UNA COSPIRAZIONE IN MARE APERTO.

Fra le diverse ricorrenze dell’Undici settembre (Strage nel carcere di Attica, 1971; Golpe in Cile, 1973; Attacco alle Twin Towers, 2001), ve ne è una che appartiene alla storia dell’antifascismo in Italia, ossia l’attentato politico compiuto da Gino Lucetti contro Benito Mussolini, appunto l’11 settembre 1926. «Della serie di attentati che punteggiarono la soppressione delle libertà italiane – come sottolineò lo storico “azionista” Aldo Garosci – esso fu quello in cui si espresse la più lucida e chiara volontà politica».

Il mancato tirannicida, una volta catturato, davanti agli inquirenti si era proclamato «anarchico individualista», onde evitare conseguenze per altri; ma, in contrasto con l’interpretazione in chiave solipsistica del suo gesto, risulta ormai appurata l’esistenza di una rete cospirativa con condivise finalità che vedeva il coinvolgimento, a diversi livelli, di anarchici di differente tendenza, ex-arditi del popolo e antifascisti “d’azione”. Meno conosciuta ed indagata rimane invece la decisiva riunione tenutasi segretamente un anno prima dell’attentato a Livorno dove, come le autorità non ignoravano, erano attivi imbarchi e collegamenti clandestini.

Infatti, secondo la testimonianza dell’anarchico carrarino – poi comandante partigiano – Ugo Mazzucchelli (1903-1997), avvalorata dallo storico Gino Cerrito, nell’estate del 1925 a Livorno vi era stata una riunione clandestina, a bordo di un barcone in mare aperto, a cui presero parte, oltre a Lucetti e a Mazzucchelli, gli anarchici livornesi Augusto Consani e Virgilio Recchi, già organizzatori del Battaglione degli Arditi del popolo, nonchè due minatori anarchici di San Giovanni Valdarno e qualche altro militante non identificato[1]. Lucetti era infatti rientrato clandestinamente da Marsiglia, dove era espatriato alla fine del 1922 intessendo rapporti con gli ambienti più risoluti del “fuoriuscitismo” antifascista. Da quanto si può dedurre e come confermato dal militante anarchico Piero Di Pietro, in questa riunione, preceduta da altri incontri nel carrarese, era stato deciso e delineato un piano operativo per l’eliminazione fisica di Mussolini, oltre a concertare conseguenti sollevazioni contro il regime. Infatti, dopo la mancata insurrezione a seguito del delitto Matteotti e il fallimento della politica aventiniana, «ogni transazione [era] divenuta impossibile».
Lucetti, anarchico d’azione, era eticamente determinato ad attentare alla vita del duce sin dal dicembre 1922, a seguito della strage operaia di Torino, e già nel gennaio-febbraio 1923 si era recato a Roma per verificarne l’attuazione- Il progetto dovette però essere rinviato in quanto Lucetti rimase coinvolto e ferito in una sparatoria con i fascisti ad Avenza, presso il caffè Napoleone in piazza Rivellino, avvenuta nella notte fra il 25 e il 26 settembre 1925. Ricercato dai fascisti e dalla polizia, dovette quindi nascondersi e l’11 ottobre imbarcarsi come “clandestino” su un naviglio per il trasporto di marmo diretto a Marsiglia[2].

L’ANARCHICO ARDITO

Gino Lucetti era nato ad Avenza, frazione del comune di Carrara (MS), il 31 agosto 1900, da Filippo e Adele Crudeli[3]. Dopo aver studiato sino alla VI classe elementare, aveva iniziato a lavorare in cava, divenendo un lizzatore, ossia addetto al faticoso e pericoloso spostamento dei blocchi di marmo. In gioventù era stato vicino agli ideali repubblicani, peraltro non in contraddizione con quelli libertari[4].
Secondo quanto si può dedurre dal confuso Foglio matricolare n. 17822, il 24 marzo 1918 era stato chiamato sotto le armi e, al 2 luglio seguente, risultava «giunto in territorio dichiarato in stato di guerra» ed assegnato come autiere al 2° Reparto d’Assalto di Marcia che, alla vigilia della battaglia finale di Vittorio Veneto, si trovava dislocato nel trevigiano, fra Pederobba e Palazzon. Probabilmente non aveva preso parte a combattimenti, ma dopo l’attentato a Mussolini, la circostanza d’aver comunque fatto parte degli Arditi venne omessa nelle cronache, eccetto che in un articolo sfuggito alla censura, pubblicato su «La Nazione» del 14 settembre 1926, mentre su altri giornali, come la «Gazzetta livornese» del 13 settembre, fu indicato quale ex artigliere[5].
Dopo essere stato posto in congedo provvisorio il 28 febbraio 1919, il 1° dicembre 1919 venne richiamato in servizio presso diversi reggimenti di fanteria (90°, 65°, 25°), venendo impiegato anche nella bonifica dei residuati bellici. Ancora in grigioverde, nel 1921 per un’assenza di quattro giorni fu denunciato per diserzione e per aver sottratto «oggetti d’armamento» (un fucile 91 con relativa baionetta), venendo però assolto, condonato e finalmente congedato nel novembre 1921.
Tornato ad Avenza, alla fine del 1922 decideva di lasciare illegalmente l’Italia a seguito di scontri avuti con fascisti nella zona di Carrara; aiutato dal fratello Andrea, s’imbarcava su un navicello carico di marmo, approdando a Nizza e poi a Marsiglia dove gli fu sempre possibile trovare lavoro come scalpellino presso laboratori del marmo gestiti da italiani di simpatie libertarie o antifasciste.
In Francia era entrato in relazione con esponenti di primo piano dell’anarchismo, dall’antiorganizzatore Paolo Schicchi al federalista Camillo Berneri, e nel 1924, aveva aderito alle Legioni garibaldine della Libertà che, velleitariamente, avrebbero dovuto penetrare in Italia e rovesciare con le armi il regime mussoliniano.
Nello stesso anno risultava essere abbonato alla rivista anarchica «Pensiero e volontà», di cui erano promotori Errico Malatesta e Luigi Fabbri, collaborando saltuariamente al settimanale «Fede!», diretto da Luigi Damiani; due testate non riconducibili all’anarchismo di tendenza individualista.
Dopo l’infausto epilogo garibaldino, apparve evidente che, contro il totalitarismo fascista, altre strade andavano percorse e, superando le diverse impostazioni teoriche, gli anarchici raggiunsero una sostanziale unità d’azione.
Lucetti, come si è visto, sarebbe rientrato in Italia nell’estate del 1925 per uccidere il duce, nella prospettiva d’innescare sommosse, scioperi e attentati; ma in ottobre dovette precipitosamente ripartire alla volta della Francia.
Ritornato furtivamente in Versilia alla fine del maggio 1926, su un barcone da Marsiglia al porto di Marina di Carrara (secondo diversa fonte, nascosto in un vagone merci al confine di Ventimiglia), s’entrò nella fase operativa del piano: in giugno, Lucetti soggiornò almeno una settimana a Roma, ospite di Caterina Diordi, cercandovi anche un lavoro come scalpellino, e forse ancora un giorno o due a metà luglio.
Fra una “trasferta” e l’altra, trovò ospitalità presso compagni compiacenti a Montignoso e soprattutto a Viareggio, con qualche fugace visita familiare ad Avenza.
Con ogni probabilità in questo periodo, furono reperite le armi, una pistola automatica Browning procuratagli dal repubblicano romano Vincenzo Baldazzi (1898-1982), detto “Cencio”, già dirigente nazionale degli Arditi del popolo, e due bombe a mano SIPE, a frammentazione, che l’anarchico avenzino Gino Bibbi (1899-1999), suo cugino, aveva recuperato a Trieste dall’anarchico Umberto Tommasini (1896-1980), così come confermato da entrambi. Dell’attentato in preparazione appare accertato che furono messi al corrente o vi ebbero una qualche parte gli anarchici Malatesta, peraltro in stretti rapporti sia politici che amicali col Baldazzi, Temistocle Monticelli e Luigi Damiani, esponenti di primo piano dell’Unione anarchica italiana già costretta all’attività clandestina[6].

L’ATTENTATO SENZA FORTUNA

Dopo l’attentato, sia sulla stampa che nell’inchiesta giudiziaria, venne dato molto risalto ai collegamenti dell’anarchico con «le centrali dell’antifascismo» in Francia e lo stesso Mussolini additò «certe tolleranze colpevoli e inaudite di oltre frontiera», ma in realtà Lucetti si era mosso in modo autonomo, facendo piuttosto affidamento sui compagni in Italia. Infatti, ai compagni di Marsiglia tenne nascosto l’imminente partenza per l’Italia e chiese i soldi necessari per il viaggio ad un’ignara compaesana. Considerato che il “fuoriuscitismo” era pesantemente infiltrato dalla polizia politica fascista, tale scelta gli permise di muoversi con relativa sicurezza, cogliendo di sorpresa l’apparato poliziesco, tanto che in conseguenza dell’attentato, Mussolini dimissionò il capo della polizia Crispo Moncada, sostituito dal “superpoliziotto” Arturo Bocchini.
Giunto a Roma, il 2 settembre 1926, Lucetti trovò alloggio, sotto falso nome, presso l’albergo “Trento e Trieste”, grazie all’amico e compagno Leandro Sorio che vi lavorava come cameriere, e la mattina dell’11 settembre 1926 entrò in azione nei pressi del piazzale di Porta Pia, eludendo la vigilanza di una cinquantina di agenti in divisa e in borghese dislocati lungo il percorso “presidenziale”.
Al passaggio dell’auto, una nera “limousine” Fiat 519, che conduceva Mussolini dalla sua residenza estiva di Villa Torlonia al Ministero degli Esteri a Palazzo Chigi[7], Lucetti lanciava, dopo averne accesa la miccia, una SIPE fidando che questa (pesante circa mezzo chilo) sfondasse il vetro dello sportello posteriore laterale destro ed esplodesse all’interno della vettura, dove era seduto il duce. Purtroppo, a causa del sobbalzo dell’auto per un avvallamento della strada, la granata colpì la cornice superiore della portiera, pochi centimetri sopra il vetro, rimbalzando e deflagrando sul selciato, col ferimento di otto passanti raggiunti da schegge[8].
Particolari poco conosciuti dell’azione armata sono stati rivelati da “Cencio” Baldazzi in un’intervista del 1976, che confermano il carattere tutt’altro che “individuale” dell’attentato: «c’entravo io, Malatesta, [Attilio] Paolinelli, c’entravamo tutti, tutto il cerchio nostro della resistenza romana. Noi avevamo preparato due attentati a Mussolini, uno al Tritone, ed uno a Porta Pia […] dopo aver organizzato una certa convergenza intorno Porta Pia»[9].
Lucetti, fu quasi subito catturato dal maresciallo capo Dottarelli e dal vice brigadiere Motta che, assieme all’ispettore di PS Bodini responsabile del servizio di scorta, si trovavano sull’Alfa Romeo che seguiva dappresso l’auto di Mussolini. Lucetti disponeva di un’altra SIPE e della pistola Browning, presumibilmente cal. 7,65, con proiettili artigianalmente modificati per renderli più efficaci, che non potè usare. Condotto in Questura in piazza del Collegio Romano (attualmente commissariato di PS Trevi-Campo Marzio), subì i primi interrogatori e pestaggi, mentre all’esterno fascisti facinorosi provocavano incidenti.
Già mezz’ora dopo l’attentato veniva arrestato Malatesta presso la propria abitazione e a distanza di poche ore la sua compagna, l’anarchica Elena Melli (1899-1946); a Roma, nella retata anti-anarchica finivano militanti noti quali i tre fratelli Turci, Aldo Eluisi, Francesco Porcelli, Carlo Monticelli, Eolo Varagnoli, Adelmo Preziosi ma anche semplici simpatizzanti oppure non anarchici, fra cui i comunisti Umberto Terracini e, a Milano, Ottorino Perrone. Non mancarono le spedizioni punitive, come quella contro l’onorevole socialista Attilio Susi a Santa Marinella.
A Livorno, col pretesto che fra i passanti feriti vi era il cappellaio Garibaldo Paoletti, originario di Livorno, i fascisti assaltarono il consolato francese. Sempre nella città labronica, innumerevoli furono i messaggi di felicitazione ed esecrazione, fra cui quello del Maestro Pietro Mascagni a cui Mussolini rispose personalmente. Nella chiesa di S, Giulia, invece, «venne cantato un solenne “Te Deum” di ringraziamento per lo scampato pericolo del Primo Ministro Benito Mussolini».
Nell’arco di pochi giorni furono effettuati almeno 500 arresti e 600 perquisizioni, soprattutto nella capitale ma anche altrove; ad esempio, tra minatori di S. Giovanni Valdarno. Tra i circa sessanta arrestati fra Carrara ed Avenza, vi erano gli amici, i familiari e i parenti di Lucetti ed anche la sua fidanzata, Nella Menconi (1899-1975). A Roma, furono subito tratti in arresto Baldazzi, Leandro Sorio (1899-1975) e Stefano Vatteroni (1897-1965). Quest’ultimi due vennero condannati dal Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, rispettivamente a 20 e 18 anni di carcere, «complicità non necessaria»[10]. Baldazzi, invece, ebbe una condanna a cinque anni di carcere per la complicità nell’attentato e ad altri cinque per aver poi fornito aiuto finanziario alla madre di Lucetti[11]. I familiari, fra cui il cugino Gino Bibbi e la madre, furono assolti «per il reato di concorso in mancato omicidio di S.E. il primo ministro» nel giugno del 1927. Nelle settimane seguenti, numerose furono pure le sentenze per «apologia di attentato» nei confronti di persone che avevano espresso, magari in un’osteria, il proprio rammarico per il tentativo non andato a buon fine. Accadde anche a Livorno, dove nei pressi di Piazza dei Mille tre «giovanotti» furono arrestati e denunciati per aver parlato «a voce alta dell’attentato contro la persona di S.E. Mussolini, esaltando l’attentatore, augurando un nuovo infame gesto contro il Duce»[12]. A Rio Marina, per lo stesso reato, il contadino anarchico Narciso Trenti fu condannato a 30 mesi di reclusione e 300 lire di ammenda[13].

CONDANNA E MEMORIA

Il processo, svoltosi dall’8 all’11 giugno 1927, apparve come una farsa, con l’avvocato d’ufficio Emilio Tommasi, che sembrava l’accusatore dell’imputato, mentre il P.M. Enea Noseda lo additava quale «parricida». A presiedere il Tribunale Speciale vi era il generale Carlo Sanna e della corte faceva parte il conte Antonio Tringali-Casanuova, futuro presidente del Tribunale speciale sino al 1943, nato a Cecina e fascista della prima ora. Lucetti venne condannato a 30 anni di reclusione; fra i delitti di cui fu ritenuto colpevole, quello di aver commesso il fatto «anche col fine d’incutere pubblico timore e di suscitare tumulto e pubblico disordine», con evidente allusione alle finalità di destabilizzazione del regime[14]. Da parte sua, durante l’udienza, Lucetti rifiutò decisamente l’accusa di essere un sicario eterodiretto, così come – sin dal primo interrogatorio – aveva tenuto a precisare che «il mio è stato un attentato da proletario».
Lo aspettavano 17 anni di carcere: dal Terzo Braccio di “Regina Coeli” nel luglio del 1927 fu condotto, via Livorno, nel penitenziario elbano di Portolongone (oggi Porto Azzurro) con i ferri ai polsi e «la lugubre casacca a righe», come riferito su «Il Telegrafo» dell’8 e 9 luglio.
Nel febbraio 1930 venne trasferito nel carcere di Fossombrone (PU), dove in occasione del Primo maggio 1932, assieme ad altri sei detenuti comunisti e anarchici – fra i quali il livornese Tito Raccolti e il veronese Giovanni Domaschi – realizzò artigianalmente e fece uscire dal carcere una quindicina di manifestini, oltre a cantare l’Internazionale e Bandiera rossa. A seguito di tale dimostrazione, il mese dopo fu deportato nell’isola-carcere di Santo Stefano (LT)[15]. Nel terribile penitenziario ex-borbonico, Lucetti rimase sino al settembre 1943, trattenuto dalle misure anti-anarchiche del governo Badoglio, anche dopo la “caduta” di Mussolini. Finalmente liberato da paracadutisti americani il 10 settembre, assieme ad una sessantina di “politici”, fu trasferito all’Isola d’Ischia dove, drammaticamente, il 17 dello stesso mese venne ucciso da un colpo d’artiglieria sparato dalle forze tedesche dalla costa napoletana, forse da Monte Procida o da Capo Miseno, con obiettivo le motosiluranti alleate presenti in porto.

Quando la tragica notizia raggiunse il carrarese dove era in corso la resistenza, la prima formazione partigiana di tendenza libertaria assunse il suo nome e così anche quella poi ricostituita come “Lucetti bis”. A liberazione avvenuta, il CLN di Carrara, accogliendo l’ampia sollecitazione popolare, decise di intitolare a Lucetti la centrale e storica piazza Alberica, ma nel 1963 la giunta comunale decise di intitolargli la piazza Rivellino ad Avenza, mentre quella di Carrara tornava all’antica denominazione.

La salma di Lucetti, da Ischia, avrebbe fatto ritorno ad Avenza il 27 aprile 1947, salutata da un’enorme manifestazione popolare nella piazza a lui dedicata, con comizio tenuto dall’anarchico Giuseppe Mariani (1898-1974), suo compagno di detenzione a S. Stefano, e poi accompagnata in corteo sino al cimitero di Turigliano, dove ancora si trova.
Imbarcata su una nave a Napoli era approdata nel porto di Livorno sabato 26 aprile, venendo accolta e salutata – dalle ore 12 alle ore 15 – presso la sede della Federazione anarchica livornese in via Ernesto Rossi 80[16]. Come riferisce «La voca apuana» del 3 maggio 1947, «la salma dell’eroe era posta nella sede degli anarchici coperta di bandiere e una numerosa schiera di persone attendevano l’ora della cerimonia. Erano presenti compagni di tutti i partiti e numerosi cittadini», quindi in corteo il feretro giunse in piazza San Marco e, dopo un breve discorso di commiato, fu caricato su un’autoambulanza per l’ultimo trasferimento.
Accompagnata da una delegazione di anarchici carrarini e livornesi, dopo brevi soste commemorative a Pisa, Massa ed Avenza, il trasporto giunse a Carrara attorno alle ore 20 e la bara venne esposta presso la sede della FAI, in piazza Lucetti, in attesa delle grandi manifestazioni dell’indomani.
Alcuni anni dopo, Alberto Tarchiani, uno dei fondatori del movimento antifascista “Giustizia e Libertà”, riferendosi agli attentati alla vita di Mussolini, avrebbe commentato: «chi condannerebbe oggi quei tentativi che non avevano bassi scopi di vendetta, ma convinti propositi di evitare sciagure infinitamente più vaste, eliminando un uomo che, vaneggiando di gloria conduceva l’Italia alla devastazione materiale e morale?».

NOTE

1. Augusto Consani (1883-1953), pastaio, militante di primo piano dell’Unione anarchica livornese, era stato segretario della Camera sindacale del Lavoro (USI) nonché tra gli organizzatori dell’arditismo antifascista. Condannato a cinque anni di confino quale «elemento pericoloso per l’ordine dello Stato», fu deportato a Lipari nel dicembre 1926, venendo rimesso in libertà nel marzo 1927, in via condizionale, poichè ammalato di tubercolosi; ciò nonostante avrebbe continuato l’attività clandestina. Paradossalmente, nel saggio di Nicola Badaloni e Franca Pieroni Bortolotti, Movimento operaio e lotta politica a Livorno 1900-1926 (Editori riuniti, 1977) viene ritenuto «uno dei principali sostenitori di una linea “attendista”». Virgilio Recchi (1900-1982), operaio elettricista, fra i fondatori degli Arditi del popolo, è schedato dal 1926 come anarchico. Nel 1945, è nel Comitato di liberazione aziendale del Cantiere navale OTO e fa parte del Gruppo sindacale libertario; partecipa al Congresso fondativo della FAI in rappresentanza del gruppo “Pietro Gori” e nel 1947 è nella Giunta esecutiva della Camera del lavoro, per la componente anarchica.
2. Secondo una ricostruzione pubblicata sulla «Gazzetta livornese» del 13 settembre 1926, «raggiunta la spiaggia il Lucetti sempre aiutato dal fratello suo Andrea, si imbarcava notte tempo sopra un piccolo gozzo, raggiungendo a forza di remi Lerici, ove all’alba del giorno dopo, un navicello carico di marmi, alzava l’ancora per la Francia».
3. Nei suoi saggi, lo storico Renzo De Felice l’ha ritenuto «nativo della Garfagnana», probabilmente perché, subito dopo l’arresto, Lucetti aveva declinato una falsa identità dichiarando d’essere nato a Castelnuovo Garfagnana (LU).
4. Nel Carrarese vi era una storica collateralità fra gli ambienti repubblicani e anarchici e, in particolare, proprio ad Avenza questa risultava evidente nella bandiera nera della locale sezione mazziniana.
5. Risaliva forse a tale esperienza negli Arditi il «tatuaggio sinistro» “W la morte” che Lucetti recava sull’avambraccio oppure, secondo la declinazione poetica di Virgilia D’Andrea, alludeva a «La morte che dona la vita / La morte che risveglia i popoli / Non quella che li distende inermi ed inetti dentro una tomba senza gloria / La morte che spezza il tiranno / Non quella che la tirannia riassoda ed eterna» (Gloria anarchica, 1933).
6. Il 17 gennaio 1926 si tenne segretamente un Convegno della UAI a Milano ed un altro in forma clandestina ai primi di agosto dello stesso anno. Esiste, tra l’altro, una lettera alquanto sibillina, scritta da Malatesta il 4 settembre 1926 all’anarchico Alfonso Coniglio, in cui comunicava che «Le seicento lire di cui mi parli furono ricevute al principio di quest’anno e furono adoperate non per Pensiero e Volontà[il giornale anarchico diretto da Malatesta] ma per un bisogno urgente del nostro movimento. Io ti scrissi e ti dissi vagamente che cosa avevamo fatto del denaro – senza però entrare in particolari, perché si trattava di cose che non conviene scrivere […] Siamo pieni di belle speranze, ma per ora sono… speranze. Noi però facciamo tutto quello che possiamo perché presto diventino realtà».
7. Nel 1922, Mussolini dopo aver trasferito il ministero delle Colonie nel Palazzo della Consulta, aveva destinato Palazzo Chigi a sede del Ministero degli Esteri e in virtù della sua doppia carica di Presidente del Consiglio e di ministro degli Esteri, ne aveva fatto la sua sede ministeriale.
8. Se invece che la SIPE, ad accensione manuale, fosse stata impiegata la variante a percussione (tipo “Gallina”), l’esito avrebbe avuto ben altra efficacia, scoppiando all’urto.
9. Il coinvolgimento di Baldazzi è stato confermato dalla moglie Elena Vitiello, intervistata da Alessandro Portelli: «lo avevano preparato insieme. La cosa che l’attentato non riuscì, con tutte le misure e tutti i calcoli che avevano fatto, non avevano tenuto conto che la strada era leggermente in discesa».
10. Le prove a loro carico erano labili, tanto che secondo Guido Leto, allora funzionario dell’Ufficio speciale movimento sovversivo ed in seguito a capo dell’OVRA, «l’inchiesta assodò che [Lucetti] non aveva complici», forse anche per giustificare il fallimento della sicurezza.
11. Nonostante la stretta sorveglianza, Baldazzi, riuscì ad incontrarsi con Malatesta (erano vicini di casa, in via Andrea Doria) e a prendere accordi con Attilio Paolinelli ed Aldo Eluisi – entrambi anarchici ed ex-arditi del popolo – nel tentativo «di organizzare la fuga» di Lucetti il giorno stesso del processo.
12. L’arresto di in terzetto per apologia di reato, «Gazzetta livornese», 15 settembre 1926. I tre erano l’operaio carpentiere Vittorio Pieracci, il facchino Licurgo Niccolai e il muratore Ilio Fiorini; i primi due schedati come comunisti, il terzo quale socialista.
13. Per offese al Primo Ministro, «Gazzetta livornese», 16 settembre 1926. Sullo stesso quotidiano si trova anche la notizia del rinvio a giudizio per il capitano marittimo Emilio Oliviero, «imputato di non aver esposta la bandiera in occasione dell’attentato al Duce».
14. Le pene accessorie, oltre a tre anni di vigilanza speciale, erano tragicomiche: 300 lire di ammenda, 600 lire per concessioni governative, l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. In seguito, per effetto dei decreti governativi di amnistia e indulto del 1932, 1934 e 1937, la pena risultò ridotta a 17 anni, con scarcerazione prevista per il 10 settembre 1945.
15. Le inumane condizioni di prigionia sono descritte anche dal comunista livornese (seppure nato a Pisa) Athos Lisa in Memorie. Dall’ergastolo di Santo Stefano alla Casa penale di Turi di Bari, Milano, Feltrinelli, 1973.
16. Anche a Livorno, un gruppo anarchico – quello del quartiere S. Jacopo – assunse il suo nome.

 

Articolo pubblicato nel settembre del 2024.




LIVORNO – 11 AGOSTO 1921

Anni duri in cui non ancora decenne vidi ammazzare la gente per strada

(Giorgio Caproni, Son targato Livorno 1912, «Il Telegrafo», 16 maggio 1976)

 

Quanto avvenne l’11 agosto 1921 nel borgo livornese d’Ardenza è rimasto per lungo tempo un ricordo dagli incerti contorni, attraverso versioni e narrazioni contraddittorie. Degli stessi protagonisti era rimasta una vaga memoria, eppure quella data vide le prime due uccisioni per mano fascista a Livorno[1].

Le settimane precedenti avevano registrato anche nella provincia livornese l’inasprirsi dei conflitti – anche se di minore gravità rispetto al resto della Toscana – fra le squadre fasciste e gli abitanti dei quartieri popolari che, dall’inizio di luglio, potevano contare anche sulle squadre degli Arditi del popolo formatesi mettendo insieme ex-combattenti della Lega proletaria e lavoratori delle diverse tendenze “sovversive”: socialisti, anarchici, repubblicani, comunisti e sindacalisti.

Organizzati a livello territoriale, in ogni quartiere gli Arditi del popolo, più o meno strutturati ed armati, cercavano di assicurare la «difesa proletaria» e di rispondere alle spedizioni squadriste dei fascisti e dei nazionalisti che spadroneggiavano nel centro della città e tentavano sortite nei rioni proletari, potendo contare sulla protezione delle forze dell’ordine – militari compresi –  come era accaduto il 19 luglio in borgo Cappuccini quando dai camion avevano sparato raffiche di mitragliatrice contro le case del quartiere sovversivo.

Oltre a confermare questa reciproca collateralità, i “fatti d’Ardenza” dimostrarono come la contrapposizione, ancora prima che ideologica, fosse di classe: infatti, se da una parte, a restare sul selciato furono due lavoratori salariati, dall’altra a sparare impunemente c’era uno studente universitario, figlio dell’alta borghesia labronica. Inoltre, entrambi gli uccisi erano stati, loro malgrado, soldati durante la guerra mondiale “quindici-diciotto”, mentre il giovane omicida, animato da un malinteso patriottismo, ancora non aveva espletato il servizio militare.

LA CITTADELLA DELL’ANARCHIA

All’epoca l’Ardenza era un paese a sé stante, separato dalla città di Livorno, con un proprio Municipio, abitato da circa 4000 persone. In molti lavoravano la terra nelle estese coltivazioni agricole dell’entroterra, ma vi risiedevano anche numerosi operai. La forte attitudine “sovversiva” della comunità ardenzina aveva come principali punti di riferimento il Circolo di studi sociali situato in via del Littorale (ora via Uberto Mondolfi), fondato dall’anarchico Adolfo “Amedeo” Boschi, e il Circolo socialista. Tra gli anarchici prevaleva la tendenza “organizzatrice”, ma non mancavano gli “antiorganizzatori” facenti capo a «L’Avvenire anarchico» di Pisa. Nella sezione socialista era, invece, maggioritaria la componente massimalista ed era ospitata un’attiva sezione socialista femminile.

Inoltre, presso le due sedi, si trovavano le sezioni delle due Camere del Lavoro di Livorno – quella aderente all’USI e quella della CGdL. Invece, nel 1921, all’Ardenza non risultava presente alcuna struttura repubblicana o comunista.

Già tra il 1914 e il ’15 all’Ardenza vi era stata una forte opposizione anarco-socialista alla guerra e, in considerazione della sua peculiarità politica, vi erano una stazione dei Carabinieri, un commissariato di Polizia e una reparto di Guardie regie.

In questo contesto, quel tragico 11 agosto – mentre sull’assolato lungomare, frequentato dalla “Livorno bene” e dai villeggianti, regnava uno spensierato clima balneare – ad Ardenza Terra, attorno alle 18.30, arrivarono col tram il segretario politico del Fascio di combattimento, il ventiquattrenne Marcello Vaccari, scortato da quattro suoi camerati, con intenzioni certo non pacifiche, nonostante le diverse quanto improbabili ragioni poi addotte. Cercavano l’anarchico Luigi Filippi, ritenuto il comandante degli Arditi del popolo ardenzini e, quando furono affrontati da alcuni antifascisti che chiedevano ragione di tale provocatoria presenza, la situazione sarebbe subito degenerata in uno scambio di rivoltellate in cui Vaccari rimase lievemente ferito ad una gamba, mentre un proiettile vagante ferì ad un piede un ragazzo di 10-11 anni, Nilo Paolotti.

Considerata la notoria animosità di Marcello Vaccari, già volontario di guerra ed ex tenente dei Reparti d’assalto, è presumibile, nella più benevola delle ipotesi, che egli intendesse minacciare ritorsioni per un’annunciata iniziativa politica all’Ardenza con il “disonorevole”, Giuseppe Mingrino, deputato socialista e dirigente nazionale degli Arditi del popolo.

SANGUE SUL LUNGOMARE

A seguito di tale incidente e prevedendo una spedizione punitiva dei fascisti livornesi, i «sovversivi» ardenzini, al termine della giornata di lavoro, invece di rincasare si allertarono, predisponendo misure di vigilanza del territorio, non potendo contare sull’operato delle forze dell’ordine. In circa sessanta, fra arditi del popolo e altri antifascisti, suddivisi in gruppi, si posero a presidio delle diverse vie d’accesso alla frazione, lato terra e lato lungomare, mentre i collegamenti sarebbero stati assicurati con le biciclette.

Nel corso di tale attività preventiva, sul viale che porta ad Antignano, nei pressi dell’allora ponte Principe di Napoli (ora Tre Ponti), furono fermati e disarmati, senza ulteriori problemi, delle rispettive rivoltelle, gli avvocati Enrico Berti e Luigi Corcos. Il primo, segretario particolare di Costanzo Ciano, aveva preso parte alle azioni anti-sciopero nelle Poste nel gennaio del 1920 ed avrebbe fatto carriera sotto il fascismo, mentre il secondo, già tenente di complemento, risultava iscritto al Fascio di Livorno.

Quando però, pochi minuti dopo, venne fermato lo studente diciannovenne Tito Torelli, le cose precipitarono. Torelli infatti, riconosciuto come squadrista quale era (anch’egli in funzione anti-sciopero ed iscritto al Fascio dal 1° dicembre 1920), si rifiutò a sua volta di consegnare l’arma – una pistola sottratta al padre Giorgio, anch’esso fascista – che aveva con sé.

In uno spazio orario approssimato, fra le 22 e le 22,30, l’acceso diverbio sarebbe quindi culminato in una sparatoria conclusasi con un bilancio “asimmetrico” che vedeva il Torelli riportare appena delle escoriazioni e dall’altra parte due feriti mortalmente d’arma da fuoco, ossia Averardo Nardi e Amedeo Baldasseroni, entrambi arditi del popolo.

Averardo [all’anagrafe Avelardo] Nardi, nato il 14 ottobre 1892, secondo i giornali era un operaio (il registro ospedaliero lo segnalò invece come carrettiere), reduce della Grande guerra; abitava in via dell’Ulivo assieme al padre Augusto (dopo la perdita della madre Isolina Ristori) ed aveva un fratello, Nereo. Secondo il vice-prefetto era pregiudicato per un reato comune (di cui peraltro non si è trovata traccia) e addosso gli fu trovato un manifestino di propaganda «dell’associazione Arditi del popolo», ma nessuna arma.

Amedeo Baldasseroni, nato il 28 maggio 1886, era figlio di Pietro e Annunziata Orlandi. Capo squadra elettricista alla SELT (Società Elettrica Ligure Toscana), era coniugato con Nella Frugoli, poi deceduta nel 1935, e padre di Libera (13 anni), Libero (11 anni) e Leo (7 anni). Secondo quanto riportato nel certificato anagrafico di famiglia, aveva una sorella e tre fratelli: Ottorina, Ottorino, Nello e Anacleto. Abitava in via del Littorale (ora via U. Mondolfi) e in una foto di gruppo – scattata ad Ardenza nel 1913 – egli appare ritratto a fianco dell’anarchico Errico Malatesta e di altri compagni. Chiamato alle armi nel 1915, risultava segnalato tra i militari sovversivi. Sulla sua persona – come riportato nei verbali – furono rinvenute una copia di «Umanità Nova» e una de «L’Avvenire anarchico», ma niente armi.

I due ardenzini furono raccolti e trasportati dalla Pubblica Assistenza ai RR. Spedali Riuniti in via S. Giovanni a Livorno; nonostante le evidenze, «vennero dichiarati in arresto» e persino denunciati. Nardi sarebbe spirato l’indomani, per emorragia interna; colpito al torace «da un colpo tiratogli a brevissima distanza», con solo foro d’entrata, in corrispondenza del 7° spazio intercostale anteriore. Baldasseroni, dopo lunghe sofferenze, decedette il 3 settembre; raggiunto nella regione lombare, da un unico proiettile conficcatosi nella colonna vertebrale, con fatale lesione del midollo spinale che comunque l’avrebbe reso paralizzato, con una traiettoria inclinata obliquamente dall’alto verso il basso, tale da far presumere una colluttazione col Torelli che, secondo quanto sostenuto dagli antifascisti e dai parenti delle vittime, era forse armato con due pistole, di cui una nascosta.

I rispettivi funerali dei due ardenzini videro la partecipazione di migliaia di lavoratori in sciopero, con le bandiere rosse e nere delle diverse organizzazioni proletarie e della Società Volontaria di Soccorso, scortati dagli Arditi del popolo e vigilati da ingenti forze dell’ordine.

In base alle autopsie e alle perizie balistiche venne accertato che i due ardenzini erano stati entrambi colpiti da proiettili di piccolo calibro, compatibili col cal. 6.35 della pistola semi-automatica Browning 1906 “Baby”, sequestrata al Torelli, escludendo quindi le rivoltelle d’ordinanza e i moschetti mod. 91 in dotazione alla forza pubblica.

Nonostante ciò, grazie alla “protezione” familiare, per sei mesi il nome di Torelli – mentre rimaneva in libertà – non comparve mai sulla compiacente stampa cittadina, condizionata dal potente Costanzo Ciano, legato alla famiglia Torelli da amicizia, idee politiche e rapporti d’affari. Sul piano giudiziario, Tito Torelli sarebbe stato più volte prosciolto in istruttoria per il duplice omicidio: nel 1922 dai tribunali di Lucca e Livorno, così come nel 1945, dopo la Liberazione, da quelli di Firenze e Livorno.

Laureatosi in legge ed erede dell’attività imprenditoriale di famiglia, durante il Ventennio Torelli ottenne significative cariche di regime, a partire da quella di Vice Podestà di Livorno nell’ottobre 1933. Dopo aver preso parte alla guerra coloniale in Etiopia come capitano d’artiglieria nella Divisione Gavinana, entrò nel Direttorio dell’Associazione volontari di guerra e, a livello nazionale, fu designato componente della Federazione nazionale per il commercio d’Oltremare e consigliere nazionale della Camera dei Fasci e delle Corporazioni (Corporazione dei cereali), dal 1939 al ’43.

Come quella di altri noti fascisti, la sua impunità, confermata anche dopo la Liberazione – nel generale clima della cosiddetta Amnistia Togliatti – a Livorno suscitò le proteste del CLN e delle forze antifasciste, nonché un’inutile inchiesta ministeriale che pure accertò l’irregolarità del proscioglimento; ma, soprattutto, sollevò la rabbia del “primo” antifascismo popolare che non aveva dimenticato l’assassinio di Nardi e Baldasseroni.

Nell’agosto 1946, dopo aver scontato alcuni mesi di carcerazione e un anno di confino al Sud, Torelli tornò in libertà e poté riprendere la propria attività industriale e commerciale, ma dovette trasferirsi a Firenze dove sarebbe morto nel 1991, senza poter fare ritorno a Livorno dove aveva un conto in sospeso ed ancora c’era chi ricordava un canto nato in quell’estate del 1921.

Girate per le strade di Livorno
ma nei sobborghi non potrete entrare
ci son gli arditi che vi stan dintorno
e gli ardenzini vogliono vendicare
a tradimento
sapete ammazzare

 

[1] Tra il 1921 e il 1931, oltre a Nardi e Baldasseroni, altre 16 uccisioni politiche avrebbero segnato la normalizzazione fascista: Pietro e Pilade Gigli, Piero Gemignani, Gilberto Catarzi, Filippo Filippetti, Bruno Giacomini, Oreste Romanacci, Genoveffa Pierozzi (agosto 1922); Ottorino Benedetti (Cecina, gennaio 1923); Emo Mannucci (Colognole, marzo 1923); Fortunato Nannipieri (luglio 1923); Enrico Baroni (aprile 1924); Giuseppe Piccinetti (marzo 1925); Natale Betti (novembre 1926); Ferruccio Fornaciari (ottobre 1927); Ghino Chirici (febbraio 1931).




Giovanni Martelli: storia di un antifascista livornese

Come affermato in precedenza, Giovanni Martelli viene arrestato a Livorno l’11 giugno 1932, ha solo diciannove anni e definisce negli anni quell’evento come «un duro colpo».[1] Allo stesso modo, il 1932 rappresenta un anno difficile per la riorganizzazione della Federazione comunista livornese, in quanto molti militanti adulti e di spicco vengono arrestati.

Dapprima, Martelli viene fermato e perquisito da un poliziotto dell’OVRA, successivamente gli viene trovato un biglietto che testimonia la sua attività nell’organizzazione del Soccorso rosso.[2] Viene interrogato alla Questura Centrale dal Commissario dell’OVRA Parlagreco, il quale deduce che non solo egli militava nel PCd’I, ma che addirittura apparteneva alla Federazione insieme ad altri esponenti che erano già stati arrestati nei giorni precedenti. Martelli è costretto a riconoscere ed a identificare gli altri compagni di partito, come Leonardo Leonardi, Roberto Vivaldi e Giovanni Tardini. Martelli affermò che non conosceva nessuno, se non qualche individuo adulto dell’organizzazione comunista. Resistere però non è sempre facile e si può comprendere dalle parole usate nell’Autobiografia, in cui egli stesso racconta:

«[…] Pur insistendo a negare […], essi mi fecero uscire e dopo poco fui di nuovo chiamato e così mi trovai di fronte al Vivaldi, il quale – disgraziato – era in uno stato da fare pietà.

Mi domandarono: lo conosci?

No, risposi, non l’ho mai visto.

Essi allora si rivolsero al Vivaldi il quale mi disse: è inutile Martellino, non negare, sanno tutto, essi sanno e conoscono tutto del nostro movimento e quindi non vale la pena insistere, del resto hanno confessato tutti.

Per la verità rimasi molto colpito, non riuscivo a comprendere come esso avesse capitolato così; tuttavia, continuai a negare […]»[3]

Successivamente, viene sottoposto a una perizia calligrafica per vedere se davvero fosse stato lui l’autore del biglietto sul Soccorso rosso. Il biglietto conteneva un prestito in denaro da fare ad alcuni esponenti del Partito ed era stato realizzato da un altro militante, Iedo Tampucci. Martelli non rivelerà mai il nome dell’autore e il contenuto del biglietto.

Durante l’interrogatorio scopre che la denuncia era stata avanzata dal dirigente della Federazione, Roberto Vivaldi. Vivaldi era stato costretto a denunciare proprio perché, come si legge nell’Autobiografia, l’OVRA aveva scoperto l’organizzazione comunista. Effettivamente, molte cose erano cambiate all’interno della Federazione durante l’arresto di questi esponenti: l’organizzazione sembrava essersi sfasciata e sembrava aver smarrito le linee guida necessarie per ricostituirla. L’unica speranza era quella di riedificare il movimento con una nuova linfa, ma i militanti rimasti si rifiutavano di prendere parte a questo processo in quanto temevano l’intervento della polizia fascista.

Nel luglio 1932 Martelli viene mandato in prigione presso il carcere S. Leopoldo e denunciato al Tribunale speciale con l’imputazione prevista dall’articolo 270 del Codice Penale. Viene poi trasferito al carcere dei Domenicani e liberato nell’ottobre dello stesso anno in occasione dell’amnistia per il decennale dalla Marcia su Roma. Quell’arresto fu uno dei più grandi realizzati dall’OVRA, non solo per il numero di arrestati, ma anche perché raggiunse i compagni che stavano espatriando. Con la scarcerazione poco sarebbe cambiato nella vita di Martelli, perché sa che la condizione di vita in clandestinità e la lotta al fascismo sarebbero continuate. Lui stesso racconta:

«[…] La libertà era certo bella per tutti noi tuttavia, quasi spontaneamente, una parte di noi giovani decise di dare continuazione alla propria attività clandestina. Dico una parte perché, sia nel campo giovanile come in quello degli adulti non pochi si ritirarono a vita cosiddetta privata. Non ce ne facemmo motivo di scandalo. Pertanto ci rimettemmo a lavoro […] con una maggiore attenzione […]».[4]

Nel 1933 prende parte alla rifondazione del movimento comunista, un’iniziativa profondamente sostenuta dai giovani livornesi come Renzo Tamberi, Garibaldo Benifei, Otello Frangioni, Marte Corsi, Angiolo Giacomelli. In quel breve periodo, Martelli realizza dei volantini di propaganda e contribuisce alle attività della stampa clandestina.

A nove mesi dalla scarcerazione, il 1° agosto 1933 viene fatto salire su un’automobile in cui lo attendevano tre fascisti. Martelli è tranquillo perché sa che i materiali eversivi del PCd’I sono rimasti a casa sua e viene accompagnato nella sede rionale fascista di Barriera Garibaldi, un luogo tristemente noto per esser teatro di interrogatori e di torture che i fascisti infliggevano agli oppositori politici. Successivamente, viene bendato e portato in una stanza dove ad attenderlo c’è il tenente Gagliano. Il motivo della cattura è il seguente: Gagliano ha scoperto chi è l’autore dei volantini sovversivi, vuole sapere con chi collabora e dove sono custoditi. Il tenente gli mostra i volantini che effettivamente erano stati realizzati da lui e Tamberi, ma Martelli continua a negare tutto.

Gagliano lo invita a spogliarsi ed esamina le sue mani con una lente di ingrandimento. A quel punto, dei giannizzeri iniziano a picchiare violentemente Martelli soprattutto sulle mani, considerate il vero «corpo del reato».[5] Però, la polizia fascista non si limita a interrogare Martelli e decide di indagare su Tamberi. A seguito di diverse indagini compiute nelle settimane precedenti, la polizia fascista aveva scoperto che Martelli e Tamberi collaboravano insieme alla realizzazione dei volantini eversivi.

Quando si consultano delle autobiografie, ciò che sorprende sono sia le emozioni che possono produrre anni dopo sullo stesso lettore, che i minimi dettagli che vengono raccontati. L’Autobiografia di Martelli è un vero e proprio racconto dettagliato di tutte le vicende e le torture subite durante il Ventennio fascista, ma forse non è la minuziosità del racconto a sorprendere un qualsiasi lettore, quanto il pathos che trasmette quando narra le torture subite dagli amici e dai compagni di Partito, i giorni in carcere, la difficoltà a comunicare e a mantenersi in contatto con loro. Durante quell’interrogatorio, Martelli non vedrà mai arrivare Tamberi e crede che l’amico possa aver fatto dei nomi di altri militanti, che possa aver tradito tutti e che sia ceduto davanti alle violenze fasciste. In realtà, Tamberi non verrà interrogato nella sede rionale fascista di Barriera Garibaldi, ma direttamente a casa sua.

Martelli non sa che fare, continua a dire che non era a conoscenza di niente, ma a che scopo? Col passare delle ore e con l’aumento delle percosse subite ha anche egli paura di non farcela, di non saper resistere e di non sapere per quanto potrà mentire. La coercizione fascista era in grado di permeare la psiche di molti giovani e antifascisti che erano stati catturati. Martelli vede l’interrogatorio come una sfida in cui non vuole cedere, anche perché non ha un’altra scelta: deve resistere alla violenza per tutelare non solo l’organizzazione, ma anche i suoi compagni di Partito.

Il militante livornese seppe resistere a quelle brutalità, ma non per questo va raffigurato (e non avrebbe mai voluto definirsi) come “eroe”, piuttosto seppe assolvere le mansioni perché credeva fervidamente a un sistema valoriale basato su libertà e resilienza, così come altri compagni di Partito che cedettero alle violenze. Il raccontare determinati dettagli sulle attività o sulle organizzazioni considerate come eversive, non era sinonimo di “codardia”: non era facile resistere alle violenze e alle percosse che i fascisti infliggevano alle persone col fine di estorcere con mezzi disumani la verità.

L’interrogatorio durò sette ore e l’arrestato venne ripetutamente percosso dal maresciallo Niccoletti, verrà interrogato alla Questura di San Leopoldo e lì vi rimarrà in prigione per diverse settimane. A tre giorni dall’arresto alcuni suoi compagni della stessa organizzazione vengono arrestati e scoprirà che la denuncia era partita dal militante Sirio Vincensini. Vincensini aveva confessato da chi aveva avuto il manifesto originale, ovvero da Garibaldo Benifei che a sua volta aveva fatto il nome di altri militanti. Lo stesso Martelli racconta:

«[…] il Vincensini (un altro militante) informò il fascio che tanto io come il Tamberi quella sera eravamo a stampare, però non sapendo il luogo indusse i fascisti ad attendermi. Preso me, essi pensavano di cavarmi di bocca sia il luogo ove eravamo stati a stampare, come il nome Tamberi, questo per salvare il delatore […]».[6]

Insieme agli altri militanti livornesi, egli promise che avrebbe evitato di compromettere la posizione degli altri compagni, altrimenti il processo sarebbe andato avanti all’infinito.

Il 9 dicembre del 1933 Martelli viene condannato a due anni e cinque mesi di reclusione da scontare alla Casa di pena di Civitavecchia. Il periodo di detenzione non è così duro, a detta di Martelli stesso, perché le condizioni igienico-sanitarie in cui viveva erano buone, aveva diritto due ore di aria invece che una, e poteva prendere parte a laboratori di scrittura e di traduzione. Questa esperienza costituisce un punto di svolta nella sua formazione politica nella quale potrà sperimentare delle nuove forme di mobilitazione politica ed attività pratiche che non aveva mai testato a Livorno. All’interno della cella stipula delle relazioni con esponenti di spicco come Giovanni Parodi e Pietro Carsano, i quali gli trasmettono i principi fondamentali del comunismo e lo avviano a un vero e proprio percorso di formazione sul comunismo.[7] A Civitavecchia, Martelli studia dalla mattina alla sera ed è sottoposto a una disciplina ferrea, perché «il Partito pretendeva che i giovani fossero preparati nel migliore dei modi».[8] L’obiettivo prefissato dal PCd’I era quello di insegnare varie discipline concernenti il materialismo storico, l’economia politica, la letteratura.

Il capo della cella era Giovanni Parodi, ma vi erano comunque altre celle separate dove vi erano esponenti illustri del Partito. Tra una cella e l’altra avvenivano degli scambi di informazioni grazie alla complicità di alcune guardie carcerarie, le quali si rendevano disponibili allo scambio di «farfalle», ovvero biglietti scritti su cui venivano annotati gli argomenti di discussione da trattare nelle ore di aria.[9]

Nel settembre del 1934 viene scarcerato grazie ad un indulto concesso straordinariamente in seguito alla nascita della prima figlia di Re Maggio, il luogotenente dell’epoca della Casa di pena di Civitavecchia. Martelli sa bene che niente sarebbe stato più come prima, perché non vuole più essere il semplice ragazzo che diffonde volantini eversivi ed ha capito che per rovesciare il regime è necessario agire diversamente.

Nel febbraio del 1935 il padre muore e deve far fronte a una difficile situazione economico-finanziaria che travolge tutta la famiglia, tenta più volte di poter far rientro ma senza successo. Dapprima viene mandato al settantacinquesimo di Fanteria di Siracusa, un reggimento di disciplina composto dai criminali più disparati (ladri, stupratori, pochi antifascisti e qualche renitente alla leva) e poi viene assegnato alla scuola di Allievi Ufficiali.[10] In quel breve periodo cerca più volte di tornare a Livorno dai suoi cari, ma senza successo. Nei suoi tentativi di rientrare a casa viene ostacolato perché non aveva completato i corsi premilitari in età adolescenziale che soltanto gli avrebbero permesso di tornare nella città di residenza. Il 5 marzo dello stesso anno viene inserito nel corpo di spedizione in partenza per l’Africa Orientale, per l’Abissinia.  Secondo il figlio, Walter Martelli, la sua esperienza nella Guerra in Africa Orientale non fu completamente negativa per il padre, in quanto non prese parte a delle iniziative militari e riuscì a stabilire delle buone relazioni con gli abitanti del luogo.[11] Martelli ha raccontato ai suoi figli di aver diffuso nei villaggi dei consigli medici e delle nozioni generali per migliorare le condizioni igienico-sanitarie.

Al suo rientro a Livorno, avvenuto nel 1936, molte cose erano cambiate. Alla fine del 1936 venne assunto presso i Cantieri Orlando, un’esperienza positiva che l’autore definì come una «grande conquista».[12] Lo stabilimento racchiudeva la storia del movimento operaio antifascista livornese e, per queste ragioni, riuscì a mettersi nuovamente in contatto con i compagni antifascisti che aveva conosciuto durante la clandestinità. La rete dei rapporti tra i militanti comunisti venne prima stabilita all’interno del cantiere e poi estesa al di fuori, ed era retta proprio dallo stesso Martelli.

A livello nazionale, il PCd’I abbandonò il precedente carattere settario che negli anni precedenti aveva portato il movimento ad isolarsi rispetto alle iniziative di altri partiti antifascisti. Tra il 1934 e il 1938 venne creato un Fronte popolare, in cui erano riunite tutte le forze politiche in aperta opposizione al regime. Questa fu anche la fase in cui i due partiti operai – il Partito Socialista e il Partito Comunista – ripristinarono delle forme di dialogo e di collaborazione dopo anni di scissione, culminate con la stesura di un patto di unità di azione nel 1934.

A livello locale, la Federazione livornese si ricostituì con esponenti di spicco e di varia provenienza come militanti storici, intellettuali, teorici, professori, figure pubbliche e notorie della comunità labronica. Un lieve passo avanti che venne messo di nuovo a dura prova da un’ondata di arresti senza precedenti.[13] Grazie alla rete di relazioni che Martelli aveva edificato ai Cantieri Orlando col militante comunista Mario Galli, l’organizzazione potè stabilire delle relazioni con intellettuali del calibro di Vittorio Marchi, Antonio Maccaroni, Aldo Balducci, Giorgio Stoppa. Le riunioni del nuovo partito si tenevano presso la casa dell’intellettuale Umberto Comi ed affrontavano temi svariati, come il rapporto tra il fascismo e la guerra, la Germania nazista, l’utilizzo della cultura e degli ideali comunisti come unica soluzione davanti alla violenza.[14] Mentre, Martelli e altri esponenti di partito che avevano vissuto direttamente sulla loro pelle la condizione proletaria, si facevano portavoce di altre tematiche, come i problemi della fabbrica e dello sfruttamento dei lavoratori.

Martelli non condivideva la nuova struttura della Federazione perché «nonostante i nuovi componenti si dichiarassero comunisti erano ben lungi dall’esserlo».[15] Secondo il militante di adozione livornese, gli ideali che quest’ultimi condividevano erano ideali social-liberali e poco affini ai principi marxisti-leninisti. Inoltre, a suo giudizio, esisteva una profonda differenza tra chi studiava il marxismo dalla cattedra e chi conosceva il marxismo perché apparteneva alla classe operaia.

Nel 1939 non gli viene riconosciuto più l’esonero dalla leva, riconosciutogli nel 1935 in quanto orfano di padre e unico capofamiglia, ed è per questo motivo che lascia il suo impiego ai Cantieri Orlando. L’ingegnere Bechi, all’epoca direttore dei Cantieri Orlando, si oppone al suo trasferimento inviando una lettera alla Questura di Livorno, ma senza successo. Inizia quindi a lavorare per un’azienda che produceva bombe a mano a Fiume, nota come Motofides. Durante quel periodo lavora alla realizzazione dell’Incrociatore San Giorgio, prende parte ad azioni di insubordinazione dalla catena di montaggio e viene licenziato nel 1942, perché considerato politicamente pericoloso.

Nel 1943 viene mandato a Torino alla Caserma Marmora ma, in seguito ai bombardamenti, viene mandato a Massa Marittima, una città in provincia di Grosseto. In quel piccolo centro rafforza il proprio legame con altri militanti comunisti locali e lì vi rimane fino alla ratificazione dell’Armistizio di Cassibile. Grazie all’aiuto di un militante locale, riesce a scappare dalla città grossetana e a raggiungere la famiglia sfollata ai Bagni di Casciana, dove si trovava anche sua moglie insieme alla sua famiglia. Si unisce alle formazioni partigiane locali nate dopo l’8 settembre e fa parte del Partito del Comitato militare ed ha come compito quello di organizzare i vari nuclei di partigiani della zona prima dell’arrivo del fronte di liberazione.[16]

NOTE

[1] Martelli G., Autobiografia, cit., p. 2.

[2] Il Soccorso rosso, noto anche come “Soccorso rosso internazionale per i combattenti della rivoluzione” in sigla MOPR, è stata un’organizzazione internazionale legata all’Internazionale Comunista con il compito di fornire supporto ai prigionieri comunisti e alle loro famiglie. Il Soccorso rosso è rimasto attivo tra gli anni Trenta e la Seconda guerra mondiale e condusse campagne di solidarietà sociale, di supporto materiale e umanitario, a sostegno dei prigionieri comunisti.

[3] Martelli G., Autobiografia, cit., p. 2.

[4] Tredici M., L’inchiesta, la spia, il compromesso. Livorno 1935: processo ai comunisti. Livorno: Media Print, 2020, p. 346.

[5] Come compare sul dizionario Treccani, originariamente il giannizzero era un soldato di un corpo scelto di truppe a piedi dell’impero Ottomano, spesso adibito alla guardia del corpo del sultano. Nel periodo fascista si indicavano invece tutte quelle persone al servizio di qualche personaggio illustre della milizia fascista. Ma lo stesso termine può anche esser usato in senso dispregiativo per indicare uno scagnozzo o tirapiedi, forse questo è il significato a cui fa riferimento Martelli nella sua Autobiografia. La citazione compare in: Martelli G., Autobiografia, cit., p. 4.

[6] Martelli G., Autobiografia, cit., p. 6.

[7] Giovanni Parodi (1889-1962) nasce in una famiglia operaia e diventa ben presto militante del PCd’I, viene arrestato nel 1927 dal Tribunale Speciale Fascista e gode dell’amnistia nel 1937. Fugge in Francia nel 1940 e viene arrestato l’anno successivo. Fortunatamente riesce ad evadere e a continuare il lavoro politico clandestino, nel dopoguerra fu membro del Comitato centrale del Partito Comunista Italiano e Segretario generale della Federazione Italiana Operai Metallurgici (in sigla, FIOM).

Giovanni Carsano (1891-1965): inizialmente operaio torinese, aderisce al PCd’I e partecipa al biennio rosso. Come Parodi viene arrestato nel 1927 e rilasciato dopo dieci anni, viene mandato al confino nel 1943 dove rimane fino alla liberazione. Dopo la guerra lavora presso i sindacati dei pensionati e presso l’Unione internazionale dei sindacati dell’Alimentazione.

[8] Tredici M., L’inchiesta, la spia, il compromesso, cit., p. 349.

[9] Ibidem.

[10] Tredici M., L’inchiesta, la spia, il compromesso, cit., p. 350.

[11] Intervista dell’autrice a Walter Martelli, svoltasi il 2 aprile 2024 presso l’abitazione di quest’ultimo a Livorno.

[12] Tredici M., L’inchiesta, la spia, il compromesso, cit., p. 350.

[13] Tra gli esponenti di spicco vengono arrestati Garibaldo Benifei e Aramis Guelfi.

Aramis Guelfi (1905-1977): inizialmente maestro d’ascia, viene condannato nel 1939 dal Tribunale speciale a scontare quattro anni di reclusione. Viene liberato anch’egli con l’Armistizio dell’8 settembre, ma continua a combattere nella zona di Volterra. Diventa esponente di spicco del Partito Comunista livornese, per poi aderire nel 1963 al Partito Socialista Democratico.

[14] Umberto Comi era vicedirettore del giornale fascista “Sentinella Fascista” e spesso scriveva articoli non proprio conformi all’ideologia fascista, ma erano spesso difficili da decifrare nei loro contenuti e, proprio per la sua adesione al Partito, si crearono delle divisioni all’interno del movimento.

[15] Martelli G., Autobiografia, cit., p. 9.

[16] L’area sottoposta al controllo di Giovanni Martelli è relativamente grande e comprendeva molte piccole città della provincia di Pisa, come: Lari, Cascina, Crespina, Terricciola, Chianni, Peccioli.

Articolo pubblicato nel maggio 2024.




Giovanni Martelli: storia di un antifascista livornese

Introduzione
Giovanni Martelli è stato un antifascista, militante comunista e sindacalista livornese. Ha dedicato la sua vita ai lavoratori e agli ideali di libertà, in cui credeva fervidamente. È stato vittima delle violenze fasciste, di incomprensioni da parte dei suoi stessi compagni di Partito e dei dirigenti dei sindacati, di un sistema politico che cambiava costantemente e in cui si identificava sempre meno.
Questo articolo vuole ripercorrere una parte della vita di Martelli, dalla sua precoce militanza nel Partito Comunista d’Italia fino alla detenzione nelle carceri [1]. Verranno esaminate anche tutte quelle persone che hanno assistito Martelli nel proprio percorso politico, come alcuni antifascisti e militanti livornesi, partigiani attivi nella Resistenza all’occupazione nazifascista, politici e sindacalisti della Prima Repubblica. Tale ricerca non può esser scissa da un’analisi complessiva sul contesto nazionale che ha fatto da sfondo alla sua vita, un contesto segnato dal fascismo prima e dalle tematiche del secondo dopoguerra.
Il progetto è nato sulla base della consultazione dell’Autobiografia e delle note autobiografiche redatte da Giovanni Martelli stesso, e successivamente è stato esteso grazie a degli approfondimenti attuati su altri documenti conservati dal militante. Fino ad oggi la biografia e le esperienze di vita di Martelli sono state poco note alla comunità livornese odierna ma, grazie ad un lavoro di ricerca attuata personalmente presso l’Istituto Storico della Resistenza e delle Società Contemporanee della provincia di Livorno (in sigla, ISTORECO), adesso sarà possibile ricostruirle passo dopo passo. Martelli non era di origini livornesi, eppure il suo impegno politico è sempre stato rivolto alla città labronica fin da quando aveva diciassette anni, fin dal 1930.
L’articolo illustra non solo la sua figura, il suo impegno politico e sociale, ma anche i valori che ha condiviso e che lo hanno contraddistinto in tutti i suoi anni di militanza. Perché al di là della figura, c’è stato un uomo che ha creduto negli ideali di libertà, solidarietà, verità, lavoro. Martelli è stato proprio questo: un militante che ha corso dei rischi per i valori in cui credeva, ed è proprio partendo da questi valori che sarà possibile definire con maggior chiarezza la sua figura.
Per la realizzazione dell’elaborato sono stati consultati i documenti redatti e conservati da Martelli stesso, come ad esempio: le note autobiografiche, la propria biografia, lettere e opuscoli, articoli di giornali, comunicati. Le fonti sono state dapprima analizzate analiticamente, approfondendo i contenuti e gli eventi riportati, e successivamente sono state esaminate complessivamente col fine di tracciare un filo rosso che le ponesse in correlazione. Le persone non decidono casualmente di conservare determinati documenti, il tutto dipende dal grado di importanza che per essi rivestono; oppure, ogni individuo conserva un determinato oggetto perché lo rappresenta intrinsecamente. I documenti accumulati da un essere umano non sono mai agenti neutrali della storiografia, ma vanno osservati con attenzione e cautela.
Per esaminare questa storia particolare ed affascinante, l’elaborato è stato suddiviso in tre brevi paragrafi (pubblicati in tre articoli distinti).
Il primo paragrafo (pubblicato qui di seguito) illustra i primi anni di militanza di Giovanni Martelli nel Partito Comunista d’Italia durante il regime fascista e il suo incontro precoce con la classe operaia. Come afferma nella sua autobiografia, Martelli incontra la politica in età giovanile e quasi per caso, senza rendersi conto di cosa significasse aderire a un partito costretto alla clandestinità durante un regime totalitario. Si accorge delle responsabilità che ricopre solo quando vivrà sulla propria pelle la perquisizione e l’arresto.
Il secondo evidenzia i suoi due periodi di detenzione nelle carceri fasciste e le difficili condizioni psico-fisiche in cui ha vissuto. Nonostante gli arresti, Martelli apporterà un contributo significativo alla causa dell’antifascismo livornese e della Resistenza.
Il terzo ripercorre l’ultimo periodo di detenzione avvenuto prima presso il carcere di Don Bosco a Pisa e poi presso il carcere di Sant’Eufemia a Modena. L’ultimo arresto segnerà in maniera indelebile la vita del giovane antifascista di adozione livornese, soprattutto perché temeva di non poter più far ritorno a casa.

La presa di consapevolezza (novembre 1913-giugno 1932).
Giovanni Martelli nasce il 17 novembre 1913 a Castelfiorentino in una famiglia di umili origini: suo padre è operaio presso la Metallurgica Italiana e sua madre è casalinga. Per questioni lavorative il padre si trasferisce col resto della famiglia a Livorno, quando Martelli era molto piccolo. Lo stesso padre era nato e domiciliato a Livorno.
Vista la difficile situazione economica in cui viveva la famiglia, Martelli è costretto a lavorare non appena ha terminato le scuole elementari. Il suo primo impiego è presso l’ufficio telegrafico, dove vende a domicilio i telegrammi in arrivo, e a quindici anni lavora alla Cristalleria Torretta. Conosce il mondo del lavoro molto presto, quando è poco più che un bambino. Il contatto precoce con questa realtà lo segna così tanto nel profondo che le battaglie proletarie rimarranno al centro dei suoi interessi e delle sue discussioni.
Fino ai diciotto anni svolge più impieghi: diventa manovale edile, costruisce i blocchi di Shangai, svolge degli incarichi presso l’impresa Feltrinelli[2]. Successivamente, inizia a lavorare presso la ditta francese Mathon in uno stabilimento di materiali refrattari[3]. L’autore descrive la difficile condizione lavorativa in cui viveva, il difficile rapporto col sistema di produzione industriale fordista e la scarsa remunerazione che riceveva. Martelli racconta quella realtà con le seguenti parole:

«[…] Lavorai in quella fabbrica per circa due anni e fu in essa che conobbi veramente la durezza del lavoro e delle condizioni imposte all’operaio. In questo stabilimento, costruito secondo i moderni criteri dell’epoca, nonostante il paternalismo di quella direzione, le condizioni del lavoratore erano subordinate alla “salute” dei materiali […]. La condizione [in] cui si trovava l’operaio addetto alla macinazione del materiale refrattario, immerso per ore e ore permanentemente [nel] nuvolo di polvere e così via. Una forte percentuale di quegli operai, che per anni avevano dovuto lavorare a quelle condizioni, veniva colpita da malattie tubercolari o da gravi forme di silicosi […]»[4].

Quelle difficili condizioni lavorative gli fecero capire l’importanza della formazione, dell’istruzione e della scuola, di quei percorsi che aveva dovuto abbandonare a causa della povertà. Martelli comunque tra i diciotto e i ventuno anni riesce a frequentare delle scuole serali di avviamento professionale, dove si specializza in motori e in aviazione.
Sempre all’età di diciotto anni, Martelli si avvicina alla politica e al PCd’I quasi per caso. Nella sua Autobiografia racconta che non si è mai spiegato il perché a quell’età nutrisse una «profonda avversione verso il sistema fascista» e una «certa simpatia per il Partito comunista»[5]. In realtà, esisteva una motivazione di fondo che spiegava i suoi sentimenti contrastanti: come altri giovani cresciuti durante il Ventennio, era costretto a frequentare dei corsi premilitari che detestava nel profondo.
L’attività politica di Martelli si inserisce proprio in un periodo storico molto complesso. Nel 1931 si iscrive alle organizzazioni giovanili della Federazione comunista livornese a Iedo Tampucci e Leonardo Leonardi ma, a causa della sua giovane età, inizialmente non ricopre dei ruoli di rilievo politico all’interno della federazione e svolge altre attività, come: azioni di propaganda, organizzazione delle cellule, distribuzione e lanci dei manifesti di propaganda, preparazione dei materiali da discutere nelle riunioni. Aderire a un movimento considerato come eversivo in un regime autoritario, significava prender parte consapevolmente alla vita clandestina.
Un anno dopo entra a far parte del Comitato federale dei giovani e conosce molti giovani comunisti livornesi, tra cui Otello Frangioni e Garibaldo Benifei[6]. È necessario precisare che questi giovani non solo svolgeranno dei ruoli di rilevanza all’interno della lotta al regime nazifascista, ma continueranno anche a ricoprire degli incarichi di spicco all’interno del Partito dopo la guerra. Inizialmente prendono parte a riunioni su argomenti concernenti i presagi di una guerra imminente e la possibile partecipazione del fascismo ad essa, e successivamente svolgono il ruolo di trasmissione all’interno dell’organizzazione delle inaudite difficoltà che stava vivendo il Partito a livello nazionale. Inoltre, svolgeranno azioni di proselitismo clandestine nelle fabbriche e nelle giornate di festività dei lavoratori, come il primo maggio abolita dal regime e realizzeranno dei volantini inneggianti lavoro, pace e libertà.
Il 1932 è un anno che segnerà in maniera irreversibile la vita di Martelli in quanto viene arrestato l’11 giugno dall’OVRA, la polizia politica e segreta del regime che aveva il compito di reprimere l’antifascismo. Fino al 1944, Martelli verrà arrestato complessivamente tre volte e verrà denunciato al Tribunale speciale, come compare anche nella scheda biografica del Casellario Politico Centrale[7].
Le torture subite, gli arresti, le condanne e i trasferimenti, cambieranno le scelte di vita di Martelli che da militante per caso, divenne sinceramente convinto delle proprie scelte e continuerà ad opporsi al regime con un coraggio senza precedenti. È proprio con queste esperienze difficili che Martelli acquisirà una maggior consapevolezza e coscienza su cosa vuol dire esser militanti in un partito di opposizione durante un regime totalitario.

Note

  1. D’ora in avanti il Partito Comunista d’Italia verrà indicato con la sigla PCd’I.
  2. Presso l’impresa Feltrinelli, Martelli lavora allo scarico e carico del legname. Per un’impostazione generale sul tema, vedi: Martelli G., Nota autobiografica, Livorno, gennaio 1985, p. 1.
  3. Lo stabilimento qui menzionato è la “Società toscana per lo sfruttamento di cave e miniere C. Mathon”, attiva in tutto il territorio toscano e collocata a Livorno all’epoca in Piazza San Marco. Per un approfondimento sul tema, vedi: Camera di commercio della Maremma e del Tirreno, Fascicolo delle Società cessate, b. 838.
  4. Martelli G., Nota autobiografica, cit., p. 3.
  5. Martelli G., Autobiografia, Direzione del Partito Comunista Italiano (Sezione Quadri), 20 marzo 1945, p. 1.
  6. Otello Frangioni (1913-1952): è coetaneo di Martelli, con cui stringe un solido rapporto di amicizia. Anche lui si iscrive al Partito Comunista quando è giovanissimo e nutre un interesse profondo per le questioni proletarie. Sposerà una delle sorelle di Martelli e diventerà suo cognato. Muore in un incidente stradale a Scandicci insieme a altri militanti livornesi, come Leonardo Leonardi e Ilio Barontini.
    Garibaldo Benifei (1912-2015): Nasce in una famiglia antifascista, composta dal fratello anarchico Rito e dal fratello socialista Antonio. Nel 1933 viene arrestato con Martelli e condannato a un anno di reclusione presso il Palazzo dei Domenicani a Livorno, dove conobbe Sandro Pertini. Dopo l’arresto nel 1939 viene condannato a sette anni di carcere, ma viene liberato con l’Armistizio dell’8 settembre 1943. Tornato a Livorno aderisce al CLN e prende parte attivamente alla guerra di liberazione. Nel dopoguerra ha continuato a lavorare come operaio ed è stato esponente di spicco del Partito Comunista livornese.
  7. Casellario Politico Centrale, Giovanni Martelli, b. 3092, < http://dati.acs.beniculturali.it/CPC/ >, data di consultazione: 18 marzo 2024.

Articolo pubblicato nell’aprile 2024.




«Verso le 1,30 di stanotte ho udito…»

Il 30 maggio 1924 Giacomo Matteotti nel suo ultimo intervento alla Camera dei deputati denuncia le violenze e i brogli elettorali effettuati dai fascisti durante le ultime elezioni politiche, quelle che si erano svolte il 6 aprile, chiedendo «l’annullamento in blocco delle elezioni della maggioranza» e mettendo di fatto in crisi il risultato politico che più sta a cuore a Mussolini e ai fascisti: la parvenza di legalità, che con la realizzazione della legge Acerbo volevano perseguire.
La riforma elettorale approvata prima dalla Camera, il 23 luglio, e poi dal Senato il 3 novembre 1923, istituiva il collegio unico nazionale e la scheda di Stato, abolendo il sistema proporzionale e stabilendo la regola dell’attribuzione di due terzi dei seggi alla lista che avesse raccolto la maggioranza dei voti validi, senza fissare in origine alcun tipo di quorum. I votanti sono il 63% del corpo elettorale e il «listone» ottiene 4.305.936 voti[1], ai quali si aggiungono i 347.552 voti delle «liste bis» raggiungendo così il 56,54% dei voti su un totale di quelli validi di 7.021.551. Al Nord Italia, a dispetto delle pressioni e delle violenze, le forze dell’opposizione raccolgono più voti di quelle fasciste, ma nonostante questo il plebiscito ottiene un notevole successo. Nella provincia pisana al «listone» vanno 72.163 voti a fronte dei 14.792 raccolti dall’opposizione[2].
Matteotti denuncia con audacia le violenze e le manipolazioni del voto effettuate dalle squadre fasciste con la collaborazione di numerose prefetture e apparati dello Stato, ma questa coraggiosa presa di posizione gli vale solo la condanna a morte. Il 10 giugno è rapito e ucciso dalla banda fascista dei sicari di Dùmini[3].
Le violenze degli squadristi perpetuate nei mesi e nelle settimane precedenti il voto elettorale spesso si tramutano in veri e propri attacchi criminali: ad esempio, il 28 febbraio 1924, i fascisti uccidono a Reggio Emilia a colpi di pistola il candidato socialista Antonio Piccinini, tipografo e sindacalista, mentre in altre località feriscono altri esponenti dell’opposizione come i riformisti Enrico Gonzales, Giovanni Battista Canepa e Bruno Buozzi.
L’uccisione di Antonio Piccinini avviene con una dinamica ben precisa, la stessa che i fascisti utilizzano in altri casi. L’esponente socialista è prelevato al suo domicilio da alcuni fascisti, che si sono fatti aprire la porta con uno stratagemma: gli squadristi si presentano come socialisti esibendo una tessera sottratta a veri iscritti, aggrediti in precedenza. Piccinini è poi trucidato da lì a poco nella casa di due dei sequestratori, che dopo averlo stordito di bastonate lo appendono a dei ganci in un locale per la lavorazione dei maiali e lo finiscono con quattro colpi di rivoltella sparati a bruciapelo. Il corpo straziato è fatto trovare all’alba sotto un albero lungo la ferrovia Reggio-Ciano d’Enza, non lontano dalla sua abitazione, affinché i lavoratori che arrivano in città col treno locale per recarsi al lavoro possano constatare la fine che i fascisti fanno fare ai dirigenti operai.

Ugo Rindi

Anche la provincia pisana è attraversata da numerosi episodi di violenza e intimazioni: il 20 marzo una squadra di fascisti a Pontedera devasta la casa del comunista Antonio Romboli bastonando l’intera famiglia e ferendo il figlio con un colpo di pistola; nello stesso giorno è aggredito e ferito l’ex sindaco di Bientina, Annibale Iacopetti; il 24 marzo a Nodica i fascisti feriscono un socialista; il 29 marzo a Latignano gli squadristi picchiano un invalido di guerra iscritto al Partito popolare; il 4 aprile viene bastonato un ex consigliere del Partito popolare e a Ponsacco un gruppo di iscritti al Partito di Don Sturzo sono percossi selvaggiamente.
L’episodio più grave, sempre legato alle tensioni nate intorno alla data delle elezioni, è quello dell’uccisione di Ugo Rindi, tipografo, segretario della locale Federazione italiana del libro (il sindacato dei tipografi)[4], che avviene a Pisa nella notte tra l’8 e il 9 aprile 1924[5].
Recentemente l’Archivio di Stato di Pisa ha ricevuto un consistente fondo di documenti provenienti dall’archivio del Tribunale di Pisa che sono stati oggetto di un primo ordinamento e che contribuiscono a chiarire ancora meglio la dinamica dell’assassinio[6].

L’8 aprile, intorno alle 20, Emilio Gnesi, ufficiale della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, si reca insieme al console Francesco Adami dal questore Pace e dal prefetto Renato Malinverno per denunciare il grave ferimento di un fascista. Il presunto responsabile è Ulico Caponi, colono abitante in località Villa Filippi a circa un chilometro e mezzo da Porta a Lucca sulla via per San Giuliano Terme. Nel frattempo, la notizia viene fatta girare ad arte in città[7].
Il racconto degli squadristi afferma che un’auto guidata dallo squadrista Dino Poli, con a bordo Gualtiero Bacci e Ruffo Lester e i militi della MVSN Emilio Gnesi, Giulio Susini, Ruffo Monnosi e Guido Marradi, aveva raggiunto «Villa Filippi», la casa colonica abitata della famiglia Caponi per dare una lezione a Ulico, che il giorno delle elezioni ha dichiarato, all’uscita del seggio, la propria fede antifascista di fronte agli squadristi presenti. Evitato il linciaggio grazie all’intervento di un ufficiale dei carabinieri il Caponi si è rifugiato a casa sua. Secondo i fascisti quando Caponi li vede entrare nel proprio cortile si dà alla fuga nei campi sparando e ferendo gravemente lo squadrista Poli[8]. Il ferito è immediatamente trasportato in ospedale ma le sue condizioni, nonostante l’intervento dei sanitari, peggiorano rapidamente nella notte e intorno alle 14 del 9 aprile spira tra le braccia della moglie[9].
Il Prefetto e il Questore di Pisa credono ai fascisti e si prodigano immediatamente per dare ordini affinché il presunto assassino venga assicurato alla giustizia e chiedendo agli stessi squadristi di collaborare alle ricerche. Questi ultimi non si fanno ripetere la richiesta una seconda volta e immediatamente si mobilitano attivando quattro squadre che perlustrano Pisa e dintorni, colpendo tutti coloro che gli capitano a tiro, compreso, come ricorda il Procuratore generale della repubblica di Firenze, «persone indifferenti e innocue»[10].
Tra le due e trenta e le tre del 9 aprile due barrocciai, Riccardo Cioni di Empoli e Armando Matteucci di Firenze, sotto un’incessante pioggia escono da Porta a Lucca con i loro carri dirigendosi a sinistra verso Viareggio per la via del Marmigliaio quando i loro cavalli all’improvviso si bloccano perché qualcosa impedisce loro di procedere. Scesi dai loro carri i due barrocciai si accorgono che in mezzo alla strada giace insanguinato il corpo di un uomo. Subito si dirigono verso la vicina stazione daziaria avvisando gli impiegati presenti, due dei quali si recano sul posto e riconoscono immediatamente il corpo di Ugo Rindi, una persona molto nota nel quartiere e in città[11].
Avvertite le autorità, i carabinieri e il commissario di PS giunti sul posto confermano il riconoscimento di Rindi, ucciso da due pugnalate, una delle quali gli ha reciso l’aorta. Il corpo viene rimosso dal selciato intorno alle 9 di mattina[12].

Alessandro Carosi

In poco tempo la notizia della morte di Rindi fa il giro della città. Il sindacalista aveva seguito le orme paterne sia dal punto di vista professionale che ideale[13]: da giovane era stato affascinato delle idee libertarie ed era una persona molto amata e impegnata nel sociale, tanto che le stesse autorità durante l’inchiesta più volte sottolineano nei loro rapporti che Rindi era una persona «idealista» e «proba e innocua», ricordando come si fosse distinto nel settembre del 1920 negli aiuti ai terremotati della Garfagnana e Lunigiana. Come scrive il Procuratore generale di Firenze, anche il parroco di Porta a Lucca, don Angelo Petrini, ne «esalta le virtù e i meriti sebbene il Rindi non accettasse la religione cattolica»[14].
Le indagini vengono espletate velocemente e le autorità ben presto comprendono la reale dinamica dei fatti grazie anche alla collaborazione fondamentale e inaspettata del capitano Bruno Santini, leader di una delle fazioni del fascismo locale, che fin dalle prime ore del 9 aprile si prodiga, facendo visita anche alla famiglia Rindi, per comprendere la dinamica della brutale aggressione e individuare i responsabili. È grazie proprio alla denuncia di Santini e di altri suoi commilitoni alle autorità che vengono identificati gli assassini di Rindi[15].
L’11 aprile è arrestato il sindaco di Vecchiano, il già allora famigerato Alessandro Carosi[16], che come ricorda il Procuratore generale di Firenze amava presentarsi come «Tenente Carosi, sette volte omicida». Un personaggio che è animato al pari di altri sicari fascisti, sempre in base alle parole del Procuratore di Firenze, da «un istinto ferino» con assoluta mancanza di «moralità», che ha l’abitudine di ferire e uccidere per «brutalità, spavalderia e intimidazione»[17]. Carosi fa parte, dunque, di quella genia di «squadristi famigerati, accaniti e sanguinari, espressione di ceti e ruoli sociali ben definiti e tutt’altro che marginali e spostati»[18].

Filippo Morghen

Nei giorni e nelle settimane successive vengono arrestati anche i complici di Carosi: Antonio Sanguigni[19], segretario del fascio di Avane, Ranieri Cola[20], Giuseppe del Pellegrino[21] e Giulio Malmusi[22]. Sono arrestati anche il presunto mandante, Francesco Adami, console della MSVN[23] e il suo padrino, Filippo Morghen[24], segretario provinciale della Federazione e presidente del consiglio provinciale, oltre ai suoi più stretti collaboratori, gli squadristi Girolamo Grimaldi[25], segretario del fascio di San Giuliano Terme, Giuseppe Biscioni[26] e Ovidio Chelini, segretario del fascio di Nodica[27].
Vasta è l’eco dell’efferato assassinio sulla stampa locale e nazionale, Rindi è, come già ricordato, un personaggio assai conosciuto nella città, da tutti indicato come «uomo mite e onesto»[28]. Una grande sottoscrizione popolare nei confronti della famiglia del tipografo assassinato è lanciata dal periodico cattolico «Il Messaggero toscano»[29]. I funerali e le molte testimonianze dell’affetto della Pisa popolare e antifascista sono la prova di un’unanime condanna del delitto. La morte di Rindi ha lasciato nella disperazione la famiglia: la moglie Nella e i figli Emilio e Vera, la madre Rosa, la sorella Lavinia, che, subito dopo che Rindi è uscito di casa con i «fascisti», hanno cercato in città il proprio congiunto rivolgendosi invano anche alla Questura[30].
È molto probabile che Santini colga al volo l’occasione dell’assassinio di Rindi per cercare di liberarsi una volta per tutte

Giulio Malmusi, squadrista complice di Carosi nell’omicidio Rindi.

del gruppo legato a Filippo Morghen che, dall’autunno del 1922 ai primi mesi del 1924, si è distinto nell’occupazione di tutti i posti di potere chiave del territorio[31]. Questa occupazione di poltrone, una vera e propria ingordigia di potere, ha aperto delle fratture e «una furiosa e selvaggia lotta di gruppi» nelle file fasciste lasciando una parte degli squadristi della prima ora senza un corrispettivo adeguato di riconoscimenti e palesando un tradimento degli «ideali» del fascismo sansepolcrista[32].
Il 10 aprile giunge in città Luigi Freddi, responsabile dell’ufficio stampa del PNF, squadrista milanese della prima ora e «fedelissimo» di Mussolini, inviato a Pisa come commissario straordinario per rimettere ordine in una Federazione locale ormai profondamente dilaniata dai contrasti interni. Tutti i vertici della Federazione sono obbligati alle dimissioni e anche il prefetto Malinverno, troppo accondiscendente verso alcuni dei ras locali è sostituito da Giovanni Battista Rossi.
In giugno poi la notizia del rapimento dell’on. Giacomo Matteotti, con la sua eco emotiva, ha l’effetto, anche nel pisano, di un’ulteriore onda d’urto nelle file del fascismo e dell’opinione pubblica. Il clima politico è caratterizzato dall’incertezza, le autorità sono disorientate e gli stessi fascisti sembrano per un istante più indecisi e confusi sul da farsi.
Una lettera del capitano Santini alla redazione de «Il Messaggero toscano» della fine di agosto fotografa con chiarezza il clima politico di Pisa di quell’estate:

La situazione della città di Pisa è angosciosa, terribile, e non è soltanto una situazione del partito, ma l’imposizione di un sistema che offende la cittadinanza e gli onesti di tutte le tendenze, poiché mira all’apologia della delinquenza che ogni partito deve saper distruggere in se stesso se vuole vivere e prosperare. Pisa vive da tre mesi una tragica ora che non si vuol comprendere. Pisa ha visto l’8 aprile commettere nelle sue mura un assassinio obbrobrioso davanti al quale impallidisce un fatto come quello di Matteotti e i delinquenti furono consegnati alla giustizia dai fascisti stessi che non potevano ammettere nella loro buona fede che il fascismo si imbastardisse convivendo con l’inutile e deleteria delinquenza[33].

Nel frattempo nei primi giorni di luglio Freddi è sostituito nel suo incarico di commissario straordinario dall’on. Ezio Maria Gray che cerca di riportare alla «normalità» la vita della Federazione, ma in realtà alla fine chi paga maggiormente è il gruppo di Santini che l’anno successivo, non senza aver ricevuto minacce e pressioni di ogni tipo, decide di abbandonare Pisa e la militanza per trasferirsi a Milano.
La figura che si afferma in questo periodo di transizione è quella di Guido Buffarini Guidi, decorato di guerra, avvocato, massone e sindaco di Pisa, dal 1923 al giugno 1924, quando lascia l’incarico perché eletto in Parlamento. Noto per il motto «Ci penso io», ripetuto più volte a fronte di problemi e richieste di interventi, Buffarini non abbandona a se stessi gli esecutori dell’assassinio di Rindi, garantendo loro sussidi, assistenza e coperture.
La violenza del fascismo pisano ha un’altra occasione di mettersi in mostra il 2 gennaio 1925, il giorno prima del noto discorso di Mussolini al Parlamento sulle responsabilità del delitto Matteotti, quando sono assaltate le sedi delle organizzazioni dell’opposizione che ancora sopravvivevano e della massoneria. Viene tentato anche un assalto alle Carceri giudiziarie di S. Matteo al fine di liberare Carosi e Adami ma il tentativo fallisce per l’intervento massiccio di carabinieri e guardie di P.S. Sono devastate anche la redazione e la tipografia del «Messaggero toscano», che vengono distrutte da una forte esplosione, le abitazioni e gli studi di vari «notabili», rei di aver abbandonato il sostegno al fascismo, come Alfredo Pozzolini e Arnaldo Dello Sbarba, mentre gli squadristi non riescono ad entrare nello studio di Adolfo Zerboglio, noto giurista e senatore, perché sulla porta trovano un capitano degli alpini che impedisce armi alla mano alla squadra fascista di eseguire l’ordine di distruzione[34].
Il Procuratore generale di Firenze alla fine dell’anno conclude la sua istruttoria rinviando a giudizio Carosi, come esecutore dell’assassinio di Rindi, Malmussi e Grimaldi come complici, Adami e Biscioni come mandanti, mentre Morghen, Sanguigni, Cola e Del Pellegrino sono prosciolti dalle accuse per insufficienza di prove[35].
Il processo si svolge al Tribunale di Genova nel settembre del 1925, in un clima totalmente diverso rispetto a quello dell’anno precedente: nonostante le prove raccolte durante l’inchiesta, la sentenza finale è di assoluzione piena per tutti gli imputati. La corte di Genova ha subito forti pressioni politiche, proveniente anche da Roma, al fine di impedire una condanna che in quel contesto avrebbe significato una sconfessione piena di tutta l’organizzazione fascista locale. Il processo è anche l’occasione per la resa dei conti tra le due fazioni del fascismo a Pisa che nei mesi trascorsi hanno continuato a darsele di santa ragione, anche a colpi di revolver. In settembre un fascista seguace di Santini, Pilade Fiaschi, ingaggia a Marina di Pisa uno scontro a fuoco con un fascista «ufficiale», Gino Salvadori, entrambi rimangono feriti sul selciato ma ad avere la peggio è il secondo, che muore poco dopo[36].
Gli imputati assolti a Genova ricevono calorose accoglienze sia nella città ligure che a Pisa, dove i loro camerati li portano in «trionfo» per le vie delle città come dei «vincitori» di una gara sportiva[37].

Nel 1945, quando la guerra ancora non è terminata la Cassazione annulla la sentenza del 1925 e il caso viene riaperto ma nel frattempo uno dei principali esecutori dell’omicidio, Alessandro Carosi, si è dato alla macchia. Verrà condannato in contumacia a 21 anni di reclusione, come gli altri due imputati, ma non farà mai un giorno di carcere per il delitto Rindi, continuerà a vivere e lavorare a Roma, con la complicità di amici potenti, sotto il falso nome di Filippo Filippi[38]. Morirà nella capitale il 29 gennaio 1965 e la sua scomparsa avrà una vasta eco sui maggiori quotidiani italiani[39].
Carosi in carcere in precedenza ci era finito per un’altra tragica storia. Nel 1931 a Viareggio, dove risiedeva, uccide Assunta Beneforti (Tina), la sua amante e madre del figlio Sergio nato nel 1927. Per questo omicidio verrà condannato dalla Corte d’Assise di Firenze ad una lunga pena detentiva. Il 9 aprile 1943 inspiegabilmente Carosi è liberato con la condizionale e posto in regime di libertà vigilata. Decide di stabilire la propria residenza a Guardistallo dove viveva e lavorava la figlia Liliana avuta da una precedente relazione. Qui il 1° agosto 1943 sposa Cesarina Cesari la madre di Liliana. Il Prefetto preoccupato della presenza di Carosi e temendo le sue attività lo fa arrestate proponendolo per l’internamento in un campo di concentramento. Dopo l’8 settembre Carosi è liberato e nominato triumviro della Federazione pisana del nuovo Partito fascista repubblicano. Nei mesi seguenti collabora attivamente con la RSI e con gli occupanti nazisti.
Il 24 giugno 1944 si perdono le sue tracce, pare che si sia diretto al Nord insieme ai reparti e autorità fasciste della provincia. Secondo alcune testimonianze sembra che Carosi sia coinvolto nella denuncia alle autorità tedesche dell’antifascista e membro del CLN, Sisto Longa, che aveva retto il municipio di Guardistallo nei giorni seguenti la caduta di Mussolini. Longa il 29 giugno viene trucidato insieme ad altri 51 civili e 11 partigiani dalla Quarta compagnia della 19ª divisione da campo della Luftwaffe[40].

Il 14 maggio 1965, il senatore Umberto Terracini presenta un’interrogazione al Ministro dell’Interno, il senatore Paolo Emilio Taviani – democristiano ed ex membro del CLN ligure –, chiedendo come il ricercato Alessandro Carosi avesse potuto vivere e lavorare indisturbato a Roma nonostante la pesante condanna ricevuta. A Terracini rispose il sottosegretario all’interno, Crescenzo Mazza, con argomentazioni generiche e inconcludenti[41].
La vicenda Carosi mostra bene come l’eredità del fascismo abbia pesantemente condizionato la vita della giovane Repubblica italiana e come i suoi fantasmi si siano di volta in volta materializzati lasciando ferite profonde e aperte nella società civile del nostro Paese.
Il delitto Rindi è per Pisa quello che l’assassinio di Matteotti rappresenta per l’Italia: una svolta decisiva nell’evoluzione del fascismo, dove un partito politico da solo, il partito fascista, si autoproclama unico rappresentante di tutta la nazione. Un secondo effetto di questi episodi ricade soprattutto sulla tenuta dell’ordine pubblico e sulla gestione della giustizia. È evidente come in ambedue i casi lo Stato abdica a gruppi di potere locali e nazionali che si ergono in modo violento e spiccio, a volte in forme contraddittorie, a gestori della sicurezza nazionale.
Mussolini con il discorso del 3 gennaio 1925, assume la responsabilità storica di aver condotto il fascismo attraverso l’illegalità e la violenza al potere, mettendo al bando le residue forme democratiche del vecchio sistema monarchico/liberale, verso la costruzione di uno stato totalitario.
Pisa antifascista ricorderà Ugo Rindi nel secondo dopoguerra con varie manifestazioni e con l’intitolazione della strada che costeggia l’Arena e che partendo da via L. Bianchi arriva fino alla via del Marmigliaio.

NOTE:

1 La Lista nazionale nota comunemente come Listone oltre al Partito nazionale fascista (PNF), che l’anno prima aveva assorbito l’Associazione nazionalista italiana, comprendeva la maggioranza degli esponenti liberali come Vittorio Emanuele Orlando, Antonio Salandra e, inizialmente, anche Enrico De Nicola (che però ritirò la sua candidatura prima delle elezioni), ex popolari espulsi dal partito, demosociali e sardisti filofascisti, oltre a numerose personalità della destra liberale e cattolica italiana.
2 Si v. gli art. La elezione politica è stata un plebiscito nazionale e La Votazione di Pisa, «Il Ponte di Pisa», 12-13 aprile 1924.
3 Cfr. G. Mayda, Il pugnale di Mussolini: storia di Amerigo Dùmini, sicario di Matteotti, Bologna, Il mulino, 2004; M. Canali, Il delitto Matteotti, Bologna, Il mulino, 2004; M.L. Salvadori, L’antifascista: Giacomo Matteotti, l’uomo del coraggio, cent’anni dopo (1924-2024), Roma, Donzelli, 2023.
4 All’anagrafe Ugo Gustavo Ruffo Rindi nasce a Pisa il 21 maggio 1882 da Emilio e Rosa Lorenzetti. Per un inquadramento generale sulla storia del lavoro e sindacale di Pisa nel periodo cfr. A. Marianelli, Eppur si muove! Movimento operaio a Pisa e provincia dall’Unità d’Italia alla dittatura, Pisa, BFS edizioni, 2016.
5 Archivio di Stato di Pisa (d’ora in poi ASPi), Tribunale di Pisa, Corte d’Assise, aa. 1922-1946, Carosi Alessandro … [et al.], Il funzionario di servizio della Questura di Pisa al Procuratore del Re, 9 aprile 1924. Il quotidiano dei socialisti il giorno dopo la notizia della morte di Rindi riporta il fatto con il titolo esemplificativo: L’esecuzione capitale di un tipografo a Pisa, «L’Avanti!», 10 aprile 1924. Nell’articolo si fa riferimento alla similitudine del caso Rindi con quella del socialista Piccinini assassinato a Reggio Emilia in febbraio. 6 6 Per la cronaca pisana si v. anche Misterioso assassinio a Pisa. Un tipografo ucciso a pugnalate, «La Nazione», 10 aprile 1924 e Il tipografo ucciso, «Il Ponte di Pisa», 12-13 aprile 1924.
7 Il progetto di riordino è stato realizzato grazie ad un contributo della Fondazione Pisa e della Biblioteca Franco Serantini e realizzato dalla dr.ssa Giulia Vierucci. Ringrazio la direttrice dell’Archivio di Stato di Pisa, dr.ssa Jaleh Bahrabadi, per la disponibilità e la collaborazione e per l’autorizzazione alla consultazione dei materiali.
8 ASPi, Tribunale di Pisa, Corte d’Assise, aa. 1922-1946, Carosi Alessandro … [et al.], Il Procuratore generale presso la Corte d’Appello di Firenze, Rinvio a giudizio Carosi Alessandro … [et al.] per omicidio premeditato, 13 febbraio 1925 (d’ora in poi Procura generale di Firenze, Rinvio a giudizio …)
Caponi si eclissa ma raggiunto dalle notizie delle minacce fatte alla famiglia decide il giorno dopo di costituirsi alle autorità rimanendo in carcere per circa due mesi. La «falsa» notizia dell’agguato nel quale sarebbe rimasto ferito Poli propagata dai vertici della Federazione pisana del fascio è immediatamente ripresa dalla stampa nazionale. Cfr. “Chauffer” ferito da uno sconosciuto mentre attende a una riparazione, «Il Corriere della sera», 9 aprile 1924.
9 La moglie accorsa in ospedale ebbe il tempo di ascoltare dalla voce del marito morente la nuda e tragica verità dei fatti. Poli nell’inseguire il Caponi attraversò un fosso e risalì la sponda opposta mentre i suoi iniziavano a sparare. Nella concitazione degli avvenimenti gli squadristi non si accorsero che sparavano nella sua direzione ed un colpo da fuoco «amico» lo prese in pieno. Alla moglie furono fatte molte pressioni da parte dei «camerati» di suo marito e gli venne garantito un vitalizio da parte della Federazione pisana del fascio e al processo Rindi dell’anno successivo confermò la versione «ufficiale» sulla dinamica dei fatti contribuendo all’assoluzione degli imputati. Solo dopo vent’anni, alla riapertura del procedimento contro i responsabili dell’omicidio di Ugo Rindi la vedova Poli racconterà la verità. Va qui ricordato che all’epoca la magistratura non aprì nessun fascicolo per perseguire i responsabili della morte dello squadrista, nonostante dopo pochi giorni fosse a conoscenza di tutti i nomi dei presenti al fatto. Poli venne sepolto con tutti gli onori del caso entrando nell’albo dei «martiri» del fascismo.
10 ASPi, Tribunale di Pisa, Corte d’Assise, aa. 1922-1946, Carosi Alessandro … [et al.], Procura generale di Firenze, Rinvio a giudizio …, cit.
11 Ib.
12 Archivio di Stato di Pisa (d’ora in poi ASPi), Tribunale di Pisa, Corte d’Assise, aa. 1922-1946, Carosi Alessandro … [et al.], Verbale di visita di località e rimozione di cadavere, Pisa, 9 aprile 1924 e Legione territoriale dei Carabinieri reali di Livorno, Stazione di Portanuova, Verbale di omicidio in persona di Rindi Ugo ad opera di 5 sconosciuti, Pisa, 9 aprile 1924. Carosi, accompagnato da Malmusi e da altri tre squadristi, si è presentato intorno all’1,30 a casa della famiglia Rindi, annunciandosi come commissario di P.S. si è fatto aprire la porta e ha chiesto a Rindi di seguirlo perché indiziato di omicidio.
13 Il padre Emilio, nato a Pisa il 30 giugno 1858, operaio tipografo è stato un attivo militante internazionalista nelle Pisa post-unitaria. Cfr. M. Bacchiet, Malfattori e birrri nel fosco fin del secolo morente. Pisa 1872-1900, Ghezzano, BFS edizioni, 2023, pp. 86-88.
14 ASPi, Tribunale di Pisa, Corte d’Assise, aa. 1922-1946, Carosi Alessandro … [et al.], Procura generale di Firenze, Rinvio a giudizio …, cit.
15 ASPi, Tribunale di Pisa, Corte d’Assise, a. 1922 e sgg., Carosi Alessandro … [et al.], Comando della Legione territoriale dei carabinieri di Livorno, Compagnia di Pisa, Verbale della denuncia di Bruno Santini … [et al.] in ordine all’omicidio volontario in persona Rindi Ugo, Pisa, 10 aprile 1924.
16 Alessandro Carosi nato a Roma il 9 febbraio 1899 da Emilio e Pia Antilli, commerciante, arrestato l’11 aprile 1924. Cfr. L’arresto d’un sindaco fascista per l’uccisione del tipografo pisano, «Il Corriere della sera», 12 aprile 1924.
17 ASPi, Tribunale di Pisa, Corte d’Assise, aa. 1922-1946, Carosi Alessandro … [et al.], Procura generale di Firenze, Rinvio a giudizio …, cit.
18 M. Palla, I fascisti toscani, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. La Toscana, Torino, Einaudi, 1986, pp. 473.
Antonio Sanguigni nato a Pisa il 12 febbraio 1896 da Giuseppe e Assunta Del Rosso, residente a Vecchiano, possidente, detenuto dal 23 aprile 1924. Sanguigni verrà poi «giustiziato» dai partigiani nella notte tra il 4 e 5 agosto 1944 in località Faeta.
19 Ranieri Cola nato a Vecchiano il 18 maggio 1899 da Luigi e Teresa Pardi, terrazziere, detenuto da l’11 giugno al 22 ottobre 1924.
20 Giuseppe Del Pellegrino nato a Vecchiano il 16 settembre 1900 da Amadio e Zoraide Bartelloni, orticultore, detenuto da l’11 giugno al 22 ottobre 1924.
21 Giuseppe Malmusi nato a Modena il 21 maggio 1897 da Giuseppe e Margherita Malmusi, studente, arrestato il 21 luglio 1924.
22 Francesco Adami nato a San Paolo in Brasile il 7 settembre 1893 da Pio e Maddalena Stefani, residente a Pisa, studente, detenuto dal 19 aprile 1924. Adami durante gli anni del fascismo continuerà la propria militanza, dopo la caduta del fascismo sarà tra i fondatori del Fascio repubblicano. Nominato il 1° ottobre 1943 Prefetto di Pisa, carica che mantiene fino alla fine del mese, seguirà poi Buffarini Guidi al nord. La sua nomina a Prefetto è contraddistinta da continui arresti di molti antifascisti e una gestione dell’ordine pubblico violenta e arrogante.
23 Filippo Morghen nato a Castellina Marittima il 22 febbraio 1882 da Antonio e Margherita Werner-Debeauvert, residente a Pisa, avvocato, arrestato e detenuto dal 19 aprile al 24 ottobre 1924.
24 Girolamo Grimaldi nato a Livorno il 27 luglio 1888 da Ernesto e Argia Cappelli, capostazione ferroviario, residente a San Giuliano Terme, detenuto dal 19 aprile 1924.
25 Giuseppe Biscioni nato a Calci il 3 marzo 1900 da Gino e Marianna Malanima, studente, detenuto dal 21 aprile 1924. Biscioni la sera dell’8 aprile ha l’incarico di guidare una seconda squadra verso Porta Nuova alla ricerca della famiglia Bucchioni, ben noti esponenti antifascisti e libertari della zona. Trovati a casa il padre Ferruccio e i figli, Azelio e Libertaria, non passa a vie di fatto solo perché i membri della sua squadra si rifiutano di eseguire l’ordine di uccidere i malcapitati. ASPi, Tribunale di Pisa, Corte d’Assise, aa. 1922-1946, Carosi Alessandro … [et al.], Procura generale di Firenze, Rinvio a giudizio …, cit.
26 Ovidio Chelini verrà arrestato a fine aprile del 1924 anche per un altro tentativo di omicidio nei confronti di Alfredo Gemignani, antifascista, ferito a colpi di rivoltella la sera del 23 marzo. Cfr. Un altro delitto scoperto presso Pisa, «L’Avanti!», 1° maggio 1924.
27 Per la cronaca si v. i nn. del «Messaggero toscano» del 10 e 23 aprile e 3 maggio 1924. Inoltre gli art. Nuovi particolari sui fatti di Pisa, «L’Avanti!», 25 aprile 1924 e Rivelazioni sui misfatti di Pisa. Il Rindi ucciso con due pugnalate, «L’Avanti!», 1° maggio 1924.
28 La sottoscrizione raccolse nelle settimane successive una quota considerevole, circa undicimila lire, poi venne bloccata su pressione del commissario straordinario Freddi timoroso che questo gesto di solidarietà si tramutasse in un affronto al potere locale del fascio. Venne ripresa in autunno raggiungendo le dodicimila lire per poi essere immediatamente chiusa. 29 Si v. «Il Messaggero toscano», nn. del 30 aprile, 10 giugno e 29 ottobre 1924.
30 ASPi, Tribunale di Pisa, Corte d’Assise, aa. 1922-1946, Carosi Alessandro … [et al.], Legione territoriale dei Carabinieri reali di Livorno, Compagnia di Pisa, Dichiarazione resa da Rindi Lavinia in merito all’uccisione del proprio fratello Ugo, Pisa, 10 aprile 1924.
31 Il caso Rindi mette in luce una radice leggermente diversa sulla natura delle divisioni tra i fascisti in città, di genere più personale e legata strettamente al controllo del potere, rispetto alla narrazione fino ad ora accreditata sul piano storiografico e cioè di un dissidio politico nato tra la componente, più in linea con alcuni dei valori originari del primo squadrismo, radicale, ancorato agli ideali dell’interventismo e del mito della guerra nazionale, e quella di origine agraria, con una matrice nel conservatorismo antidemocratico delle classi medie della provincia e dichiaratamente più violento. Emerge dalle biografie personali dei protagonisti, in gran parte di estrazione piccolo borghese, un «ceto» e una «generazione», con un profilo psicologico e antropologico di uomini che aspirano ad un benessere e ad un prestigio che credono acquisito di diritto con la partecipazione alla guerra e bramano un potere rivendicato manu militari attraverso un breve periodo di stragi e baldoria. Va ricordato che il problema della violenza dello squadrismo pisano, spesso espressione di una rabbia sorda e furiosa, che si mantiene anche dopo gli anni caldi del 1921-’22, è un tema che viene dibattuto anche nel 5° congresso provinciale del PNF del dicembre 1923, che approva una risoluzione di condanna dei continui abusi, soprattutto nel capoluogo, esercitati da squadre provenienti anche da altre località. La risoluzione afferma: «Se gli atti commessi nella giurisdizione del fascio pisano da fascisti appartenenti a qualunque fascio, saranno considerati reato, il direttorio denuncerà all’autorità competente i fautori assumendone piena e completa responsabilità» («Il Messaggero toscano», 15 dicembre 1923).
32 E. Ragionieri, Il partito fascista (appunti per una ricerca), in La Toscana nel regime fascista (1922-1939), t. 1, Firenze, L.S. Olschki, 1971, p. 68.
33 «Il Messaggero toscano», 30 agosto 1924.
34 L’episodio è ricordato da Piero Zerboglio, figlio di Adolfo. Il capitano degli alpini, forse lo stesso Santini, si presenta agli astanti «camerati» affermando che non avrebbe permesso a nessuno di entrare nello studio di Zerboglio, padre di un eroe della Prima guerra mondiale. Infatti il figlio Enzo era caduto combattendo valorosamente alla fine dell’ottobre del 1918 e per questo era stato decorato con la medaglia d’oro al valore. Cfr. Biblioteca F. Serantini, sez. Archivio, P. Zerboglio, [Memorie familiari], pro manuscripto.
35 ASPi, Tribunale di Pisa, Corte d’Assise, aa. 1922-1946, Carosi Alessandro … [et al.], Procura generale di Firenze, Rinvio a giudizio …, cit.
36 Cfr. Conflitto tra fascisti a Pisa, «Il Popolo», 20 settembre 1924. Fiaschi verrà poi condannato a 5 anni e 10 mesi di carcere, Giudici, Giudizi e Giudicati, «Il Ponte di Pisa», 5-6 settembre 1925.
37 Cfr. La fine del processo per l’assassinio del tipografo Rindi. Tutti gli imputati assolti, «La Stampa», 27 settembre 1925.
38 Cfr. G. Ghislanzoni, La doppia vita dell’ex squadrista Carosi, «Corriere dell’informazione», 1-2 febbraio 1965.
Tra i numerosi articoli si v. ad esempio quelli pubblicati dal quotidiano «La Stampa» di Torino: Scoperto dopo la morte l’uccisore di due socialisti vissuto sotto falso nome a Roma, e 39 L’ex squadrista ricercato per due omicidi aveva anche ucciso e bruciato l’amante, «La Stampa», Torino, 31 gennaio e 2 febbraio 1965. Cfr. anche Chi ha aiutato il fascista pluriomicida?, «L’Unità», 1° febbraio 1965.
40 Cfr. P. Pezzino, Anatomia di un massacro. Controversia sopra una strage tedesca, Bologna, Il mulino, 1997, ad indicem.
41 Senato della Repubblica, IV Legislatura, 296a seduta pubblica, Resoconto stenografico, venerdì 14 maggio 1965, pp. 15594-15598.

Articolo pubblicato nell’aprile 2024.




Una giornata della Tecnica

4 Maggio 1941. É un giorno che cade di domenica, ma le scuole sono aperte, i laboratori funzionanti, i corridoi percorsi da torme di visitatori. Non è una situazione che si verifica dappertutto: chiusi sono i licei, e così le scuole elementari e le nuove scuole medie. Ad aprire le porte sono soltanto istituti tecnici, scuole d’avviamento e scuole tecniche. Così infatti il governo fascista, e soprattutto il Ministro dell’Educazione Nazionale Giuseppe Bottai, avevano programmato di celebrare la ricorrenza della neonata “Giornata della Tecnica”, che varata nel novembre 1939, aveva conosciuto la sua prima celebrazione il 2 Giugno 1940. A sancirne la nascita, un radiodiscorso del Ministro, pronto a evidenziare il ruolo che la manifestazione avrebbe dovuto assumere nel convincere giovani e famiglie a preferire
l’istruzione tecnica e professionale a quella liceale verso cui, asseriva, troppo alto continuava a essere il numero di iscritti.
Se istruzione tecnica e professionale appaiono unite in questa manifestazione, questo non vuol dire che non costituissero, oggi come allora, due percorsi nettamente divisi. Più lunga e consolidata la vicenda temporale dell’Istituto tecnico: sorto con la riforma Casati del 1859, era stato riformato dalla Legge Gentile che aveva previsto, come collegamento tra scuola elementare e Istituto tecnico superiore, un corso intermedio (denominato Istituto tecnico inferiore) di quattro anni dove centrale appare lo studio del latino. Frastagliato appare invece il percorso dell’istruzione professionale, che fino al 1928 fu sempre prerogativa di Ministeri di carattere industriale ed economico: basti qui sapere che le scuole di avviamento propriamente dette sorsero nel 1929 dalla fusione tra il corso post-elementare (sesta, settima, ottava elementare), le scuole complementari e le scuole professionali gestite fino ad allora dal Ministero dell’Economia Nazionale.
Lungi dal rivelarsi come un cruccio di natura esclusivamente fascista, le preoccupazioni ministeriali, così simili a quelle che avevano motivato il varo della riforma Gentile, traevano le proprie radici da un sostrato primo-novecentesco e liberal-conservatore – che, già in età giolittiana, innalzava alti lai contro la pur moderata crescita di iscritti che le scuole post-elementari, allora frequentate da un selezionatissimo numero di studenti (mai più del 7% delle coorti di età corrispondente), registrarono in quegli anni. Erano ansie destinate a saldarsi, e a giustificare, molti punti della “Carta della scuola” che proprio in quei mesi, dopo aver ottenuto l’approvazione del Gran Consiglio, Bottai si stava apprestando a concretizzare – invero con conseguenze assai limitate, se pensiamo che di tutta l’architettura prospettata solo la scuola media vide la luce, con il Regio Decreto 1° luglio 1940. Proprio l’istruzione media, e in particolare quella tecnico-professionale, era il principale oggetto delle attenzioni della “Carta”. Da una parte, infatti, la nuova scuola media avrebbe unificato i primi tre anni del ginnasio, dell’istituto tecnico inferiore e
dell’istituto magistrale; caratterizzata dalla corposa presenza dello studio del latino, si presentava come una scuola destinata alle élite, come dimostrava anche la presenza di un esame di ammissione tutt’altro che formale. Dall’altra, la scuola di avviamento professionale, teoricamente destinata alle fasce socialmente ed economicamente più deboli della società, sarebbe stata “sdoppiata” da due nuove scuole, entrambe di durata triennale: la scuola professionale, da fondarsi nelle città medio-grandi, e la scuola artigiana, che sarebbe stata invece inaugurata in tutti gli altri centri urbani e rurali. Più limitate erano le prospettive che questi due istituti, in confronto alla scuola di avviamento professionale, aprivano: mentre i licenziati dalla scuola professionale potevano proseguire i propri studi soltanto iscrivendosi alla biennale scuola tecnica, gli iscritti alla scuola artigiana non disponevano di ulteriori canali di formazione. Passati, come documentano gli Annuari Statitici Italiani del 1932 e del 1943, da 67224 iscritti nel 1930 (dato comprensivo delle scuole soppresse nel 1929 per dar luogo agli avviamenti) a 288558 iscritti nel 1941, gli avviamenti erano diventati, in quegli anni, l’istituto di istruzione media maggiormente frequentato in terra italica. Proprio per questo motivo, il disegno assumeva una caratura politica e sociale marcatamente conservatrice, che andava a intaccare la (pur ridotte) potenziale mobilità sociale assunta dalla scuola di avviamento professionale, che, attraverso la frequenza di un anno di corso integrativo oppure di un esame, consentiva l’iscrizione all’Istituto tecnico – e, in misura nettamente minoritaria, all’Istituto magistrale e persino al Liceo scientifico.
L’istituzione della “Giornata della Tecnica” coincideva dunque con un periodo delicato per il Ministero, coinvolto, nonostante le contingenze belliche, nell’attuazione di una riforma prima procrastinata, poi accantonata in misura definitiva. È sotto la luce di questa contingenza che possiamo leggere il corposo fondo che, nel 1941, i Provveditorati, dietro impulso governativo, produssero, editando monografie incentrate sullo sviluppo dell’istruzione tecnico-professionale nella propria provincia. Un corpus bibliografico che, nella generale carenza di informazioni disponibili per questo segmento scolastico, si rivela inaspettatamente prezioso: l’intento propagandistico, chiaramente evidente e anzi rimarcato anche dai documenti ufficiali e dalle riviste di Regime, consente infatti di vagliare quali, secondo Provveditori e Presidi, costituivano le caratteristiche più salienti delle scuole professionali da loro dirette, e soprattutto quale ruolo dovevano giocare nell’assetto socio-economico italiano: quello di preservare un ordine sociale da tutelare nella sua fissità? Oppure quello di favorire, nel caso di alunni particolarmente meritevoli, la
prosecuzione degli studi? Non derogano a questa diade le monografie dei Provveditorati toscani. Corsi integrativi di collegamento tra scuole di avviamento e istituti tecnici, innanzitutto, sono segnalati soprattutto negli istituti agrari, spesso privi, a differenza dei loro omologhi, di un corso inferiore: corsi integrativi sono infatti in funzione presso gli Istituti agrari di Pescia e Grosseto. Anche gli episodici accenni al collocamento dei licenziati e alla provenienza sociale degli studenti sembrano tradire un quadro socialmente composito: degli ex- studenti che avevano frequentato negli ultimi dieci anni la scuola di avviamento “Margaritone” di Arezzo, il 20,8% degli studenti continuava gli studi; tra gli iscritti alla scuola di avviamento di Foiano della Chiana, il 20% proviene da famiglie di commercianti e industriali e il 15% da nuclei di impiegati. È un quadro composito che convive con le dissonanti sfaccettature con cui, nel presentare a famiglie e funzionari ministeriali le loro scuole, i Presidi toscani, similmente ai colleghi del resto d’Italia, mostrano di nutrire concezioni differenti, a volte dissonanti, sulle prospettive che le scuole di avviamento avrebbero dovuto aprire ai loro licenziati. Se infatti a Chiusi della Verna il Preside afferma che «Numerosi sono gli alunni usciti da questi tre soli anni di avviamento i quali non interrompono i loro studi, ma li proseguono, frequentando le Scuole Tecniche e gli istituti Tecnici Industriali, animati dal desiderio di perfezionare le loro conoscenze, desiderio sorto in parte accanto alle macchine di questa scuola», per converso, il collega della scuola di avviamento “Giuseppe Giusti” di Pescia rimarca come «tale scuola della durata di tre anni ha carattere eminentemente popolare, ed accoglie, subito dopo la quinta elementare, i figli dei lavoratori e della piccola borghesia per avviarli ad un mestiere o ad un impiego s’intende di natura modesta». Emerge qui, nuovamente, la dimensione di contenimento sociale che l’istruzione professionale, fin dalla metà del XIX secolo, ha assunto negli occhi e nella mente di classi dirigenti per le quali le occasioni di mobilità sociale inducevano a preoccupazione e spavento.

Chiara Martinelli è docente a contratto in Storia dell’educazione presso l’Università degli studi di Firenze, dove collabora con il Laboratorio di Public History of Education. Membro della segreteria editoriale di “Rivista di storia dell’educazione” e della redazione della rivista “Farestoria”, è, dal 2016, parte del direttivo dell’Istituto storico della Resistenza di Pistoia. Ha all’attivo numerose pubblicazioni in storia dell’istruzione professionale, memorie scolastiche e letteratura per l’infanzia. Tra le sue ultime pubblicazioni, segnaliamo “Educare alla Tecnica. Istituti tecnici e professionali alla “Giornata della Tecnica” (McGraw Hill, 2023).

Articolo pubblicato nel febbraio 2024.




Guerra aerea su Siena.

…Durante una mia udienza privata nel periodo “tedesco”, entrò emozionatissimo nello studio del Papa il prelato di servizio, recando copia di un telegramma: gli Alleati avevano bombardato Siena, danneggiando anche alcune importanti chiese della città. Pio XII ne fu ovviamente rattristato ma il tenore del messaggio gli sembrava strano nella penna di un arcivescovo (il bieco nemico, la perfida Albione e così via). Solo alla fine si svelò l’equivoco: il mittente non era l’arcivescovo Toccabelli, ma il segretario federale repubblichino della provincia toscana – se non ricordo male, si chiamava Chiurco – che non domandava benedizioni ma, più o meno, pregava il Pontefice di stramaledire gli inglesi…

 

Un curioso aneddoto quello ricordato da Giulio Andreotti nelle proprie memorie, in grado di riassumere in sé molte delle contraddizioni riguardanti la complessa vicenda dei bombardamenti aerei sulla città di Siena.

Caso particolare, quello senese, che vide il capoluogo e la provincia risparmiati dalle distruzioni delle bombe dal cielo fino alle ultime settimane del 1943, quando tutto intorno le città della Toscana e dell’Italia pagavano a caro prezzo l’impreparazione con la quale il regime fascista aveva portato in guerra il paese. Favorita da una posizione geografica defilata e da un numero ridotto di obiettivi strategici sul proprio territorio, Siena conservò la propria inviolabilità per tutta la prima parte del conflitto mondiale, ma da tale vantaggio nacque l’errata convinzione, condivisa tanto dagli abitanti quanto dalle autorità fasciste, che nessun ordigno sarebbe caduto all’ombra della Torre del Mangia. Fiducia mal riporta quella della cittadinanza, ingenuamente convinta che una sorta di protezione divina avvolgesse la città, i suoi monumenti e abitanti. Direttamente responsabili le autorità civili e militari, sostanzialmente inoperose fino alla fine del 1942 e conseguentemente colte impreparate dall’intensificarsi della guerra aerea sulla penisola italiana, cui tentarono di riparare avviando la costruzione di rifugi antiaerei spesso mai completati e comunque inadeguati a offrire una reale protezione ai propri avventori.

La caduta del fascismo il 25 luglio 1943 e la sua rinascita in veste repubblicana l’8 settembre seguente arrecarono ulteriori danni alla già improvvisata organizzazione antiaerea provinciale. I pochi militi prima presenti lasciarono la divisa e dovettero essere rimpiazzati; la costruzione dei ricoveri pubblici venne arrestata nella speranza che l’armistizio con gli Alleati significasse la fine del conflitto; le sirene di allarme, posizionate nei centri nevralgici della città per avvertire gli abitanti in caso di pericolo, non ricevettero la necessaria manutenzione e finirono per rompersi. I rappresentanti della nuova Repubblica Sociale Italiana, fondata da Benito Mussolini assieme ai suoi sostenitori più fedeli e retta dalle armi tedesche, riattivarono la rete di avvistamento attorno alla città istituendo nuove postazioni di osservazione in località sopraelevate e sulla Torre del Mangia; per allertare i cittadini in caso di pericolo, mobilitarono tamburini delle contrade e parroci delle chiese cittadine; per tranquillizzare una popolazione sempre più intimorita dalla minaccia dei bombardamenti, rinnovarono la donazione simbolica di Siena alla Madonna, come fatto in passato nei momenti più bui della secolare storia cittadina. Come ha scritto Nicola Labanca, «mentre la guerra si fa moderna e novecentesca, i fascisti di Siena rispond[evano] con il medioevo».

Gli Alleati, intanto, bloccati nella propria avanzata verso il Nord all’altezza del fronte di Cassino durante le ultime settimane del 1943, lanciavano nel gennaio 1944 una massiccia campagna di bombardamenti volti a disgregare le strutture di rifornimento tedesche.

In tale contesto si inseriva il ricordo di Andreotti, testimone della particolare richiesta di aiuto inviata al pontefice dal prefetto senese Giorgio Alberto Chiurco dopo il primo bombardamento subito dalla città il 23 gennaio 1944. Indirizzata nella zona della stazione ferroviaria, comunque mancata dagli ordigni, l’incursione aveva interessato i quartieri periferici a sud-est della città, producendo alcune decine di feriti e 25 vittime. La posizione decentrata dello scalo ferroviario, collocato in quella che allora era aperta campagna, fece sì che il lancio errato dei bombardieri non travolgesse il centro cittadino. Il rischio di nuove incursioni si dimostrò tuttavia concreto già il 29 gennaio, quando un nuovo attacco alleato portò alla distruzione della stazione centrale e al pesante danneggiamento del vicino aeroporto di Ampugnano.

Di fronte al pericolo di nuove incursioni sullo scalo ferroviario, prontamente riattivato per garantire il transito dei rifornimenti tedeschi verso Cassino, la scelta delle autorità fasciste repubblicane fu di provare la strada della diplomazia internazionale.

Richiamandosi alla Convenzione dell’Aja del 1907, tentarono così di far riconoscere a Siena la qualifica di città aperta, prevista per quelle località che non si fossero trovate in prossimità di obiettivi strategici di rilevanza militare e, soprattutto, che non avessero ospitato al proprio interno reparti combattenti. Preoccupato di mantenere il controllo su un territorio provinciale sempre più tenacemente contesogli dalle forze partigiane, il prefetto Chiurco aveva tuttavia accasermato nel capoluogo un numero crescente di truppe da impiegare nelle operazioni di controguerriglia, mentre i locali comandi germanici mantenevano il proprio posto nel centro cittadino o nelle sue prossimità, non consentendo peraltro alcuna deviazione del traffico ferroviario transitante dallo scalo senese.

In risposta al problema venne fatto ricorso alla non meglio precisata formula di “città ospedaliera”, promuovendo la versione di una Siena rifugio per profughi e malati – come in parte era – e priva al contempo di reparti armati, caserme, comandi militari, in realtà ancora presenti all’interno del territorio urbano e, anzi, destinati a crescere in numero nelle settimane successive.

Sbarrate le vecchie porte di accesso alla città, dipinte grandi croci rosse su fondo bianco nella piazza del Campo e sui tetti degli ospedali del centro, il caso di Siena fu portato all’attenzione della Santa Sede con la preghiera di interessare al riguardo i comandi angloamericani. Questi rilevarono tuttavia l’impossibilita di conferire qualsiasi riconoscimento alla città, a causa della sua funzione di collegamento tra il Nord e il Sud della Toscana e stante anche l’uso militare fatto dai tedeschi delle vicine linee ferroviarie e stradali. Pure le generiche rassicurazioni fornite circa la possibilità di salvaguardare i monumenti e i feriti presenti nel centro storico, sarebbero rimaste strettamente subordinate “all’azione che possa essere richiesta dalla situazione militare”, lasciando intendere che qualsiasi decisione sarebbe dipesa dall’evolvere del contesto bellico, che vedeva in quel momento i tedeschi impegnati a far affluire rifornimenti di armi e uomini verso il fronte, attraverso i collegamenti stradali e ferroviari della città. La comunicazione giungeva agli inizi di marzo.

Il perdurare dello stallo creatosi lungo la linea dei combattimenti, ancora ferma a Cassino nonostante il tentativo di sbarco attuato ad Anzio dagli Alleati alla fine di gennaio, aveva intanto contribuito a fare nuovamente di Siena un bersaglio dei bombardieri statunitensi.

Delle incursioni erano state condotte sulla città a gennaio e, poi, l’8 e il 16 febbraio, con la popolazione civile sempre più disperatamente aggrappata alla speranza in un buon esito delle trattative diplomatiche, che la stampa fascista presentava come ancora possibili. Dalle autorità di Salò, tuttavia, non furono intraprese iniziative in tal senso. Senza risposta rimasero anche gli appelli indirizzati dal prefetto Chiurco a Mussolini, per una presa di posizione pubblica in favore di Siena che non sarebbe mai arrivata.

Da parte loro, i comandi alleati ribadirono il 3 aprile che nessun riconoscimento sarebbe stato accordato a Siena, la cui rilevanza come centro di comunicazioni faceva sì che qualsiasi decisione al riguardo dovesse essere subordinata alle necessità militari del momento.

Mentre tutta la provincia era ormai interessata dall’azione dei cacciabombardieri statunitensi, Siena subiva l’11 aprile un nuovo, pesante bombardamento. Colpita e distrutta la stazione ferroviaria, anche le zone limitrofe di piazza d’Armi, dell’Antiporto e porta Camollia furono investite dai lanci dei bombardieri. Se i residenti in prossimità di Camollia poterono rifugiarsi nel ricovero costruito sotto la porta – peraltro con criteri che lo rendevano inadatto a resistere all’urto dei pesanti ordigni utilizzati dagli americani – quelli della zona di piazza d’Armi e della stazione non ebbero altre alternative se non disperdersi nelle vicine campagne. I morti furono almeno 13, i feriti una quindicina. Le squadre di primo soccorso, prive di equipaggiamento e mezzi meccanici, continuarono a scavare tra le macerie dello scalo ferroviario fino al sopraggiungere della notte per trarre in salvo i civili rimasti imprigionati.

Un nuovo attacco il 14 aprile seguente procurava la distruzione del deposito locomotive e nuovi danni a ciò che restava della stazione.

Quelli che sarebbero rimasti impressi nella memoria locale come gli ultimi bombardamenti aerei su Siena confermarono il fallimento del progetto della cosiddetta “città ospedaliera”, rivelatosi strumento propagandistico utile a tranquillizzare la popolazione civile e distoglierne l’attenzione dai gravi problemi attanaglianti la sempre più traballante struttura di governo fasciata, pressata dalle insistenti richieste dell’alleato-occupante tedesco, indebolita dai contrasti interni al fascismo repubblicano, screditata dai successi militari dei partigiani nelle campagne.

Nel maggio seguente, l’imponente offensiva delle forze alleate sfondava infine le difese tedesche sulla linea di Cassino. Mutato il contesto bellico e concretizzatasi la prospettiva di una rapida avanzata verso Nord, gli Alleati non portarono nuovi attacchi alla stazione ferroviaria senese, il cui utilizzo si rivelava adesso fondamentale per l’afflusso di uomini e materiali verso l’Italia settentrionale. Sarebbero stati al contrario i guastatori tedeschi, prima della ritirata, a distruggere i pochi vagoni e binari sopravvissuti alle incursioni aeree dei mesi precedenti, lasciando Siena e i suoi abitanti nella condizione di dipendere dai rifornimenti alleati per la propria sopravvivenza.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Giulio Andreotti, A ogni morte di Papa. I Papi che ho conosciuto, Rizzoli, Milano 1980;

Claudio Biscarini, Bombe su Siena. La città e la provincia nel 1944, Del Bucchia, Massarosa 2008;

Michelangelo Borri, La guerra aerea su Siena. Misure difensive, bombardamenti, iniziative diplomatiche, Il Leccio, Monteriggioni 2019;

Nicola Labanca (a cura di), I bombardamenti aerei sull’Italia: politica, stato e società (1939-1945), Il Mulino, Bologna 2012.




LA LEGGENDARIA BANDIERA ROSSA DEL PONTINO

Un episodio del sovversivismo livornese che, attraverso i racconti orali, è rimasto a lungo nella memoria popolare è quello della funambolica bandiera rossa del Pontino.
La leggendaria beffa è stata narrata in chiave antifascista, a distanza di oltre cinquant’anni, da alcuni militanti comunisti, ma con particolari diversi e, soprattutto, con incerta e contraddittoria collocazione temporale, tanto da indurre in errore chi – compreso il sottoscritto – ne ha riferito.
In realtà, l’avvenimento è tutt’altro che dubbio in quanto, come ho potuto appurare, è attestato e datato dal seguente articolo, pubblicato su la «Gazzetta Livornese» del 29 settembre 1921, in cui è descritto con ricchezza di particolari:

Una bandiera rossa sul Pontino.

La polizia veniva ieri informata che sul Pontino i sovversivi avevano posto in luogo ben visibile una insegna rossa.
Verso le 24 di questa notte alcuni agenti e un plotone di regie guardie si recavano in camion nel luogo indicato.
L’insegna era legata ad un fascio di fili dell’energia elettrica, che passando al di sopra degli stabili del Pontino attraversano il canale – all’altezza di una quindicina di metri e oltrepassano la Fortezza.
Sotto il vento freddo funzionari e agenti lavorarono a lungo a bordo di un navicello per preparare una lunghissima pertica, all’apice della quale era un cencio imbevuto di benzina a cui fu appiccato il fuoco, ma si accorsero che l’insegna era di latta e rimandarono ad oggi l’operazione.

La bandiera in possesso della polizia.

Il Questore, nel pomeriggio d’oggi, ha disposto che alcuni operai specialisti ritentassero la prova onde impossessarsi del vessillo.
Gran folla ha assistito all’… esperimento.
Gli operai mediante una scala Ponte piazzata sulla strada, sono riusciti, operando abilmente, a giungere fino all’altezza dei fili.
La folla ha seguito l’operazione come semplice spettatrice. Alla fine gli operai sono riusciti a staccare la lastra di bandone foggiata a bandiera che però è caduta in acqua.
Una squadra di agenti con funzionari a bordo di una barca, si recavano là dove l’oggetto era caduto e dopo brevi ricerche riuscivano a recuperarlo.
La polizia aveva spiegato un largo apparato di forza.
Non si è verificato alcun incidente.

Appurata dunque la cosiddetta verità storica, può essere interessante considerare le narrazioni più conosciute dell’episodio che, nella loro contraddittorietà, si sovrappongo ad alcuni episodi analoghi, avvenuti negli stessi luoghi, ma in tempi diversi.
Infatti, pochi mesi prima, per festeggiare la vittoria elettorale socialista, «sugli Scali delle Cantine, un marinaio della marina mercantile, salito col mezzo di una fune all’altezza del filo conduttore della luce elettrica, vi stendeva sopra un drappo rosso» («Gazzetta livornese, 18-19 maggio 1921») e il 30 agosto 1930, come riferisce un rapporto di Questura, una bandiera rossa con falce e martello venne appesa sugli Scali del Pontino.
Un primo racconto lo troviamo nell’intervista al comunista Eletto Allegri, classe 1903, raccolta da Iolanda Catanorchi a metà anni Settanta, secondo il quale l’episodio era avvenuto il primo maggio del 1925 o 1926, quindi in pieno regime fascista, e collegata alla figura di Ilio Barontini, segretario della federazione livornese del Partito comunista d’Italia, indicato come il “regista” dell’iniziativa, mentre invece non vi era alcun accenno all’esecutore materiale del gesto, attribuito anzi ad un generico «noi»:

il primo maggio era proibito e allora noi decidemmo di fare qualcosa per il primo maggio. In quell’occasione, ma non mi ricordo bene se era il 25 o il 26, quella data lì di sicuro, ci organizzammo […] si mise una bandiera rossa attraverso dalla fortezza ai fossi del Pontino, dalla fortezza nuova, al centro del fosso, con un cavo. Questa bandiera rossa, lui pensò, sai Barontini ci diceva tutto di fare queste cose, questa bandiera rossa fu messa ma non di stoffa, era un pezzo di lamiera pitturato con il minio e la falce e martello. Barontini disse “vedrete che questa non la spostano”; si mise questa cosa […] E la mattina poi ti puoi immaginare la sorpresa degli operai, delle guardie, a vedere queste cose qui. Noi pensammo al nostro rione, io ero del rione Pontino-San Marco dove abitava Barontini […] mi ricordo appunto l’episodio di questa bandiera; venne i pompieri, la polizia; i pompieri in mezzo con la barca a motore con delle torce cercavano di bruciarla, ma invece si anneriva, diventava rossa e nera e allora dovettero venire con la scala porta, levarla, fare un sacco di storie. Barontini soddisfatto.

Una seconda versione, è quella trasmessa da Mauro Nocchi (1934 – 2020), figlio del militante comunista Alcide e lui stesso dirigente del PCI. Il testo, risalente agli anni Novanta ed in seguito rielaborato, riprende in parte la testimonianza di Allegri, raccolta da Catanorchi, e coincide col racconto di De Santi, con l’aggiunta di qualche colorito dettaglio ripreso dalla narrazione popolare e forse ascoltato dal padre. Anche in questo caso, l’episodio è collocato in pieno Ventennio e si sostiene che la bandiera sarebbe stata portata ed esposta a Roma, alla Mostra della Rivoluzione fascista del 1932:

Negli anni 30, in pieno regime fascista, a Livorno, seppure in modo clandestino, il sentimento antifascista e di ribellione alla dittatura fascista era ancora molto forte nella gente. Nel notte del 1° maggio si compì un atto memorabile sul Pontino. Un atleta mise un cavo tra la Fortezza Nuova e l’ultima casa del Pontino con appesa una bandiera rossa con falce e martello e stella e sotto il tricolore. Si chiamava Danilo Bugliesi ed era un compagno omosessuale, e solo per questo era discriminato. E l’hanno picchiato tante volte i fascisti perché era omosessuale e perché era comunista. Lui con altri attaccarono questa bandiera che poi rimase li per giorni. E quando i fascisti poterono averla in mano, la portarono a Roma alla mostra dei cimeli della rivoluzione.
Quel mattino molte persone radunate lungo le spallette dei fossi sugli Scali delle Cantine, gioivano per l’accaduto, e mentre la Polizia con l’aiuto dei pompieri si davano un gran da fare per toglierla, qualcuno dietro le finestre socchiuse fischiettava “Bandiera Rossa”. Le persone che assistettero all’insolito spettacolo, spontaneamente applaudirono. Il gerarca fascista non sapendo se fosse più importante togliere la bandiera oppure scoprire i fringuelli che cantavano dietro le finestre, correndo qua e la andò nel pallone […] E di questi episodi la storia di Livorno ne è piena…

Una terza versione è quella raccontata da Luigi De Santi, classe 1919, dirigente della Società di Cremazione, intervistato da Catia Sonetti nel 2001. Per evidenti motivi anagrafici, neppure De Santi poteva essere stato testimone dei fatti. Per questo, non indica alcuna data, descrive una bandiera “anacronistica” e nell’indicare Danilo Bugliesi come il principale autore dell’azione, lo ritiene imparentato con una famiglia benestante e lui stesso commerciante in preziosi.

A Livorno c’era quella bandiera di quello, che poi nella vita privata era un diverso. Però […] era un atleta e mise un cavo tra la Fortezza e l’ultima casa del Pontino, una bandiera di metallo, che poi fu la bandiera che fu il primo simbolo del Partito comunista dopo la liberazione. Una bandiera rossa con falce e martello e stella e sotto il tricolore […] Lui era un compagno omosessuale e a quel tempo c’era la mentalità che un omosessuale era un uomo di terza qualità. Invece era un uomo intelligente, commerciava in oro, brillanti, apparteneva alla famiglia Galli-Marchini, i padroni della zona Pontino che aveva magazzini nella zona degli stracci. Si chiamava Danilo Bugliesi e l’hanno picchiato tante volte povero figlio, e perché era omosessuale e comunista, per tutte e due. Lui con altri attaccarono questa bandiera che poi rimase lì dei giorni, e quando poi i fascisti poterono averla in mano, la portarono a Roma alla mostra sui cimeli della rivoluzione.

Per la cronaca, esiste pure una quarta versione, la più fantasiosa, quella di Umberto Vivaldi, portuale comunista classe 1940, riportata nel libro Livornesi! Storie popolari, pubblicato nel 1998, in cui il fatto del 1921 è diventato un episodio della Resistenza, tra folklore e maldestra rimasticatura delle precedenti narrazioni:

Bugliesi e Galli del rione San Marco Pontino, fecero cucire dalle loro donne, scampoli di stoffa rossa, così che divenne fuori una gigantesca bandiera. La notte del primo maggio, sugli scali delle Cantine, la legarono con una corda sul cavo d’acciaio che dalla Fortezza Nuova attraversa il fosso fino ai caseggiati. Quel mattino, molte persone radunate lungo le spallette dei fossi, gioivano per l’accaduto. Mentre la polizia con l’aiuto dei pompieri si dava da fare per toglierla, alcuni antifascisti da dietro le finestre socchiuse fischiavano Bella Ciao. Le persone che assistevano all’insolito spettacolo spontaneamente applaudirono. Il gerarca fascista, non sapendo se fosse più importante togliere la bandiera, oppure scoprire i fringuelli che fischiavano Bella Ciao, correndo qua e là andò nel pallone.

Se questa è la leggenda, quel Danilo Bugliesi, generalmente indicato come il principale artefice dell’azione dimostrativa, è stata una persona reale: nato a Livorno il 30 settembre 1903 e deceduto il 19 settembre 1955; figlio di Agostino e Annita Crovatti, nonché appartenente – seconda una nota di Questura del 1933, ad una «famiglia di pregiudicati e sovversivi».
Infatti, il padre Agostino, classe 1864, facchino, risultava schedato nel Casellario politico centrale come anarchico sin dal 1903, mentre il fratello minore Primo (classe 1906) nel 1930 avrebbe subito una condanna per tentato espatrio clandestino e nel 1933 una diffida in quanto «professa idee comuniste» e «per l’opera sovversiva spiegata nel passato».
Anche Danilo era stato “attenzionato” dalla polizia, come si evince da una confusa nota della Questura di Livorno, datata 9 ottobre 1927, che oltre a farci sapere il mestiere (facchino e, successivamente, lavapiatti a Roma) lo indicava in questi termini: «di cattiva condotta morale politica. Egli sebbene non abbia precedenti politici in questa città, prese parte nel passato a manifestazioni simpatizzando coi comunisti […] pure nell’epoca dei moti rivoluzionari rossi, partecipò a tutte e azioni del genere e per molto tempo conservò idee comuniste, e simpatizzante del partito anarchico di cui fa parte il di lui padre».
In aggiunta, per avvalorare lo stigma morale, veniva riferito che «durante il servizio militare, mentre si trovava circa 2 anni orsono in licenza, fu tratto in arresto perché sospetto reato di pederastia passiva poi prosciolto dal reato addebitato».
Riguardo il suo diretto coinvolgimento nella collocazione della bandiera non abbiamo riscontri, ma la residenza di Danilo Bugliesi appare indicativa e avvalora la fondatezza dei “si dice”. Infatti, egli abitava sugli Scali del Pontino n. 3, piano primo, in un edificio demolito nel 1948, oggi corrispondente al caseggiato dove si trova la Farmacia S. Marco. Quindi, corrisponderebbe proprio a «l’ultima casa del Pontino» indicata dal De Santi. Inoltre, non è certo difficile supporre che Danilo potesse contare sulla complicità familiare – piuttosto che su quella di qualche struttura politica – visto che, oltre sul padre e sul fratello, poteva contare sullo zio paterno, Pietro Bugliesi (1862 – 1928), abitante a due passi, ossia sugli Scali delle Cantine al n. 9 (l’attuale civico 78). Anche lui, facchino, era schedato come anarchico nel Casellario politico centrale sin dal 1902 e nel febbraio 1922, sarebbe stato arrestato, a seguito di perquisizione domiciliare, per detenzione di una rivoltella non denunciata («Gazzetta livornese», 16 e 17 febbraio 1922).
Frammenti di un sovversivismo evocato a posteriori a simbolo di un’opposizione collettiva od organica al partito, ma sovente espressione della rivolta informale di sodalizi familiari e individualità per troppo tempo dimenticate.

Fonti archivistiche

Archivio Centrale di Stato, CPC, Busta 888, Bugliesi Agostino;
Archivio Centrale di Stato, CPC, Busta 888, Bugliesi Pietro Paolo Garibaldo Dionisio;
Archivio di Stato di Livorno, Fondo Questura, A8, Busta 1384, Fasc. 19, Bugliesi Primo;
Archivio di Stato di Livorno, Fondo Questura, A1, Busta 45, 1927, Fasc.128, Bugliesi Danilo.

Archivio pubblicato nel gennaio 2024.