Socialproletari a Prato

In occasione dell’uscita del volume di Alessandro Affortunati intitolato Tra potere e contropotere. Appunti per una storia del PSIUP a Prato, 1964-1972 (Prato, Pentalinea, 2021) abbiamo rivolto alcune domande all’autore. Proponiamo il testo dell’intervista ai lettori di ToscanaNovecento.

 Il PSIUP nasce in conseguenza del varo del centrosinistra organico nel 1964 (a livello locale i primi segnali di insofferenza interna al PSI si erano manifestati in occasione delle “giunte difficili”, dopo le amministrative del 1960, a Firenze e, più vicino a noi, a Carmignano). Parlaci della genesi del nuovo partito.

 All’interno del PSI esisteva una componente di sinistra, molto variegata, che aveva accettato con qualche perplessità la svolta di centrosinistra. Quando il PSI passò dall’appoggio esterno alla partecipazione diretta al governo (dicembre 1963), questa componente si oppose nettamente all’operazione, rifiutò di votare la fiducia e diede vita al PSIUP (gennaio 1964). La sinistra riteneva infatti che l’ingresso dei socialisti nel governo avrebbe avuto come unico risultato la rottura a sinistra fra PSI e PCI e l’integrazione del Partito socialista nel sistema politico esistente, senza che fosse possibile ottenere nulla di significativo sul terreno delle riforme di struttura (e, considerati gli sviluppi politici successivi, non si può dire che questa analisi fosse priva di fondamento).

Tu hai intitolato il tuo libro Tra potere e contropotere. Perché?

 Il titolo allude alla contraddizione (rimasta sostanzialmente irrisolta) in cui il PSIUP venne a trovarsi nelle realtà locali dove aveva responsabilità di governo, diviso com’era fra la gestione del quotidiano, che imponeva di misurarsi con problemi concreti (e talora prosaici) e l’aspirazione a dar vita ad una democrazia di base fondata su gruppi che intendevano opporsi al potere costituito (basti pensare alla concezione psiuppina dei consigli di quartiere, di cui si chiedeva l’elezione diretta, oppure all’ambizione di costruire il contropotere operaio nelle fabbriche). L’idea di contropotere (fatta risalire all’esperienza della Comune parigina) è stata, secondo me, l’elemento qualificante della proposta politica del PSIUP.

Quali furono a Prato le reazioni degli altri partiti alla comparsa del nuovo soggetto politico?

 Le reazioni da parte della DC, del PSDI e, naturalmente, del PSI furono negative (all’interno del PSI, in particolare, i lombardiani – che, dopo la scissione, erano rimasti soli a rappresentare la sinistra – temevano uno scivolamento del PSI su posizioni socialdemocratiche). Quanto al PCI, Mauro Giovannini, segretario della Federazione comunista, definì “dannosa” la scissione (c’era il rischio che il PSIUP erodesse in parte il consenso elettorale del PCI, sottraendogli voti a sinistra), ma poco dopo un documento della Federazione stessa corresse il tiro, sostenendo che fra PSIUP e PCI non poteva che nascere un rapporto di solidarietà.

Come si mosse il Psiup verso gli alleati?

 La politica proposta dal PSIUP era basata sul principio dell’unità di classe e quindi metteva al primo posto l’alleanza col Partito comunista ed anche con il PSI, se disponibile. Continua fu comunque la polemica verso quest’ultimo, accusato di avere rotto l’unità delle forze del lavoro e di essere passato nello schieramento avversario. A livello locale il PSIUP governò con socialisti e comunisti (Piero Spagna, suo primo rappresentante in consiglio comunale, fu eletto anche vicesindaco).

Quali erano le istanze del partito e i punti programmatici a livello locale?

 Il PSIUP elaborò nel 1966 un documento in cui si parlava dei problemi concreti della città: va sottolineato che i socialproletari avevano una loro visione dello sviluppo di Prato che non coincideva con quella dei comunisti. I socialproletari chiedevano, fra l’altro, una programmazione pluriennale in campo economico, sul modello di Bologna, per evitare una nuova crisi del tessile e difendere i livelli occupazionali, una rapida realizzazione del piano regolatore, che non doveva avere riguardi nei confronti degli interessi dei tanti centri di potere, un potenziamento dei trasporti urbani ed extraurbani fondato sulla municipalizzazione della CAP, la società più importante nel settore del trasporto pubblico locale. Molto interessante era poi la proposta di dar vita ad un organismo pubblico che si prendesse cura dei ragazzi abbandonati, dato che la città era allora scossa dallo scandalo dei “Celestini”, scoppiato quando era stato scoperto che i bambini così chiamati, ospitati in un istituto di assistenza gestito da religiosi, non solo erano costretti a vivere in condizioni igieniche inimmaginabili, ma erano anche sottoposti a sadiche punizioni.

CopertinaPSIUP_Prato1024_2Nel corso del tempo, nelle tue ricerche, hai “incontrato” spesso Ferdinando Targetti. E anche stavolta lo hai ritrovato. Un personaggio politico che ha attraversato una parte importante del Novecento. Ci puoi dare un tuo parere di storico?

 È un parere nettamente positivo. Targetti, pur appartenendo ad una famiglia di grandi industriali (uno dei suoi fratelli, Raimondo, fu anche presidente della Confindustria), si iscrisse giovanissimo alla sezione pratese del PSI, lasciando la sua quota in azienda ad un altro fratello e vivendo solo dei proventi della professione di avvocato. Fu il primo sindaco socialista di Prato, fra il 1912 ed il 1914, e la giunta da lui presieduta fornì un ottimo esempio di amministrazione rossa. Fermo nei suoi principi di antifascista, scampò per caso alla morte in occasione della famigerata “notte di San Bartolomeo” fiorentina (3 ottobre 1925). Dovette poi trasferirsi a Milano ed in Svizzera, ma non cessò mai di svolgere attività antifascista. Nel dopoguerra, riflettendo sull’esperienza della dittatura e della guerra, giunse alla conclusione che la borghesia era pronta a tutto pur di non rinunciare ai  suoi privilegi, e che quindi la più stretta unità d’azione tra socialisti e comunisti era la condizione imprescindibile per la difesa della democrazia e la realizzazione del socialismo (e si badi che Targetti, in quanto riformista, era stato espulso dal PSI ed era entrato a far parte del PSU, il partito di Matteotti). È così che si spiega la sua adesione al PSIUP, di cui egli stesso chiarì le motivazioni in una lettera indirizzata ai compagni di Prato, che viene pubblicata per la prima volta in questo libro. In sostanza, Targetti non accettò mai nessuna forma edulcorata di socialismo: il socialismo significava per lui superamento del capitalismo, non un’operazione di maquillage per rendere accettabile il capitalismo stesso.

L’invasione della Cecoslovacchia è certamente uno spartiacque nel panorama politico della sinistra e coinvolge anche il PSIUP. Quale fu la sua posizione in merito e quali le conseguenze?

 A differenza del PCI, che condannò con fermezza l’invasione, la direzione del PSIUP non andò oltre un comunicato, alquanto fumoso, nel quale non era dato riscontrare una netta parola di condanna dell’accaduto. Questo comunicato rifletteva la posizione dei vertici del partito, cioè della componente che faceva capo a Tullio Vecchietti ed a Dario Valori, ma non quella di tutto il PSIUP. La base psiuppina, infatti, più che filosovietica poteva definirsi terzomondista (con simpatie filocinesi in alcuni casi molto evidenti): qui a Prato, ad esempio, essa si dissociò dalla direzione, sposando la linea della Federazione di Firenze. Comunque sia, la posizione assunta dai vertici (sulla quale ebbero il loro peso – come è stato esplicitamente ammesso da dirigenti di primo piano del partito, come Silvano Miniati – i finanziamenti che il PSIUP riceveva regolarmente dall’Unione sovietica per mantenere un apparato decisamente sovradimensionato) ebbe conseguenze gravi per il partito, cui alienò le simpatie della parte più movimentista del suo elettorato.

Nella logica del sistema proporzionale i socialproletari hanno raggiunto, in alcuni casi, discreti risultati. Che bilancio si può trarre dall’andamento elettorale a livello locale?

 Il PSIUP partecipò a quattro competizioni elettorali (le amministrative del novembre 1964, le politiche del maggio 1968, le amministrative del giugno 1970 e le politiche anticipate del maggio 1972), ottenendo dei discreti risultati, ma non riuscendo a sfondare a sinistra. A Prato oscillò fra il 4,04% del 1968 e l’1,61% del 1972. Le politiche del 1972 furono una vera e propria Caporetto elettorale per il partito, che, non essendo scattato il quorum in nessun collegio, non poté utilizzare i resti e scomparve da Montecitorio. La fine del PSIUP fu la conseguenza del progressivo disimpegno socialista dal centrosinistra, che restrinse il suo spazio politico, della mancata condanna della repressione della “primavera di Praga” e della contemporanea presenza di tre liste concorrenti (il Manifesto, il Movimento politico dei lavoratori e Servire il popolo).

A un certo punto, tratte le conseguenze del voto del 1972, si pone il problema del quo vadis? Detto con un’altra metafora, si pone il problema della Legge di Newton: i corpicini piccoli subiscono la forza di attrazione verso quelli più grandi. Ma non per tutti andò così…

Subito dopo la disfatta elettorale del 1972 il IV (ed ultimo) congresso del PSIUP decise a maggioranza lo scioglimento del partito e la sua confluenza nel PCI. A livello nazionale fu questa la linea che passò e, col senno di poi, si può forse dire che fu la scelta più giusta. A Prato solo una minoranza passò nelle fila comuniste, mentre la maggioranza degli iscritti decise di proseguire la battaglia dando vita al Nuovo PSIUP (nessuno, a quanto mi risulta rientrò nel PSI): la decisione presa dalla maggior parte dei militanti psiuppini della città laniera stava a significare che, pur con tutti i suoi limiti, quella del PSIUP era stata per molti un’occasione di crescita politica e culturale.




Cafiero Lucchesi e Dino Amilcare Alajeff Meoni

Sono presentati in due articoli 4 profili biografici di altrettanti comunisti dell’area di Firenze e Prato che subirono le persecuzioni del fascismo; tre di loro furono anche vittima dello stalinismo mentre Meoni che viene qui ricordato avrà comunque un percorso di distacco critico dal PCI nel dopoguerra.

LUCCHESI Cafiero

(Prato 7.1.1897 – Butovo, Mosca (Russia) 4.6.1938)

 Nato a Prato nel 1897 da Al(a)dino e da Laudomia Lumini, famiglia imbevuta di ideali anarchici e socialisti. Frequentati i primi anni delle elementari, lavora come operaio nell’industria pratese degli stracci. Membro della gioventù socialista nel 1912, nel 1916 è denunziato, insieme ad altri, per propaganda contro la guerra in occasione della chiamata alle armi della classe 1897; soldato durante la guerra mondiale, diserta e nel 1918 è arrestato e condannato. Tornato in libertà riprende il suo lavoro. Ardito del popolo e iscritto al PCd’I dal 1921, nel novembre dello stesso anno è coinvolto in scontri con i fascisti, che hanno un seguito nel gennaio successivo, in data 11, quando, in risposta all’ennesima provocazione da parte del comandante delle squadre d’azione pratesi, tenente Federico Guglielmo Florio, spara alcuni colpi di rivoltella, ferendo a morte il suo persecutore, che muore 6 giorni dopo, ed altre persone per coprirsi la fuga. Un telegramma del 12 gennaio inviato dalla Prefettura di Firenze al Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, così descrive l’accaduto: «pomeriggio oggi, mentre ex Tenente Florio dirigente quel Fascio (di Prato, n.d.r.) accompagnato alcuni fascisti, sostava Porta Serraglio, imbattevasi nel comunista Lucchesi Cafiero, già condannato grave pena per diserzione, che lo fermava per parlargli. Tenente Florio allontanavasi da compagni, ma mentre sembrava che egli parlasse tranquillamente col Lucchesi, questi estratta rivoltella che teneva abusivamente, sparò tre colpi contro il Florio che riportava ferita all’addome per la quale versa in gravissime condizioni …». La Prefettura omette di riferire come, già in precedenza più volte, l’incontro con Florio era costato a Cafiero Lucchesi bastonate, frustate, calci, sputi e umiliazioni soprattutto quando era colto in compagnia della fidanzata Giulia Giacomelli. Leonetto Tintori, famoso pittore pratese, all’epoca dei fatti non ancora quattordicenne, è testimone oculare della sparatoria e in una sua memoria narra come anche in quella circostanza il giovane comunista sia stato provocato per l’ennesima volta dal capo squadrista. La posizione di Cafiero è aggravata dal contenuto della scheda personale del 5 dicembre precedente redatta per il Casellario Politico Centrale: in essa è descritto con «espressione fisionomica truce», gode di «pessima fama» ed è «acerrimo nemico del fascismo». Dopo lo scontro con Florio, colpito da mandato di cattura il 22 gennaio, egli si rende introvabile, nonostante che le ricerche della polizia si svolgano anche all’estero. Questa vicenda fa precipitare la situazione in città, dando luogo ad una settimana di terrore e alle dimissioni della giunta comunale socialista. Infatti la reazione fascista alla morte dello squadrista in ospedale provoca la devastazione e l’incendio della Camera del Lavoro e della sede della Lega Laniera, il danneggiamento della tipografia dove si stampa il settimanale socialista “Il Lavoro”, il tentativo di incendio della casa di Cafiero e la distruzione di sedi di cooperative ed associazioni operaie. Inoltre, al di là di ogni evidenza sull’identità dello sparatore, le autorità di polizia, in sintonia con la propaganda fascista, riescono a costruire un castello di false testimonianze per avallare la tesi di un complotto comunista sulla base del quale sono processati e condannati a pene pesantissime molti oppositori locali. Intanto Cafiero, rifugiatosi in un  primo tempo a Trieste, secondo la testimonianza di Egidio Bellandi, raggiunge poi l’URSS come emigrato politico.  Trova lavoro in una fabbrica tessile di Mosca, sposa poco dopo un’operaia russa, che gli dà presto un figlio. Nel 1924, con sentenza del 3 febbraio, è condannato in contumacia all’ergastolo e successivamente, il 26 gennaio 1933, inserito nella rubrica di frontiera e nel Bollettino delle ricerche. La caccia scatenata a suo carico dalla polizia infatti si è estesa anche all’estero, finché il 29 agosto 1932, da un’informazione di un fuoruscito pratese, Mario Imprudenti, rifugiatosi a Mosca, risulta che «Cafiero Lucchesi […] originario di Prato, dove avrebbe abitato in via Giudea, alto, magro, dai capelli bianchi, di circa 32-33 anni, risiede a Mosca da circa 5 anni. Dirige attualmente un reparto in una fabbrica di stoffe …». Il 21 novembre 1935 l’Ambasciata italiana a Mosca comunica che in Russia egli svolge attività politica e probabilmente aderisce alla sezione italiana del soccorso rosso, aiutando alcuni comunisti detenuti nelle carceri fasciste. Intanto la corrispondenza del fratello Primomaggio e del padre Aladino è strettamente controllata, ma non emerge niente di utile per le ricerche. Il 14 febbraio 1938 l’Ambasciata riferisce che è possibile che Cafiero Lucchesi sia stato accusato di trotzkismo ed arrestato: l’accusa che gli viene rivolta è di avere legami con circoli di emigranti sospettati di spionaggio. Al club internazionale degli emigrati, sia pure in posizione defilata, è membro della minoranza di sinistra che, composta da una mezza dozzina di elementi, fa capo a Virgilio Verdaro. Nel 1929 tutta l’opposizione all’interno della dirigenza del club degli emigrati italiani viene epurata e, 6 anni più tardi, viene chiuso lo stesso club, giudicato covo di spie dalla polizia politica. Secondo gli informatori della polizia italiana nel 1936 è inviato in Spagna: infatti la polizia avanza l’ipotesi che «il pericolosissimo comunista Lucchesi Cafiero, assassino del Martire Fascista Florio» si trovi a Madrid, da dove fa pervenire «ai compagni di Prato ingenti somme di denaro» e nel 1938 è segnalato a Barcellona come «il maggiore Lucchesi»; ma del fatto non ci sono conferme.  Già segnalato come bordighista dai dirigenti del PCd’I della sezione quadri del Komintern, è arrestato nel marzo del 1938 a Mosca con l’accusa di attività spionistica a favore dell’Italia, condannato alla pena di morte e fucilato nel poligono di Butovo, nei pressi di Mosca, nel giugno successivo. Riabilitato il 31.12.1959.

 FONTI: Archivio Centrale dello Stato (Roma), Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Divisione affari generali e riservati, Casellario Politico Centrale, ad nomen; Archivio generale del Comune di Prato, carte Egidio Bellandi; Corneli Dante, Lo stalinismo in Italia e nell’emigrazione antifascista, Elenco delle vittime italiane dello stalinismo (A-L), quinto libro, Tivoli, Edito in proprio, 1981; R. Daghini, Da Prato a Mosca solo andata. La sorte di cafiero Lucchesi dopo l’omicidio di Federico Guglielmo Florio, in “Microstoria”, IX (2007); M. Di Sabato, Storia del fascismo e dell’antifascismo nel Pratese, Roma, Ediesse, 2013; Dundovich Elena, Gori Francesca, Guercetti Emanuela (acd), Reflections on the Gulag. With a Documentary Appendix on the Italian Victims of Repression in the USSR, Milano, Feltrinelli, Annali, XXXVII, 2001; M. Palla (a cura di), Storia dell’antifascismo pratese, Pisa, Pacini Editore, 2012; D. Saccenti, Memorie, Firenze, Istituto Gramsci, sezione toscana – CLUSF, 1981; F. Venuti, Ricordo di un combattente. Dino Alajeff Meoni, Prato, Pentalinea, 2017; www.fondazionebordiga.org; www.memorialitalia.it; www.pratoreporter.it; httpp://archive.is.

Meoni001MEONI Dino Amilcare Alajeff

(Prato, 03.05.06 – Prato, 21 marzo 1979)

 Figlio dell’anarchico Leonello, nasce a Prato il 3 maggio del 1906. Dopo la sua nascita la famiglia emigra in Francia per evitare persecuzioni politiche e già all’età di otto anni partecipa col padre a manifestazioni sindacali e pacifiste. Nel 1921 ritorna a Prato ed entra immediatamente in conflitto con i fascisti locali quando definisce il capo degli squadristi pratesi, Federico Guglielmo Florio, “un pagliaccio”; sebbene un appunto del Commissariato di PS lo presenti come dedito alla vita randagia, ma senza precedenti né pendenze penali, egli tuttavia ben presto aderisce al movimento giovanile comunista impegnandosi a diffondere materiale di propaganda del partito. Il 29 gennaio del 1929 la Pretura di Prato lo condanna a sei mesi di reclusione, alle spese di giudizio e a cinque anni di condizionale per oltraggio a un brigadiere dei RR CC e a un milite della MVSN per avere detto: “Fate pure, per ora avete ragione, ma anche per voialtri finirà, ed allora faremo i conti“.

Nel 1931, prima della scadenza della condizionale, è nuovamente arrestato come aderente all’organizzazione comunista e il 18 febbraio dell’anno successivo, dopo l’arresto del 31 gennaio, è denunciato al TS dalla Questura di Firenze. Dalla sentenza istruttoria n°65 del 29 aprile 1932 si apprende che, nonostante la sua dichiarazione di non avere mai svolto attività politica, da tempo era frequentatore della bottega del sarto Zola Settesoldi, insieme a molti giovani comunisti della città. Alla presenza dello stesso Giudice Istruttore, Meoni dà prova dei suoi sentimenti sovversivi dichiarando che non teme l’autorità di PS e tanto meno il TS e che non gli importa di riportare una condanna.

L’11 novembre del 1932 è scarcerato in occasione del decennale fascista e da quel momento riprende la sua attività politica clandestina per finire di nuovo arrestato il 27 febbraio 1934 con l’accusa di aver costituito, organizzato e diretto il partito comunista, facendo di esso parte e svolgendo propaganda a favore del medesimo: nel corso del 1933 infatti aveva intrapreso l’opera di ricostruzione dei quadri del partito dopo le retate del 1930 e del 1932, raccogliendo intorno a sé militanti come Armando Bardazzi, Egidio Tommaso Bellandi, Valentino Bianchi, Assuero Martino Vanni, che costituiranno il nucleo più resistente all’attività repressiva delle autorità di polizia. Egli stabilisce contatti col gruppo comunista di Sesto Fiorentino e di Firenze e organizza il Soccorso rosso, almeno finché non viene sospeso dal comitato per contrasti con Egidio Bellandi e Fernando Pacetti. Con sentenza n°1 del 28 gennaio 1935 il TS lo condanna a dieci anni di reclusione, al pagamento delle spese processuali,a quelle della propria custodia preventiva e alla libertà vigilata con due anni di condono condizionale.

Trasferito dal penitenziario di Regina Coeli, arriva il 5 marzo a quello di Civitavecchia (RM) per essere recluso nelle celle “separate”, dove conosce fra gli altri Mauro Scoccimarro, Giancarlo Pajetta e Umberto Terracini. Il Regio Decreto del 15 febbraio 1937 n°77, emanato per la nascita del principe di Napoli Vittorio Emanuele di Savoia, che prevedeva un’amnistia piena per le pene non superiori a tre anni e una riduzione di alcuni anni per le altre, permette la sua scarcerazione nel 1938: da quel momento è sottoposto ad una asfissiante sorveglianza. Ritornato a Prato, viene a sapere che anche il padre Leonello e il fratello Paleario sono stati arrestati: per aiutare la madre, si impiega presso il lanificio Campolmi, dove riprende a creare, con pazienza e determinazione, un embrione di organizzazione comunista, contribuendo a mantenere i collegamenti col direttivo del partito e riuscendo a sfuggire alla vasta retata dell’OVRA attuata nel Pratese nel mese di giugno del 1941.

Pochi giorni dopo la caduta di Mussolini è arrestato insieme al fratello e a numerosi comunisti per istigazione all’astensione dal lavoro, secondo quanto riferisce una prefettizia del 5 agosto, ma subito dopo il rilascio, si attiva per ricostruire il gruppo dirigente comunista pratese e un embrione di sindacato: il 24 agosto, insieme ad Assuero Vanni e ad Alberto Torricini, come rappresentante dei tessili pratesi, sigla a Firenze un accordo con la parte padronale che concede a tutti i dipendenti delle aziende tessili pratesi la somma di £ 500 a titolo di conguaglio salariale. Nel mese di settembre entra a far parte del CLN pratese e alla fine di febbraio del 1944 collabora con Bogardo Buricchi per l’organizzazione dello sciopero generale del marzo successivo nelle fabbriche cittadine. Quando i carabinieri si presentano nel lanificio dove lavora per arrestare i dipendenti che avevano scioperato e consegnarli ai nazisti per la deportazione, riesce a sfuggire alla cattura e da quel momento entra nella Resistenza armata.

Dal 1° marzo al 25 ottobre del 1944 milita nella brigata garibaldina “Gino Bozzi”, che opera sull’Appennino pistoiese-emiliano ed in Garfagnana. A lui è affidato il compito di stabilire i collegamenti della brigata con l’organizzazione comunista di Pistoia e il comando militare del CLN provinciale ed è anche il responsabile dell’approvvigionamento di generi alimentari a favore delle popolazioni delle zone liberate dai garibaldini. Infine la sua attività si estende alla ricerca di contatti con altre formazioni operanti sull’Appennino.

Nel dopoguerra è rappresentante delle maestranze tessili pratesi nella nuova Camera del Lavoro, è redattore del periodico del PCI “Il Proletario”, fa parte per un certo periodo della Commissione annonaria del Comune e sul piano politico caldeggia il patto di unità d’azione tra i partiti antifascisti, nonostante la deriva premonitrice del clima della guerra fredda della situazione politica nazionale, allo scopo di dare, come egli stesso scrisse, “un fattivo contributo all’opera grandiosa che dovrà essere compiuta per la resurrezione e il benessere della nostra città. Successivamente si allontana dal Pci imputando alla direzione del partito una serie di errori compiuti nel quadro del clima della guerra fredda e dell’offensiva padronale succeduta alla rottura dell’unità antifascista, collocandosi in un’area della sinistra critica.

 FONTI: Testimonianza raccolta da Giovanni Verni (archivio privato); Archivio di Stato di Prato, Commissariato di PS, 1923, busta 24; Archivio Istituto Storico della Resistenza in Toscana, CLN di Prato, Relazione sulla Resistenza pratese; Archivio Istituto Storico della Resistenza in Toscana, fondo Boniforti; Istituto Culturale e di Documentazione “Alessandro Lazzerini”, Prato, “Il Proletario”, LA 29 Palch. 1.01., Misc. Pratese 25; AA.VV., Aula IV. Tutti i processi del Tribunale Speciale fascista, Roma, ANPPIA, 1961; R. Daghini, Il cammino per la libertà. Podestà, Commissari, Resistenza. Liberazione e CLN nei comuni della provincia di Pistoia (1926-1946), Pistoia, Tipografia GF Press, 2013; M. Di Sabato, Dalla diffida alla pena di morte, Prato, Pentalinea, 2003; M. Di Sabato, Prato dalla guerra alla ricostruzione, Prato, Pentalinea, 2006; C. Ferri, La Valle rossa, Prato, Viridiana, 1975; A. Menicacci, Pagine della Resistenza nel Pratese, Prato, Viridiana, 1970; G. Tagliaferri, Comunista non professionale, Milano, La Pietra, 1977; F. Venuti, Ricordo di un combattente: Dino Alajeff Meoni, Prato, Pentalinea, 2017; G. Verni, La Brigata Bozzi, Milano, La Pietra, 1975; G. Verni, Pericolosi all’ordine nazionale dello Stato, Milano, La Pietra, 1980.




La deportazione politica in Toscana

Come è noto, in Toscana l’occupazione nazista ha imposto un sacrificio straordinario alle popolazioni civili a causa del perdurare di una guerra totale e devastante con eccidi e stragi che rendono la Toscana la più colpita d’Italia per numero di morti. A questo si aggiungono le vittime della deportazione, un’ulteriore modalità per terrorizzare una popolazione già allo stremo.

Nel periodo che va dal dicembre 1943 al settembre 1944 numerosi gli arresti per motivi politici e la conseguente deportazione degli arrestati nei campi di concentramento nazisti dipendenti dalle strutture delle SS (da distinguere nettamente dai campi per militari internati controllati dalla Wehrmacht o dai campi di lavoro coatto gestiti direttamente dalle aziende.) L’arresto e la deportazione dei “politici” era motivato perlopiù con la definizione Schutzhaft (arresto e detenzione dei sospetti “a protezione del popolo e dello stato”), un provvedimento messo in atto fin dal 1933 dalle autorità naziste per trasferire a scopo preventivo nei lager i propri avversari politici, dapprima i connazionali, considerati pericolosi per la sicurezza del Reich.

All’incirca 1000 i deportati politici nati o arrestati in Toscana fermati con l’allora vigente procedura d’arresto con destinazione campo di concentramento. Tale procedura fu utilizzata fin dall’inizio del 1944 dalle forze occupanti (SS e polizia tedesca in Italia), in collaborazione con le strutture repressive della RSI e riguardava le tre categorie principali dei deportati politici: partigiani veri e propri, sospetti fiancheggiatori, renitenti alla leva. Si annoverava tra questi anche chi aveva aderito a forme di resistenza civile, ad esempio ai grandi scioperi nelle aree urbane ed industriali. Per la Toscana, ma soprattutto per l’area Firenze/Prato/Empoli, prevalenti sono i casi di arresto nel corso della retata avvenuta proprio a seguito dello sciopero generale del marzo 1944. Il trasporto che partì l’8 marzo 1944 da Firenze e arrivò l’11 marzo a Mauthausen nell’Austria annessa al Reich Germanico, conteneva  338 uomini rastrellati in Toscana in seguito allo sciopero. Poche decine i sopravvissuti.

Nel contesto della crescita dell’attività resistenziale ma anche della repressione nazifascista, vanno iscritti arresti, detenzioni e deportazioni particolarmente intensi nel mese di giugno del 1944. Il trasporto partito dal campo di transito di Fossoli (MO) il 21 giugno e arrivato a Mauthausen il 24 giugno è per numero di deportati il secondo trasporto con cittadini nati e/o arrestati in Toscana, dopo quello dell’8 marzo. Molti di loro, prima di essere trasferiti a Fossoli in attesa della successiva deportazione, avevano trascorso un periodo di detenzione nel carcere delle Murate a Firenze. Diversi i nomi di noti antifascisti toscani tra i deportati del 21 giugno, come Enzo Gandi, Giulio Bandini, Marino Mari o Dino Francini. In questo trasporto troviamo anche persone legate alla vicenda dei fatti di Radio Co.Ra.: Marcello Martini, Guido Focacci, Angelo Morandi e Salvatore Messina, tutti arrestati a seguito dell’irruzione delle forze naziste in un palazzo di Piazza D’Azeglio a Firenze dove avvenivano collegamenti radio clandestini con gli alleati.

In conclusione, la deportazione politica dalla Toscana ha visto il sacrificio di antifascisti e resistenti noti e meno noti, ma gli arresti e le retate hanno avuto anche carattere indiscriminato perché non sempre si teneva conto della reale attività d’opposizione al regime dell’arrestato. Questo è particolarmente evidente nel trasporto col numero più alto di deportati dalla Toscana: quello già menzionato dell’8 marzo 1944 da Firenze. Infatti, l’intenzione delle forze d’occupazione era quella di creare, attraverso le deportazioni, un forte deterrente da possibili ulteriori azioni di lotta o resistenza civile ma contestualmente quella di trasferire in massa manodopera da ridurre in schiavitù, utile per l’economia di guerra del Terzo Reich. L’organizzazione del lavoro schiavo dei deportati è testimoniata da un numero cospicuo di fonti documentali: elenchi, schede personali, corrispondenza. Di particolare interesse le schede del sistema Hollerith-IBM.

Ad arrestare i “politici” toscani furono soprattutto italiani, cioè i militi della Guardia Nazionale Repubblicana (ca. il 90% degli arresti è da attribuire a loro); è documentata in molti casi anche la presenza dei carabinieri. Questo ci dice l’alto grado di collaborazionismo da parte delle autorità fasciste, essenziale per la riuscita stessa della deportazione.

A Dachau ma soprattutto nel complesso concentrazionario di Mauthausen con le sue decine di sottocampi, destinazione della maggior parte dei deportati politici della Toscana, si determinò un altissimo tasso di mortalità per le condizioni così estreme da non far loro superare in media più di otto mesi di sopravvivenza. In molti casi gli “inabili al lavoro”, dopo le selezioni, furono eliminati nelle camere a gas.

Questo testo è tratto dal saggio di Camilla Brunelli e Gabriella Nocentini, presente nel secondo volume de IL LIBRO DEI DEPORTATI – Deportati, deportatori, tempi, luoghi (ed. Mursia, 2010) a cura di Brunello Mantelli.

Interno Museo della Deportazione Figline di Prato




Ferdinando Targetti amministratore, antifascista, padre costituente

Nella serata di lunedì 22 marzo, con la collaborazione della Biblioteca Roncioniana di Prato e nell’ambito della Festa della Toscana, si è tenuto su piattaforma meet l’incontro “Ferdinando Targetti amministratore, antifascista e padre costituente“, dedicato al primo sindaco socialista di Prato (1912-1914). In quell’occasione Andrea Giaconi (vicepresidente del Coordinamento toscano dei Comitati per la promozione dei valori risorgimentali) ha intervistato Alessandro Affortunati (membro dell’omonimo Comitato pratese ed autore di vari contributi su Targetti, di cui ha redatto anche la voce relativa del Dizionario biografico degli italiani). L’intervista ha inteso ripercorrere i passi salienti della vita e dell’opera del politico socialista. Ne proponiamo il testo ai lettori di ToscanaNovecento.

Targetti proviene da una famiglia dell’alto ceto industriale pratese. Però aderì giovanissimo al Partito socialista. È possibile spiegare questa scelta ed in che misura essa può essere considerata anche più coerente di tante altre?

Sì, suo padre, Lodovico, era un grosso industriale laniero, uno dei fratelli, Raimondo, sarà sindaco liberale di Prato all’epoca del regicidio e, fra il 1922 ed il 1923, presidente della Confindustria. Ferdinando, invece, mostrò subito di non condividere i valori tipici dell’alta borghesia e si iscrisse al Partito socialista nel 1899, a diciotto anni, subito dopo i fatti di Milano. È probabile che le cannonate di Bava Beccaris non fossero estranee alla sua maturazione politica, ma le ragioni precise della sua scelta non si conoscono.

Forse, come talora accade, giocarono un ruolo anche fattori psicologici (il sottoscritto, ad esempio, si è orientato precocemente a sinistra anche perché, da bambino, il nonno paterno gli aveva raccontato della “domenica di sangue” di San Pietroburgo, nel 1905, delle povera gente presa a fucilate dalla truppa).

Certo è che Targetti fu davvero coerente con la  decisione presa: ne è prova il fatto che cedette la sua quota in ditta al fratello Gino, vivendo solo con i proventi della  professione di avvocato.

Targetti fu il primo sindaco socialista di Prato nel 1912, in un clima che, a livello di storia amministrativa era fatto (ce lo insegna Guido Melis) di revisione dei conti degli enti locali, di storno dei contributi per le spese degli organi centrali, di accantonamento delle opere di beneficenza e di delega alle associazioni di volontariato. In tal contesto, quali furono i suoi principali provvedimenti?

Targetti seguì un principio molto chiaro: ciò che gli premeva – ebbe a dire – era difendere gli interessi delle classi più deboli, nella convinzione che ciò equivalesse a fare del socialismo. Alla luce di questo principio-guida, la sua giunta fornì un ottimo esempio di amministrazione rossa.

Fra i provvedimenti varati, sono da ricordare almeno l’apertura di uno spaccio comunale, dove si vendeva il pane a prezzo calmierato, l’istituzione di un ufficio che, tra l’altro, esercitava anche funzioni di sorveglianza sui prezzi dei generi di prima necessità e l’approvazione di un progetto per la costruzione di blocchi di case popolari.

L’amministrazione Targetti termina alle soglie della prima guerra mondiale. Nel 1919 Targetti è eletto alla Camera dei deputati e nel 1920 diviene assessore nel Comune di cui era stato sindaco. Sono però anni in cui la violenza politica di matrice fascista sconvolge la quotidianità della vita civile (basti ricordare che nella sola Toscana sono concentrati un quinto di tutti gli atti di brutalità squadrista prima della Marcia: l’omicidio Lavagnini, i fatti di Roccastrada, la spedizione su Prato e Vaiano) Come reagì Targetti a questi tristi eventi?

Targetti fu risolutamente antifascista e non si fece intimorire dalle minacce: basti pensare che nel 1922 rifiutò di dare le dimissioni dalla carica di assessore nella giunta socialista presieduta da Giocondo Papi.

I fascisti lo odiavano e nel 1925 scampò alla “notte di San Bartolomeo” fiorentina (3-4 ottobre 1925) solo perché fuori città: non avendolo trovato in casa, gli squadristi spararono ai suoi vestiti appesi nell’armadio, in segno di macabra rappresaglia.

Trasferitosi a Milano si impegnò nell’attività clandestina entrando a far parte del Gruppo Erba, che era in contatto col Centro socialista interno. Difese inoltre numerosi antifascisti e, nel processo contro gli assassini di Matteotti, rappresentò la famiglia come avvocato di parte civile.

Dopo l’8 settembre, dovette riparare in Svizzera, dove raccolse fondi a sostegno dell’opposizione in Italia, tenne conferenze e collaborò a varie testate antifasciste (la Libera stampa, del Partito socialista ticinese, e la Voce socialista, giornale clandestino dei socialisti italiani nella Confederazione).

Targetti appartenne ad un partito, quello socialista, che qualche storico ha definito “inquieto”, soggetto ad una dialettica aspra e profonda sino alle vicendevoli fratture. Lo stesso Targetti attraversò durante la sua carriera politica le esperienze del PSU e dello PSIUP. Esperienze che visse come conseguenza di momenti drammatici per il socialismo. La prima si colloca nel periodo della salita al potere del fascismo. Quale fu la sua posizione all’interno del PSU?

Targetti si schierò subito a fianco di Matteotti, sostenendo la necessità della più recisa opposizione al fascismo, mentre un gruppo che faceva capo ai leader confederali riteneva possibile una “costituzionalizzazione” del fascismo stesso ed era quindi disposto ad una qualche forma di collaborazione col regime. Targetti, invece, non si fece mai nessuna illusione al riguardo.

Prima di passare al ruolo svolto nello PSIUP, è bene ricordare che Targetti fu anche un membro importante dell’Assemblea costituente e, per lungo tempo, vicepresidente della Camera dei deputati. Quali furono i suoi interventi più importanti alla Costituente?

In estrema sintesi, si può dire che Targetti sostenne la necessità di una costituzione “breve” (che fissasse cioè solo alcuni principi generali da attuarsi poi con leggi ordinarie), fu a favore delle regioni (memore dei guasti prodotti dal centralismo in Italia) e di una larga indipendenza del potere giudiziario dagli altri poteri dello stato.

Voglio poi ricordare che nel 1953 si dimise clamorosamente dalla carica di vicepresidente della Camera in segno di protesta contro la “legge truffa”, che violava il principio costituzionale dell’uguaglianza del voto, attribuendo di fatto un “peso” maggiore ai voti degli elettori delle liste apparentate.

Infine, perché decise di entrare nello PSIUP? E qual è la sua eredità come socialista?

Negli anni della seconda guerra mondiale Targetti aveva maturato il convincimento che la borghesia era pronta a tutto pur di non rinunciare ai suoi privilegi e che l’unità proletaria, cioè la più stretta unità d’azione fra socialisti e comunisti, fosse la condizione indispensabile per la difesa della democrazia, degli interessi dei lavoratori e per la realizzazione di riforme di struttura che facessero avanzare il Paese verso il socialismo.

L’alleanza del PSI con la DC, che comportava ovviamente la divisione a sinistra, la rottura con i comunisti, gli parve quindi inaccettabile, gli sembrò un passo che avrebbe finito con lo snaturare il PSI, riducendolo al ruolo di caudatario della DC al pari degli altri partiti di centro. Le ragioni della sua opposizione all’ingresso dei socialisti in un governo di centrosinistra organico e, quindi, della sua adesione allo PSIUP nel 1964 furono queste.

Quanto all’ultima parte della tua domanda, direi che la risposta ce la fornisce la biografia di Targetti stesso, cioè la biografia di uomo che ha lottato contro la dittatura, difendendo sempre la democrazia e gli interessi dei lavoratori nel segno di un socialismo non edulcorato.




Gaetano Bresci

La sera del 29 luglio 1900, a Monza, il re d’Italia Umberto I si allontanava, a bordo di una carrozza scoperta, dalla palestra della società ginnica “Forti e liberi”, dove aveva premiato alcuni atleti. Ad un tratto, gli si avvicinò un giovane il quale, armato di una rivoltella, lo colpì a morte. Il giovane attentatore fu subito arrestato e identificato. Il suo nome era Gaetano Bresci, 31 anni, anarchico di Prato, della frazione di Coiano, di professione tessitore. Tornato da Paterson, negli Stati Uniti, dove era emigrato nel 1897, il Bresci aveva compiuto il gesto a seguito dei fatti del maggio 1898, quando il generale Bava Beccaris aprì il fuoco dei cannoni sulla folla che protestava per il rincaro del prezzo del pane, provocando 80 morti e 450 feriti e il monarca aveva premiato l’autore con la Gran Croce dell’ordine di Savoia, cercando di instaurare lo stato militare attraverso il governo del generale Luigi Pelloux. Era una cosa che l’anarchico pratese aveva ribadito più volte durante gli interrogatori: egli intese il gesto estremo per rendere giustizia alle vittime della strage di Milano e per opporsi a possibili regimi autoritari. Se il gesto in sé poteva dirsi esecrabile, rimaneva indubbio l’intento in funzione democratica che il suo autore aveva in mente. In quest’ottica, il Comune di Prato intese intitolare al Bresci una strada il 1 luglio 1976.

Il punto d’interesse diviene allora l’inquadramento della figura del tessitore anarchico, di quale fosse il suo contesto di formazione politico-sociale, delle inevitabili ricadute che su di esso vi furono dopo la morte del monarca, sull’inversa influenza che l’eco e il mito del Bresci hanno profuso negli ambienti libertari e cittadini (del suo paese natale) ed attraverso epoche e scuole politiche tra loro diverse. Gaetano Carlo Salvatore Bresci era nato a Prato il 10 novembre 1869 da Gaspare e da Maddalena Godi. Tessitore, come tanti cittadini della città del telaio, Bresci aveva passato una gioventù di lavoro tra spole ed orditi, al Fabbricone, la più grande industria tessile pratese e, successivamente, in imprese più piccole, lungo tutto un peregrinare tra Firenze, Compiobbi e Ponte all’Agna. Era in questo misto di laboriosità operaia e continui spostamenti che Bresci aveva visto la povertà delle campagne e maturò una l’insofferenza per l’ingiustizia contro gl’indifesi.

Ma l’esperienza personale si intrecciava ad una tradizione democratica e libertaria che a Prato aveva un senso comune di emancipazione popolare sin dai primi anni postunitari. Già da allora, i locali patrioti risorgimentali, guidati da Piero Cironi e, ben più a lungo, da Giuseppe Mazzoni erano i stati i padri fondatori di Società Popolari i cui statuti rovesciavano il rapporto mazziniano tra unità e libertà, facendo della prima un epifenomeno della seconda. La democrazia ebbe un suo primo punto di tangenza con l’anarchismo quando lo stesso Mazzoni conobbe personalmente Bakunin e ne divenne, per breve tempo, uno dei suoi principali referenti politici in Toscana. La stagione di contatto tra anarchia e democrazia laica fu di breve durata, si consumò tra la seconda metà degli anni Sessanta  e il 1871 e non corrispose ad un’evoluzione in senso libertario della sociabilità mazzoniana. Nondimeno l’avvicinamento tra le due sfere d’interesse dovette gettare i suoi semi. Meno di due anni dopo una prima sezione dell’Internazionale anarchica sorse anche a Prato. Sciolta dopo il tentativo insurrezionale organizzato dagli anarchici nel 1874, che dall’Emilia avrebbe dovuto irradiarsi a tutta la Penisola, si ricostituì alla fine del 1876. Insomma, il primo movimento anarchico pratese andò incontro ad una ridda di costituzioni e successivi scioglimenti di sezione che non ebbe soluzione di continuità sino almeno al 1892, quando, tramontata anche la quadriennale esperienza (1885-1889) del Nucleo Socialista Anarchico Amilcare Cipriani, fu il controverso personaggio di Giovanni Domanico a dare uno spessore più consistente al nucleo libertario cittadino. Era questo un gruppo che  rispecchiava la vocazione industriale di Prato non tralasciando gli antichi mestieri della città. In una lista stilata dalle autorità prefettizie di quegli anni, figuravano quaranta individui ritenuti anarchici attivi a Prato. Di essi, quasi la metà era impiegata nel settore tessile. La compenetrazione tra l’industria pratese e gli ambienti anarchici era quantomeno palpabile.

Fu in questo periodo e a tale ambiente che Bresci andò formando la propria personalità politica. Non a caso, il 2 ottobre 1892 si verificò un episodio che ebbe come protagonista il ventitreenne Gaetano Bresci, denunciato insieme ad altre quattro persone per aver preso le difese del garzone di un macellaio e condannato dal pretore a quindici giorni di reclusione. L’episodio è interessante perché dimostra che all’epoca – e quindi ben prima di emigrare negli Stati Uniti e di frequentare l’ambiente di Paterson – Bresci aveva già fatto proprie le idee anarchiche e conosceva esponenti del movimento libertario assai noti a livello cittadino: degli altri quattro imputati, infatti, tre (Artamante Beccani, Antonio Fiorelli ed Augusto Nardini) erano anarchici. Fu dunque il Bresci ad arricchire con le proprie idee il movimento negli Stati Uniti e non (o quanto meno non solo) l’anarchismo di Paterson a formare le idee di Bresci.

Stabilita la formazione di Bresci, è necessario comprendere le conseguenze avute dal suo gesto. Nel periodo che seguì il regicidio gli anarchici pratesi furono ovviamente esposti ad un intensificarsi della vigilanza e della repressione. Bresci morì (presumibilmente ucciso) nel carcere di Santo Stefano sulle isole Pontine, il 22 maggio 1901. Subito dopo l’attentato, a Prato furono operati diversi arresti, ma non per questo i libertari interruppero la loro attività, impegnandosi a fondo, negli anni successivi, nella campagna contro il domicilio coatto, nell’agitazione pro Acciarito e nei moti pro Ferrer. Più concretamente, come dimostrato in recenti pubblicazioni, il gesto di Bresci fu l’atto più eclatante dell’anarchismo pratese che, seppur presente fino almeno alla Liberazione, andò incontro ad una lenta ma costante discesa tanto da far affermare ad Anchise Ciulli, uno dei suoi più importanti esponenti, nel 1946 : « oggi questa città segue pochissimo le orme del suo grande figlio Gaetano». Molto più duraturo fu il mito di Bresci e la fascinazione avuta da più sponde.  Ed ancora nel secondo dopoguerra poteva essere letto non solo di celebrazioni anarchiche che accostavano Bresci a Malatesta e Pietro Gori, alla Comune di Parigi e alla Guerra di Spagna, ma anche di alcuni timori prefettizi per manifestazioni in ricordo all’attentatore pratese. Di forte impatto e grande eco fu l’iniziativa che nel 1986 vide erigere a Carrara un monumento dedicato a Gaetano Bresci. Iniziative in ricordo del tessitore anarchico, per quanto in maniera sempre più episodica e onomastica, si sono svolte anche a Prato. A tal proposito è per lo meno da segnalare il ritrovo che portò nuclei anarchici a ricordare Bresci nella via a lui intitolata e a segnalare secondo quanto riportato da un volantino di allora che «Bresci rivive […] in ogni azione di chi si oppone all’arroganza e alla violenza del potere». Ed è in quest’ottica che la figura di Gaetano Bresci va ancora oggi intesa: uno sguardo che dia conto tanto allo studioso esperto quanto al curioso appassionato sia dei numerosi spunti e temi dei quali il mito dell’“anarchico venuto dall’America” è divenuto parte integrante sia della tensione sociale alla quale la sua figura sia stata soggetta con il passare il tempo.

 




Una commedia di Giocondo Papi

Giocondo Papi – sindaco socialista di Prato dal 1920 al 1922, quando l’amministrazione liberamente eletta venne defenestrata dai fascisti – si dilettava a scrivere poesie. Nel 1930, per i tipi delle Arti grafiche Nutini, diede alle stampe una commedia in tre atti intitolata Mia moglie…non è mia moglie?

La commedia, imperniata sulla straordinaria somiglianza fra le due protagoniste, narra una storia di infedeltà coniugale e, tenuto conto dell’epoca in cui è stata scritta, non è priva di una certa audacia. È stato osservato che la trama presenta evidenti punti di contatto con Come tu mi vuoi di Luigi Pirandello, rappresentata per la prima volta a Milano proprio nel 1930. L’ambientazione ed alcune situazioni da vaudeville rendono il tono del lavoro di Papi leggero e frivolo: la sua atmosfera è dunque ben diversa da quella della commedia pirandelliana, anche se l’opera è attraversata da una vaga inquietudine, causata dalla consapevolezza dell’impossibilità di conoscere realmente perfino i propri familiari.

La commedia non ha particolari pregi artistici, ma merita di essere ricordata come una testimonianza degli interessi che Papi coltivava, da autodidatta, in campo letterario: la famiglia degli scrittori pratesi si allarga così per far posto ad un nuovo, inaspettato, componente.

Ecco un breve riassunto dell’opera.

Tina, moglie di Mario Bruni, attende con ansia l’amante Giulio Biondi. Costui entra in scena cantando una canzone, musicata dal maestro Giovanni Castagnoli, che è stata definita dal maestro Roberto Becheri, docente di composizione al Conservatorio di Ferrara, “una serenata che scorre leggera su una fresca melodia da café-chantant”. La moglie di Giulio, Nella, è fuggita tempo addietro, colta da improvvisa pazzia, senza più dare notizie di sé.  Mentre i due amanti stanno parlando rientra in casa il marito di Tina, e Giulio è costretto a nascondersi in cucina, naturalmente dentro un armadio. Sorpresa ed irritata a causa dell’improvviso arrivo del marito, Tina si difende attaccando e sostiene che Mario la tradisce. Al culmine della finta scenata di gelosia è però colta da malore. Mario chiede allora aiuto ai vicini. Un’ inquilina gli suggerisce di andare in cucina a prendere un po’ di aceto per spruzzarlo sul viso di Tina e, nonostante la moglie cerchi di trattenerlo, Mario va in cucina, causando la fuga di Giulio che riesce ad infilare la porta di uscita. Compresa facilmente la situazione, Mario accusa Tina di avere un amante. La moglie reagisce scappando ed i vicini la prendono per pazza. Dopo aver trascorso un anno di degenza in una clinica per malattie mentali, Tina viene ricondotta a casa per un confronto col marito. Giulio, però, giocando sulla straordinaria somiglianza fra le due donne, sostiene che Tina è sua moglie Nella. Tina arriva, accompagnata da due medici, e finge di non riconoscere né la casa né lo sposo. In esecuzione di un  piano preordinato, si presenta anche Giulio, che Tina si precipita ad abbracciare come se fosse suo marito. I medici decidono allora che, per giudicare con coscienza, sono necessarie delle prove inconfutabili, e chiedono a Mario di indicare qualche segno particolare visto nell’intimità sul corpo della moglie. Mario non riesce però a ricordare nulla, mentre Giulio indica ben tre nei: uno sotto la nuca, uno sotto l’ombelico ed un altro più sotto ancora: Tina si spoglia, mostra i nei ai medici e se ne va con Giulio che sembra così aver avuto partita vinta. Subito dopo, però, entrano due vicine con un giornale contenente la notizia che una ricca signora ha lasciato il suo patrimonio ad una bella smemorata sconosciuta, ricoverata in una casa di salute a Bologna. La donna della foto che accompagna l’articolo somiglia in modo impressionante alla moglie di Mario che, insieme con i medici e con le due vicine, si reca dunque a Bologna per un nuovo confronto. La donna che Mario vede a Bologna è in realtà la moglie di Giulio, Nella, ma egli crede sinceramente di riconoscere in lei Tina e la porta a casa con sé. Si presenta però Giulio che rivela la verità a Mario, facendolo esclamare: “Perdio!…Come?…Mia moglie non è mia moglie?” Giulio insiste. Il campanello suona ed entra anche Tina che implora Mario di perdonarla. Mario però, a questo punto, non vuol saperne più nulla di lei, la respinge e va a vivere felice con Nella.

La parte di Tina e quella di Nella dovevano essere sostenute dalla stessa attrice. Una curiosità: in calce al testo della commedia figura un’errata corrige, dove fra l’altro si specifica che alla quarta riga di pagina 36, dove si dice, “sua moglie”, si deve leggere invece “vostra moglie”. L’errata corrige è del 1930. Otto anni dopo, con un foglio di disposizioni del segretario del PNF Achille Starace  il regime avrebbe imposto la sostituzione del “lei” con il “voi”. Preveggenza?

Articolo pubblicato nel marzo del 2020.




Alberto Torricini

Alberto Amilcare Torricini nacque a Prato il 9 marzo 1906. Di professione impiegato, poi rappresentante di commercio, aderì giovanissimo al Partito Comunista (quasi tutte le notizie su di lui, contenute in questo articolo, sono desunte dal fascicolo del Casellario politico centrale che lo riguarda).

Nella primavera del 1932 Torricini, che non aveva all’epoca alcun precedente, fu colpito da mandato di cattura in quanto membro di un’organizzazione comunista clandestina attiva a Prato. Rifugiatosi a Lione, il 30 giugno 1932 fu denunciato in stato di latitanza al Tribunale speciale per la difesa dello stato. Venne inoltre iscritto nel Bollettino delle ricerche e nella Rubrica di frontiera per il provvedimento di arresto.

In seguito, per incarico del PCI e sotto falso nome, si stabilì a Milano, dove continuò l’attività antifascista.

Il 22 maggio 1936 fu arrestato e denunciato nuovamente al Tribunale speciale dall’ispettore generale di PS Francesco Nudi. Torricini, si legge nella denuncia, “Sottoposto a ripetuti interrogatori […] ha ammesso […] la sua qualifica di emissario comunista, precisando di essere stato incaricato nel marzo 1936 dai dirigenti del partito comunista all’estero di venire nel Regno […] per […] diffondere la stampa. Ha dichiarato però di non voler fare alcuna rivelazione”. Dalle dichiarazioni di altri arrestati, risultò però che Torricini li aveva incaricati di spedire giornali e materiale di propaganda.

Sulla base di queste accuse, Torricini venne condannato, con sentenza emessa l’11 dicembre 1936 a ben 21 anni di reclusione (che iniziò a scontare a Fossano, Civitavecchia e Sulmona). Autodidatta avido di letture, egli chiese, durante gli anni trascorsi in carcere, di essere autorizzato ad acquistare numerosi libri: è interessante osservare che fra questi figurava anche La democrazia in America, di Alexis de Tocqueville, che il Ministero della cultura popolare (Direzione generale per il servizio della stampa italiana) giudicò, naturalmente, inadatto ad un condannato politico. Liberato nell’agosto 1943 per un “atto di Sovrana clemenza”. Torricini fece ritorno a Prato. Attivo nelle file della Resistenza, fu l’artefice della riorganizzazione dei sindacati e, dopo la liberazione, venne scelto dal CLN come segretario della ricostituita Camera del lavoro.

Negli anni successivi – stabilitosi in una casa di via Machiavelli, dove è stata poi collocata una lapide che lo ricorda – egli continuò l’attività politica, coprendo numerosi incarichi: consigliere comunale per il PCI fino al 1970, fu anche dirigente dell’ANPPIA e consigliere della Croce d’oro.

Morì a Prato il 10 dicembre 1981.

Articolo pubblicato nel marzo del 2020.




Il movimento anarchico pratese nel secondo dopoguerra

Nel secondo dopoguerra la massiccia adesione degli operai pratesi al Partito comunista ridusse praticamente a zero lo spazio politico occupato dagli anarchici. Morto nel 1957 Anchise Ciulli – una delle figure “storiche” del movimento libertario locale, che non aveva mai cessato del tutto l’attività politica e sindacale – l’anarchismo  attraversò in città un periodo di crisi, per rianimarsi sull’onda del Sessantotto e conoscere poi una nuova fase di riflusso insieme con tutti i gruppi della sinistra rivoluzionaria. Su questi temi abbiamo realizzato un’intervista con Federico Sarti, attivo nel movimento anarchico pratese negli anni Settanta. Ne proponiamo il testo ai lettori di ToscanaNovecento.

  

Nel secondo dopoguerra il movimento anarchico attraversò in Italia una fase di crisi che durò almeno fino al Sessantotto. Ciò vale anche per Prato?

Sì, sicuramente. Senza il Sessantotto con tutti i suoi fermenti, con la sua carica contestataria e, in fondo, libertaria, non ci sarebbe stata, neanche qui, una ripresa del movimento.

Che cosa puoi dirci a proposito di tale ripresa?

So che verso la fine degli anni Sessanta si costituì in città un gruppo anarchico che portava il nome di Gaetano Bresci. Io non ne ho fatto parte e non posso dire nulla di preciso sulla sua attività, ma il gruppo è esistito con certezza, tanto è vero che ne conoscevo all’epoca tre componenti.

E poi? In città si formarono altri gruppi?

Sì. Successivamente, nell’inverno del 1975, dall’incontro di alcune persone che si dichiaravano anarchiche, nacque un secondo gruppo a cui sono appartenuto anch’io (detto per inciso, io mi sono avvicinato all’anarchismo partendo da posizioni marxiste-leniniste). Questo gruppo, che non ebbe mai un nome, arrivò a contare una dozzina di membri, studenti ed operai, tutti intorno ai vent’anni (e anche meno). Molto rilevante era la presenza femminile: tra i componenti del gruppo figuravano infatti ben sei compagne. Il nucleo – che era vicino alle posizioni della Federazione comunista anarchica (FCA) ed esplicava la sua attività solo sul piano teorico – ebbe contatti con i compagni di Firenze (Crescita politica), Pistoia, Arezzo ed altre città toscane e decise di sciogliersi in seguito ad una consultazione interna perché la maggioranza (solo io votai contro lo scioglimento) riteneva che non ci fosse la possibilità di un inserimento proficuo nel tessuto sociale cittadino. Questo accadde nella prima metà del 1977, ma poco dopo in città si formò un terzo gruppo.

scansione0004Ce ne vuoi parlare?

La riunione costitutiva di questo nuovo gruppo, che assunse il nome di Coordinamento lavoratori comunisti anarchici, si svolse il 23 giugno 1977. Gli aderenti erano in tutto una dozzina, fra cui due donne. Nel corso della riunione costitutiva fu deciso di articolare l’organizzazione in tre gruppi di studio: uno sul decentramento produttivo (formato da tre persone), uno su ambiente e lavoro ( quattro persone) ed uno che si occupava di equo canone (quattro persone). Nell’occasione fu deciso di tenere un’assemblea di gruppo nei giorni di lunedì, mercoledì e venerdì e un’assemblea generale il martedì. I membri dovevano versare una quota mensile di cinquemila lire. Il gruppo disponeva anche di un cassiere per redigere i bilanci trimestrali.

Il Coordinamento fu particolarmente attivo sul fronte della lotta contro il nucleare ed ebbe quindi il merito di sollevare in ambito cittadino dei problemi che solo in seguito sarebbero stati ripresi da altre organizzazioni. Nel dicembre del 1977, nei locali del circolo culturale Il Ponte (che si trovava al di là del Ponte Mercatale, in via Matteotti 7) si tenne un convegno antinucleare regionale. Nel corso del convegno si costituì un comitato antinucleare locale ed in città venne diffuso un volantino che metteva in guardia contro i rischi legati alla costruzione delle centrali atomiche.

Il gruppo produsse anche un bollettino ciclostilato (che non sono purtroppo riuscito a rintracciare). Il bollettino venne distribuito in occasione del 1° maggio 1978: le copie erano in vendita ad offerta libera e rammento che vennero vendute tutte per un ricavato complessivo di ventiduemila lire.

Va poi detto che il Coordinamento stilò un volantino, molto critico nei confronti dei partiti della sinistra tradizionale: noi eravamo infatti convinti che, tramite la propaganda (dibattiti, filmati, mostre e così via), esistesse la possibilità di spostare su posizioni radicali i lavoratori che seguivano tali partiti, facendo maturare in loro una coscienza rivoluzionaria e rendendoli capaci di gestire da soli le loro lotte.

Il gruppo cessò l’attività verso la fine del 1978, ma continuò la campagna antinucleare per tutto l’anno successivo.

In quegli anni vi furono due appuntamenti elettorali molto importanti: le elezioni regionali del 15 giugno 1975 e quelle nazionali del 20 giugno 1976. Come vi comportaste in quelle occasioni?

La maggioranza di noi, coerentemente con i principi anarchici, era astensionista e quindi non si recò alle urne.

In voi c’era coscienza dell’esistenza di una tradizione anarchica a Prato oppure l’unico nome noto era quello di Gaetano Bresci?

No, almeno io non sapevo nulla dell’esistenza di una tradizione anarchica in città. L’unico nome conosciuto era quello di Bresci.

Quali furono le cause del riflusso successivo?

Furono le stesse che portarono prima alla crisi e poi all’esaurirsi dell’esperienza della sinistra rivoluzionaria.

 

Sai niente a proposito dell’approdo politico dei militanti anarchici di allora?

No, non lo so perché non ho mantenuto rapporti con la maggior parte di loro, e dei pochissimi che ancora vedo non conosco l’attuale tendenza politica.

 

Qual è oggi la situazione a Prato? Non vi è più nemmeno una parvenza di organizzazione? Vi sono solo degli elementi isolati e l’anarchismo è ridotto a pura testimonianza?

Sì, a Prato l’anarchismo è ridotto a pura testimonianza. Gruppi organizzati, che io sappia, non ce ne sono. Gli abbonati a Umanità nova  sono tre in tutto, me compreso (lo so perché il giornale pubblica l’elenco degli abbonati). Ad una manifestazione ho visto un compagno con una bandiera anarchica, ma non l’ho avvicinato e non so neppure chi sia…

 

Intervista a cura di Alessandro Affortunati.

Articolo pubblicato nel dicembre del 2019.