Guerra ai renitenti: le fucilazioni del marzo ’44

Leandro Corona, Ottorino Quiti, Antonio Raddi, Adriano Santoni, Guido Targetti: erano questi i nomi dei 5 giovani – di età compresa fra i 21 e i 23 anni – fucilati il 22 marzo del 1944 a Firenze allo stadio di Campo di Marte a seguito di una condanna a morte per renitenza alla leva, emanata dal Tribunale militare speciale. All’esecuzione sono fatti assistere tutti i militari del presidio militare di Firenze, come monito. I drammatici momenti di quell’eccidio ci sono restituiti dalla relazione redatta da don Angelo Becherle, il cappellano chiamato a impartire l’estrema unzione ai cinque ragazzi. Nel racconto del sacerdote – subito trasmesso al cardinale di Firenze Elia Dalla Costa – emerge tutta la tragedia delle giovani vite di fronte alla morte: “Quiti cominciò a tremare, voleva alzarsi e scappare: anche il Raddi e il Corona ebbero un momento di terribile esasperazione: riuscii a quietarli  […] avvenne la scarica del plotone. Il Targetti, il Raddi ed il Santoni morirono subito. Non così il Quiti, che ancora vivo, legato alla sedia si dimenava e gridava « Mamma, mamma!». […] Fu il maggiore Carità, il famigerato comandante delle SS, che dopo alcuni istanti intervenne e diede il colpo di grazia”. La gravità del fatto è tale che sconvolge i testimoni e resta ben vivo nella memoria della città che ha poi onorato la memoria dei martiri con il monumento che ancora oggi li ricorda sotto la “Curva Ferrovia” dello stadio di calcio.

Peraltro non si tratta di episodio isolato. In quello stesso mese di marzo fatti simili si erano verificati in tutta la Toscana. Ad esempio il 13 a Siena dove 4 giovani renitenti erano stati condannati dal tribunale militare speciale e fucilati nella caserma “La Marmora”; sono 11 quelli fucilati in quello stesso 22 marzo a Maiano Lavacchio nel grossetano, insieme ad un militare tedesco che aveva disertato;  il 24 tocca a due giovani viareggini presso il cimitero della città e il giorno seguente altri due a Lucca; il 27 marzo due a Pisa e il 31 quattro renitenti sono fucilati a Pistoia sotto le mura della Fortezza di Santa Barbara.

Una vera e propria guerra alla renitenza,  nella quale i giovani che non si presentano alla leva sono di fatto equiparati a nemici, e come tali trattati. Per capire la radicalità e capillarità di questa strategia, frutto non tanto delle scelte dei singoli Tribunali locali, quanto di una compiuta strategia della Repubblica sociale italiana, è necessario considerare l’importanza attribuita dal governo di Salò alla leva militare.

Per il governo collaborazionista fascista la formazione di un esercito nazionale, secondo l’impostazione del generale Graziani, Ministro della Difesa nazionale, è infatti obiettivo prioritario per dimostrare la propria esistenza come Stato agli italiani, ma anche ai potenti quanto ingombranti alleati nazisti. Per questo, oltre al tentativo di “recuperare” i soldati arresisi dopo l’armistizio e condotti nei lager del Reich come internati militari, è fondamentale soprattutto il coinvolgimento dei giovani attraverso l’emanazione dei bandi di leva. Per questo fin dal 16 ottobre del ’43 Graziani preannuncia la chiamata alle armi dei nati nel ’24 e nel ’25, riattivati gli uffici di leva, nella seconda metà di novembre. L’operazione è vista con diffidenza dai nazisti che puntano piuttosto ad usare gli italiani come lavoratori a proprio servizio. Ma soprattutto si scontra con la diffusa stanchezza e la crescente ostilità per il conflitto fra gli italiani. Atteggiamenti certo accentuati dall’odiosa disposizione del generale Gambarra dello Stato maggiore dell’Esercito che intima l’arresto dei padri in caso di mancata presentazione dei figli alla leva. Nonostante un crescente clima di minacce la maggioranza dei ragazzi non si presenta.

Il decreto legislativo del 18 febbraio 1944 che stabilisce la pena di morte per renitenti e disertori è la più efficace dimostrazione del fallimento del bando di novembre. Il ricorso alla pena estrema svela l’inefficacia di ogni altro mezzo, a partire dalla propaganda, e la crescente delusione negli ambienti fascisti. Una consapevolezza rafforzata dalla lettura della stampa fascista che indica sempre più in renitenti e disertori nemici da abbattere più che ragazzi da convincere. Esemplare è quanto si legge sulle testate delle federazioni toscane, come quella lucchese: “la diserzione, quindi, e il macchiai olismo di tanti, di troppi giovani nostri, per non servire la mamma Italia e in un’ora delle più tragiche per Essa, sono spregevoli al massimo grado” (“L’Artiglio”, 21 aprile 1944). Sulla stessa linea il periodico pistoiese “Il Ferruccio” che definisce i renitenti “sabotatori”, mentre quello fiorentino “Repubblica”, già dal dicembre del ’43 aveva esteso la denuncia ai familiari: “vili sono tutti coloro che proibiscono e non incitano i figli perché accorrano a cacciare il nemico” (“Repubblica”, 11 dicembre 1943).

La successiva tattica del “bastone e della carota” – con il decreto 336 che esenta dalla pena coloro che si presentino entro il 9 marzo 1944 – non muta la sostanza dei fatti. Né ottenere risultati significativi. Tanto che il successivo decreto del 24 marzo stabilisce sanzioni economiche per i renitenti e i disertori come la confisca dei beni, propri e familiari, oltre alla cancellazione delle tessere annonarie, così da piegare i giovani, con il ricatto che grava sui parenti. In questo contesto vanno quindi collocati gli episodi che insanguinano anche la Toscana nel marzo del ’44 con le varie fucilazioni di renitenti. Esse non sono solo azioni di repressione, ma tremendi atti dimostrativi tesi a terrorizzare gli altri ragazzi e tutta la popolazione per cercare di piegare con la paura chi non si era riuscito a convincere con ragionamenti ed emozioni retoriche ormai vanificate dal conflitto e dai suoi tremendi effetti. Violenze gravi che, quasi per contrappasso, ottengono l’effetto di favorire un rafforzamento del movimento partigiano, con la fuga alla “macchia” di tanti giovani, e più in generale di favorire un sentimento di ostilità della popolazione contro la Repubblica sociale, contribuendo così a quella crescita della Resistenza, in ogni sua forma, che si dispiegherà nei mesi successivi contribuendo alla liberazione di gran parte del territorio della Toscana.




Heinz Battke: pittore antinazista, ufficiale tedesco, collaboratore dei partigiani fiorentini.

1 – “Post factum”:

Alla metà di aprile del 1944 un grande ciclo di rastrellamenti scatenato dai comandi nazifascisti colpì i principali rilievi del fiorentino, da Monte Morello, al Mugello, da Monte Giovi ai monti del Casentino e dell’Appennino tosco-romagnolo. Negli stessi giorni, alcune delle principali bande partigiane fiorentine, che su quei monti erano nate all’indomani dell’8 settembre 1943, erano impegnate in un complicato trasferimento in direzione del Monte Falterona, al confine delle provincie di Firenze, Arezzo e Forlì, dove, stando agli ordini ricevuti, avrebbero dovuto dare luogo assieme alle formazioni romagnole  a una grande concentrazione partigiana. Ignare di quanto stava accadendo, nel corso del trasferimento queste bande incapparono nel grande rastrellamento nemico e, attaccate, finirono con lo sbandarsi.

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Heinz Battke, rocce sopra Vallombrosa. Stampa a mano, 1941 (GALERIE HANNA BEKKER VOM RATH, Francoforte sul Meno)

Un gruppo eterogeneo di partigiani appartenenti a varie formazioni che il rastrellamento aveva disperso (tra i quali gli uomini di una banda agli ordini del sottotenente Gino Volpi) trovò riparo in un rifugio sul Monte Secchieta al confine tra le province di Firenze e di Arezzo. La mattina del 16 aprile, un battaglione della 92° Legione della GNR di Firenze rimpinguato con altri militi repubblichini e qualche militare tedesco, partendo dal Passo delle Consuma raggiunse il rifugio in Secchieta e, dopo aver eleminate le sentinelle partigiane, ingaggiò un duro scontro col gruppo del Volpi. La sparatoria si protrasse per circa un’ora, fintanto che quest’ultimo, ferito, non ordinò il ripiegamento dei suoi. I partigiani, rotto l’accerchiamento, si diedero così ad una fuga disordinata nei boschi circostanti. Sette di loro restarono a terra senza vita sul luogo dello scontro, mentre alcuni dei fuggitivi vennero catturati e tradotti a Firenze: due di essi, in seguito, vennero fucilati e il resto deportato in Germania da dove solo in tre avrebbero fatto ritorno.

Tra coloro che riuscirono a fuggire dallo scontro vi era anche un partigiano diciottenne nativo di Rignano sull’Arno: Elio Palai detto “Franco”. Ferito gravemente all’addome da un proiettile, Palai riuscì a filtrare comunque attraverso le maglie dell’accerchiamento nemico fino a raggiungere l’abitato di Vallombrosa, nel comune di Reggello. Qui, il giovane chiese prima aiuto alla titolare del locale ufficio postale e poi bussò alla porta del Villino Medici, una pensione-ristorante appartenuta alla vicina Abbazia di Vallombrosa e allora gestita dalla famiglia Cerchiarini. Palai trovò l’ospitalità del padrone di casa e di alcuni inquilini che cercarono di prestargli le prime cure tenendolo nel contempo nascosto ai militi fascisti che, avendo saputo del giovane fuggitivo, lo stavano cercando per tutto il paese. Le condizioni di quest’ultimo erano serie e parve evidente a tutti che l’unica possibilità di salvarlo era quella di condurlo al più presto a Firenze per sottoporlo a un intervento chirurgico d’urgenza. L’impresa, con il rastrellamento che imperversava tutt’intorno, pareva improbabile quanto rischiosa.

Tra coloro che in quella circostanza si fecero avanti, una figura in particolare si distinse per abnegazione e spirito di sacrificio, non fosse altro per via della sua particolare identità. Rientrato da poco al Villino Medici dalla sua camminata mattutina, a prendere l’iniziativa nel tentativo di salvare Palai fu Heinz Battke, un pittore tedesco quarantaquattrenne nonché ufficiale della Wehrmacht congedato nel 1942 per ragioni di salute, il quale in quei mesi si trovava in convalescenza proprio a Vallombrosa. Come è possibile ricostruire dagli atti di un processo giudiziario che nel dopoguerra si tenne presso la Corte d’Assise Straordinaria di Firenze contro i responsabili del rastrellamento in Secchieta, Battke, senza perder tempo, fece chiamare al telefono un autista fidato, tale Angelo Bettini detto “Ciaccherino”, perché si portasse con la sua auto presso il Villino. Dopodiché, caricato il ferito, partì alla volta di Firenze. Lo stesso Battke, sentito il 10 aprile 1946 dal giudice istruttore fiorentino, avrebbe riferito in che modo egli poté pensare allora di eludere il serrato controllo stabilito sulle vie di circolazione da parte delle truppe rastrellanti: «Il Palai venne quindi condotto nella notte a Firenze in una macchina dove io presi posto in divisa di ufficiale tedesco per passare attraverso i vari blocchi stradali»[1]. Anche il proprietario del Villino Medici, Vezio Cerchiarini, nel dopoguerra confermò alle autorità inquirenti come l’autista quella mattina «trasportò il ferito a Firenze assieme al Sig. Backer [sic], ufficiale dell’esercito germanico che da tempo si trovava presso il villino Medici in convalescenza»[2]. L’auto riuscì ad arrivare in città e il Palai fu consegnato d’urgenza a un chirurgo ospedaliero che, tuttavia, in seguito a complicazioni, non riuscì a impedire il decesso del giovane, avvenuto la mattina del 17 aprile.

Nonostante l’esito tragico della vicenda, la figura del Battke e il suo modo di condursi, di certo non in linea con quanto quella sua divisa gli avrebbe imposto, non possono che sollevare una serie di domande e curiosità. La prima, è se quell’atto di generosità sia da intendere come una prova di spontanea umanità, magari isolata e occasionale, mossa dal tentativo di salvare la vita a un moribondo o se invece vada legata a un atteggiamento di alterità politica rispetto alla posizione che la sua nazionalità e il servizio militare ci si aspetta potessero fargli assumere nel contesto della guerra e dell’occupazione tedesca della penisola. Ancora gli incarti del sopracitato processo tenutosi nel dopoguerra ci aiutano a chiarire come nel suo caso quell’atto di generosità possa essere inteso nel senso di una sicura opposizione alla guerra nazifascista e di buona disposizione, se non di aperta solidarietà, nei riguardi del movimento di Resistenza italiano. Con le parole del già citato Cerchiarini: «il sig. Backer [sic] pur essendo suddito ed ufficiale germanico non diede mai prova di simpatia verso il regime ed i metodi tedeschi, e si assunse la responsabilità di portarlo [il Palai] a Firenze». Più esplicita ancora la madre del defunto partigiano che nel gennaio del 1945 ricordò alle autorità istruttorie che il figlio, dopo la fuga dallo scontro in Secchieta, «fu aiutato da un tedesco che era in relazione con i partigiani e che provvide a farlo trasportare a Firenze in casa di un chirurgo»[3]. Dunque, Battke, ci viene presentato qui alla stregua di un «buon tedesco», di probabili sentimenti antinazisti e in rapporti solidali coi partigiani fiorentini. Ma chi era Battke nel dettaglio e cosa ci faceva a Vallombrosa nell’aprile del 1944?

2 – Il personaggio:

Heinz Battke era nato nel 1900 a Berlino in una famiglia di estrazione sociale medio-alta. Avviato agli studi artistici, tra il 1918 e il 1921 aveva frequentato la scuola d’arte di Adolf Propp, studiando in seguito presso l’Accademia delle Arti di Prussia sotto la guida di Karl Hofer (pittore influenzato dagli impressionisti francesi e in seguito dichiarato “degenerato” dal Terzo Reicht) coniugando al contempo anche il lavoro di tipografo e grafico-incisore. Tra la fine degli anni Venti e la metà dei Trenta, Battke aveva compiuto numerosi soggiorni a Parigi e in Francia, nei Paesi Bassi, in Belgio, Danimarca, Austria e Svizzera. Tra il 1929 e il 1930 ebbe la possibilità di studiare anche a Firenze dove poi si sarebbe trasferito stabilmente nel 1935 al seguito della madre Ada. Questa si era infatti risposata in seconde nozze con il compositore e musicologo ebreo-austriaco Rudolf Cahn-Speyer il quale dal 1933 risiedeva nella città toscana dove intratteneva rapporti professionali col locale Conservatorio “Luigi Cherubini”. Oltre che con questa circostanza familiare, il trasferimento a Firenze di Battke va messo sicuramente in relazione con la rottura maturata allora con l’ufficialità culturale del regime nazista.

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Fotoritratto di Heinz Battke (da Joachim Cüppers, “Heinz Battke, Werkkatalog”, Hambug, Dr. Ernst Hauswedell & Co., 1970)

Nello stesso anno gli era stato infatti prospettato un ruolo di insegnante presso un’accademia tedesca che egli però rifiutò, dal momento che l’accettazione avrebbe comportato l’iscrizione al partito nazista. La conseguenza di ciò fu la sua formale espulsione, ufficializzata nel 1936, dalla Reichskulturkammer (la Camera della Cultura del Reich), l’organizzazione professionale degli artisti tedeschi istituita nel 1933 dalla Germania nazista allo scopo di controllare la vita culturale del paese e promuovere nell’arte gli ideali e i canoni estetici del nazismo. I lavori di Battke, a seguito di questo strappo, vennero pertanto dichiarati “degenerati”.

A Firenze, a dispetto del Regime fascista imperante, Battke poté trovare un ambiente favorevole alle proprie sensibilità artistiche e politiche. Come posto in luce tra gli altri dagli studi di Klaus Voigt, tra i molti artisti di area tedesca (diversi di origine ebrea) espulsi dalla Reichskulturkammer o comunque ostili all’ufficialità del regime nazista che decisero di rifugiarsi in Italia, un buon numero trovò una sponda a Firenze nei circoli culturali della Deutschen Künstlerstiftung “Villa Romana”, una fondazione promossa nel 1904 dal pittore tedesco Max Klinger tesa a sostenere i soggiorni artistici dei pittori connazionali in Italia[4]. Direttore di Villa Romana era dal 1935 il pittore Hans Purrmann, dichiarato due anni dopo “artista degenere” dal Reich. Di sentimenti antinazisti (nel maggio 1938, in occasione della visita di Hitler a Firenze, egli fu persino messo sotto custodia a scopo cautelativo presso il carcere delle Murate) Purrmann ebbe non poche difficoltà nel dirigere la fondazione (nel 1939 fu oggetto di un provvedimento di licenziamento, poi revocato) ma ciononostante riuscì a fare di Villa Romana un punto d’incontro di molti artisti e intellettuali tedeschi esuli dalla Germania nazista come lo scrittore Kasimir Edschmid, lo storico dell’arte Curt Glaser o la scrittrice Monica Mann, figlia di Thomas.

Anche Heinz Battke fu tra i frequentatori del circolo di Purrmann, nel cui ambito continuò a portare avanti i propri interessi artistici. Il contesto generale, d’altro canto, non risultava comunque semplice, né per lui né per i colleghi, per quanto Battke, a differenza di alcuni di loro, almeno dal lato economico poté fare affidamento sul sicuro patrimonio finanziario familiare[5]. Sul piano artistico, i lavori del suo periodo fiorentino rivelano un «radicale mutamento interiore» che si concretizza prevalentemente in «paesaggi disegnati a penna, con prati, cespugli, ruscelli e radici» quasi si trattasse di «una fuga dal nuovo ambiente»[6]. A seguito del varo della legislazione razziale italiana e poi con lo scoppio della Seconda guerra mondiale la posizione di questi artisti tedeschi esuli si fece più complicata. Molti di loro cominciarono ad aver difficoltà a sopravvivere coi soli proventi del proprio lavoro, mentre per gli artisti di origine ebrea sorse la minaccia di provvedimenti di cattura e internamento. Su alcuni, peraltro, pendeva anche il rischio di un eventuale arruolamento nelle forze armate tedesche, considerato che per coloro che si trovavano a compiere prolungati soggiorni all’estero per motivi di studio o lavoro poteva giungere tramite il consolato tedesco, cui molti si erano dovuti registrare, la chiamata alle armi. È quanto accadde proprio ad Heinz Battke. Nonostante egli avesse cercato invano di allontanarsi in tempo dall’Italia, nel 1941 fu arruolato nella Luftwaffe e, grazie alla sua conoscenza dell’italiano, aggregato come interprete presso una compagnia dislocata in Sicilia. Senza che se ne conoscano i dettagli, l’esperienza fu però breve, poiché nel 1942 egli fu formalmente congedato per problemi di salute[7]. Tornato a Firenze, Battke decise però di lasciare la propria abitazione posta in viale Milton e di sfollare assieme alla madre a Vallombrosa. Come avrebbe ricordato egli stesso al più tardo processo per i fatti di Secchieta, l’inizio del suo soggiorno nella frazione del comune di Reggello ebbe avvio il 12 dicembre 1942. Meta cara a molti artisti e letterati stranieri, Vallombrosa con la sua magnifica abbazia e le sue foreste circostanti era già stata sicuramente località di villeggiatura non solo per Battke (che del paesaggio attorno ci ha lasciato alcune vedute e disegni) ma molto probabilmente anche per altri artisti esuli del circolo di Villa Romana.

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Heinz Battke, giardino di un casolare al Saltino. Stampa, 1942 (GALERIE HANNA BEKKER VOM RATH, Francoforte sul Meno)

Non è certo un caso perciò che nel maggio del 1943, per sottrarsi ai pericoli della vita in città, proprio a Vallombrosa si rifugiarono tra gli altri lo stesso Purrmann (che poco dopo riparò in Svizzera), il direttore del Kunsthistorisches Institut di Firenze Friedrich Kriegbaum (il quale aveva cercato di opporsi alla penetrazione culturale nazista all’interno del prestigioso istituto tedesco di ricerca storico-artistica fondato in città nel 1897) e anche il pittore ebreo Rudolf Levy[8]. La tragica sorte toccata a quest’ultimo, peraltro, aiuta ulteriormente a mettere in luce l’antinazismo di Battke. Levy, pittore ebreo nativo di Stettino, dopo aver lasciata la Germania, nel 1938 a seguito della promulgazione della legislazione razziale fascista era rimasto bloccato ad Ischia, dove soggiornava ospite di un amico. Impossibilitato a procurarsi un visto per l’estero e sfuggito all’arresto solo perché già anziano (era nato nel 1875) Levy si era trasferito a Roma e poi a Firenze dove legò col gruppo di Purrmann, suo amico, facendo la conoscenza tra gli altri anche di Battke. Il 12 dicembre 1943, Levy fu però arrestato da agenti in incognito della polizia segreta nazista che erano riusciti ad attirarlo a Firenze sotto le mentite spoglie di committenti d’arte interessati al suo lavoro e quindi fu tradotto nel carcere delle Murate. Stando a quanto riportano i suoi profili biografici, Battke cercò disperatamente di liberare l’amico, non riuscendovi. Levy poco dopo fu avviato alla deportazione in Germania, decedendo per quanto si sa durante il trasferimento ad Auschwitz[9].

3 – Tra dissenso e “scelta” partigiana:

In mancanza di altra documentazione, questi precedenti aiutano a mettere meglio a fuoco il gesto coraggioso e disinteressato che Battke compì quella mattina del 16 aprile nel tentativo di salvare il partigiano Palai. Oltre a questo episodio, sulla sua attività di collaborazione col movimento partigiano fiorentino di cui riferiscono le testimonianze citate in precedenza non disponiamo di ulteriori riferimenti documentari, se non di semplici indizi. Va detto in tal senso che nel 1944 l’amministratore dei beni della famiglia Battke a Firenze era certo Piero Aglietti, un patriota fiorentino classe 1920 riconosciuto nel dopoguerra gregario in forza alla 4° Brigata Rosselli, il quale faceva da spola tra la città e Vallombrosa per conto dei Battke. Peraltro, lo stesso Agletti, quel 16 di aprile si trovava con gli altri al Villino Medici e poté dare una mano nell’organizzare il trasporto del ferito a Firenze. Un riconoscimento, seppur posteriore ai fatti, del contributo dato da Battke in quella circostanza lo si può trovare anche in un’intervista rilasciata nel dopoguerra da Paris Boccherini, partigiano della formazione tricolore “Perseo” che operava nella zona di Reggello. Riferendo la sua versione del rastrellamento del Secchieta del 16 aprile, Boccherini ricordò anche la figura del Battke, dando peraltro alcune preziose indicazioni sulle conseguenze a lui toccate in seguito all’episodio e poi a fine guerra:

[…] a Secchieta oltre gli 8 morti, vi fu da parte nostra un ferito, che colpito alla pancia si reggeva l’intestino con la mano, perché gli uscivano fuori. In quelle condizioni arrivò a Vallombrosa e bussò e vennero i tedeschi ad aprire allora riuscì a scappare nuovamente, bussò ad un’altra porta e venne un ufficiale tedesco (che era antinazista) che stava in Via Venezia e dietro un mio rapporto fu soltanto fatto portare al Campo di Concentramento (questo quando venne catturato). Questo ufficiale prese un Taxi e portò il ferito all’Ospedale di via Giusti, dove poi morì. Si chiamava Falai Franco. Il tedesco non era un Ufficiale dell’esercito nazista, ma un tedesco che si trovava in Italia da tempo e che era stato ufficiale. Passò dei guai con i suoi connazionali. Fu per questo che quando i tedeschi si ritirarono lui rimase qui in Italia e stava in una pensione di Via Venezia.[10]

Non è improbabile che, come dice Boccherini, a seguito dei fatti del 16 aprile Battke passasse dei guai con le autorità nazifasciste. Dalla documentazione del già citato processo risulta infatti come queste ultime si fossero presto accorte del ruolo avuto nella vicenda dall’ufficiale tedesco in congedo. Il fiduciario dei Battke, infatti, Piero Aglietti, che aveva partecipato al trasporto del ferito, venne rintracciato e sentito dalle autorità fasciste già il 17 aprile, probabilmente perché a decesso avvenuto del Palai il personale medico a cui si era rivolto avvisò d’ufficio chi di dovere per segnalare il fatto. Aglietti, chiamato a risponderne in Questura, aveva inizialmente cercato di attribuire a se stesso l’iniziativa del trasporto del partigiano ferito, così da «evitare di far avere delle seccature di carattere politico ai Signori Battke»[11]. Se, anche dopo accertata la sua posizione di responsabilità, al Battke non derivarono gravi conseguenze, è cero invece che, come ricorda nella sua testimonianza il partigiano Boccherini, a liberazione avvenuta, la dichiarazione di sua collaborazione con i partigiani che quest’ultimo dice d’avergli procurato  non fu in grado di evitare al Battke l’arresto da parte degli Alleati (nel settembre 1944) e il suo internamento nel campo di prigionia per tedeschi di Padula, a sud di Salerno. Qui, sarebbe rimasto fino al luglio 1945 quando, forse anche in conseguenza del suo cattivo stato di salute, fu rilasciato. Rientrato a Firenze, Battke riprese la propria attività artistica. Nel maggio del 1946 contribuì come membro del comitato organizzatore alla realizzazione presso la Galleria Firenze di una mostra dedicata alla memoria dell’amico Rudolf Levy. Dal 2 al 13 aprile 1949 presso la stessa galleria Battke tenne la sua prima personale del dopoguerra[12]. L’anno successivo, auspice la mecenate e gallerista tedesca Hanna Bekker vom Rath, seguì la prima mostra nella Germania del dopoguerra presso lo Städtisches Museum di Wuppertal. Trasferitosi definitivamente a Francoforte, Battke ottenne nel 1956 la cattedra di disegno presso il Städel Art Institute. La sua carriera artistica, di lì in poi, proseguirà nei decenni seguenti fino alla sua morte avvenuta il 15 gennaio 1966 nella città sul Meno.

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Heinz Battke, ritratto di Piero Aglietti, patriota fiorentino. Stampa, 1955 (GALERIE HANNA BEKKER VOM RATH, Francoforte sul Meno)

Senza disporre di ulteriori informazioni biografiche e documentarie, dell’episodio del 16 aprile 1944, così come della collaborazione del Battke col movimento partigiano fiorentino, rimangono solo le esili tracce che abbiamo qui esposto. In attesa di eventuali indagini ulteriori, la sua resta comunque una vicenda interessante in grado di apportare un piccolo ma significativo contributo alla comprensione del dissenso interno alla Germania nazista e ai suoi riflessi nel contesto dell’occupazione tedesca dell’Europa. Recentemente, anche la storiografia italiana è tornata a indagare con più attenzione il contributo che all’interno della Resistenza italiana giocò un numero considerevole di militari della Wehrmacht, prevalentemente disertori, che scelsero di collaborare a vario titolo coi partigiani italiani, in molti casi prendendo posto a fianco ad essi nella lotta contro l’occupante nazifascista[13]. Battke non fu certo un disertore della Wehrmacht passato ai partigiani, né la sua decisione di assumere un atteggiamento favorevole al locale movimento resistenziale configura forse in senso stretto una scelta partigiana, almeno non nel senso del prendere le armi contro i propri connazionali. Tuttavia, la sua biografia, gli ambienti e le persone con cui egli fu in contatto a Firenze a partire dalla metà degli anni Trenta, non meno che la decisione di esporsi personalmente quel 16 aprile 1944 nel prestare soccorso al partigiano Palai assumono il significato di una non velata opposizione al nazionalsocialismo e di un dissenso nei confronti di una guerra avvertita come ingiusta ed estranea. Di questa sua esperienza fiorentina, che non ha lasciato traccia di sé se non nei pochi incarti del tempo a cui ci siamo rifatti, vale perciò recuperarne la memoria, sperando che possa essere da stimolo per ulteriori ricerche, sia nell’ambito della biografia di questa figura di pittore antinazista che rispetto al contributo versato da altri suoi connazionali che tra il 1943 e il 1944 decisero di disertare dalle truppe di occupazione tedesche unendosi alla Resistenza fiorentina. Una vicenda quest’ultima di cui peraltro ancora non si dispone né di studi né di un primo tentativo, anche approssimativo, di censimento. Lacuna che, si spera, qualcuno possa presto colmare.

[1] Archivio di Stato di Firenze, Corte di Assise Straordinaria (d’ora in poi ASFi, CAS), fasc. 79/1948, Procedimento contro C. Ciaccia ed altri, deposizione di Heinz Battke del 10 aprile 1946, docc. 174-175.

[2] Ivi, interrogatorio di Vezio Cerchiarini, 17 marzo 1945, doc. 41.

[3] Ivi, dichiarazione di Maria Ulivieri nei Palai del 31 gennaio 1944 [ma 1945], doc. 21.

[4] K. Voigt, Zuflucht auf Widerruf, Exil in Italien 1933-1945. Erster Band, Stuttgart, Klett-Cotta, 1989 (traduz. ita: Il rifugio precario. Gli esuli in Italia dal 1933 al 1945, Firenze, La Nuova Italia, 1993); Id., Zuflucht auf Widerruf, Exil in Italien 1933-1945. Zweiter Band, Stuttgart, Klett-Cotta, 1993 (traduz.  ita.: Il rifugio precario. Gli esuli in Italia dal 1933 al 1945. Volume II, Firenze, La Nuova Italia, 1996). Su Villa Romana cfr. P. Kuhn, Zwischen zwei Neuanfängen: Die Villa Romana von 1929 bis 1959 (https://www.villaromana.org/upload/Texte/Archivtext3.pdf).

[5] K. Voigt, Il rifugio precario. Gli esuli in Italia dal 1933 al 1945, Firenze, La Nuova Italia, 1993, p. 503. Battke disponeva peraltro di una ricca e preziosa collezione di anelli per i quali coltivava interessi storico-antiquari, come attestano alcune sue pubblicazioni sul tema, cfr. Heinz Battke, Die Ringsammlung des Berliner Schlossmuseums: zugleich eine Kunst- und Kulturgeschichte des Ringes, Berlin, Leonhard Preiss Verlag, 1938; Id., Geschichte des Ringes: in Beschreibung und Bildern, Baden-Baden, Woldemar Klein, 1953.

[6] K. Voigt, Il rifugio precario. Gli esuli in Italia dal 1933 al 1945, Firenze, La Nuova Italia, 1993, p. 496.

[7] K. Voigt, Il rifugio precario. Gli esuli in Italia dal 1933 al 1945. Volume II, Firenze, La Nuova Italia, 1996, pp. 564-565.

[8] Si veda la scheda biografica di Purrmann nel sito dell’archivio privato del pittore (https://www.purrmann.com/it/leben_florenz.php)

[9] K. Voigt, Il rifugio precario. Gli esuli in Italia dal 1933 al 1945. Volume II, cit., pp. 573-574; M. Baiardi, Persecuzioni antiebraiche a Firenze, razzie, arresti, delazioni in E. Collotti (a cura di), Ebrei in Toscana tra occupazione tedesca e RSI. Persecuzioni, depredazioni, deportazione (1943-1945), Vol. I, Saggi, Roma, Carocci, 2007, p. 157. Per il tentativo di Battke di salvare Levy cfr. la sua scheda biografica ospitata sul sito del Museum Kunst der Verlorenen Generation (https://verlorene-generation.com/en/kuenstler/heinz-battke/)

[10] Archivio dell’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età contemporanea di Firenze, Fondo Sirio Ungherelli, b. 5, fasc. Mascagni Arduino, Bergamino Giuseppe, Boccherini Paris, trascrizione della testimonianza di Mascagni Arduino con precisazioni di Bergamino Giuseppe e di Boccherini Paris resa a Sirio Ungherelli (intervista non datata), p. 17.

[11] ASFi, CAS, fasc. 79/1948, Procedimento contro C. Ciaccia ed altri, interrogatorio di Aglietti Piero del 26 maggio 1944, doc. 17; ivi, interrogatorio di Aglietti Piero presso la Questura di Firenze del 17 aprile 1944.

[12] Mostra personale di Heinz Battke, Firenze, Galleria Firenze, 2-13 aprile 1949, Firenze, L. Del Turco, 1949.

[13] M. Carrattieri e I. Meloni (a cura di), Partigiani della Wehrmacht. Disertori tedeschi nella Resistenza italiana, Calendasco, Le Piccole Pagine, 2021; C. Greppi, Il buon tedesco, Bari-Roma, Laterza, 2021.




Fare la Resistenza, fare la storia della Resistenza. Vittorio Meoni e l’Istituto Storico della Resistenza Senese.

Nel 1998 Vittorio Meoni mi telefonò per propormi di assumere l’incarico di “insegnante comandato” nell’Istituto Storico della Resistenza Senese. L’Istituto si era costituito alcuni anni prima, nel 1991, naturalmente per iniziativa dello stesso Vittorio. Dico “naturalmente” perché a Siena Vittorio era la Resistenza, in ogni senso del termine: era il suo eroe, ricordato nelle narrazioni popolari, il suo principale testimone (era allora e rimarrà a lungo anche presidente dell’ANPI provinciale), ma anche il suo studioso, colui che tentava di traghettarla dalla memoria alla storia. L’Istituto aveva raccolto altre persone della generazione di Vittorio (n. 1922) e già attiviste dell’ANPI, come fra gli altri Sandro Ugoletti, Alfredo Merlo, Anna Giorgetti, Aristeo Biancolini, Giuseppe Martufi, Bruna Talluri (che ne era stata la prima direttrice): ma anche studiosi e attivisti più giovani, come Alessandro Orlandini, Gianfranco Molteni, Silvia Folchi. All’ISRS avevano aderito la provincia di Siena e molti comuni del territorio. La sede era in un prestigioso (anche se non propriamente funzionale) locale nella centralissima via di Città, che ospitava una discreta biblioteca (includente un fondo donato da Mario Delle Piane), i materiali d’archivio delle brigate partigiane del Senese, un archivio fotografico di provenienza ANPI e un piccolo fondo di fonti orali (che si sarebbe in seguito ampiamente sviluppato). Negli anni Novanta, il principale impegno di Vittorio Meoni e dell’Istituto aveva però riguardato il progetto di Casa Giubileo: la casa colonica immersa tra i boschi del Montemaggio, nel comune di Monteriggioni, dove erano stati attaccati e catturati i partigiani del gruppo di Vittorio, prima dell’eccidio e della sua rocambolesca fuga. Con il sostegno delle amministrazioni regionale e provinciale e dei comuni della Valdelsa senese, Casa Giubileo era stata ristrutturata e trasformata in un Laboratorio Didattico per la storia contemporanea e la ricerca ambientalista. Da puro “luogo del ricordo”, doveva diventare un presidio della trasmissione critica della memoria resistenziale alle nuove generazioni, e un riferimento per la didattica della storia e dell’ambiente rivolto a tutte le scuole del territorio. Era così stata dotata di raccolte di fonti e di strumentazioni elettroniche per l’epoca assai avanzate, inclusa una centralina di montaggio video e altre apparecchiature che favorivano un approccio diretto e interattivo degli studenti alle fonti.

Si trattava ora di farlo funzionare.  L’ISRS faceva parte della rete nazionale degli Istituti storici affiliati all’INSMLI (Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia), convenzionata con il Ministero della Pubblica Istruzione al fine di impiegare – attraverso appunto la formula del “comando” – alcune decine di insegnanti di ruolo per le proprie attività di didattica della storia contemporanea.  Siena ottenne per la prima volta il comando appunto a partire dall’anno scolastico 1998-99: da qui dunque la proposta che Vittorio mi fece di assumere quel ruolo, che accolsi con entusiasmo soprattutto per i miei interessi verso la didattica della storia contemporanea. Lavorai all’Istituto (divenendone anche direttore) per due anni scolastici (fino a quando, alla fine del 2000, ottenni accesso all’università e mi trasferii a Roma “La Sapienza”). Anni intensi, nei quali organizzammo un pacchetto di proposte didattiche per le scuole della provincia – dalle primarie alle superiori – e di corsi di aggiornamento per insegnanti. I percorsi didattici furono all’inizio quattro, centrati attorno alle tematiche dell’eccidio di Montemaggio, dell’antifascismo e della Resistenza nel senese, dei bombardamenti delle città, del razzismo e della persecuzione degli ebrei.  Ciascun percorso includeva almeno una o più visite a Montemaggio, incontri con i testimoni, interventi in classe (con i testimoni e, oltre che con me, con esperte e attive collaboratrici come Laura Mattei e Valentina Zerini), e esercitazioni di laboratorio basate sull’analisi critica delle fonti. L’unicità del racconto storico esemplare e ufficiale veniva smontata cercando di presentare gli eventi e il contesto da molteplici punti di vista. Nella ricostruzione dell’eccidio di Montemaggio, ad esempio, la visita dei luoghi e l’incontro con Vittorio Meoni o con Velio Menchini si combinavano con il confronto di diverse versioni e racconti (inclusi quelli della GNR), con gli atti del processo, con resoconti letterari e audiovisivi. Nel percorso sui bombardamenti (sfruttando soprattutto la ricca documentazione su Poggibonsi), oltre a disegnare il contesto complessivo della guerra aerea e della guerra “totale”, si ponevano a confronto le fonti oggettive (ad esempio le riprese effettuate dai bombardieri americani, che in quegli anni Claudio Biscarini aveva individuato negli archivi USA e pubblicato) e quelle soggettive, come le testimonianze orali dei sopravvissuti e degli sfollati – chiedendo poi alle studentesse e agli studenti di realizzare prodotti multimediali di sintesi. Decine e decini di classi, prevalentemente di scuola media, parteciparono a questi esperimenti didattici, gli scuolabus gialli arrancavano fra la polvere sulla strada bianca che porta a Montemaggio, scaricando a Casa Giubileo o alla Porcareccia centinaia di ragazze e ragazzi che almeno in quei momenti sembravano smentire gli stereotipi sul disinteresse adolescenziale per la storia – e che rimanevano per lo più incantati dall’immersione in uno scenario che portava i segno concreti del passato, dal mix di memoria e storia e dai metodi “induttivi” che venivano loro proposti. Ripensandoci oggi, non sono così sicuro che il metodo del laboratorio (imparare la storia facendo delle cose, non solo ascoltando dei racconti stabilizzati e “ufficiali”) sia generalizzabile. Sono molto più scettico di allora sull’idea di un apprendimento scolastico per skills. E anzi sono convinto che quel che accadeva a Casa Giubileo non fosse solo “metodo induttivo”, ma anche e soprattutto approccio empatico, potenza dei “miti” narrati, efficacia comunicativa dei monumenti (i ragazzi chiedevano sempre se quelli erano i buchi dei proiettili…), rafforzata dal carattere straordinario dell’esperienza vissuta (fare scuola nei boschi, lontano dall’ordinarietà della classe etc.). Resta intatta la meraviglia di quei momenti: e sarebbe interessante sapere oggi, a più di vent’anni di distanza, che cosa per le ragazze e i ragazzi di allora è rimasto della didattica di Casa Giubileo.

Al di là delle esperienze con le scuole, l’attività di quegli anni all’Istituto si concentrò molto sulla produzione di fonti orali. Già Vittorio ne aveva iniziato una raccolta su VHS, con interviste formalizzate condotte nella sede stessa dell’ISRS. Continuammo utilizzando formati audio digitali, con diverse campagne che tentavano non solo di fissare le testimonianze dei partigiani più noti, ma anche di restituire il punto di vista di testimoni dell’epoca fino ad allora rimasti nell’ombra, e portatori magari di racconti per così dire meno ortodossi (il punto di vista contadino, ad esempio, non sempre così nettamente schierato con i partigiani). Bisogna ricordare che quegli anni ’90, aperti dal celebre libro di Claudio Pavone (Una guerra civile, Bollati Boringhieri, 1991), cercavano di rendere più ampia e complessa l’immagine della Resistenza rispetto alle visioni “militanti” e alla storiografia più ortodossa. Era finita la guerra fredda, e non eravamo ancora entrati in quella nuova stagione di polemiche che sarebbe stata in seguito alimentata dai libri di Pansa e da alcuni tratti dell’ideologia della nuova destra. Sembrava possibile sfuggire alla dimensione sacra e monumentale della memoria resistenziale, e sottoporla allo scrutinio di una indagine storico-antropologica più profonda, senza per questo offrire strumenti al revisionismo più strumentale. Ciò implicava ad esempio  dare maggior risalto al ruolo dei civili, come negli studi sugli eccidi nazifascisti del ’44 e sulle loro memorie che spesso si presentavano “divise” e irriducibili alla versione ufficiale; ragionare (come Pavone stesso  invitava a fare) sulla dimensione di una violenza diffusa che non stava solo da una parte e che finiva per contagiare anche le “vittime”; approfondire le divisioni e le contraddizioni interne alla stessa componente partigiana, facendo emergere crepe nella narrazione monumentale che (per ragioni prevalentemente pratiche) era stata disegnata a fine guerra dalle relazioni delle brigate.  Pochi ricordano che in quel periodo furono proprio gli istituti storici della Resistenza ad aprire nuovi filoni di studi sulle rappresaglie antifasciste dell’immediato dopoguerra o sulle violenze del confine orientale (incluse le “foibe”): temi in precedenza tabù perché colonizzati dalla propaganda dell’estrema destra, e che ben presto sarebbero tornati ad esserlo. Accenno a questi aspetti solo per ricordare l’estrema fecondità di quella fase, e soprattutto per testimoniare quanto Vittorio Meoni fosse interessato e aperto verso questi sviluppi. Proprio lui che incarnava la monumentalità della Resistenza, il motto – se vogliamo – per cui “la Resistenza non si tocca”, era il primo a guardare con attenzione ai nuovi paradigmi sia interpretativi sia celebrativi che si stavano profilando.  “Vecchi arnesi”, scherzava commentando sospetti e tabù di molti della sua generazione. Me ne sono forse accorto tardi, ma il suo atteggiamento verso i più giovani era da autentico maestro: una guida discreta, consapevole che le cose che si imparano davvero sono quelle cui si arriva da soli.

Fabio Dei




Giorgio La Pira un Sindaco per la Solidarietà e la Pace

Della complessa e poliforme figura di Giorgio La Pira, caratterizzata dall’impegno scientifico-accademico, politico-sociale e religioso-ecclesiale, ricordiamo alcuni tratti della figura di Sindaco attento ai cittadini e ai popoli.

1934  La Messa dei poveri

La Pira stesso descrisse la nascita e le caratteristiche della Messa dei Poveri: Bisogna dirlo subito: la S. Messa dei poveri in S. Procolo e poi alla  Badia ebbe la sua radice in un desiderio profondo di «avventura» cristiana di fede e di carità che avvivava allora, ed avviva ancora, la nostra anima. Nacque da un bisogno di «sborghesimento» del nostro cristianesimo: e ci furono di sprone e di guida le parole misteriose di quella parabola misteriosa: Andate pei crocicchi delle strade e chiamate quanti trovate, poveri, ciechi, storpi, zoppi, e conduceteli qui affinché si riempia la mia casa. Prendemmo il Vangelo alla lettera: andammo al dormitorio pubblico,  ricordo le impressioni delle prime visite fra quella massa così strana di clienti del dormitorio, e negli altri «crocicchi» dove era possibile trovare gli amici che cercavamo: conventi nei quali al tòcco veniva distribuita la minestra, cucine popolari e così via.
Vinte le difficoltà immancabili di ogni cosa nuova, il nostro progetto divenne realtà: una domenica della primavera 1934 una quarantina di poveri – gli ultimi davvero: ciechi, zoppi! – erano radunati nella Chiesa di S. Procolo per partecipare alla S. Messa. Al Vangelo furono dette poche parole; poi, recitate alcune preghiere, la Messa finì. Fu portata all’Altare una cesta di pane fresco: quel pane fu benedetto, fu recitato insieme un Padre Nostro e fu fatta ordinatamente la distribuzione. Uscimmo contenti, desiderosi di ripetere l’esperimento la domenica successiva: da allora, fortemente ingrandita, quell’esperienza di fede e di carità cristiana costituisce l’attesa e la gioia domenicale di molti. Quei primi quaranta sono morti quasi tutti: ma al loro posto più di millecinquecento anime sono settimanalmente unite per celebrare insieme il Sacrificio dell’amore. Nelle S. Messe di S. Procolo e di Badia si ripete in qualche modo la prima esperienza cristiana: perché ricchi e poveri, abbienti e non abbienti formano una sola famiglia: sono come i primi cristiani, cor unum et anima una[1].

1944 Nominato dal CTLN Presidente dell’Ente Comunale di Assistenza – ECA di Firenze.

L’ECA era un organismo statale, creato appena prima della seconda guerra mondiale in sostituzione della Congregazione di carità, al quale era affidata l’assistenza sociale nel territorio comunale e l’amministrazione delle Opere Pie. A Firenze l’attività dell’ECA, nel clima resistenziale del dopoguerra, venne gestita da 22 capillari Commissioni assistenziali cui erano delegate l’erogazione dei sussidi,  composte, tra gli altri membri, dal medico di zona, dal parroco e da un’assistente sanitaria. L’amministrazione militare alleata, AMG, sostenne l’ECA sia finanziariamente che con forniture alimentari. La città era arrivata alla seconda guerra mondiale con un elevato numero di senza casa dovuto all’abbattimento di ampie parti del quartiere di Santa Croce da parte dell’amministrazione fascista che voleva espellere dal centro i ceti popolari e costruire la “via dell’Impero” (zona piazza dei Ciompi-via Verdi, distruzione narrata con dolore da Pratolini ne Il Quartiere). A questi si aggiunsero quelli che avevano perduto la casa per le mine tedesche, per la distruzione del centro operata dai nazifascisti, per i bombardamenti alleati e per gli sfollati  dalle linee del fronte. L’ECA fu così chiamata a soccorrere migliaia di sinistrati fiorentini rimasti senza casa e senza lavoro. Nell’immediato dopoguerra, sotto la guida di Giorgio la Pira – che ne fu presidente dal 1944 al 1957 – l’ECA dette un importante contributo alla ricostruzione morale e materiale della città, sostenendo con consistenti distribuzioni di indumenti, generi alimentari, pasti caldi e medicinali, il tenore di vita della popolazione. Furono istituiti i Centri sinistrati, mense per i lavoratori e ampliato l’Albergo popolare. Nel lavoro all’ECA La Pira moltiplicò l’attività di condivisione e aiuto ai poveri già iniziata con l’azione della Messa dei poveri alla Badia fiorentina e a San Procolo.  A differenza dei sindaci e degli amministratori comunali dell’epoca che svolgevano attività di sostegno sociale, ma non avevano i compiti diretti di organizzare l’assistenza sociale (i Comuni li avranno solo dagli anni ’70 inoltrati), La Pira ebbe modo sia di conoscere direttamente la grande problematicità delle situazioni popolari sia la possibilità di agire.  Legò questo suo agire sulle emergenze e sulle prime necessità, all’azione politica che lo vedeva costituente, poi parlamentare e infine sottosegretario al lavoro. Esperienze che gli fecero vedere la stretta connessione tra la dignità della persona e la tutela delle famiglie; tra il lavoro, la casa, l’assistenza e l’istruzione dei figli. Non si limitò a questo: la vita civile e la dignità individuale potevano svolgersi pienamente soltanto nella solidarietà con l’altro, con la condivisione con gli altri uomini visti tutti come figli di Dio che necessitavano finalmente della pace per realizzarsi.  Lo spazio nel quale potersi realizzare come popolo di Dio, lo individuò nella città: la città dell’uomo nella quale lavorare per il Regno.

1946 Eletto alla Costituente nella DC, si legò al piccolo gruppo creato da Dossetti, collaborò a scriverne i principi fondamentali (diede il suo apporto per: gli art 2 e 3 sulla dignità della persona, la solidarietà, l’intervento dello stato per rimuovere gli ostacoli allo sviluppo personale e la libertà di espressione; l’art.7 sul rapporto tra stato e chiesa; l’art.11 che sancisce il ripudio della guerra e il sostegno alle organizzazioni internazionali per promuovere la pace).

1948 Deputato DC.

1949-50 Sottosegretario al Lavoro (ministro Fanfani) nel V° governo De Gasperi. La sua azione tese a favorire il dialogo tra i Sindacati e la Confindustria e le altre organizzazioni padronali strette nella rigidità. Seguendo gli economisti inglesi Keynes e Beveridge, La Pira indicò, come obiettivo fondamentale dell’azione politica, la “piena occupazione”: dare lavoro a tutti non era un miraggio, ma un obiettivo possibile. La politica doveva rispondere, diceva La Pira, alle attese della povera gente: proprio questo fu il titolo di un suo famoso articolo, che suscitò un profondo dibattito: Quale è l’attesa della povera gente (disoccupati e bisognosi in genere?) La risposta è chiara: un Governo ad obiettivo, in certo modo, unico, strutturato organicamente in vista di esso, la lotta organica contro la disoccupazione e la miseria. … c’è, anzitutto, una premessa di natura squisitamente cristiana: è vano, per un Governo, parlare di valore della persona umana e di civiltà cristiana, se esso non scende organicamente in lotta al fine di sterminare la disoccupazione ed il bisogno, che sono i più temibili nemici esterni della persona. Il documento inequivocabile della presenza di Cristo in un’anima ed in una società è stato definito da Cristo medesimo: esso è costituito dalla intima ed efficace “propensione” di quell’anima e di quella società verso le creature bisognose! Vi sono disoccupati? Bisogna occuparli. Che significa, infatti, che tutta la legge ed i Profeti si riassumono nell’unico comandamento dell’amor di Dio e dell’amor del prossimo? Che significa ama il prossimo tuo come te stesso? Vorrei io essere disoccupato, affamato, senza casa, senza vestito, senza medicinali? No, certo: e, quindi, questo no io lo devo anche pronunziare per i miei fratelli.
Se io sono uomo di Stato il mio no alla disoccupazione ed al bisogno non può che significare questo:  che la mia politica economica deve essere finalizzata dallo scopo dell’occupazione operaia e della eliminazione della miseria: è chiaro![2]

1951 venne eletto Sindaco di una coalizione quadripartita di centro, (DC, PLI, PRI, PSDI). Si dimise da parlamentare per incompatibilità.

Proseguì la ricostruzione e lo sviluppo della città, iniziata con l’amministrazione social-comunista del sindaco Fabiani. Per ottenere sostegni nazionali e internazionali ai nuovi progetti, si collegò strettamente all’ala progressista della DC e ai suoi esponenti al Governo insieme ai referenti dei fondi  americani per lo sviluppo. La Pira diede vita a un progetto esemplare “Il piano latte”: realizzare una Centrale del latte pubblica con la funzione sociale di sviluppare il territorio e migliorare la nutrizione dei bambini e ragazzi. Questo significava assicurare lavoro agli allevatori e al mondo contadino, occupare operai nel trattamento e la distribuzione del latte, fornire alla popolazione un alimento poco diffuso nei consumi cittadini. Lo sostennero Amintore Fanfani, ministro dell’Agricoltura, e Lodovico Montini referente del programma degli aiuti americani.

Gli aiuti permisero la costruzione della Centrale in via Circondaria (ora distrutta dai lavori per la Tav) e la condivisione sociale del finanziamento ricevuto, fornendo il latte gratuitamente in ogni scuola per ogni alunno (materne ed elementari).

Il tema della casa era centrale in città, ma l’importante inaugurazione del nuovo quartiere satellite dell’Isolotto, una città nella città sviluppata con l’INA casa,  e il programma delle case minime, non si rivelarono sufficienti. La Pira si trovò a dover sostenere un numero crescente di senza casa, di profughi  e di sfrattati e di fronte al rifiuto delle grandi proprietà di mettere a disposizione del Comune le case necessarie, utilizzò l’arma della requisizione per grave necessità pubblica: dare casa ai senza tetto.  Il provvedimento si basò su una legge del 1865 del Regno d’Italia, che dava facoltà ai sindaci di requisire qualsiasi proprietà privata in situazioni di emergenza.

1952 Se per La Pira l’incontro tra gli uomini era fondamentale, altrettanto lo era l’incontro tra i popoli.

L’inizio della sua azione internazionale, fortemente radicata nella dimensione cittadina e nel  suo fermento religioso innovativo, aperto alle riflessioni dei cristiani francesi e di Jacques Maritain, avvenne con la convocazione dei Convegni per la pace e la civiltà cristiana. Nel clima di divisione esasperata est-ovest imposto dalla guerra fredda, cercò  una conciliazione e una apertura all’incontro ripartendo dal ruolo della città di Firenze che in pieno Umanesimo, nel 1439,  ospitò il Concilio per la riunione dei cattolici e degli ortodossi. Allora l’unione era cercata all’interno del mondo cristiano, La Pira si interrogava se il messaggio cristiano non potesse essere stimolo all’incontro con altre spiritualità e religioni e i non credenti.

Nei saluti del primo Convegno del 1952 La Pira lo sottolinea: Venite a Firenze, asilo di spiritualità, di bellezza, di pace. Qui i problemi più severi e più aspri acquistano una mitezza e una duttilità quasi impreveduta. Qui si rende chiara la ragione che con tanta rapidità provocò nel 1439 l’atto di unità e di pace fra la Chiesa di Oriente e quella di Occidente. Questa è veramente la città universale della pace. Qui i valori dell’uomo si spiegano in tutta la loro ampiezza ed in tutta la loro gerarchia. Qui si rende visibile nelle cose la definizione che fa dell’uomo il valore massimo e finale dell’intera creazione.[3]

La condivisione profonda del messaggio cristiano guida l’azione di sindaco di La Pira che non può accettare di rimanere chiuso in un solo campo, occidentale ed atlantico, ma cerca i contatti con tutto il mondo  non dimenticando le diverse fedi, i popoli afflitti dal colonialismo, i perseguitati e gli esclusi. Con queste parole rivolte al corpo diplomatico presente in Italia e presso la Santa Sede, promosse la grande stagione dei convegni internazionali fiorentini che divennero quasi un alter ego culturale e religioso delle assemblee delle Nazioni Unite: A nome della città di Firenze ho l’onore e la gioia di inviarLe, in quest’alba del nuovo anno ed in questa vigilia dell’Epifania, un Messaggio che è insieme un augurio e un invito. L’augurio è, naturalmente, un augurio di pace per tutte le Nazioni. Il 1952 veda il rapido svilupparsi di quelle premesse, centrate sul valore della persona umana, che sono le condizioni indispensabili per ricomporre ad unità le parti, ancora staccate, dell’unica solidale civiltà umana e cristiana. I grandi progressi tecnici e gli sviluppi a scala mondiale della vita economica, sociale, politica e culturale, riprovano ogni giorno più chiaramente la strutturale unità del genere umano: quella strutturale unità del genere umano; quella strutturale unità così luminosamente manifestata nel Messaggio Evangelico e già posta nel Medioevo a base dell’unico, solidale edificio politico del mondo. … Lavorare per ricomporre tale unità, per fare delle Nazioni, nel rispetto dei loro inconfondibili caratteri, un’unica famiglia umana in modo da assicurare a tutti gli uomini la gioia del lavoro, della casa, della fraterna assistenza e della ricchezza culturale, spirituale e religiosa. Ecco il compito davvero grandioso affidato agli uomini del nostro tempo.[4]

La Pira non era solo, il cardinale Dalla Costa condivideva in pieno le sue aspirazioni e l’intera città era percorsa da un profondo rinnovamento e fermento religioso, che gli forniva una solida base nell’affermare: Firenze ha titolo a farsi stimolatrice per lo sviluppo e il coronamento di quest’opera. Essa, infatti si onora di essere stata consacrata dai suoi grandi reggitori medioevali, il 9 febbraio 1527, al Divino Rilevatore e Creatore di questa unità degli uomini, a Cristo ‘Rex florentini popoli’.[5]

I Convegni internazionali per la pace e la civiltà cristiana furono un grande momento di speranza nel duro confronto della guerra fredda e investirono, dopo i cristiani, le altre religioni e, attraverso l’incontro delle città, il mondo comunista. Centrale in questo sviluppo dei contatti e dell’amicizia fu il ruolo della città elaborato da La Pira che vedeva Firenze appartenere: a tutte le nazioni, essendo, sotto certi aspetti, il centro artistico e culturale della civiltà cristiana ed umana. Proprio a questo fine la Città di Firenze si fa promotrice di un incontro fra insigni rappresentanti della cultura di vari paesi. Incontro destinato a uno scambio di idee sulle attuali condizioni della civiltà cristiana nel mondo e sulle permanenti capacità che essa possiede per essere valido strumento di pace e unificazione dei popoli.[6]

1954 Ginevra, La Pira pronunciò alla Croce Rossa Internazionale un discorso che teorizzò il ruolo delle città per la ri-costruzione di un mondo nuovo “L’epoca storica delle città”: La cultura e la metafisica della città sono diventate il centro nuovo di orientamento dì tutta la meditazione umana. Siamo ad una nuova ‘misura ‘ dei valori: la storia presente, ma ancora più quella futura, si serviranno sempre più di questo metro destinato a fornire la misura umana a tutta la scala dei valori. … Che sarebbe dell’umanità senza questi, centri essenziali del mondo civile e che diritto hanno gli Stati di distruggere queste ‘unità viventi’ in cui si concentrano ì valori essenziali della storia passata e futura?[7]

La città è quindi indispensabile per dare all’uomo un respiro di spiritualità e una salvaguardia di dignità: per questo il ruolo dei Sindaci deve assumere sempre di più, una caratteristica di grande spessore per tutelare la persona di fronte all’anonimato schiacciante della globalizzazione. Il diritto all’esistenza delle città nel loro, valore storico, artistico, culturale, politico e religioso si fa più grande a mano a mano che si chiarisce il significato profondo delle città stesse come orizzonte di riferimento della vita e delle esigenze primarie della persona e della famiglia.

 1955 Convegno dei Sindaci delle capitali. Arrivarono a Firenze i sindaci da tutto il mondo: dall’Occidente, dall’URSS e dai paesi dell’Est, dai nuovi paesi decolonizzati e anche dalla Cina. La Pira aprì così il convegno: La minaccia della guerra atomica ha appunto operato questo effetto: fece scoprire, a quanti ne hanno la responsabilità e l’amore, il valore misterioso ed in certo modo infinito della città umana. …come è stato felicemente detto, infatti, la crisi del tempo nostro può essere definita come sradicamento della persona dal contesto organico della città. Ebbene: questa crisi non potrà essere risolta che mediante un radicamento nuovo, più profondo, più organico, della persona nella città in cui essa è nata e nella cui storia e nella cui tradizione essa è organicamente inserita. … daremo vita, per così dire, ad uno strumento diplomatico nuovo: uno strumento che esprime la volontà di pace delle città del mondo intero e che tesse un patto di fraternità alla base stessa della vita delle Nazioni.[8]

Se la visione internazionale di La Pira era sostenuta da vari esponenti DC (Fanfani, Gronchi e Mattei), la sua spinta sociale e l’attenzione alla questione operaia insospettiva il mondo tradizionalista e capitalista. La crisi della fabbrica del Pignone, una fonderia di altissima qualità, nel 1953, vide il sindaco e la Chiesa fiorentina schierati contro il licenziamento di quasi duemila operai e impegnarsi fattivamente per il salvataggio dei lavoratori fiorentini insieme all’Eni di Mattei. Il successo ottenuto invece di mettere a tacere le critiche, moltiplicò gli attacchi alla sua azione.

Persino don Luigi Sturzo si fece interprete delle spinte liberiste, contrarie ad ogni intervento regolatore nell’economia, e criticò l’attività di sindaco di La Pira in un articolo dal titolo significativo: “Statalista La Pira?”

La Pira rispose, a colui che considerava una guida, con una lettera serena e esplicita nel motivare il suo impegno: Reverendo don Sturzo, bisognerebbe che lei facesse l’esperienza – ma quella vera! – che tocca fare al sindaco di una città di 400.000 abitanti, avente la seguente cartella clinica: 10.000 disoccupati (esattamente in marzo 9.740, di cui .5.686 di prima categoria, -cioè disoccupati, per effetto dei licenziamenti, e 2.971 di seconda categoria, cioè giovani in cerca di lavoro!): una glande azienda da quattro mesi crollata (Richard Ginori con 950 licenziamenti); non parliamo per fortuna della Pignone; altre aziende con licenziamenti in atto (Manetti e Roberts) o con ‘tentazioni’ di licenziamenti (non faccio nomi, per non turbare!), grosse crisi industriali nella periferia (tutto il Valdarno con migliaia di licenziati); 3.000 sfratti, (sfratti, autentici, sa!), 17.000 libretti di povertà con un totale di. 37.000 persone assistite dal Comune e dall’E.C.A. Scusi, davanti, a tutti questi ‘feriti ‘, buttati a terra dai ‘ladroni ‘ – come dice la parabola del Samaritano – cosa deve fare il sindaco, cioè il capo e in certo modo il padre ed il responsabile della comune famiglia cittadina? Può lavarsi le mani dicendo a tutti: scusate, non posso interessarmi dì voi perché non sono statalista ma un interclassista? La parabola del Samaritano, sola norma umana, non dice questo: dice anzi che il Samaritano scese da cavallo, prese il ferito (un nemico: giudeo), gli somministrò le prime cure, lo portò dal farmacista al quale disse: curalo, tornerò domani a pagare le spese.

Stia tranquillo: siamo stati ben vaccinati, lei è contro lo Stato totalitario soprattutto per persuasione; noi lo siamo in virtù di una persuasione autenticata da una terrificante esperienza che ci brucia ancora.

Non vorrei che con la scusa di non volere lo Stato totalitario non si voglia in realtà lo Stato che interviene per sanare le strutturali iniquità del sistema finanziario, economico e sociale, del cosiddetto ‘Stato liberista’ (che sta ‘a vedere’ con olimpica contemplazione la dolorosa zuffa che la privazione del pane quotidiano procura fra deboli e potenti).

Caro Don Sturzo, dovrebbe essere lei ad incitare noi più giovani alla meditazione più seria ed alla attuazione più decisa dei principi contenuti in una pagina poco letta ma molto luminosa della Quadragesima anno (paragrafo 37): ‘Principio direttivo dell’ economia’, dove è scritto: ‘Come l’unità della società umana non può fondarsi nella opposizione di classe, così il retto ordine dell’economia non può essere abbandonato alla libera concorrenza delle forze’.[9]

1956 venne rieletto nel Consiglio comunale con decine di migliaia di preferenze. È di nuovo sindaco, ma la giunta viene fatta cadere dai Liberali. Non si ritrovò una maggioranza e per Firenze sarà l’era del Commissario prefettizio.

 1961 venne nuovamente eletto sindaco di Firenze e formò una delle prime giunte di centro-sinistra. In questo terzo mandato la sua azione trovò forza dal rinnovato rapporto della Chiesa con la società e con la storia, sulla base delle novità che stavano affiorando nel pontificato di Giovanni XXIII e nel Concilio.

La visione internazionale si concentrò sul superamento dei conflitti coloniali e l’incontro delle diverse spiritualità religiose a partire dalle religioni di Abramo. Condivise lo spirito della conferenza di Bandung e della grande novità dei paesi Non allineati, pose centrale il sostegno all’azione delle Nazioni Unite, in una visione politica di neo-atlantismo e di riconoscimento delle nazioni emergenti.

“I Colloqui del Mediterraneo” (1958-1964) a cui diede vita, riuscirono persino a far incontrare francesi e algerini in guerra. I colloqui per la pace in Algeria si apriranno a Evian nello stesso giorno del terzo colloquio. Si stabilirono contatti tra israeliani, palestinesi e arabi e si stilarono patti di sviluppo culturale. Da quei colloqui, nonostante la morte mai chiarita di Mattei nel 1962, scaturirono importanti legami con i popoli del Nord Africa e fruttuosi rapporti commerciali.

Amministrativamente, con l’apporto dell’architetto Edoardo Detti, diede vita a un importante piano regolatore della città; sviluppò un nuovo quartiere a Sorgane e completò, seppur con prefabbricati, lo sviluppo dell’edilizia scolastica.

1962 Conferenza per la pace con padre Jean Daniéleou  s.j e padre Ernesto Balducci.

1963 Conferimento della cittadinanza onoraria al Segretario delle Nazioni Unite (ONU) U Thant.

1964 La Pira venne eletto come capolista DC nelle elezioni comunali, ma le divisioni interne al suo partito lo costrinsero a ritirare la candidatura a sindaco e a lasciare questa carica definitivamente.

1965 La missione per la pace non era certo esaurita. In collaborazione con il Ministero degli Esteri si fece promotore di una vasta azione diplomatica per una soluzione politica della guerra del Vietnam. Tenne a Firenze un incontro internazionale per la pace in Vietnam. La Pira si recò poi ad Hanoi, per incontrare Ho Chi Minh e Pham Van Dong, da dove formulò una articolata proposta di pace. La proposta di pace venne trasmessa al governo americano dal Presidente dell’Assemblea generale dell’ONU, l’italiano e amico Amintore Fanfani.

L’iniziativa, contestata da violenti quanto insulsi attacchi giornalistici, fallì.

La guerra in Vietnam proseguì per quasi un decennio infliggendo incredibili sofferenze e causando quasi 4 milioni di morti nella popolazione e quando finalmente si giunse a un accordo di pace questo riprese sostanzialmente le proposte formulate da La Pira.

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Convegni per la pace e la civiltà cristiana

1° Convegno: dal 23 al 28 giugno 1952, «Civiltà e Pace»

2° Convegno: dal 21 al 27 giugno 1953, «Preghiera e Poesia»

3° Convegno: dal 20 al 26 giugno 1954, «Cultura e Rivelazione»

4° Convegno: dal 19 al 25 giugno 1955, «Speranza teologale e

speranze umane»

5° Convegno: dal 21 al 27 giugno 1956, «Storia e Profezia»

Convegno a Firenze dei Sindaci delle capitali: 2-6 ottobre 1955

Colloqui del Mediterraneo

1° Colloquio:  dal 3 al 6 ottobre 1958

2° Colloquio:  dal 1 al 5 ottobre 1960

3° Colloquio:  dal 19 al 25 maggio 1961

4° Colloquio:  dal 19 al 24 giugno 1964

Conferenza per la pace 28 e 29 settembre 1962

Tra i relatori:  padre Jean Daniéleou  s.j. e padre Ernesto Balducci

Colloquio mediterraneo della cultura 21-25 giugno 1963

Tavola Rotonda Est-Ovest  IX Sessione a Firenze dal 4 al 7 Luglio 1964

 

[1] Vedi https://giorgiolapira.org/messa-di-san-procolo/
[2] G. La Pira, L’attesa della povera gente in «Cronache sociali», 15.04.1950   poi  Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1951
[3]  Civiltà e pace, Atti del primo Convegno internazionale per la civiltà e la pace cristiana, Firenze 23-28 giugno 1952, Firenze, Tip. L’impronta, 1953
[4] ibidem
[5] ibidem
[6] ibidem
[7]  L’epoca storica delle città, discorso al Comitato della Croce Rossa, Ginevra 1954 in Giorgio La Pira Sindaco, I, Firenze, Cultura Nuova Editrice, 1988
[8] Vedi https://giorgiolapira.org/il-colloquio-dei-sindaci-delle-capitali-2/
[9] G. La Pira, Lettera a don Luigi Sturzo, 20 maggio 1954




Una “storia modello”: la lunga guerra di Siro Rosi

Dal momento in cui sono state pubblicate le biografie dei toscani volontari in Spagna, grazie a una ricerca iniziata nel 2008, l’archivio dell’Istituto che l’ha promossa si è arricchito di documenti di varia natura. L’ultimo arrivo è un nucleo di carte su una figura di rilievo non solo locale, il grossetano Siro Rosi. A consegnarli la figlia, così come era stato il figlio dell’empolese Aureliano Santini, qualche anno prima, a depositare le copie dei quaderni di cronaca della guerra di Spagna del miliziano “Silvio”. Dai figli di Angelo Rossi, grossetano, nome di battaglia Trueba, è arrivata documentazione utile a ricostruire con esattezza le tappe di una lunga persecuzione e della militanza politica, tra guerra di Spagna, Resistenza e dopoguerra: carte di Questura, appunti di memoria, collezioni di giornali spagnoli di anni successivi alla fine della guerra civile, testimonianze dell’attività di partito in Italia, dopo la Liberazione.

Avvicinarsi al lungo periodo della storia dell’antifascismo – emigrazione politica, guerra di Spagna e un impegno fino alla Resistenza e oltre – mette di fronte al problema delle fonti. Il corpo del materiale documentario indispensabile richiede l’esplorazione di molti archivi, da quelli locali a quelli dei paesi che hanno visto il passaggio di donne e uomini dalle esperienze multiformi. Nel lungo tempo trascorso dagli eventi tanto è stato il lavoro di storici, dentro o fuori dalle università, di associazioni di reduci come l’AICVAS (ex-volontari antifranchisti), della rete degli istituti storici della Resistenza, di altre realtà associative, come l’Istituto Salvemini e altre che sarebbe lungo elencare. Così materiale documentario importante è stato raccolto, ordinato e studiato. In altri paesi europei la ricerca ha incluso storie e memorie riguardanti il rapporto tra gli antifascisti italiani ed eventi e fenomeni europei, in una successione di tempi che va dall’affermazione del fascismo in Italia al secondo dopoguerra. In alcuni casi progetti transfrontalieri hanno unito risorse e aperto spazi a nuove ricerche.

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Siro Rosi e la moglie a Tolosa, 1947

Tra gli esempi, La memoria delle Alpi/La mémoire des Alpes, relativo agli anni della guerra e della Resistenza, (http://www.memoiredesalpes.net/index.php), da cui, come si legge nel sito dell’Istituto storico regionale piemontese della rete INSMLI che ne è promotore, insieme alla rete degli istituti della regione, «nel 2009 è partito un nuovo progetto regionale, dal titolo ”La memoria delle Alpi – Dalle Alpi all’Europa” che considera le Alpi occidentali come “laboratorio storico” dei complessi processi che hanno condotto le nazioni europee dalla II guerra mondiale, ai primi passi nella costruzione dell’unità, fino ai Trattati di Roma (marzo 1957)».

Si tratta di territori di ricerca, divulgazione e didattica utili nel contesto delle traversie di un’unione europea ancora allo stato embrionale, attualmente in grande affanno. Da qui l’importanza anche di piccoli contributi, anche poche carte che entrano nei nostri archivi e arricchiscono ricerche fondate inizialmente sull’esplorazione di grandi archivi pubblici. Come quello di cui si dà conto qui, che giunge mentre ancora il lavoro è in corso, anch’esso frutto di progetti internazionali dell’istituto grossetano, per tre anni sostenuti da risorse del governo spagnolo. Gli esiti per ora sono in un database presente in questo portale, in uno spazio dedicato nel sito dell’ISGREC, nel volume e nel documentario visibili in questa pagina.

Nel database la biografia di Siro Rosi è un poco più ampia delle 408 pubblicate: il profilo sintetico di un antifascista di lungo corso. Oggi le nuove carte subito digitalizzate consentono un incrocio tra vecchie e nuove fonti e mettono bene a fuoco proprio il carattere di esperienza europea comune a molti dei nostri antifascisti. In questo caso, si è in presenza delle vicende di una figura particolarmente rappresentativa. Memorie scritte, in versioni diverse, tra 1945 e 1971, lettere anche successive, fotografie con note autografe e data e luogo ci consegnano la sua narrazione. Carte via via sommatesi anche in seguito alle sue necessità di documentazione da esibire chiariscono passaggi complicati, ancora tutti da studiare, per trarne un esito storiograficamente significativo.

Rosi, nato a Sticciano, in provincia di Grosseto, classe 1915, è tra i sovversivi grossetani messi sotto controllo dalla Questura nei primi anni Trenta. Va in Spagna nel 1937 con il rischioso espediente dell’arruolamento tra i volontari filo franchisti, per passare non senza difficoltà al 3^Battaglione, 2^compagnia, Brigata Garibaldi. Combatte, è ferito, entra in Francia dopo la sconfitta dei repubblicani ed è costretto a una peregrinazione tra i campi di concentramento della Francia del Sud. Dall’ultimo, il Vernet, fugge nel 1941 e da lì comincia un’altra storia, di Resistenze prima in Francia, dove combatte e resta mutilato, poi in Italia, con ruoli di comando nelle formazioni partigiane della Lombardia. Finita la guerra, comincia l’ultima, lunghissima peregrinazione, sino al 1957. In Francia e Italia, in Polonia, in fuga per la condanna a morte per diserzione nel 1938, ancora non annullata, anche se commutata in carcere, cui si era aggiunta un’accusa relativa alla notissima questione dell’oro di Dongo. Il processo si tenne nel 1957 a Padova, la sua riabilitazione fu pronunciata dalla Corte d’appello di Roma il 18 dicembre 1962.

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Il retro della foto di Tolosa: autografo della moglie “in ricordo di una delle nostre ultime passeggiate a Tolosa. Baci” 18-7-1947

I tanti frammenti da cucire insieme a quel che già è noto di una vita non comune si completano con la testimonianza della figlia Liliana, nata a Varsavia, ma poi lontana dai genitori fino al loro rientro. Lo descrive cupo e solitario, grande affabulatore, ma solo in rarissime occasioni, le sue giornate a dipingere ritratti dei familiari e paesaggi di Maremma: insistente, quasi ossessivo il paesaggio della Fiumara, un tratto della costa maremmana, tra le tele che sono state donate all’istituto. Anche questa è una fonte. Liliana ci spiega quanto poco l’immagine del padre da lei conosciuto, affettuosissimo – “ogni mattina metteva nella mia camera una rosa” – corrispondesse al racconto della madre, che l’aveva conosciuto estroverso, pieno di energia positiva. La madre, sempre Liliana a raccontarlo, non lasciava mai, neanche quando era in casa, la borsa dei documenti. Lezione appresa dall’emigrazione in Francia con la famiglia e dalla vita accanto a Siro, in Europa, in gran parte da clandestini.

Le carte sono ancora da studiare, lo farà chi ha lavorato finora alle ricerche citate. Tuttavia meritano un richiamo alcuni pezzi, utili alla ricostruzione della singolarità di un’esperienza biografica, utili a suggerire piste di ricerca, indizi di un clima e di un’esperienza collettiva. Nel 1958, a poca distanza dal definitivo ritorno in Italia, una lettera dal Comitato nazionale francese dell’Association républicaine des anciens combattants lo ringrazia del contributo versato. La Francia è il paese del suo internamento e della prima Resistenza. In una lettera del 1976 risponde alla richiesta di notizie sulla “Resistenza attiva nel mezzogiorno della Francia”. “Il lungo tempo trascorso ha reso opachi i ricordi”, scrive. Ma cita Sereni, Dozza, Scotti, dirigenti del PCI che organizzano il “lavoro militare” nei dintorni di Tolosa, squadre di azione patriottica protette da famiglie di contadini italiani.

Nell’intervallo fra il processo e gli anni Settanta, arrivano pubblici riconoscimenti con croce di guerra, medaglie e diplomi, lettere attestanti il suo passato eroico con la firma di vecchi antifascisti, divenuti parlamentari e protagonisti di primo piano della politica. Citano il suo impegno politico e militare fra 1937 e 1945; in nessun documento compare la spinosa questione dell’oro di Dongo, legata all’uccisione di Mussolini, documentata da una minuziosa raccolta della rassegna stampa del dibattimento processuale. Nei resoconti giornalistici, gli argomenti di accusa e difesa, su una vicenda che poi ha conosciuto notorietà per presunti scoop giornalistici e un uso politico della storia.

A ricostruire il caleidoscopio di identità, ruoli e spostamenti che precedono il rifugio nell’Europa dell’est, serve una cartella di carte d’identità e lasciapassare, di Siro Rosi, Mario Marini, Juan Medinas, rilasciati da autorità italiane, spagnole, francesi, tedesche. La maggiore curiosità suscitano due quadernetti di appunti 10×15 dalle copertine consunte: pochi fogli, grafia piccolissima e molte sigle, quasi tutto scritto a lapis; uno con certezza appartiene al periodo delle Resistenze, in Italia o in Francia.

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Carta d’identità di Siro Rosi, rilasciata a Tolosa nel 1946, valida fino al 1949

È naturale che ci sia un gran desiderio e una prevedibile utilità marginale nel passare dal repertorio delle fonti a un lavoro di elaborazione critica. Non mancano studi importanti, ma ancora tanto potrà essere indagato sulla lunga parabola del nostro antifascismo tra Italia ed Europa. Come quelle di tanti altri, le carte di Siro Rosi aggiungono conoscenze, mentre avvicinano al «cono d’ombra che ancora copre eventi estremi della complicata storia del Novecento». Nelle sue memorie è la guerra di Spagna che vuole ricordare; né lui né l’amatissima moglie parlavano del passato comune. L’ultima avventura fu il duro esilio polacco. Il suo avvocato difensore, Emilio Rosini, lo trovò a Varsavia nel 1956 ««un appartamento squallido[che si affacciava] sulle rovine del ghetto, una vasta spianata di macerie». Solo in seguito sembra che Rosi abbia compreso di aver vissuto un decennio di inutile esilio.

L’esperienza che raccontano le carte, gli oggetti, anche i dipinti di Siro Rosi può apparire oggi abbastanza straordinaria, ma è tutt’altro che unica.È un frammento minimo della condivisione di quelle che Carlo Rosselli nel 1937 aveva definite “tutte le speranze di un’epoca”, divenuta in ultimo condivisione del troppo parziale esito di quelle speranze, nell’Italia postfascista, nell’Europa della guerra fredda.




Le sigaraie della Manifattura Tabacchi di Lucca

La storia della Manifattura Tabacchi lucchese inizia nel 1809, quando, in conseguenza ad un accordo stipulato tra Napoleone Bonaparte e il cognato Felice Baciocchi venne istituita una Regia Imperiale, alla quale venne affidata la gestione del tabacco. Con la caduta di Napoleone la Regia fu soppressa e la dominazione austriaca, subentrata dopo la caduta, prese importanti provvedimenti riguardanti la lavorazione del tabacco. In particolare il tenente colonnello Werkelein, istituì nel luglio 1815 l’Amministrazione dei Sali e dei Tabacchi facendo trasferire la Manifattura negli edifici della Cittadella, un luogo strategico perché punto di passaggio ma soprattutto zona ben fornita di acqua molto utile all’opificio per la lavorazione del tabacco.
Per ben due secoli la Cittadella rimase la sede della Manifattura. Durante il governo ducale borbonico, la Regalia del sale e del tabacco venne data in appalto per nove anni (dal 1838 al 1847) alla Società Bandini Levi & C. Prima della scadenza la concessione passò nel 1843 alla Società Bandini Piatti & Marianelli che la conservò fino al 1847. In quell’anno il Ducato di Lucca fu annesso al Granducato di Toscana e con un trattato tra i due governi l’azienda lucchese confluì con quella granducale finché gradualmente la lavorazione del tabacco non venne definitivamente spostata a Lucca. Nell’ottobre del 1858 la Regalia fu attribuita per altri nove anni alla Società Fenzi; anche in questo caso la concessione Fenzi cessò in anticipo perché già nel 1860 si stabilì una nuova gestione per mezzo di un accordo tra il regio governo piemontese e il governo toscano. Nel 1861 la Manifattura di Lucca era una delle quattro attive in Toscana con quelle di Firenze, di Massa Carrara e di Capraia (le ultime due cessate nel 1865). Nel 1865 la Regia Azienda della Manifattura dei Tabacchi entrò nella sfera di controllo del Ministero delle Finanze.

Fronte della Manifattura Tabacchi sul piazzale Verdi, Lucca 1924 (Archivio Fotografico Lucchese)

Fronte della Manifattura Tabacchi sul piazzale Verdi, Lucca 1924 (Archivio Fotografico Lucchese)

Il processo produttivo in gran parte manuale richiedeva un notevole impiego di manodopera. Già all’indomani dell’Unità d’Italia l’organico della Manifattura era composto da ben 500 sigaraie cottimanti [1]. Nel contesto economico lucchese di fine Ottocento stavano gradualmente prendendo forma modeste iniziative industriali e imprenditoriali, soprattutto nel settore tessile e cartario [2], ma la fabbrica più importante del comune era senza dubbio la Manifattura Tabacchi che già da tempo era una realtà avviata e in netta espansione. Nel 1878 la massa operaia contava in totale 1490 operai di cui 1380 donne e 110 uomini [3]. Ben presto si rese dunque necessario ampliare gli spazi; nel 1892 infatti l’opificio venne accorpato al vicino convento di San Domenico, acquistato dal Ministero delle Finanze [4]: “all’interno dell’ex monastero furono realizzati gli uffici, il refettorio e i servizi generali e, contestualmente, l’ingresso principale della manifattura fu dislocata da via dei Tabacchi a via Vittorio Emanuele [5].” Con la cessione completa del convento la massa operaia aumentò ulteriormente: “a cavallo del nuovo secolo conterà oltre il 10% degli addetti del settore Tabacchi di tutta Italia. […] Nel 1911, raggiunse le 3.050 unità”[6]. A seguito dell’ultimo ampliamento su Piazzale Verdi avvenuto nel 1924 [7], la Manifattura assunse il suo assetto definitivo.

Quella della Manifattura Tabacchi è anche e soprattutto una storia di donne, infatti il cuore pulsante della forza lavoro era costituito dalle sigaraie. La lavorazione del sigaro era un’abilità tutta manuale; le mani delle donne si prestavano meglio alle due operazioni principali del processo produttivo: la scostolatura e la formazione vera e propria del sigaro. La scostolatura era un’operazione eseguita da sigaraie esperte e che consisteva nel privare la foglia della nervatura centrale distinguendo i lembi integri da usare come fasce esterne del sigaro dai lembi laceri e grossolani da utilizzare come ripieni. Le sigaraie incaricate della formazione del sigaro partivano invece dalla foglia da fascia che rappresentava la parte esterna del sigaro. Bagnavano le dita nella ciotola contenente la colla di mais, stendevano la foglia sulla tavoletta di legno e con il coltello delineavano la forma della fascia del sigaro. Poi prendevano i filamenti di tabacco fermentato (ovvero il ripieno), verificavano che il quantitativo fosse giusto, lo “pettinavano” e lo mettevano sulla tavoletta. A questo punto cominciavano ad arrotolare il sigaro in modo da dargli la giusta forma e consistenza. La grande abilità della sigaraia stava proprio nello scegliere il quantitativo giusto di ripieno e nell’arrotolare il tutto con perfetta precisione. Il sigaro finito veniva spuntato alle estremità e allineato con gli altri su una misurina di controllo, che serviva appunto per conferirgli la giusta misura.

Immagine esemplificativa di sigaraie al banco di lavoro, Lucca 1928

Immagine esemplificativa di sigaraie al banco di lavoro, Lucca 1928

Grazie alle fonti conservate in Archivio di Stato di Lucca e in particolare alle schede matricolari, sono riuscita ad analizzare più approfonditamente la carriera lavorativa delle operaie. Nello specifico ho consultato 1000 schede delle operaie cottimanti e 500 schede delle operaie temporanee. Con i dati ricavati dalle 1000 schede ho creato un database che mi ha permesso di ottenere numerose considerazioni. Ad esempio che nel periodo 1849-1884 l’età media di entrata in Manifattura era pari a 19,2 anni. Ho rilevato che la durata media del rapporto lavorativo era pari a 28,2 anni e l’età media della fine del rapporto lavorativo pari invece a 48 anni. Per quanto riguarda il luogo di nascita la maggioranza delle donne proveniva da Lucca. Abitando in centro erano ovviamente più facilitate a raggiungere in breve tempo il posto di lavoro, sono presenti però anche donne nate nelle frazioni di Lucca, nate in comuni vicini, in altre città toscane o addirittura fuori regione [8]. Può sembrare strana la presenza di donne nate in luoghi così lontani da Lucca, ma il motivo principale è da ritrovare nel trasferimento avvenuto durante la carriera lavorativa. Tra le cause del trasferimento, oltre ai motivi familiari, probabilmente vi erano anche motivazioni legate ad esigenze produttive; quindi laddove era necessario aumentare la produzione e mancava manodopera si trasferivano operaie di altre Manifatture dove se ne aveva più bisogno. Tra i motivi ricorrenti per la fine del rapporto lavorativo troviamo il collocamento a riposo, il decesso, la radiazione, il pensionamento, il passaggio allo stato di valetudinarietà, il trasferimento, il licenziamento e il cancellamento dai ruoli [9].

Per l’indagine sulle schede matricolari delle operaie temporanee ho attuato la stessa strategia del database per raccogliere più informazioni possibili. In totale le schede catalogate sono 500 e ricoprono un periodo compreso tra il 1925 e il 1937. Anche in questo caso ho calcolato l’età media di entrata che era pari 21,9 anni.
Ho analizzato poi la provenienza [10], a quante operaie veniva rinnovato il contratto e per quante volte nel corso della carriera lavorativa. Quando non veniva rinnovato il contratto i motivi potevano essere vari: il cancellamento dai ruoli, il licenziamento, la radiazione, il collocamento a riposo, il trasferimento o il decesso [11]. Con la data di assunzione e la data di fine rapporto riportata sulle schede ho calcolato la durata dei rapporti lavorativi delle operaie e la media che ne è venuta fuori è di 4,21 anni. Una volta ricavata la durata del rapporto lavorativo di ogni operaia l’ho sommata all’età al momento dell’assunzione per ricavarne l’età di uscita dalla Manifattura, la cui media era di 29,7 anni. Un’altra motivazione per il mancato rinnovo del contratto era il passaggio alla categoria delle operaie permanenti. Le operaie passate a tale categoria sono in totale 386 e l’età media al momento del passaggio è di 27,3 anni.

Entrando nel vivo della vita fabbrica è necessario mettere in evidenza gli aspetti negativi del lavoro in Manifattura, ovvero la disciplina, il problema delle malattie e delle condizioni igienico-sanitarie dell’opificio.

L’essere dipendenti dello Stato si traduceva per le sigaraie in una rigida disciplina e controlli particolarmente severi. Ad assicurare questo sistema di regole, vi era all’interno delle Manifatture un complesso sistema di sorveglianza strutturato gerarchicamente. [12] Per esaminare l’aspetto disciplinare mi sono avvalsa principalmente della sezione relativa alle punizioni delle 1000 schede matricolari delle operaie cottimanti. In questa parte venivano riportati i provvedimenti disciplinari a carico dell’operaia, le date, i periodi di sospensione e le motivazioni dei provvedimenti. Per organizzare al meglio il mio lavoro ho inserito tutti i provvedimenti disciplinari di ogni scheda su un database per poi suddividerli in base alle motivazioni e vedere in termini numerici quanti provvedimenti ha avuto ogni operaia nel corso della carriera lavorativa. La sospensione per frazioni di giornate aveva ovviamente come effetto immediato la sospensione della paga. Ho distinto tra motivazioni riguardanti errori commessi sul lavoro e motivazioni legate alla cattiva disciplina delle operaie. Nei primi casi si ritrovano ad esempio le sospensioni per “reperimento di un capello in un sigaro”, per “cattivo lavoro”, per “consegna sigari in meno”, “per presenza di scarti, ritagli e spuntature nel sigaro” “per sigari mal confezionati”, “per aver bagnato la foglia”. Nei secondi casi invece sono comuni le sospensioni per “insubordinazione”, “discussione con una compagna”, “turpiloquio”, “mancanza di rispetto ad un superiore”, “commercio illecito”, aver “lavorato oltre l’orario”, aver “mangiato al proprio posto”, “poca pulizia del posto di lavoro”, “cattiva condotta”, “assenza arbitraria,” “appropriazione illecita di materiale”, aver “introdotto bevande in laboratorio” (spesso infatti si introducevano anche sostanze alcoliche a scopo di lucro).
Riguardo alla questione delle malattie, la vita in fabbrica sia per i ritmi lavorativi sia per l’ambiente malsano aveva sulle operaie gravi conseguenze fisiche. L’esposizione continua per un tempo prolungato alle esalazioni del tabacco causava alterazioni della funzione respiratoria e, come hanno messo in evidenza alcuni studiosi, effetti dannosi sull’apparato genitale femminile, provocando alterazioni del ciclo mestruale, disturbi durante la gravidanza ed anche un alto numero di aborti. Un lavoro dunque non privo di rischi e a preoccupare di più erano sicuramente le condizioni igieniche degli stabilimenti: ambienti chiusi, mal areati e pieni di esalazioni tossiche delle foglie di tabacco. Infatti le foglie dovevano essere mantenute umide, ma fermentando emettevano nicotina che andava direttamente sugli occhi e nei polmoni, producendo così indebolimento alla vista e malattie polmonari di ogni genere. Sul problema della nocività, nel 1904, fu avviata un’inchiesta in tutte le Manifatture di Italia, diretta da Angelo Celli, uno dei più illustri patologi e studiosi di igiene sociale dell’epoca. L’obiettivo dell’indagine statistica era quello di raccogliere più notizie possibili per giudicare la salubrità o meno degli opifici e le condizioni sanitarie del personale operaio. Proprio nella Manifattura Tabacchi di Lucca si registravano le punte più alte di malattie alle vie respiratorie. Nonostante l’inchiesta mettesse in luce moltissime malattie riscontrate nelle lavoratrici, queste non venivano collegate al lavoro stesso, ma riferite ad una serie di fattori esterni come le abitazioni malsane, la scarsa igiene e l’alimentazione insufficiente, arrivando dunque alla conclusione che la lavorazione del tabacco così come veniva svolta nelle Manifatture dello Stato non era dannosa né per le operaie né per la loro prole [13]. La realtà era ben diversa e benché l’inchiesta rimanga la principale fonte di informazioni sulle condizioni di salute delle operaie non è molto oggettiva, visto che si cerca in tutti modi di trovare giustificazioni per mettere lo Stato al sicuro da ogni responsabilità.
Tra gli aspetti positivi del lavoro in Manifattura troviamo invece l’orario di lavoro, i salari elevati e l’introduzione della sala di allattamento.
Il regolamento statale del 1904 stabiliva l’orario di lavoro a 7 ore con ben un’ora di riposo. Nelle industrie private la giornata lavorativa era di 12 ore o più al giorno. Per una manodopera prevalentemente femminile questo era un privilegio, l’orario breve permetteva alle donne di poter dedicare più tempo alla casa e alla famiglia, un’opportunità sconosciuta alle operaie delle industrie private. A questo proposito, grazie ai dati forniti dalla Prefettura di Lucca al Direttore della Manifattura Tabacchi e conservati in Archivio di Stato, ho potuto confrontare gli orari dei più importanti stabilimenti della Provincia e osservare che effettivamente, nonostante l’introduzione dal 1908 di un’ora aggiuntiva straordinaria, l’orario di lavoro delle sigaraie era comunque inferiore rispetto alle operaie tessili della zona [14]. Anche per quanto riguarda la questione delle retribuzioni emerge chiaramente la condizione privilegiata di questa classe operaia, sicuramente favorita rispetto alla manodopera femminile dell’industria privata ma comunque pur sempre sfavorita rispetto al guadagno medio degli operai uomini impiegati negli stessi stabilimenti. Infatti nel periodo 1908-1914 la media di guadagno per le sigaraie era pari a £2,47 mentre per gli operai era pari a £5 [15].
Tenendo presente appunto che il salario di una sigaraia era a cottimo e che per raggiungerlo era necessario produrre dagli 800 ai 1200 sigari al giorno, è facile comprendere come la qualità della foglia del tabacco influenzasse la retribuzione: se la foglia era scadente, il lavoro era rallentato e di conseguenza il salario diminuiva. I cottimi poi si diversificano da manifattura a manifattura, perché il Ministero riteneva che il costo della vita fosse diverso da città a città. Proprio il tema della parificazione dei cottimi sarà alla base dello scoppio dello sciopero nazionale del 1914.
Il guadagno medio delle operaie, per quanto misero ed inferiore al salario maschile, era comunque superiore alla maggior parte delle fabbriche private della provincia. Dalle Riservate del Direttore del 1908 conservate in Archivio di Stato, emergono informazioni circa i salari delle più importanti fabbriche della zona. Furono richieste direttamente dalla Direzione Generale con lo scopo di dimostrare alle operaie della Manifattura che la loro fosse una condizione privilegiata e le rimostranze per l’aumento salariale fossero del tutto illegittime [16].
Nel 1915 venne inaugurata una sala di allattamento, con lo scopo di agevolare le madri che lavoravano in Manifattura. Il personale femminile addetto alla sala era composto da una Sopraintendente, inservienti e custodi che si occupavano dei bambini e avvertivano l’operaia ogni volta che il bambino necessitava di essere allattato. Furono dunque le operaie delle Manifatture Tabacchi che per prime si fecero portavoce dei problemi legati alla maternità. Avevano ottenuto la possibilità di tenere vicini a sé i propri figli in un luogo sicuro mentre erano impegnate al lavoro. Si rispettava il fatto che fossero lavoratrici ma anche madri, dando loro il diritto ad assentarsi dal lavoro per recarsi nelle sale ed allattare i propri bambini senza nessuna diminuzione dello stipendio.
Non mancarono le rimostranze ed episodi di conflittualità. Le giovani operaie della Manifattura Tabacchi di Lucca costituivano il nucleo più combattivo della fabbrica e furono sempre in prima linea nelle lotte contro la Direzione. Grazie alle fonti provenienti dall’Archivio storico comunale ho potuto ripercorrere i primi malcontenti del periodo 1878-1897. Sul finire dell’Ottocento le sigaraie erano ormai una parte importante della classe operaia organizzata, si presentavano dotate di una lunga esperienza e di una crescente capacità nell’affrontare i loro problemi per la soluzione dei quali avrebbero dovuto negli anni successivi affrontare lunghe lotte. I numerosi ritagli di giornali, come il giornale socialista “La Sementa” e il quotidiano di ispirazione cattolica “L’Esare” conservati tra le Riservate del Direttore sono stati utili per ricostruire gli scontri del 1906-1907, lo sciopero del 1909, lo sciopero del 1912 e lo sciopero generale del 1914. Le motivazioni alla base delle lamentele delle operaie si ripresentavano nel corso degli anni senza trovare mai una vera risoluzione; tra queste troviamo la disciplina rigida, la cattiva qualità della foglia, la nocività del lavoro e la richiesta di un aumento salariale. Quello che ne viene fuori è dunque una classe lavoratrice capace di protestare contro la Direzione quando l’esasperazione del ritmo lavorativo diventava inaccettabile e quando le promesse di un miglioramento non venivano mantenute. Ecco perché anche nello sciopero nazionale delle Manifatture Tabacchi del 1914 furono proprio le sigaraie di Lucca ad essere numericamente le più coinvolte (circa 2500) e le ultime ad arrendersi.

Questo articolo è tratto dalla tesi di laurea magistrale in Storia e Civiltà intitolata “Vita di fabbrica delle sigaraie lucchesi tra ‘800 e ‘900” discussa nell’a.a 2020/2021 presso l’Università di Pisa




Pietra su pietra. Storie d’inciampo

Ci sono forme di arte che aiutano a fare memoria in maniera discreta e informale. Attivano la memoria quando le incontri, quando le scorgi, quando ci inciampi. Le “pietre d’inciampo” racchiudono, nel termine tedesco “stolpern”, questo doppio significato di “inciampare” e “attivare la memoria”. Sono pietre, “stein”, impiantate ormai sulle vie di molte città europee. Misurano 10x10cm, recano inciso sulla loro superficie di ottone i nomi dei deportati nei campi di sterminio durante la Seconda guerra mondiale. Vengono collocati da Gunter Demnig, l’artista tedesco che li ha ideati, sul marciapiede davanti all’abitazione del deportato o al luogo di deportazione[1].

Un progetto ambizioso e “diffuso”, che parte da Colonia nel 1993 quando durante una cerimonia, organizzata per ricordare la deportazione di cittadini rom e sinti, una signora obiettò che in città non avevano mai abitato rom. Demnig, presente alla cerimonia, in segno di provocazione verso chi negava la deportazione e lo sterminio, decise l’installazione delle pietre, oggi presenti in ben 17 paesi europei. Oltre 73.000 pietre, 73.000 nomi di uomini, donne, bambini deportati, che compongono le tessere di un mosaico, ancora “in costruzione”. Un monumento “in progress”, potremmo definirlo. Un progetto ambizioso che si pone l’obiettivo di rendere visibili i nomi dei 10.000.000 di deportati, ebrei, militari, perseguitati politici, zingari, omosessuali, testimoni di Geova, disabili in tutta Europa.

Un monumento che “difetta” di monumentalità e di effettiva visibilità, non si erge e non emerge, ma ha il pregio di restituire dignità e identità a quanti, a causa delle persecuzioni nazifasciste, ne sono stati violentemente privati[2].

Dignità e identità che sono racchiusi nel nome. Recita il Talmud che “una persona viene dimenticata soltanto quando viene dimenticato il suo nome”.

Ogni nome inciso su un sanpietrino, è anticipato dalla scritta “qui abitava”, seguito da nome e cognome, data di nascita, data e luogo di deportazione, data di morte nel campo di sterminio, quando nota o in alcuni, rari casi, la scritta “sopravvissuto”[3].

adaIl ritorno simbolico, alla propria dimora, nella propria città, è l’uscita definitiva per i deportati dall’anonimato, dall’oblio cui la follia umana dei campi di sterminio li avrebbe costretti. La pietra restituisce con sé la storia, una storia che costringe a riattivare la memoria, a fermarsi, a riflettere, a conoscere.

Il 26 gennaio a Livorno sono state installate altre due pietre d’inciampo. Sono le ultime di una serie di 18 che dal 2013 sono diventate parte del tessuto urbano cittadino[4].

Le pietre ricordano Ada Attal e Benito Attal. Rispettivamente madre e figlio ebrei. Nel censimento del 1938 risultano registrati e residenti in via San Francesco 32, in pieno centro storico, a pochi passi dall’antico tempio, il più bello e il più grande d’Europa, insieme ad altri componenti della famiglia. Ada, ragazza madre, vive insieme al padre David, venditore ambulante, alla madre, alle sorelle Irma, Renata e Dina[5] e altri componenti della famiglia. Una famiglia numerosa gli Attal, un’altra sorella, sposata con Mario Bueno, proprietario di un negozio in via del Giglio e di un banco di merceria al mercato, sostengono con il loro lavoro anche Ada e il figlio Benito di 10 anni[6].

La loro storia si inserisce nella più ampia cornice della storia della Comunità ebraica livornese. Una comunità importante, anche numericamente. Negli anni Trenta risulta essere la terza in Italia in termini relativi alla popolazione complessiva, comprendente anche quella provinciale[7]. Gli ebrei livornesi risultano essere residenti nel territorio urbano e al loro interno spicca una forte dicotomia sociale che vede nel ceto popolare, più povero, non una minoranza, ma più della metà della Comunità locale, diversamente da quanto è possibile registrare nelle altre comunità italiane.

Ada e Benito Attal, sono tra i pochi livornesi ad essere arrestati e deportati dalla città nell’aprile del 1944[8].

La città di Livorno era stata pesantemente bombardata nel 1943 e sotto la minaccia di ulteriori incursioni, la popolazione era sfollata quasi interamente trovando ospitalità nelle campagne dei comuni e delle province vicine[9]. Molte delle catture di ebrei, sono infatti avvenute nei luoghi di sfollamento, a seguito della recrudescenza delle persecuzioni dopo la firma dell’armistizio dell’8 settembre 1943. La persecuzione delle vite raggiunge gli ebrei dispersi nelle campagne, raggruppati per nuclei familiari, in cerca di salvezza dai bombardamenti, nel tentativo di sopravvivere comunque anche alla fame e alle condizioni eccezionali dovute allo stato di guerra.

Il 13,6% degli ebrei livornesi, 204 in tutto, su un totale di 1500 (tanti risultano registrati al censimento del 1938), viene arrestato e deportato nei campi di sterminio nazisti, per lo più passando attraverso i campi di concentramento di Fossoli e in qualche raro caso di Milano, Bolzano o Trieste[10].

Furono solo sei gli arresti, oltre a quello di Frida Misul, che vennero effettuati in città. Tra questi anche Ada e il figlio Benito.

Senz’altro la povertà e, forse, il pericolo e le necessità sopraggiunte a causa della guerra, avevano spinto Ada ad affidare il figlio all’orfanotrofio Israelitico che aveva sede in Via Paoli 36 a Livorno[11]. Sede che l’orfanotrofio mantenne almeno fino allo sfollamento, probabilmente avvenuto fra gli ultimi giorni del 1942 e il gennaio del 1943, per motivi di sicurezza. Con la direttrice Olga Coen, le inservienti Palmira Finzi e Stefania Molinari, la maestra Liliana Archivolti, i bambini e i ragazzi[12] dell’orfanotrofio soggiornarono presso Villa Biasci (di proprietà del locale segretario fascista signor Biasci) a Sassetta, a sud della provincia di Livorno, sulle colline della Val di Cornia, fino a quando il 5 aprile del 1944 fu comunicato loro l’ordine di lasciare la villa per dirigersi, l’indomani mattina, verso la stazione di Vada. Da qui avrebbero raggiunto, in treno, il campo di concentramento di Fossoli.

Il 6 aprile vennero caricati su un treno, ma dopo aver percorso poche centinaia di metri il convoglio, colpito da cinque caccia inglesi, si arrestò e grazie a don Antonio Vellutini, parroco di Vada, sopraggiunto a seguito dell’attacco per prestare soccorso ai passeggeri, i bambini e i ragazzi, trovarono rifugio in paese presso le famiglie locali. Per procedere all’esecuzione dell’ordine di deportazione, dopo qualche giorno, furono nuovamente raccolti dai carabinieri, e trasferiti su di un camion nelle aule della Scuola “Carducci”, situata ad Ardenza, una frazione a sud della città di Livorno. Qui rimasero per circa una settimana.

benito Alcuni, più grandi, riuscirono comunque a scappare, data la scarsa sorveglianza, altri, circa una decina, nati da matrimoni  misti, come Luciana e Ugo Bassano, furono riconsegnati alle famiglie. Altri bambini, insieme alla direttrice Coen, furono riportati dai carabinieri, su insistenza di don Antonio Vellutini, a Sassetta e qui affidati al parroco don Carlo Bartolozzi che se ne prese cura fino all’arrivo degli Alleati[13].

Solo Benito Attal rimase presso la scuola. Qui la madre si era recata per prelevarlo personalmente rischiando la vita in quanto “ebrea pura”. Forse a causa di una delazione[14], entrambi furono arrestati e trasferiti a Fossoli con il convoglio n. 10 partito il 16 maggio 1944. Da qui proseguirono per Auschwitz dove Benito fu subito selezionato all’arrivo e dove morì il 23 maggio 1944. Anche la madre divise con il figlio la stessa sorte e non fece più ritorno.

Una storia di povertà e di persecuzione, di ebrei su cui pesò la “purezza del sangue”. Benito, ricorda Ugo Bassano, era un bambino taciturno, divenuto incontinente nell’orfanotrofio, il più fragile e il più esposto anche perché figlio di una ragazza madre[15].

Una storia “d’inciampo”, che oggi due pietre in via San Francesco a Livorno, ci ricordano. Inciampo alla nostra coscienza, alla nostra memoria, alla nostra storia.

[1] In alcuni casi tali abitazioni non esistono più, perché abbattute o demolite nell’immediato dopoguerra, o come nel caso di città come Livorno, distrutte dai bombardamenti. Le pietre vengono allora poste presso il numero civico corrispondente al luogo di abitazione precedente la guerra.

[2] Per un inquadramento storico-artistico delle “Stolpersteine”, si veda il saggio di A. Zevi, Monumenti per difetto, dalle Fosse Ardeatine alle pietre d’inciampo, ed. Donzelli, 2016, pp. 171-197.

[3] La ricostruzione topografica e toponomastica viene svolta in collaborazione con gli uffici dei municipi coinvolti, su segnalazione di amici, conoscenti e parenti delle persone deportate.

[4] Le pietre sono state installate per iniziativa della Comunità di Sant’Egidio. Le prime quattro sono state impiantate nel 2013 e dedicate a due bambine ebree Franca Baruch e Perla Beniacar, un ragazzo, Enrico Menasci, e suo padre Raffaello. Altre due sono state impiantate nel 2014 e dedicate a Isacco Bayona e Frida Misul, testimoni dell’orrore della Shoah per almeno due generazioni di studenti livornesi. Le stolpersteine del 2015 sono state dedicate a Dina e Dino Bueno, quelle del 2017 a Ivo Rabà e Nissim Levi, nel 2018 a Matilde Beniacar, ultima sopravvissuta livornese ai campi di sterminio. Nel 2020 sono state impiantate nelle strade livornesi sei pietre di inciampo, quattro in via Strozzi e due in via del Mare: le prime sono dedicate a Rosa Adut, Abramo Levi e ai loro due figli Mario Mosè e Selma, Nissim il terzo figlio fu ricordato nel 2017; le altre sono dedicate a Piera Galletti e a sua figlia Lia Genazzani. Nel 2021 in via Verdi è stata posta la pietra d’inciampo in ricordo di Gigliola Finzi nata il 19 marzo 1943, uccisa a soli tre mesi all’arrivo ad Auschwitz il 23 maggio del 1943.

[5] Archivio di Stato di Livorno (ASLI), busta Comune di Livorno, Censimento degli ebrei al 22 agosto 1938.

[6] Testimonianza di Edi Bueno rilasciata il 20 gennaio 2022 presso la Comunità di Sant’Egidio. Durante la guerra le famiglie Attal e Bueno sfollano a Marlia in provincia di Lucca. Qui verranno arrestati e poi deportati la madre, il fratello, il nonno Davide gli zii e i cugini di Edi. Solo Edi e il fratello Luciano si salvano: Il padre Mario riesce a salvarli dalla deportazione, nascondendoli dentro una piccola stanza, per poi scappare subito dopo. I tre si rivedranno molto tempo dopo.

[7] P.L. Orsi, La comunità ebraica di Livorno dal censimento del 1938 alla persecuzione, pp. 203-223 in Ebrei di Livorno tra due censimenti (1841-1938) memoria e identità familiare a cura di M. Luzzati, Belforte editore, 1990

[8] Vedi L. Picciotto, Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia (1943-1945), p. 123.

[9] Si calcola che furono almeno 90.000 su una popolazione di 130.000 a sfollare dalla città. Vedi E. Acciai, Una città in fuga. I livornesi tra sfollamento, deportazione razziale e guerra civile (1943-1944), ed. ETS, pp. 69-70.

[10] Tra i 204 si contano 82 donne e 17 bambini. Solo 16 tornarono dai campi. Per questa e altre notizie si rimanda agli studi di C. Sonetti, tra gli altri vedi: La vicenda di Frida Misul nel quadro della deportazione dei livornesi, pp. 42-45 in Per Frida Misul. Donne e uomini ad Auschwitz a cura di F. Franceschini, Livorno Salomone Belforte, 2019

[11] Sulle vicende dei bambini dell’orfanotrofio israelitico vedi: S. Trovato e T. Arrigoni, Dalla casa nel bosco al grande mondo. Storie di bambini ebrei tra la Toscana e Israele, La bancarella Editrice, 2014

[12] Di età compresa tra i 7 e i 16 anni, risultavano essere in numero di 22 nel maggio del 1943, vedi documento n. 10, “Orfanotrofio Israelitico – maggio 1943. Movimento personale e ricoverati” elenco trascritto in L. Bientinesi, Don Antonio Vellutini: un prete con i cattolici nell’Antifascismo e nella resistenza livornese, Benvenuti e Cavaciocchi, 2006, p. 151. Tra questi è compreso anche Benito Attal, insieme a Luciana e Ugo Bassano, sopravvissuti e testimoni ancora della vicenda.

[13] Su don Carlo Bartolozzi vedi L. Bientinesi, Un prete alla macchia: don Ivon Martelli. Il ruolo dl clero e dei cattolici nel livornese, Comune di San Vincenzo, 1995

[14] Luciana Bassano riferisce che fu la delazione di un’insegnante di musica, forse la stessa che denunciò Frida Misul, a segnare la loro fine. S. Trovato e T. Arrigoni, op. cit., p. 50

[15] Ibidem




150 ore

Nel 1973, con l’art. 28 del Ccnl Metalmeccanici venne riconosciuto ai lavoratori il diritto a permessi retribuiti per frequentare, presso istituti pubblici o legalmente riconosciuti, corsi di studio al fine di migliorare la propria cultura. La conquista di questo monte ore retribuito, noto come “150 ore”,  fu utilizzato per ottenere il diploma di terza media, frequentare seminari o insegnamenti monografici nella scuola secondaria superiore e all’Università configurandosi come un vero e proprio laboratorio collettivo di innovazioni didattiche per l’ educazione degli adulti:  la struttura seminariale delle attività invitava infatti gli studenti alla ricerca-apprendimento autonoma e  alla ricerca-azione su tematiche e questioni che concernevano la vita quotidiana e le condizioni di lavoro degli operai. Una scommessa da parte del movimento operaio e sindacale riguardo alla democratizzazione di una scuola ancora selettiva ed elitaria, che traeva vigore dall’influenza del movimento studentesco, dall’esperienza di Don Milani a Barbiana, come da altri fermenti innovatori che si erano delineati ad inizio degli anni ‘60.

Le 150 ore non potevano pertanto rappresentare per i lavoratori un ritorno nella stessa scuola con voti, insegnanti autoritari, compiti a casa, dai contenuti astratti e lontani dalla loro esperienza di vita. Tra gli argomenti specifici possiamo ricordare l’analisi della busta paga e della contingenza, il ruolo della fabbrica, la situazione dell’agricoltura, l’ambiente di lavoro, mentre in merito alla riflessione storica i filoni più diffusi furono la storia dell’industrializzazione, del fascismo, dell’immigrazione.  Tematiche affrontate con metodologie didattiche nuove alternative  al libro di testo (il lavoro di gruppo, l’inchiesta, l’uso della statistica, il teatro) che aprivano orizzonti e percorsi inediti, superando l’atteggiamento passivo nei confronti dello studio e proponendosi di conoscere la realtà per cambiarla ed intervenire anche sulla propria situazione.Orizzonti e percorsi inediti che si concretizzarono soprattutto nell’utilizzo conoscitivo e relazionale del metodo autobiografico in direzione di un apprendimento basato sulla propria quotidianità e con la volontà di proporre una sorta di controcultura operaia antagonista a quella dell’impresa e alla “scienza dei padroni”.

Uno dei temi più ricorrenti che vide impegnati anche in Toscana corsisti, insegnanti e sindacalisti fu quello della nocività e salute nei luoghi di lavoro. L’attenzione a tale problematiche non era casuale dato che si trattava non solo di mantenere certe conquiste sul tema della sicurezza ottenute con le lotte del ‘68-‘74 ma anche di esprimere al meglio le nuove opportunità derivanti dall’ Inquadramento unico[1]: era impensabile migliorare la professionalità e la qualità del lavoro se non miglioravano le condizioni in cui esso veniva esercitato[2]. La monetizzazione del rischio, ossia l’indennizzo per un lavoro nocivo, pericoloso, eccessivamente faticoso, incorporata nel salario, era una strada ormai del tutto impraticabile come ricordano queste emblematiche parole di un operaio empolese: “La salute del lavoratore è più importante delle 5.000 lire di aumento mensile” (corsista 150 ore, Scuola media Fucini- Empoli 1975-1976,  Archivio Cisl fondo Flm, b.13844 fasc.1).Di pari passo con lo sviluppo della Medicina del lavoro in materia di salute e sicurezza, il movimento dei delegati di fabbrica fece proprio il modello sindacale della prevenzione fondato sull’azione diretta dei lavoratori: elaborato già nella metà degli anni ‘60 in alcune esperienze torinesi, lo socializzò fra gli operai, facendolo circolare e sperimentandolo attraverso una capillare attività di formazione nei corsi delle 150 ore [3].

A Firenze, nel 1975-’76, si tennero diversi corsi nella scuola media inferiore sul tema “Ambiente di lavoro e salute in fabbrica”, cui parteciparono i delegati delle più grandi fabbriche dell’area urbana. I filoni principali seguiti nei corsi furono: l’analisi delle officine e dei reparti (inquinamento, incidenti e infortuni, rischi in generale); la prevenzione sanitaria (malattie professionali, regole e standard); la promozione di un sistema sanitario pubblico e la storia dell’ambiente di lavoro industriale[4]. “Per Siena come primo momento per l’utilizzo delle ore di studio pagate per i lavoratori può essere visto come epicentro l’Istituto di Medicina del Lavoro”, recita una proposta di discussione per l’utilizzo delle 150 ore dove si elencano anche le possibili discipline di studio: Medicina sociale, del lavoro, farmacologia, malattie mentali ma anche collegamenti interdisciplinari con economia, lettere e diritto[5].  Ugualmente a Follonica si affrontarono le malattie professionali nelle miniere con preliminari cenni di anatomia[6]. Nel 1974, a Prato, uno dei maggiori distretti industriali tessili italiani, a conclusione di un corso da 120 ore (la quantità di ore contrattuali previste per il diritto allo studio retribuito di questo comparto) venne pubblicato in forma ciclostilata un volume-dispensa, dedicato all’organizzazione del lavoro e all’ambiente nelle piccole e piccolissime imprese, comprese quelle familiari (120 ore, Fondo Flm,  b.13845, fasc. 2).

Nel 1975 ad Empoli presso la Scuola Media Statale Fucini, in un contesto di distretto industriale e di piccole e medie imprese diffuse, si svolse un corso avente per oggetto “il problema della salute in fabbrica e nella società” attraverso lavori di gruppo e “verifiche assembleari”. Il programma, raccolto in un’antologia, si strutturò attorno alle storie di vita dei lavoratori con un particolare accento riservato ai problemi della fabbrica.  Quelli “ di sopra”, “gli altri”, “quelli che comandano” che stabiliscono turni,  ritmi, che tarano le macchine, che decidono  il salario, che assumono o licenziano, che valutano la malattia o l’invalidità,  sono quelli “che hanno studiato”, che sono rimasti dentro la scuola, cosicché la fuga dal ripetitivo e stressante lavoro manuale e la distribuzione ingiusta del sapere si fondono nelle motivazioni a riprendere a studiare: “mi piace soprattutto che a scuola ognuno di noi, operaio, casalinga etc. si esprime come può ed insieme possiamo parlare, discutere di tanti problemi di cui siamo vittime” [7]. Molte le testimonianze riguardo all’ ambiente lavorativo e la sua nocività, ne riportiamo alcune tratte dal Fondo Flm dell’Archivio Cisl (b. 13844 fasc.1):

Ogni lavoratore deve essere tutelato prima che si ammali perché quando l’operaio di fabbrica si ammala può essere solo curato ma non guarito. I nostri datori di lavoro dicono sempre che c’è troppo assenteismo, ma se ogni operaio lavorasse con più sicurezza per la sua salute, con meno nocività in fabbrica, e con più garanzie da parte dello Stato o degli organi competenti, si avrebbe tutti più salute e maggiore benessere.

Sono un operaio metalmeccanico, ed ho sempre lavorato continuamente da circa 12 anni. Cosicché penso di avere acquistato una certa conoscenza di quello che può essere il rapporto di lavoro e la salute nella fabbrica. Io credo che si debbano affrontare in questo corso i problemi che ci aspettano quotidianamente. Il rapporto di lavoro si sta dimostrando col passare del tempo sempre più difficile perché aumentano le difficoltà del lavoratore all’interno della fabbrica. Il ritmo di produzione è sempre più elevato e richiede maggiore logorio fisico, senza contare lo stato d’animo, sospesi come siamo, fra licenziamenti e cassa integrazione. La salute è una cosa indispensabile per tutti, ma soprattutto per noi operai, che tutte le mattine dobbiamo lavorare senza tante attenuanti, perciò l’ambiente deve essere non sano, ma sanissimo.

Altri corsisti sottolineano la pesantezza della linea di montaggio, il difficile adattamento del corpo ai tempi e ai modi di funzionamento delle macchine, la dura disciplina della “fabbrica orologio”:

Lavoro da circa 6 anni, prima ero alla catena con ritmi elevati, durante il giorno non potevo neanche andare in bagno altrimenti rimanevo indietro, ora sono alla mazzetta. Circa 3 anni fa ebbi una colica renale, il mio medico mi disse che dipendeva tutto dallo stare sempre seduta, chiesi se mi potevano cambiare posto. Ma non fu possibile neanche col certificato medico, che poi lo chiedevo soltanto per qualche mese. Così sono andata avanti fino ad oggi.

Spesso con un ammodernamento degli impianti, l’operaio vede arrivare in fabbrica una macchina che fa, magari più velocemente, quello che faceva lui, tale e quale. E vede bene che se lui non può decidere niente, la semplice forza delle sue braccia non vale molto. Lui diventa un semplice accessorio da adattare alla macchina, un ingranaggio e non il più importante. Il padrone ha molta più cura della macchina che di lui. Se si guasta la macchina si ferma tutto, se si guasta un operaio il padrone ce ne mette un altro e non è successo niente di grave. Tutto ciò è umiliante per un uomo.

Io sono una confezionista, lavoro alla Lebole, che comprende 7.000 dipendenti ed è divisa in succursali. Io lavoro alla succursale di Empoli, che impiega circa 500 lavoratori e, come in genere in tutte le fabbriche, i problemi non mancano. Il ritmo molto elevato causa tensione, sensazione di paura, ansietà, fatica, nervosismo, depressione, per questo ogni giorno ci sono delle crisi isteriche e assenze dal posto di lavoro. Il padrone reagisce chiamandoci massa di vagabondi, ma non fa niente per trovare una soluzione a questi problemi. La ripetitività della mansione è un avvilimento continuo. Pensare di avere un cervello e non poterlo utilizzare in quanto l’uomo è al servizio della macchina e non la macchina al servizio dell’uomo.

In molti operai matura così la consapevolezza e l’importanza di trattare la Medicina preventiva, “dopo anni che sono assente dagli studi per motivi economici, mi ritrovo di nuovo in aula non come scolaretto ma per capire qual è il male che nuoce alla salute di noi lavoratori”:

Mi rendo conto di quanto è importante studiare a fondo la medicina preventiva, nelle fabbriche ci sono moltissime cose dannose per la salute; alcune mie colleghe sono ammalate di nervi e questo per tante cose ingiuste, il ritmo di lavoro e tante altre.

Sono contento che questo corso studi il problema della salute. Lavoro in vetreria e quello è senza dubbio uno dei posti dove la salute va curata in tempo perché se si aspetta i sintomi della malattia la maggior parte delle volte è troppo tardi. Sono contento anche di imparare l’italiano e le altre materie, per avere una maggiore cultura che mi serve nella società e anche nell’ambiente di lavoro, dove spero di poter parlare meglio soprattutto con il datore di lavoro che crede di sapere sempre tutto lui.

Per quanto riguarda i rischi che corriamo, si potrebbe parlare di tantissime cose, in quanto la mia fabbrica è un calzaturificio e, come è noto, in questo tipo di lavorazioni i fattori di nocività non si contano. Finalmente è entrato nella nostra fabbrica l’ispettorato della Medicina Preventiva; così abbiamo avuto la possibilità di farci vigilare di più.

Abbiamo lavorato con assoluta mancanza di controlli sanitari periodici, abbandonati quindi dalla scienza medica, ognuno pensava per proprio conto alla salute, se stava attento altrimenti quando si manifestava un malessere questo era già cronico.  Finalmente viene istituito un servizio di Medicina Preventiva.

Come si evince da queste testimonianze, la consapevolezza che “lavorare in fabbrica fa male alla salute”[8] indirizzò gli operai più o meno scolarizzati verso un nuovo atteggiamento nei confronti del lavoro e ad una maggior percezione del rischio. E in questa presa di coscienza operaia, a livello di massa, la socializzazione educativa delle 150 ore giocò un ruolo fondamentale: i lavoratori, analizzando le loro esperienze, anche attraverso le storie di vita, contribuirono infatti in modo del tutto originale ad approfondire alle conoscenze di medici, tecnici e sindacati[9] e la prospettiva finale fu quella di utilizzare le ricerche svolte nei corsi per definire le strategie di azione sindacale e  le piattaforme rivendicative dei Consigli di fabbrica.

Avendo come oggetto di studio e di indagine le condizioni di lavoro e l’organizzazione produttiva, anche sul piano della salute e della sicurezza, le 150 ore rappresentarono per molti aspetti “un vero e proprio caso di auto-educazione di massa attraverso la ricerca-azione” [10] la cui ricostruzione storica consente di riflettere su sfide ancora assolutamente attuali: alcune di esse purtroppo rimandano ad episodi di cronaca ed immagini tragicamente note.

Un suono che si distingue dagli altri numerosi rumori della fabbrica; la sirena dell’ambulanza che a tutta velocità percorre per l’ennesima volta la strada verso l’ospedale. E’ un altro incidente sul lavoro: un altro lavoratore vittima di un macchinario. (corsista 150 ore, Scuola media Fucini- Empoli 1975-1976)

 

Monica Dati è dottoranda presso il corso di “Scienze della Formazione e Psicologia” dell’Università degli studi di Firenze. Collabora con il Comune di Lucca e con la Biblioteca Agorà con cui ha inaugurato il progetto “Madeleine in biblioteca”.

[1]Sistema di classificazione che viene introdotto in seguito alla lotta contrattuale dei Metalmeccanici del 1972-73 che porta al superamento della distinzione tra operai ed impiegati.

[2]P. Causarano, Unire la classe, valorizzare la persona. L’inquadramento unico operai-impiegati e le 150 ore per il diritto allo studio, Italia contemporanea, 278, pp. 224-46, 2015.

[3] Questo modello operaio fu reso noto in migliaia di fabbriche grazie alla dispensa L’ambiente di lavoro, edita prima dalla Fiom nel 1969 e poi dalla Flm nel 1971. Scaturita dall’opera di Ivar Oddone, medico e psicologo del lavoro, fu il frutto di un’elaborazione collettiva pluriennale che raccolse l’esperienza di alcuni lavoratori metalmeccanici della 5a Lega di Mirafiori.

[4]P. Causarano, Il male che nuoce alla società di noi lavoratori. Il movimento dei delegati di fabbrica, la linea sindacale sulla prevenzione e i corsi 150 ore nell’Italia degli anni Settanta, Giornale di Storia Contemporanea, 2016, n. 2 p. 70

[5]  Proposta di discussione per l’utilizzo a Siena delle ore di studio pagate per i lavoratori. Materiale per le 150 ore a Siena 1976-1977, a cura della Commissione Sindacale 150 ore di Siena, Archivio storico del movimento operaio e contadino in provincia di Siena (Amoc), Fondo zona sindacale Amiata b. VIII Fasc. 1

[6]  Documenti sui corsi 150 ore. Malattie professionali e ambiente di lavoro in miniera, Fondo CGIL, 1 (b. 85), Archivio della Camera del Lavoro di Grosseto

[7]Antologia del Corso 150 ore, Scuola Media Fucini R., Empoli, 1975 ciclostilato, Archivio Cisl, Fondo Flm, b. 13844 fasc.1

[8]Come titola il famoso libro di medicina del lavoro di Jeanne Stellman e Susan Daum (Feltrinelli, 1975)

[9]Sul rapporto tra formazione e sicurezza sui luoghi di lavoro si veda anche P. Federighi, G. Campanile, C. Grassi (a cura di), Il circolo di studio per la formazione alla sicurezza nei luoghi di lavoro, ETS, Pisa, 2010

[10]P. Causarano, Il male che nuoce alla società di noi lavoratori. Il movimento dei delegati di fabbrica, la linea sindacale sulla prevenzione e i corsi 150 ore nell’Italia degli anni Settanta, op. cit., p. 67