruppo RCS-Fabbri editore, 2014). 

Articolo pubblicato nel maggio del 2018.




Lavoro, fiori e lambrette.

La festa del lavoro in Italia non rinacque, dopo la seconda guerra mondiale, solo come momento politico e istituzionale, ma assunse significati più ampi e partecipati, diventando la rappresentazione di uno spaccato della società nelle sue diverse epoche. Da giornata di astensione dal lavoro e di mobilitazioni si andò allargando, includendo la socialità ed eventi capaci di “mettere in scena” la stessa “cultura” dei lavoratori, assumendo al suo interno eventi sportivi e ludici come i balli, la musica, la cucina. Una festa popolare dunque, come le sagre e feste di paese, da cui trasse forza e ramificazioni. Agli aspetti prettamente rivendicativi e a quelli politici si andò col tempo affiancando una ritualità, un farsi “tradizione”, attraverso un percorso di adattamento e mutamento che ci ha lasciato in eredità un complesso di consuetudini, come la distribuzione dei garofani rossi, radicate nell’immaginario di larghe fasce sociali.

1946: 1 Maggio a MarescaNel secondo dopoguerra i sindacati furono all’opera per rimettere in campo la celebrazione, abrogata dal fascismo. Con la Repubblica il 1° maggio si prendeva un posto, sancito anche dal carattere di festa nazionale attribuitogli dalle istituzioni.
Nel pistoiese si giunse a una prima messa a punto sistematica del suo svolgimento negli anni successivi alla rottura dell’unità sindacale del 1948. Fu un’opera portata avanti dalla CGIL, a partire dal biennio 1950/51, ed in particolare dal sindacato dell’agricoltura, la Confederterra. Il momento centrale si andò articolando attorno al corteo del capoluogo, Pistoia, senza però tralasciare la diffusione locale, esplicata nelle tante più piccole manifestazioni degli altri centri, che andavano da cortei e comizi veri e propri alle “veglie” nell’aia, politicizzando un’antica tradizione del mondo mezzadrile.

Il corteo di Pistoia, salvo qualche minimo cambiamento di percorso, è da sempre lo stesso, una sfilata per le vie del centro cittadino con l’arrivo finale nella piazza del Duomo. La partenza è sempre stata davanti alla sede della Camera del Lavoro. Fin dagli anni ’50 emerse una sua strutturazione interna, a tutt’oggi immutata. La prima parte del corteo riservata alle rappresentanze istituzionali, con i loro gonfaloni, e alla banda comunale, segnale della piena cittadinanza dentro allo Stato conquistata dal “popolo lavoratore” con la Repubblica, seguita da uno “spezzone” più politico, con gli striscioni contenenti messaggi di stringente attualità, ed a ridosso le rappresentanze dei lavoratori, a partire da quelle delle aziende o fattorie in lotta.
Già in quel decennio si fece strada con forza la pratica di non far sfilare solamente i lavoratori e le lavoratrici, ma anche i simboli del loro lavoro, i trattori per le campagne e gli autobus prodotti nella fabbrica cittadina, la Breda. All’unità dei lavoratori, simboleggiata dall’alleanza tra contadini e operai, i “mezzi meccanici”, come venivano chiamati, aggiungevano altri significati simbolici. Erano cioè una dimostrazione di modernità, utili per attirare i giovani e a mostrare con orgoglio il prodotto della fatica e della professionalità dei lavoratori. Sempre a quegli anni risale l’organizzazione della distribuzione dei garofani rossi da parte delle donne, una presenza mai venuta meno.

1969A partire dalla seconda metà degli anni ’50, e con sempre più forza negli anni ’60, intorno al corteo sorsero una miriade di eventi collaterali, dalla lotteria al torneo sportivo, dalle mostre di pittura alla gara di ballo, con il corollario di cene e feste, nel capoluogo organizzate nel parco di Monteoliveto. La data penetrava in profondità nella società locale, divenendo un riflesso delle trasformazioni dell’Italia e degli italiani, con le loro passioni politiche.
Nelle cronache della festa si ritrovano i segnali della Storia, dall’operaio che in una riunione nel 1968 chiedeva maggior attenzione agli studenti alle diatribe tra i vecchi sindacalisti e i più giovani, che nel 1969 pretendevano di sfilare nel corteo con le loro lambrette “smarmittate”, una nota che può sembrare di costume ma che ci racconta, con una battuta, il cambiamento epocale, sociale e culturale, che affrontava l’Italia in seguito al miracolo economico.
Emergevano nuovi attori e nuovi oggetti. E sempre su questa scia vanno lette le preoccupazioni per le infiltrazioni degli autonomi, se non del terrorismo, ma soprattutto il prepotente ingresso del femminismo in piazza del Duomo nel 1977, quando un gruppo di donne dette fuoco al manichino di una strega, danzando in cerchio, dando vita a reazioni impreviste e inaspettate, come quelle della CISL che si schierò dalla loro parte a differenza del PCI che le contestò.

Manifesto CGIL 1 Maggio 1967 Un’altra costante è stata la sempre presente spinta all’unità dei lavoratori. La ritroviamo nei discorsi preparatori tutti gli anni, unita a un’attenzione a far si che fosse il lavoro, con le sue rivendicazioni, il vero protagonista della giornata, prima e sopra la politica. Da qui le continue attenzioni e cure contro le strumentalizzazioni, da qui una costante e lunga ricerca di una celebrazione unitaria tra le organizzazioni sindacali. Una ricerca che a fine anni ’60 era sempre più pressante, all’alba di una grande stagione di lotte e di riforme, tale da suscitare anche l’intervento delle Istituzioni a suo favore.
L’unità nelle celebrazioni fu raggiunta a piccoli passi e faticosamente, dapprima con l’adesione delle ACLI al corteo della CGIL nel 1970, seguita l’anno dopo da quella della CISL, mentre la UIL ancora se ne teneva fuori, duramente criticata, mentre si cercava di allargare la spinta unitaria anche agli studenti, invitati ufficialmente a prender parte al corteo con una lettera del 1971. Solo tra il 1972 ed il 1973 aderiva anche la UIL, dapprima con alcune categorie e poi con tutta la confederazione. Ma l’unità è sempre stata un risultato da tener stretto, rimesso in discussione nel decennio dopo dalla CISL, che nel 1984, in seguito al decreto di San Valentino, sfilava via nonostante fosse duramente criticata dalla Chiesa locale, che dal 1979 aderiva alla giornata organizzando la santa messa nella cattedrale. Una ferita che fu sanata solo quattro anni più tardi, nel 1988, quando nuovamente il primo maggio tornava ad essere celebrato in maniera unitaria.

Tra gli anni ’80 e ’90 iniziavano i primi interventi di rinnovamento della festa nel solco di quella che ormai era la tradizione. Nel 1989 veniva inserita una festa per i bambini, e molti interventi nelle riunioni preparatorie rimarcavano che i trattori non erano solo folklore ma racconto ed espressione del lavoro, di quel mondo agricolo 30 anni prima ancora così importante e presto dimenticato, mentre altri proponevano una nuova popolarizzazione della festa, con feste, pranzi e balli, pratiche di socialità andate perse nel decennio delle grandi passioni dei ’70. Iniziava timidamente a muovere i suoi passi una nuova forma di diffusione territoriale, accanto a quella sindacale, affidata alle strutture che il movimento dei lavoratori nei decenni aveva costruito sui territorio, a partire dai circoli ARCI, che nel passaggio di secolo radicavano una “nuova” tradizione di feste e pranzi. La socialità di nuovo legata al lavoro, alla politica e alle comunità locali, espressione della vitalità di una giornata che ha sempre travalicato i suoi stessi confini.

Le notizie relative alla storia del 1° maggio nel pistoiese sono state tratte dall’Archivio storico della Camera del Lavoro di Pistoia.

Articolo pubblicato nel maggio del 2014.




Liturgie laiche e religiose nella Livorno del 1948

Il 7 novembre 1948 a Livorno fu una data molto particolare. Nel medesimo giorno si “fronteggiarono” in città due grandi manifestazioni, l’una cattolica, l’altra comunista. Seguendo un’evidente strategia di contrasto, i vertici ecclesiastici livornesi avevano fatto cadere la solenne chiusura della Peregrinatio Mariae – il pellegrinaggio della Madonna di Montenero che, partito il 20 ottobre, aveva compiuto, come scrisse «Il Tirreno», il suo «viaggio trionfale per tutti i paesi della diocesi» [Un’immensa folla, 4 novembre 1948] – nella data in cui le sinistre celebravano con grande dispiegamento organizzativo l’anniversario della rivoluzione d’Ottobre. I cattolici livornesi avevano del resto ancora nella memoria l’imponente manifestazione dell’anno precedente, 30° anniversario della rivoluzione, celebrato con un grande concorso di popolo per le vie della città e conclusasi al teatro Politeama, alla presenza del presidente dell’Assemblea Costituente Umberto Terracini e del deputato socialista Alberto Cianca [Terracini e Cianca, 10 novembre 1947].

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Ingrao e Togliatti nel 1946

La mattina dl 7 novembre dunque i comunisti sfilarono lungo i quartieri nord della città, quelli popolari e ad alta densità di operai, concludendo il loro corteo nella piazza S. Marco, massimo simbolo risorgimentale di Livorno, teatro della gloriosa resistenza dei livornesi contro la cattolica Austria dell’11 maggio 1849. Quello stesso pomeriggio la processione dei cattolici si snodò sul lungomare e tra i quartieri sud, quelli dei livornesi più benestanti, fino al colle del Santuario di Montenero. Due itinerari separati, come se fosse esistita una ideale cortina di ferro che divideva la città, ma che ebbero come tappa centrale obbligata la sosta al Cantiere navale, simbolo del mondo operaio. Il Cantiere infatti in quel 7 novembre viene “benedetto” due volte: la mattina dal comizio del direttore dell’«Unità» Pietro Ingrao; il pomeriggio dal vescovo di Livorno, Giovanni Piccioni, alla presenza del presidente della Camera Giovanni Gronchi, nell’ambito della cerimonia di chiusura della Peregrinatio. Davanti agli operai Ingrao, come riportò la stampa, aveva parlato degli enormi progressi compiuti «in ogni campo dalla Russia sotto il regime sovietico, ponendoli in contrasto con le terribili crisi che affliggono gli Stati occidentali», definiti potenze «guerrafondaie capitaliste e affamatrici del popolo» (Archivio di Stato di Livorno, Fondo Questura, b. 887) . Il pomeriggio l’immagine della Madonna di Montenero era stata invece benedetta davanti al Cantiere dal vescovo e dal nunzio apostolico dell’Honduras, il livornese Federico Lunardi, dopo che la processione aveva attraversato Borgo Cappuccini, la via nella quale abitava la gran parte degli operai del Cantiere, in cui, annotava «La Gazzetta», quotidiano comunista, era stato «offerto uno spettacolo folgorante di luci e di addobbi considerati i più belli delle varie parrocchie» [Ristori, 1948]. Pochi giorni dopo Gronchi, in una sua nuova visita a Livorno, parlando alle donne livornesi di Azione Cattolica, aveva affermato significativamente che il pellegrinaggio mariano aveva dimostrato come a Livorno il sentimento religioso del popolo fosse «soltanto sopito». «Si è visto – affermava – nella recente “Peregrinatio Mariae” nei quartieri in cui nessuno avrebbe creduto esistesse tanta fede, il popolo degli umili e dei lavoratori rende devoto omaggio alla Madonna. Ora dovete voi entrare nella vita di quella gente, dovete cercare di riportarla sulla via che Cristo ha tracciato per il trionfo del bene e per la salvezza dell’umanità» [Archivio di Stato di Livorno, Fondo Questura, b. 880].

I fatti appena descritti, nei suoi macroscopici simbolismi, ben raccontano come il 1948, anno in cui si addensarono in Italia le più tumultuose contrapposizioni scatenate dalla divisione del mondo in due blocchi contrapposti, significò anche una vera e propria lotta per la supremazia dei rituali identitari. Una contesa che aveva trovato il suo acme per le elezioni politiche del 18 aprile e che assunse le forme di una competizione tra i rispettivi repertori liturgici e iconografici, indirizzata anche verso l’occupazione dei luoghi in cui più forte si avvertiva il simbolismo delle identità concorrenti [Guis0, 2006; Cavazza, 2002; Avagliano, Palmieri, 2018]. Come hanno fatto emergere molti studi negli ultimi anni, questa contrapposizione tra diverse “liturgie” assecondava anche rivalità identitarie meno immediatamente percepibili relative alla memoria della guerra e della Resistenza e ai miti fondativi della Repubblica [Gabusi, Rocchi, 2006; Schwarz, 2010]: le sinistre occupate nel tentativo di fondare una religione civile basata sull’antifascismo, viceversa la Democrazia cristiana, e in qualche misura anche le istituzioni ecclesiastiche, impegnate in un’azione di pacificazione nazionale. Riguardo al caso livornese non sfugge, ad esempio che all’interno delle due settimane di Peregrinatio Mariae si toccasse una data carica di simbolismi come il 4 novembre. Siamo all’interno di quel progetto di «riconquista cattolica dell’italianità» [Gentile, 1997, p. 224] che vide in questi anni impegnate le istituzioni ecclesiastiche e che si connetteva direttamente all’impegno della Dc nell’ottica della pacificazione nazionale. L’intento dichiarato dei governi Dc era di stimolare una rinnovata concordia, che superasse le divisioni di una guerra fratricida. Ecco perché, è stato detto, che in questi anni calò una sorta di «silenzio istituzionale» sul 25 aprile, mentre appunto gli sforzi si concentrarono sulle manifestazioni del 4 novembre in cui si celebrava la fine della prima guerra mondiale. A questo proposito va notato che la festa del 4 novembre fino al 1944 veniva definita «festa della vittoria», mentre dal 1944 al 1949 divenne la «festa dell’unità nazionale» nella quale dunque si puntava a celebrare un patriottismo astorico che trascendesse la dimensione politica, nel tentativo di un recupero dell’armonia nazionale. La Peregrinatio Mariae livornese rientrò pienamente in questa prospettiva e difatti il 4 novembre, nel quadro delle celebrazioni, fu officiata una «Santa Messa in suffragio dei Caduti per la patria» a cui intervennero le rappresentanze delle Forze Armate e le associazioni combattentistiche e a cui partecipò  monsignor Trossi, vicario generale dell’Ordinario Militare [Programma dei festeggiamenti, 31 ottobre 1948]. È da evidenziare come, per l’occasione, il settimanale diocesano trasformasse la Madonna di Montenero nella «Madre della pace». Scrisse il giornale: «La Madonna è la grande Pacificatrice. […] Regina della pace perché la devozione a Lei, che agisce sul profondo dei popoli, rimane forse l’unico punto di contatto tra i due mondi che oggi si contendono il dominio della terra: ed è possibile che la Provvidenza – che guida la storia – si serva della Madre comune per rappacificare i suoi figli» [Angeli, 1948].

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La “Peregrinatio” nella Chiesa di S. Maria del Soccorso a Livorno nel 1948

Anche sul fronte contrapposto è facile riscontrare quanto le cerimonie della liturgia laica si ponessero al servizio di precisi obiettivi politico-identitari. Diversi mesi prima della manifestazione del 7 novembre, nell’estate del 1947, una grande cerimonia funebre, seguita di poco alla rottura di Alcide De Gasperi con le sinistre, si caricò di potenti simbolismi che esularono dal mero episodio di cronaca. Nel luglio 1947 dentro il Cantiere navale di Livorno, un operaio, Alvaro Folena, venne ucciso da una guardia giurata durante un alterco. Il funerale si trasformò così in un’imponente liturgia civile contro il governo con un corteo che attraversò le vie della città e a cui parteciparono, secondo le cronache comuniste, circa 60mila livornesi (in una città che in quel momento contava circa120mila abitanti). «La Gazzetta» chiariva qual era il vero significato da attribuirsi alla celebrazione: l’atto di quel «fascista» – così veniva definita la guardia giurata – altro non era che «una fra le più dolorose conseguenze della scelta dell’on. De Gasperi»: la scelta di aver rotto l’unità antifascista, con l’uscita del Pci dal governo. «Promuovendo la formazione di un governo destinato all’impopolarità – continuava il giornale del Pci – ha suscitato in ogni parte d’Italia un’atmosfera di lotta e di guerra civile dalla quale traggono alimento le forze cripto fasciste o apertamente fasciste per rivelare la loro sostanziale natura antidemocratica» [Comi, 1947]. Appaiono evidenti i caratteri di quella retorica antifascista dell’eroismo partigiano che era funzionale allo sforzo di accreditare la Resistenza come mito fondativo della Repubblica. Così come sono chiari i segni della volontà dei comunisti di stimolare una militanza e una disponibilità continua alla lotta contro i germi perduranti del fascismo. L’articolista della «Gazzetta» aggiungeva infatti che «la proibizione verificatasi in molte città di affiggere manifesti antigovernativi, il divieto della propaganda a mezzo di impianti sonori, e tanti altri piccoli fatti più o meno caratteristici hanno creato in Italia l’impressione, tutt’altro che ingiustificata, di una polizia al servizio di un partito (quello governativo) e di certe classi (quelle rappresentate al governo) anziché del paese». E concludeva: «Si aggiunga che a Livorno di notte si canta impunemente “giovinezza” per le strade e che il titolare della Questura si chiama comm. Pennetta, già distintosi in altra epoca nella stessa città, per aver con fazioso accanimento applicato le leggi razziali, e si avrà un’idea dell’ambiente in cui si è maturato il tristo fatto di sangue avvenuto ieri» [Comi, 1947].

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Furio Diaz con gli ufficiali alleati (Fondo Diaz, Biblioteca Labronica Livorno)

Sotto altri aspetti questa cerimonia funebre mise in chiara evidenza il tentativo da parte comunista di elaborare una liturgia alternativa attingendo ai riti, alle simbologie e agli apparati della tradizione cristiana, rielaborati in chiave laica. È evidente lo sforzo di conferire grande solennità e un carattere simbolico all’evento: la bara di Alvaro Folena venne così avvolta in una enorme bandiera rossa, dietro il feretro sfilarono più di cento bandiere e corone di fiori di partiti e associazioni. Il quotidiano comunista parlava di una «dimostrazione dignitosa, severa, degna di un popolo civile ed elevato»; il cronista aggiungeva enfaticamente di non ricordare «di aver veduta cosa di simile nei lunghi anni di carriera professionale» [Sessantamila persone, 5 luglio 1947]. Nella retorica comunista si intuisce la chiara volontà di restituire l’evento con una carica simbolica che superasse per fasto e livello di partecipazione l’ultimo grande evento funebre di massa celebrato a Livorno: quello del suocero di Mussolini, il conte Costanzo Ciano, officiato alla presenza del duce e di tutte le più alte gerarchie fasciste e cattoliche alla vigilia della guerra. La grande fastosità ricreata per un funerale di un semplice operaio, figlio del popolo, accendeva ancor più il contrasto col rito funebre del nobile gerarca, evidenziando l’urgenza di dare la massima espressione pubblica alla riconquistata sovranità popolare fondata sul mito della Resistenza. Nella descrizione dell’evento si attingeva al vocabolario usato dalla tradizione cattolica: si diceva così che nella camera ardente allestita all’Arena Astra, davanti al Cantiere Orlando, attorno al feretro erano «fiori e paludamenti rossi» e che «una guardia d’onore di lavoratori vegliava la salma», accanto alla quale «fu un continuo, ininterrotto pellegrinaggio». Il funerale civile si trasformò in un evento cui attribuire la più alta solennità possibile: un momento in cui partiti e associazioni del mondo laico e massonico profusero il massimo sforzo nella costruzione di una liturgia laica capace di competere con quella cattolica. È sufficiente osservare come la «Gazzetta» descrisse il corteo funebre.

Precede la bara, avvolta da un drappo rosso e portata a spalla, il gagliardetto del plotone ciclisti della Soc. Volontaria di Soccorso con la scorta. La bara è fiancheggiata da militi della Soc. Volontaria di Soccorso e dal plotone ciclisti e da una squadra d’onore del P.C.I. e della Camera del Lavoro. Ai lati un duplice cordone di ciclisti disciplina il movimento del corteo. Lungo le strade percorse dal silenzioso, grandioso corteo, la folla si assiepa a centinaia, a migliaia. Specialmente agli incroci, ai quadrivi la ressa è imponente.

Dietro la bara che raccogliere il corpo martoriato di Alvaro Folena, i congiunti della vittima, gli amici intimi, i dirigenti e componenti la commissione interna dell’Oto. Vediamo il Prefetto, il Sindaco, il Presidente della Deputazione provinciale, il direttore, de «La Gazzetta», il Questore, il Vice Questore, il Comandante del Porto, il rappresentante del Comando Marina, i rappresentanti della Magistratura, professionisti, industriali, commercianti, i rappresentanti dei vari enti cittadini, le rappresentanze dell’Udi, quelle degli stabilimenti industriali della provincia [Ibid.].

Il giornale non mancava di sottolineare l’assenza al corteo di una rappresentanza della Democrazia cristiana: il fatto, annotava «La Gazzetta» era «stato notato non soltanto dai dirigenti della manifestazione, ma dalla stragrande maggioranza dei cittadini che hanno assistito alla imponente manifestazione di cordoglio e di lutto» [=Un’assenza notata, 5 luglio 1947]. Significativa poi appare la scelta di compiere alcuni gesti simbolici nei luoghi della tradizione massonico-risorgimentale: così nella via intitolata a Garibaldi, le popolane comuniste accolsero il corteo con mazzi di garofani rossi. Il grande fascio di fiori venne posto sul feretro e le donne che lo avevano donato seguirono la bara fino a S. Marco: qui nella piazza XI Maggio che evoca la resistenza risorgimentale il corteo si scioglieva, non prima di aver ascoltato le parole del sindaco comunista Furio Diaz il quale mise in guardia i cittadini rispetto ai «pericoli della mostruosa attività di elementi reazionari, avvisando la necessità di proteggere con ogni sforzo la libertà, la repubblica e la democrazia» [Sessantamila persone, 5 luglio 1947].

Articolo pubblicato nell’aprile del 2018.