Resistenza e Liberamuratoria

Nei primi mesi del 1954, Carlo Ludovico Ragghianti pubblicava il libro Una lotta nel suo corso [1], una raccolta ragionata di carte e documenti interni al Partito d’Azione, con la quale si proponeva di far luce sul contributo dato alla Resistenza dalla formazione politica azionista [2]. Il critico lucchese intendeva ovviare un ridimensionamento di alcune delle componenti resistenziali che più avevano sostenuto logisticamente e materialmente la lotta di liberazione, andando a rimarcarne i meriti e a definire i contorni di alcuni dei suoi protagonisti meno conosciuti. In tal contesto, alcune pagine della pubblicazione si soffermarono su un «industriale pratese, generosa tempra d’uomo e nobile patriotta, precocemente defunto»[3]: Adon Toccafondi. Ragghianti ne descrisse l’impegno per la Resistenza a Prato e a Firenze, ne chiarì la collaborazione con il CTLN e lo ricordò tra i primi amministratori dei mesi successivi alla liberazione regionale. Sindaco di Vernio, paese dell’Alta Valle del Bisenzio, Toccafondi si distinse per il suo impegno tanto nella cosa pubblica quanto nel tessuto associativo provinciale. Di estrazione democratica e repubblicana, antifascista di lungo corso, Adon fu iscritto alla Massoneria di Palazzo Giustiniani e, in questa veste, seppe dar nuova vita alla loggia “Giuseppe Mazzoni” di Prato, la prima ad essersi opposta al fascismo nel 1922. In tale veste, egli si configuròcome l’elemento particolare di passaggi oggi in parte dimenticati ma ben presenti nelle dinamiche resistenziali, quali i rapporti e la comunanza di valori tra Liberamuratoria e Resistenza, che non a caso conobbero alcune interessanti traiettorie, di cui Francesco Fausto Nitti e il repubblicano Menotti Riccioli furono tra gli esempi più conosciuti. In questa prospettiva deve essere letta la riscoperta di una figura quale quella di Adon Toccafondi partigiano, massone, primo sindaco della Vernio liberata. Massoneria e Resistenza, Lotta contro la dittatura e ricerca della Vera Luce si incontrano e si intrecciano in questa figura di partigiano che sempre si operò per il bene comune. Una figura in buona parte persa nelle nebbie della storia, il cui studio biografico sembra tutt’altro che un esercizio privo di valore.

Chi era dunque Adon Toccafondi? Adon Toccafondi nacque a San Quirico di Vernio, nell’alta Valle del Bisenzio, il 13 settembre 1902 da Alberto Lorenzo, ex carabiniere a cavallo e gestore di una cava di materiale edilizio e da Oliva Marchi [4]. Attraverso l’impresa del padre, la famiglia era in contatto con i noti industriali della vallata, Lemmo Romei e Angelo Peyron e fu molto probabilmente grazie a questo legame che il giovane Adon fu portato a studiare presso l’allora Regia Scuola delle Arti Tessili e Tintorie ovvero l’odierno Istituto Tullio Buzzi. Fu nel clima interventista dell’istituto che Toccafondi ebbe a sviluppare: da una parte una solida conoscenza della chimica tintoria; dall’altra, secondo le idee dello stesso direttore Tullio Buzzi, un patriottismo con intense sfumature repubblicane. Un patriottismo che, tuttavia, non sfociò mai nel becero nazionalismo ma che assunse tutta la caratura morale della democrazia, della concezione mazziniana dell’emancipazione del popolo. Caratteristiche queste di cui Toccafondi ebbe a dare prova in almeno tre ambiti: nella lotta contro il fascismo, nell’amministrazione della cosa pubblica (del comune) nell’opera interna all’Obbedienza.
Licenziato in chimica nell’ottobre 1920, egli ebbe ben presto a scontrarsi con la violenza squadrista [5]. Il caso avvenne nella vallata bisentina dei primi anni Venti, laddove le rivolte annonarie del 1919furono parallele a una ripresa dei lavori per la Direttissima Prato-Bologna. Nel contesto dell’alta valle, il cosiddetto “biennio rosso” si piegava nella prospettiva degli scioperi nei cantieri per le scarse retribuzioni e nella temporanea paralisi dei lavori nell’inverno 1920-1921. Posto che, in vallata, i prodromi del fascismo si manifestarono sin dall’estate del 1920, la reazione squadrista alle iniziative operaie si concretò a partire dal 17 aprile 1921, quando la prima vera spedizione in territorio pratese e bisentino causò due morti e numerose violenze. A Vernio e nell’intera Valle del Bisenzio, l’azione fascista proseguì senza soluzione di continuità e, già nel luglio successivo, la giunta socialista di San Quirico fu costretta a dimettersi sotto le pressioni delle camicie nere. Fu in tal contesto che il fascismo bisentino si interessò anche di Toccafondi. Le sue profonde convinzioni repubblicane lo resero un bersaglio per lo squadrismo verniotto. Nel giugno 1921, gli squadristi lo affrontarono in pubblico e gli strapparono il distintivo riportante l’effige di Mazzini. Un fatto identico si ripeté nel successivo settembre, nel contesto della repressione fascista contro lo sciopero tessile decretato in opposizione della riduzione dei salari.
Non sembra allora casuale che, pochissimi mesi dopo, egli trovasse lavoro nelle industrie del Nord Italia, prima a Monza, poi a Sesto San Giovanni, poi ancora sul Lago di Como (dove ebbe a instaurare una propria impresa) e, infine, nel Bergamasco, a Caravaggio. Ma non si trattò solo di un progresso professionale. Il Nord Italia portò anche a una sua maturazione personale e morale. Durante la sua permanenza in Lombardia ebbe a sposarsi ed a metter su famiglia. Ma, soprattutto, fu in Lombardia che Toccafondi entrò in maniera attiva nel movimento antifascista clandestino di Giustizia e Libertà, grazie al repubblicano Arnaldo Guerrini e a Carlo Ludovico Ragghianti.
Manifesto del Comune di Vernio 1 novembre 1944La Lombardia fu insomma la premessa alla lotta resistenziale. Tornato alla fine degli anni Trenta in Toscana fu grazie a Toccafondi che nel 1940 fu possibile riallacciare dei rapporti tra i gruppi socialisti e repubblicani tra Firenze e Prato. Lo stesso Ragghianti ebbe a ricordare l’“intemerato repubblicano” Toccafondi come uno dei protagonisti della locale Resistenza [6]. Adon fu tra i presenti al congresso di formazione del Partito d’Azione fiorentino e fu in contatto con tutti i suoi principali dirigenti. Assunto il nome di battaglia di “Leonardo”, egli dette un importante contributo alla stampa clandestina per la quale procurò sia macchinari, sia i materiali per la pubblicazione del periodico azionista «La Libertà». Come ugualmente ebbe rilevanza la sua collaborazione con radio Co Ra, la Commissione Radio guidata da Enrico Bocci, il cui ruolo di comunicazione con le forze alleate fece assumere all’attività di Adon contorni più marcati [7]. In particolare, il suo ruolo di collegamento assunse rilievo a margine della comunicazione tra il gruppo di Bocci e gli Anglo-americani, per l’invio da parte di questi ultimi di rifornimenti e munizioni. Fu il partigiano “Leonardo” che svolse il ruolo di collegamento tra il campo di ricezione degli aviolanci, nel Pratese, nei pressi di Montemurlo e il gruppo fiorentino. Per altro, la tragica fine della radio Co.Ra. gruppo Bocci, scoperta pochi giorni dopo la realizzazione del primo dei lanci di materiale e uomini, rischiò di colpire anche Adon. Toccafondi scampò di poco alla cattura tedesca grazie alla segnalazione di Vincenzo Cangioli, suo conoscente e datore di lavoro del fratello.
Il ruolo svolto da lui svolto all’interno della Commissione Radio rimandava all’importanza della sua figura nell’organizzazione della Resistenza nel Pratese. Almeno due sono i meriti da segnalare. Anzitutto, Adon Toccafondi fu il principale responsabile del reclutamento di personaggi chiave della Resistenza a Prato quali Mario Martini, il capo militare delle truppe partigiane, e l’intero gruppo dirigente del Partito d’Azione (Roberto Cecchi, Rodolfo Corsi, il prof. Salinari, Cesare Grassi…). Ma soprattutto, Toccafondi fu l’ufficiale partigiano di collegamento tra il CLN di Prato e il CTLN posto a Firenze. Quando, dopo i tragici fatti di Figline, Prato fu liberata, fu Toccafondi assieme a pochi altri a guidare le truppe alleate e partigiane nei territori del circondario. Di sicuro furono lui, il dott. Mensurati e Franco Calcagnini (entrambi appartenenti come Toccafondi al Partito d’Azione) ad entrare per primi a Vernio.
Il paese di Vernio fu il secondo contesto in cui si ravvide l’impegno di Toccafondi per la democrazia e la libertà. Qui egli fu nominato sindaco con l’accordo di tutte le forze del CLN locale su indicazione delle autorità refgionali. Egli si impegnò per la ricostruzione di un paese devastato che ebbe anche ad affrontare tragedie personali come il crollo della galleria di Saletto. Durante i lavori di ripristino della viabilità ferroviaria sulla linea Firenze-Prato-Bologna, all’imbocco della galleria di Saletto, un improvviso crollo travolse una cinquantina di operaie e operai provocando 32 vittime [8]. Adon si pose in contatto sin dal giorno successivo alla tragedia con il CTLN e il CLN di Prato per organizzare una raccolta fondi in memoria delle vittime, la quale produsse 25.000 lire, che il Comune impiegò in parte a saldo dei funerali. Ma egli ebbe anche meriti più generali. Sotto la sua amministrazione fu approntato un piano di recupero e di ricostruzione, fu garantito l’approvvigionamento alle popolazioni colpite dalla guerra, fu approntata la ricostruzione materiale delle strade e degli edifici, nonché del locale acquedotto. Lasciò l’incarico nel luglio 1945, ma a tutt’oggi la testimonianza di Carlo Rossi, tra i suoi successori, lo descrivono come «un uomo di valore» [9]. Di sicuro, nella sua qualità di amministratore, le carte archivistiche lo restituiscono come un uomo della collaborazione che seppe relazionarsi con tutte le forze politiche. Ed ancora oggi riluce una lettera del comunista Carlo Ferri in cui è definito il suo impegno per la Vallata come «impagabile» [10]. Del resto, «chiamato a più alto incarico» [11], Toccafondi fu posto sin dall’inizio del 1946 alla direzione provinciale della United Nation Relief and Rehabilitation Admnistration (UNRRA), l’organismo alleato rivolto al sostegno della locale Ricostruzione.
Adon Toccafondi inizio anni QuarantaMa Toccafondi fu anche appartenente alla massoneria e, in questa veste, espresse una volta in più la sua tenuta morale. Affiliato dal 1944 presso la loggia Michelangiolo di Firenze, si impegnò per il risveglio di quella che a livello nazionale fu la prima istituzione liberomuratoria ad essersi pronunciata pubblicamente contro il fascismo: la loggia “Giuseppe Mazzoni” di Prato. Adon riprese i contatti con antichi appartenenti come Amedeo Strobino e Nazzareno Cecconi e di concerto con il venerabile della Michelangiolo, Anton Giulio Magheri e con l’oratore, Menotti Riccioli, diede vita a un primo triangolo pratese da essa dipendente. Dalle carte d’archivio ben emerge come il triangolo dovesse evolvere in un’officina ispirata dai «principi che avevano informato la gloriosa Giuseppe Mazzoni» [12]. All’inizio del 1947, lo stesso Riccioli si aggiunse ad altri quattro fratelli Spartaco Turi, Italo Baragli, Salvatore Bucca, Cesare Conti per risvegliare la loggia Mazzoni. Una loggia che dalle biografie dei suoi stessi appartenenti assume un carattere intimamente antifascista e incardinato sui valori della democrazia e della libertà. Qui basti ricordare la lunga militanza di Menotti Riccioli nell’antifascismo repubblicano e aggiungere tra i primi aderenti all’officina pratese (successivi ai fondatori) Rodolfo Corsi, vicepresidente del locale CLN.
Di li a poco Adon sarebbe mancato in un terribile incidente stradale. Ma di lui sarebbe rimasto il ricordo che Menotti Riccioli ebbe a fare del suo «instancabile impegno» [13]. Toccafondi fu un personaggio che in ogni suo spunto biografico lottò per i valori di libertà, unità e democrazia. La commemorazione accorata fattane tanto in pubblico, «in una piazza San Marco completamente piena di gente» [14] quanto nei lavori di loggia vale a chiarirne «le sue nobilissime qualità»: «onestà, sincerità, immenso amore per la Famiglia, per la Patria, per l’umanità – poteva esser letto nei verbali dell’Obbedienza – ispiravano la sua vita pratica» [15], facendo di Adon «uno di quei vivi focolai d’umanità che tengono in alto i valori dello spirito».

Volendo far rimanere agile la lettura, si informa che laddove non indicato diversamente in nota, i riferimenti al testo sono ripresi da A. Giaconi, La vera luce della democrazia. Adon Toccafondi, antifascista, partigiano, massone, Firenze, Pontecorboli, 2022.

Note al testo:

[1] Una lotta nel suo corso. Lettere e documenti politici e militari della Resistenza e della Liberazione, a cura di L. Ragghianti Collobi e S. Contini Bonacossi, Venezia, Neri Pozza, 1954.

[2] Cfr. A. Becherucci, Le delusioni della speranza. Carlo Ludovico Ragghianti militante di un’Italia nuova, Milano, Biblion, 2021, pp. 154-155, 165-166.

[3] Una lotta nel suo corso, cit., p. 354.

[4] Comune di Vernio, Ufficio di Stato Civile, Registro degli atti di nascita, a. 1902, atto n. 186.

[5] Per i seguenti dati sul fascismo pratese e bisentino, cfr. A. Bicci, Prato 1918-1922. Nascita e avvento del fascismo, Prato, Medicea Firenze, 2014, pp. 120 e ss..

[6] C.L. Ragghianti, Disegno della Liberazione italiana, Pisa, Nistri Lischi, 1962, p. 307

[7] Sul ruolo e sulla vicenda della Co.Ra. gruppo Bocci, cfr. G. La Rocca, La “Radio Cora” di piazza D’Azeglio e le altre due stazioni radio, Firenze, Tip. Giuntina, 1985. Per un’efficace sintesi cfr. F. Fusi, Il servizio Radio CO.RA. e il suo contributo alla lotta di Liberazione, in «Toscana Novecento. Portale di Storia Contemporanea», https://www.toscananovecento.it/custom_type/il-servizio-radio-co-ra-e-il-suo-contributo-alla-lotta-di-liberazione/, ult. consultazione 14-11-2022.

[8] Cfr. La Direttissima ferita. La ferrovia Firenze-Bologna, 1944-1946, Vaiano, CDSE della val di Bisenzio, 2009, pp. 48-69.

[9] Testimonianza di Carlo Rossi, partigiano comunista e già sindaco di Vernio dal 1964 al 1983, del 24 aprile 2019.

[10] Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età Contemporanea, CLN di Prato, b. 5, f. 4, appunto di Carlo Ferri presidente del sottocomitato di Vaiano, novembre 1944.

[11] Testimonianza di Carlo Rossi, cit.

[12] Archivio Storico della Loggia “Meoni e Mazzoni”, Verbali della tenuta di primo grado, seduta del 2 febbraio 1947.

[13] Ivi, 15 gennaio 1948.

[14] Testimonianza di Carla Ignesti Toccafondi, figlia di Adon, il 28 novembre 2019.

[15] Archivio Storico della Loggia “Meoni e Mazzoni”, Verbali della tenuta di primo grado, seduta del 22 novembre 1947.

 




Il “caso Raffo” e la sua cacciata violenta dalla Cooperativa di Consumo di Pietrasanta.

Giovan Battista Raffo primo direttore Cooperativa Consumo Pietrasanta

Il 7 aprile 1924 una spedizione punitiva, guidata dal sindaco e segretario politico del fascio di Pietrasanta, invase gli uffici della Cooperativa di Consumo cercando di raggiungere il suo direttore commerciale che, a stento e con uno stratagemma, riuscì a sottrarsi alla furia degli invasori. Una violenza certamente grave che, senza nulla aggiungere di significativo, potremmo ben ricomprendere nel novero dei tanti, analoghi episodi già accaduti in questa città. Aggressioni e devastazioni, compiute dai fascisti fin dalla loro costituzione in partito, qui avvenuta piuttosto tardivamente il 5 marzo 1921. Così, nella notte tra il 30 aprile e il 1° maggio, era toccato alla camera del lavoro a essere invasa e devastata mentre nel successivo mese di giugno sarà il presidente della stessa Cooperativa a venire malmenato. In seguito, subirono violenze anche due sindaci: quello di Pietrasanta e quello della vicina Massa casualmente di passaggio in città.
In realtà quanto avvenuto nei locali della Cooperativa nel pomeriggio del 7 aprile andava ben oltre una canagliesca azione fascista. Il tentativo, fallito, di far fuori fisicamente il direttore Giovan Battista Raffo si inquadrava in una più complessa vicenda che ebbe per protagonisti due acerrimi rivali: Renato Ricci, capo del fascismo apuano, e Carlo Scorza, suo omologo lucchese. Al centro dello scontro tra i due gerarchi e le rispettive fazioni era il controllo della Versilia, un territorio già a quel tempo appetibile e considerato strategico per gli assetti politici e di potere del nascente fascismo. Uno confronto durissimo che finì per coinvolgere lo stesso Mussolini, pronunciatosi in un primo momento a favore della tesi di Ricci per l’annessione della Versilia all’area apuana, quali zone contigue e omogenee, entrambe economicamente a prevalente vocazione marmifera. Un pronunciamento, quello del Duce, segnato dal rapporto di amicizia intrattenuto con Ricci. In seguito, su pressioni interne ed esterne al partito, a Mussolini non rimase che fare marcia indietro, dichiararsi contrario all’operazione e di fatto fermando-la. Scorza da una eventuale annessione dell’area versiliese a Carrara avrebbe avuto tutto da perdere, dato che la Versilia, come sappiamo, era parte integrante della provincia di Lucca.
In quel tempo a Pietrasanta, da una quindicina di anni, operava una delle più grandi e consolidate società cooperative d’Italia nel ramo del consumo. Una prestigiosa realtà commerciale e associativa con alle spalle un considerevole sviluppo produttivo, distributivo e organizzativo maturato durante e dopo il conflitto mondiale. Basti pensare ai risultati di un anno come il 1920 quando la giovane Cooperativa di Pietrasanta contava già 53 dipendenti, ai quali si dovevano aggiungere i fornai e i calzolai, una ventina di spacci e una base sociale che supera-va i 2.300 aderenti.
Una componente fondamentale, dunque, dell’economia locale, fortemente radicata nel tessuto sociale, fonte di consenso e di potere per chiunque ne controllasse le sorti. All’interno dell’antagonismo tra i due ras Scorza e Ricci si verranno definendo anche i destini della Cooperativa di Pietrasanta fino alla sua piena fascistizzazione.
Volantino 1912 Cooperativa MacelloMa per una completa comprensione del quadro ora descritto è necessario, almeno per cenni, andare alle origini della Cooperativa e ai suoi tratti distintivi che risulteranno decisivi a preservarla dall’assalto che il fascismo porterà alla cooperazione italiana.
La “Società Anonima per azioni Cooperativa” con sede in Pietrasanta nacque dopo lunga gestazione alla fine del 1907 dalla locale Società di mutuo soccorso “Giuseppe Garibaldi” e dalla sua base sociale marcatamente operaia. Oltre al perseguimento delle finalità statutarie (lotta al carovita, case operaie e così via) la Cooperativa avrebbe dovuto essere un prezioso ponte per mantenere saldo e sviluppare il legame con l’ambiente sociale e culturale della “mutuo soccorso”. L’ente cooperativo, al contrario, riverberò da subito tutt’altra luce mostrando natura e fini assai diversi da quelli di classe pur non potendosi neanche definire figlia o figliastra di quel cooperativismo “bianco”, di stampo clericale che, al di là dei confini versiliesi, aveva già attecchito a Lucca e nel resto della provincia.
La “Pietrasanta” nacque dalla secca quanto inattesa sconfitta della componente socialista in seno alla “Garibaldi”. Una sconfitta determinata in massima parte dalle abili e spregiudicate manovre del notaio Adriano Ricci, allora sindaco di Pietrasanta a capo di una giunta liberale, considerato dai socialisti la lunga mano della borghesia sulle organizzazioni operaie e del proletariato.
Della Cooperativa, nonostante la discutibile conduzione, Ricci ne sarà per sette anni il presidente. Un tempo sufficiente per imprimere all’Azienda caratteristiche sì di progresso ma con tratti moderati e borghesi, lasciandola scevra da quelle connotazioni classiste e, in certi casi, fortemente classiste che contraddistinsero tanta parte del movimento cooperativo in Toscana e nel resto dell’Italia. Questi connotati la Cooperativa di Consumo di Pietrasanta non li cambierà nel corso dei suoi sessant’anni di vita.
M - La costruzione dei magazzini generali (1927)A imprimere un indirizzo prevalentemente aziendalista alla neonata Cooperativa contribuì in misura decisiva il decisionismo di Giovan Battista Raffo, un giovane scultore di origini genovesi, che in città aveva aperto un laboratorio di scultura, di vaghe idee socialiste e noto per la sua intraprendenza e pragmaticità. Le indubbie capacità di Raffo, avvicinatosi alla Società cooperativa fin dalla sua costituzione, si manifestarono soprattutto all’indomani della disastrosa gestione del suo primo presidente. Saranno gli anni della guerra e quelli immediatamente successivi ad esaltare le doti e le capacità di Raffo. Egli, infatti, non solo contribuirà a risanare i conti e a consentire di chiudere i bilanci in attivo, con risultati davvero sorprendenti, ma sotto la sua direzione l’Azienda in poco tempo fece registrare una ulteriore espansione dei suoi commerci e dei suoi punti vendita.
Quando il fascismo, non ancora regime, iniziò un’implacabile opera di penetrazione delle istituzioni e delle più diverse realtà cittadine – da quelle associa-tive a quelle sindacali, imprenditoriali e così via – Raffo per i fascisti si presentò come l’unico vero ostacolo alla possibilità di mettere fino in fondo le mani sulla Cooperativa. Per qualche tempo essi mal sopportarono l’autonomo operare del direttore e, dopo non poche frizioni e qualche avvertimento, giunsero alla determinazione che non ci fosse altra soluzione che sbarazzarsi della sua persona.
L’appiglio fu banale. Lo ricorderà lo stesso Raffo in una “memoria” scritta molti anni dopo. “Col pretesto che il 6 aprile 1924 non avevo voluto votare nelle elezioni politiche” scrive Raffo “il giorno seguente un gruppo di facinorosi fascisti capeggiati dal segretario politico e sindaco di Pietrasanta, Andrea Ballerini invase la Cooperativa ed alcuni, anche con le armi in pugno, mi cercarono per punirmi. Riuscii ad evitare la furia degli invasori nascondendomi. Mi costrinsero però, fa-cendo sempre uso della violenza, ad abbandonare la Cooperativa con la sempre espressa minaccia che mi sarebbero derivate più serie conseguenze ove avessi osato ripresentarmi in Ufficio”.
La cacciata violenta dalla Cooperativa del suo direttore originò una lunga scia di atti persecutori nei confronti dello stesso Raffo, atti che lo costrinsero a lasciare la città per riparare a Pisa dove avviò una attività commerciale che in poco tempo fu costretto a chiudere sempre sotto la minaccia dei fascisti.
Cooperativa Magazzini. Anni TrentaIn un contesto così difficile la determinazione di Raffo fu tale da sfidare il regime ricorrendo alla magistratura e a Mussolini in persona per farsi vedere ri-conosciuto il diritto alla liquidazione, negatogli dai fascisti locali. Quella che passò come “la vertenza” trovò formale e giusta conclusione nel corso degli anni Trenta con una sentenza che riconobbe all’ex direttore i diritti economici acquisiti e ne dispose la liquidazione. Un riscatto tardivo per Raffo che non si piegò mai ai fascisti ma che non valse a evitargli un’ultima amara sorpresa. Convocato nella sede del fascio di Pietrasanta per ritirare la somma dovutagli, si sentì dire che per dimostrare fino in fondo il suo amore per la Cooperativa, tante volte da lui stesso rivendicato, ora per coerenza avrebbe dovuto elargire l’intero ammontare della liquidazione a favore della Cooperativa stessa. La lettera era già stata preparata e rimaneva solo da firmarla. Raffo la lesse e senza batter ciglio la firmò.
La storia di Raffo con la Cooperativa non finì lì. Quando la bandiera della libertà era da poco tornata a sventolare su Pietrasanta, il vecchio direttore della Cooperativa, tra la fine di settembre e l’ottobre del 1944, chiamato dal Governatore militare alleato, riprese le redini dell’Azienda in qualità di commissario straordinario. Negli stessi giorni, su designazione del Comitato di liberazione nazionale, il Governatore militare nominò a capo del Comune l’avvocato Giovan Battista Cancogni, dopo la rinuncia dell’avvocato Luigi Salvatori, e Raffo entrò a far parte dell’esecutivo come “esperto in alimentazione”.
Quei delicati e importanti incarichi rappresentarono per Giovan Battista Raffo il vero riscatto tanto a lungo atteso, salvo doversi dimettere dopo pochi mesi da entrambi gli impegni, già debilitato dalla malattia che nel marzo 1945 lo condurrà alla morte.




L’AVVIO DEL VENTENNIO A MONTECATINI

Dopo il Biennio rosso che si era caratterizzato per scioperi, occupazioni delle fabbriche ed anche aggressioni, i due anni successivi, 1921-1922, furono contrassegnati dallo spadroneggiare dello squadrismo fascista. Squadre pisane guidate da Bruno Santini e squadre fiorentine chiamate in soccorso del Fascio X di Larderello con a capo Giuseppe Fanciulli, imperversarono nella nostra provincia causando gravi fatti di sangue oltre a devastazioni di circoli politici, camere del lavoro e cooperative sociali. Ciò poté accadere nonostante l’opera del prefetto Alfredo De Martino tesa a fermare quella violenza, anche con l’arresto di alcuni fascisti.
Ormai il fascismo, che poteva godere della connivenza sempre più diffusa nei vari ambiti politici e militari ed in certi presidii dello Stato, aveva pressoché campo libero. Di ciò dà atto anche Renzo CASTELLI nel suo Fascisti a Pisa (Pisa, Edizioni Ets, 2006):

Il 2 giugno 1921 il prefetto ricevette il segretario politico regionale del Fascio, Dino Perrone Compagni, il quale lo minacciò di trasferimento se avesse continuato con la sua azione di contrasto all’azione fascista. Per tutta risposta, De Martino fece trasferire il sottoprefetto di Volterra considerandolo troppo condiscendente nei confronti dei fascisti. Due mesi dopo il prefetto di Pisa veniva però a sua volta trasferito, sostituito con il filofascista Renato Malinverno.

In realtà a sostituire De Martino (prefetto di Pisa dal 16 aprile 1920 al 20 giugno 1921) fu Pietro Frigerio (21 giugno 1921 – 31 agosto 1921) al cui posto fu subito nominato Malinverno (1° settembre 1921-14 aprile 1924). Quel Malinverno che poi, nel novembre 1922, a seguito delle dimissioni dell’intero Consiglio comunale, inviò a Montecatini Giulio Malmusi in qualità di commissario prefettizio.
Uomo salito alle cronache pisane fin dal 1919, accostato e associato alle gesta di ras famosi quali Bruno Santini, Bruno Leoni, Tito Menichetti, Sandro Carosi, Guido Buffarini, Paolo Pedani, Gherardo Maffei, tornerà alla ribalta della cronaca anche nella Rsi. (Si veda Giorgio Alberto CHIURGO, Storia della Rivoluzione fascista, Firenze, Vallecchi, 1929; Mauro CANALI, Dissentismo fascista a Pisa e il caso Santini, Roma, Bonacci, 1983; Andrea ROSSI, Fascisti toscani nella Repubblica di Salò, Pisa, Bfs, 2006; Marco PALLA (a cura di), Storia della Resistenza in Toscana, Roma, Carocci, 2009. Un ritratto di Malmusi lo troviamo in Renzo CASTELLI – Fig. 27 dell’inserto fotografico – insieme a quelli dei capi fascisti pisani più esagitati).

Un paio di settimane dopo la Marcia su Roma, la Giunta social-comunista con l’intero Consiglio, già decimato dagli abbandoni forzati, dette le dimissioni. Eletti il 19 settembre 1920, facevano parte di quell’Assemblea Lazzerini Luigi (Sindaco, dimissionario dalla metà del 1921), Rotondo Giuseppe (Vicesindaco, reggerà il Comune fino al novembre 1922), Bruci Costantino, Bartalucci Biagio, Ricotti Cesare (Assessori), Calvani Cherubino, Guiggi Primo, Cecchi Ugo, Bellucci Faustino, Nannini Lodovico, Co-stagli Artibano, Fornaciari Giulio, Fulceri Quintilio, Tinacci Casimirro, Mannucci Giu-seppe ed i 5 consiglieri delle frazioni, Agostini Ezio, Neri Michele, Nannini Egidio, Regoli Dario, Grassi Valentino.
Fu proprio Malmusi ad accompagnare Montecatini alle elezioni del 7 gennaio 1923.

Da Montecatini. 8 Gennaio
Preparazione elettorale – La preparazione per le elezioni amministrative e provinciali avvenute il 7 corrente in questo Comune e la vittoria ottenutane si deve in tutto alla instancabile operosità di questo Commissario Prefettizio sig. Giulio Malmusi del Fascio di Pisa e dei fascisti locali sig. Ceppatelli Giuseppe Pietro e Mar-tini Ernesto che non badando ai disagi visitarono tutte le località del Comune e le lontanissime frazioni di Castello di Querceto e Sassa portandovi quel seme nuovo di redenzione, di vittoria e di pace.
Furono pubblicati numerosi manifesti (Da “IL CORAZZIERE”, a. XLII, n. 2, 14 gennaio 1923).

Sempre nel solito numero, “IL CORAZZIERE” riporta anche i risultati di quelle elezioni, che sancirono la vittoria dei «candidati nazionali», ed i nomi degli eletti nei Consigli comunale e provinciale.

Esito delle elezioni – La lista portata dalla Sezione Fascista ebbe unanime approvazione conquistando mag-gioranza e minoranza.
Al Capoluogo – inscritti n. 1.021 – votanti n. 679. Contando gli assenti e i morti si può presumere una votazione del 90 per cento.
Gli eletti a consiglieri comunali sono: Mori cav. avv. Torquato, professionista; Tonelli cav. magg. Ansel-mo, industriale; Barzi Dario, possidente; Mori Francesco, possidente; Tassi Emilio, agente agrario; Cep-patelli Giuseppe Pietro, rappresentante; Bartolini Raffaello, boscaiolo; Bartolini Rodolfo, boscaiolo; Or-zalesi Adon Noè, meccanico; Lenci Ivo, operaio; Bigazzi Terzilio, contadino (mutilato); Staccioli Tran-quillo, contadino; Burgassi Duilio, operaio; Sarperi Alberto, impiegato; Orazzini Giusto, contadino.
Alla frazione Sassa – inscritti n. 332 – votanti n. 251. I candidati Fantacci Fantaccio, Grassi Valentino, Nannini Egidio ebbero voti eguali ai votanti.
Alla frazione di Castello di Querceto – inscritti n. 211 – votanti n. 173. Salvini Vezio, fascista, voti 172; Giannelli Angiolo, nazionalista, voti 171.
Nel Capoluogo come nelle frazioni i candidati a consiglieri provinciali Mori cav. avv. Torquato, Pagani-Nefetti cav. avv. Vincenzo, e Bresciani cav. ing. Lorenzo ebbero la unanimità dei voti.
Le presenti elezioni hanno dato una rilevante percentuale di votanti su tutte le precedenti elezioni e si so-no svolte col massimo entusiasmo ed ordine. Nessun incidente.

Come risulta dai documenti d’archivio (Archivio Storico Comune Montecatini V.C., Deliberazioni Consiglio Comunale anno 1923), nell’adunanza del 21 gennaio presieduta dal consigliere anziano Orzalesi Adon Noè, i 15 consiglieri eletti a Montecatini (i 5 di Sassa e Querceto erano assenti) procedettero all’elezione del Sindaco nella persona di Anselmo Tonelli che, su 15 schede, ottenne 12 voti contro i 3 di Alberto Sarperi.
Quindi si passò alla nomina della Giunta (ogni consigliere poteva esprimere 4 preferenze): Bartolini Rodolfo ottenne 14 voti; Sarperi Alberto, 13; Burgassi Duilio, 11; Mori France-sco, 10; Bartolini Raffaello, 3; Barzi Dario, 2; Orzalesi Adon Noè, 2; Staccioli Tranquillo, 2; Mori Torquato, 1; Tassi Emilio, 1; Ceppatelli Giuseppe Pietro, 1. Risultarono eletti come assessori effettivi Rodolfo Bartolini, Alberto Sarperi, Duilio Burgassi, Francesco Mori.
Con votazione separata furono nominati i due assessori supplenti (ogni consigliere 2 pre-ferenze): Mori Torquato ottenne 9 voti; Barzi Dario, 8; Orzalesi Adon Noè, 3; Bartolini Raffaello, 3; Ceppatelli Giuseppe, 2; Lenci Ivo, 2; Tassi Emilio, 1; Bigazzi Terzilio, 1; Staccioli Tranquillo, 1. Quindi, come assessori supplenti risultarono eletti Torquato Mori e Dario Barzi.
Quindici giorni dopo (ASCM, s.D, n. 54, Carteggio anno 1923, fasc. Amministrazione, Estratto dal Verbale di Giunta dell’11 febbraio 1923) furono assegnati gli incarichi. Designati “assessori delegati” Rodolfo Bartolini (di anni 45; 1878-1960), Alberto Sarperi (di anni 43; 1880-1935), Duilio Burgassi (di anni 35; 1888-1951), Francesco Mori (di anni 28; 1895-1965), Dario Barzi (di anni 52; 1871-1947), il sindaco Anselmo Tonelli (di anni 40; 1883-1929) procedette alla distribuzione delle cariche, stabilendo che «Sarperi Alber-to, delegato per gli Atti di Stato Civile e per rappresentare il Sindaco in caso di assenza, è investito della carica per Finanze e Scuole; Bartolini Rodolfo, delegato ai Servizi di Cal-miere, Dazio, Annona, è investito della carica per Stoffe in deposito e Stabili di proprietà comunale; Barzi Dario è delegato per il Comitato delle Miniere; Mori Francesco è investi-to della carica per Farmacia, Nettezza, Nuove costruzioni, Acque pubbliche; Burgassi Duilio è investito della delega per Strade comunali». Torquato Mori (di anni 54; 1869-1936), notaio a Volterra, non fu investito di alcuna delega.
Della Lista fascista – ossia dei 15 eletti nel capoluogo – che includeva 5 reduci dall’avventurosa marcia su Roma (Rodolfo Bartolini, Francesco Mori, Ivo Lenci, Tranquillo Staccioli e Giuseppe Pietro Ceppatelli), facevano parte pure alcuni rappresentanti dell’Ani (Associazione Nazionalista Italiana; 1910-1923).
Si tiene, oggi forse più di allora, ad evidenziare questa distinzione, che tuttavia fu tale solo fino al 26 febbraio 1923, allorché fu deliberato lo scioglimento dell’Ani e l’iscrizione «in blocco d’ufficio» dei suoi associati al Pnf. Unificazione che fu celebrata il 20 aprile, vigilia del Natale di Roma (Erminio FONZO, Storia dell’Associazione Nazionalista Italiana, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2017).

Con le elezioni del 7 gennaio prese quindi avvio il Ventennio montecatinese.
Già nella riunione dell’11 febbraio, l’Amministrazione comunale deliberò di assegnare un sussidio annuo di lire 250 per «far fronte alla pigione del locale ad uso sociale dell’Associazione Nazionale Combattenti e Fascio di Combattimento» (ASCM, 14/B, De-liberazioni Giunta, 1921-1926, Del. n. 9). Nella medesima riunione (Del. n. 18) la Giunta stabilì che in seguito all’adesione alla Federazione dei Comuni fascisti, fosse «Emilio Tassi (di anni 48; 1875-1957) delegato a rappresentare il Comune alla riunione di tutti Comuni Fascisti il 17 p.v. a Pisa».
Furono questi i primi atti che caratterizzarono il 1923 come anno frenetico, intenso di provvedimenti, manifestazioni e riti instaurati per volontà del nuovo regime dei quali tratteremo, semmai, in altra occasione.

Articolo pubblicato su “La Spalletta”, a. XXXVIII, 4 dicembre 2021




Il cardinale Maffi e il fascismo

Quello tra chiesa cattolica e fascismo è un rapporto complesso, che non può essere ridotto a mera strumentalizzazione reciproca, volta al rafforzamento del consenso e alla soluzione della «questione romana». Come ha spiegato Giovanni Miccoli, si trattò di «un’alleanza e un accordo non meramente tattici ma più intimi e sostanziali», basati su «consonanze essenziali» (il culto di valori come ordine, gerarchia, disciplina, autorità, obbedienza) e «nemici comuni» (su tutti, liberalismo e comunismo). Il dato appare con particolare chiarezza nel caso pisano, caratterizzato da una serie di elementi di particolare rilievo: la violenza estrema dello squadrismo, dilaniato da faide intestine e animato da personaggi brutali come Alessandro Carosi; la forza delle sinistre e in particolare del movimento anarchico, che vantava una lunga tradizione di militanza in città; e, non in ultimo, la presenza del cardinale Pietro Maffi, protagonista della vita intra- ed extra-ecclesiale della prima metà del Novecento italiano.

Nato a Corteolona (Pavia) nel 1858, Maffi fu nominato arcivescovo di Pisa nel 1903. Divenuto cardinale nel 1907, promosse lo sviluppo del movimento cattolico e instaurò rapporti cordiali con i Savoia, approfittando della prossimità della residenza reale di San Rossore. Ciò aumentò grandemente il suo prestigio in seno all’episcopato, al punto da sfiorare l’elezione al conclave del 1914. Durante la Prima guerra mondiale Maffi divenne il simbolo dell’unione tra fede e patria nell’Italia grigioverde, esortando i pisani all’obbedienza e contribuendo a contenere il malcontento attraverso iniziative di carattere assistenziale come la ricerca di informazioni sui militari dispersi o prigionieri negli Imperi centrali.

La ripresa della conflittualità politica e sociale dopo la fine del conflitto lo indusse a lanciare un appello alla pacificazione, auspicando un ritorno alla società cristiana; ciò detto, basta sfogliare «Il Messaggero toscano» – il quotidiano da lui fondato nel 1913 – per rendersi conto che, agli occhi del cardinale, il pericolo maggiore era costituito dal socialismo ateo. Non a caso, quando furono i cattolici a subire attacchi e intimidazioni da parte delle camicie nere Maffi tenne un profilo generalmente basso, cercando di calmare gli animi e di trovare un terreno d’intesa con l’aggressore nella celebrazione della memoria “eroica” dei caduti della Prima guerra mondiale: così accadde nel novembre 1921, durante la cerimonia per il Milite ignoto, e nel maggio 1924, con l’inaugurazione del monumento ai caduti nel cortile della Sapienza. I fascisti, però, volevano restare gli unici padroni della scena pubblica e nel gennaio 1925 distrussero la tipografia che stampava i fogli cattolici distribuiti a Pisa, Lucca, Livorno, Pontremoli e La Spezia. Il danno considerevole spinse Maffi a mutare registro, indirizzando prima un telegramma di protesta al ministro dell’Interno («Vescovo ne ho pianto, italiano ne ho arrossito»), poi una lettera pastorale ai pisani. Dedicata al quinto comandamento, essa conteneva frasi durissime contro chi si era macchiato di omicidio nei recenti scontri politici: «Guai alla mano che gronda sangue! Guai ai piedi che urtano in un cadavere! Oh, la dinastia di Caino! Continua puro; ma lo senta che, dove mancano gli uomini, Dio arriva, Dio che ai colpevoli non dà tregua e incessante li persegue e sopra di loro grida e sentenzia: Maledetto, maledetto! Maledetto nel tempo! Maledetto nell’eternità! Maledictus eris!».

Pietro_Maffi_cardinaleDavanti al pericolo di perdere il sostegno di uno dei membri più illustri dell’episcopato, le cose iniziarono a mutare. Complici la fine della faida tra Bruno Santini e Filippo Morghen e l’ascesa di Guido Buffarini Guidi, l’atmosfera andò rasserenandosi e le relazioni tra Chiesa e fascismo entrarono in nuova fase. Nel maggio 1926, lo stesso Mussolini venne in città per assistere all’inaugurazione del restaurato pergamo di Giovanni Pisano nella cattedrale e si lasciò fotografare al fianco del cardinale, quasi a proclamare alla cittadinanza la ritrovata armonia tra le due autorità. L’evento fu un brutto colpo per i fascisti più ostili a Maffi, che dovettero rassegnarsi. Negli anni successivi, nessun incidente turbò i rapporti tra cattolici e camicie nere, che celebrarono insieme la memoria “eroica” del 1915-1918. Ad esempio, nel novembre 1928 il decennale della vittoria fu celebrato in duomo all’insegna della continuità tra guerra mondiale e fascismo: Buffarini lesse il bollettino della vittoria, l’ex cappellano militare Ezio Barbieri celebrò la messa e Maffi benedisse il tumulo imbandierato e circondato da soldati e fascisti; tutti intonarono infine la Marcia reale, l’Inno del Piave e Giovinezza.

Come si vede, alla vigilia della conciliazione il cardinale non esitò a legittimare il regime che si voleva erede di Vittorio Veneto; il culto dei caduti, tuttavia, fu solo l’aspetto più evidente di una convergenza profonda che, come attesta il bollettino diocesano, si manifestò nell’approvazione delle misure varate dal governo per l’incremento della natalità, del numero delle questure sul territorio e, soprattutto, della produzione cerealicola, funzionale al ritorno alla vita “devota” dei campi.

Per quanto importanti, questi elementi impallidiscono di fronte a quello che, a buon diritto, può essere considerato il sogno di una vita: la conciliazione tra Stato e Chiesa del febbraio 1929, che segnò la fine dell’annosa «questione romana» e il culmine della parabola politico-religiosa di Maffi. Pur non avendo avuto parte attiva nei negoziati, egli volle manifestare la propria soddisfazione con tre lettere di ringraziamento dirette al papa Pio XI, al re Vittorio Emanuele III e al dittatore che «con mano sicura e forte» teneva le redini del Paese. Non si trattava di sentimenti affettati: nel comunicare la notizia al clero diocesano, infatti, il presule annunciò con toni trionfali la fine della vecchia Italia dominata da «massoneria, liberalismo, scuole atee e corruzione».

Gli ultimi anni furono ricchi di soddisfazioni per Maffi, chiamato a Roma nel gennaio 1930 per celebrare il matrimonio tra il principe ereditario Umberto e Maria José del Belgio a Roma. Nella circostanza, egli fu insignito del collare dell’Annunziata, che gli dava il titolo di cugino del re.

La morte lo colse nel marzo 1931, mentre la crisi tra regime e Azione cattolica entrava nella fase più acuta. A riprova delle tensioni mai del tutto sopite, il necrologio de «L’Idea fascista» (organo del fascio pisano) precisò che, al di là dei meriti innegabili acquisiti nel corso della sua carriera, lo scomparso non aveva compreso né apprezzato fin da subito l’importanza del fascismo. I detrattori, però, dovettero mordere il freno davanti alla solennità dei funerali che, oltre alla partecipazione di undici vescovi e del maresciallo d’Italia Guglielmo Pecori Giraldi, ebbero l’adesione del re, del segretario di Stato vaticano Eugenio Pacelli e di Mussolini. Quest’ultimo plaudì in un telegramma all’«illustre cardinale Maffi che durante vita operosa seppe armonizzare religione, patria, scienza» e si fece rappresentare al rito dal sottosegretario di Stato al ministero di Giustizia e affari di culto Giuseppe Morelli. La resa dei conti, però, era solo rimandata. Ancora in ottobre, quando la tempesta sembrava ormai alle spalle, «L’Idea fascista» tornò ad accusare lo scomparso di antifascismo.

La presenza di una figura del calibro di Maffi, decisamente inusuale per una diocesi periferica e dalle dimensioni modeste come quella pisana, contribuì a dare agli eventi locali una risonanza notevole non solo nella penisola ma anche all’estero, facendo della Pisa degli anni Venti una sorta di osservatorio da cui scrutare i punti di forza e le criticità della politica ecclesiastica del fascismo. Soprattutto, la vicenda di Maffi evidenzia un dato cruciale. A dispetto di divergenze, tensioni, moniti, incidenti e intimidazioni, i responsabili ecclesiastici non smisero mai di cercare o, dopo il 1929, di difendere la conciliazione. Le leggi razziali causarono certamente un raffreddamento dei rapporti tra le due autorità, anche perché violavano le disposizioni concordatarie in materia di matrimonio; ciò detto, furono soltanto le sconfitte inanellate dall’esercito nel corso della Seconda guerra mondiale a segnare il distacco definitivo della Chiesa da un regime entrato ormai nella sua fase terminale.




La Città Bianca in camicia nera: dalla fine dell’Ottocento ai fatti di Piazza S. Michele

La Lucca prefascista: conservazione e tradizione

Regione rossa per eccellenza nell’immaginario collettivo assieme all’Emilia Romagna, la Toscana può vantare una “genealogia rivoluzionaria” che dagli studenti pisani volontari a Curtatone e Montanara arriva allo spartiacque di Livorno del 1921, passando per episodi meno noti come la feconda contaminazione reciproca tra socialismo e progressismo positivista d’ispirazione mazziniana nella Versilia a cavallo fra i due secoli [1].

In un simile panorama la città di Lucca spicca per il proprio conservatorismo, “fortemente connesso”, come evidenzia Luca Pighini, “con la difesa dei valori religiosi”; terra d’emigrazione e territorio a vocazione agricola, la Lucchesia conosce l’industrializzazione nell’ultimo ventennio dell’Ottocento, quando l’imprenditore genovese Vittorio Emanuele Balestrieri impianta uno jutificio in località Ponte a Moriano [2]. Il conflitto sociale, a fronte delle durissime condizioni di vita della classe operaia lucchese, stenta a decollare: soltanto nella primavera del 1914 si tiene il primo vero sciopero di massa, quello delle sigaraie della Manifattura Tabacchi, già protagoniste nei decenni precedenti degli unici, sporadici episodi di combattività operaia in Lucchesia [3], e che durante la Prima guerra mondiale saranno nuovamente al centro delle proteste del 1917 [4 ]. Ma le cose sono destinate a cambiare con la fine del conflitto e il doloroso lascito che questo si lascia alle spalle, a Lucca come nel resto del paese.

Dal primo dopoguerra al “biennio rosso”

“Al di là dell’entusiasmo per la vittoria e della retorica di celebrazione”, scrivono Eugenio Baronti e Leana Quilici, “la fine della grande guerra lascia in tutta Italia una tragica eredità: all’elevato numero di morti, mutilati e invalidi si aggiungono i problemi della disoccupazione, della mancanza di generi di prima necessità […]” [5]. Lucca, alle prese con la crisi della produttività agricola e salari sempre più deboli di fronte all’inflazione, non costituisce certo un’eccezione nel quadro nazionale: a denunciare la difficoltà del momento non sono soltanto le organizzazioni socialiste, ma anche una parte del mondo religioso cittadino (“Lucca, città della fame” titola il Serchio, erede di quell’Esare che sin dalla sua fondazione nel 1886 era stato la voce della Curia lucchese)[6 ]. Nel febbraio 1919 vedono la luce le prime leghe sindacali bianche grazie al contributo del parroco di San Marco don Pietro Tocchini, animato certamente da volontà concorrenziale nei confronti dei socialisti, ma anche da una genuina presa di coscienza della dura realtà quotidiana dei propri parrocchiani. Nel novembre dello stesso anno le elezioni nazionali a Lucca premiano il Partito popolare italiano, diviso però al suo interno tra un’ala di sinistra “quasi socialista” – come la definì il Giornale di Valdinievole – e un’ala destra ferocemente conservatrice e ostile a qualsiasi forma di associazionismo operaio, incluso quello cattolico [7].

L’ondata delle proteste lucchesi negli anni del dopoguerra e del “biennio rosso” culminano con il massiccio sciopero del marzo 1920 e l’occupazione della fabbrica S.M.I. a Fornaci di Barga nel settembre dello stesso anno; scarso invece il riverbero in città della rivolta viareggina del 2-5 maggio [8]. Sostanziali le conquiste ottenute, dagli aumenti salariali all’alleggerimento della disciplina di fabbrica. Gli echi delle dimostrazioni di piazza hanno appena cominciato a spegnersi quando la violenza squadrista piomba sulla città – e sulle organizzazioni del movimento operaio.

Il fascismo a Lucca: dalla fondazione all’aggressione di piazza San Michele

Poco più di un anno prima, il 23 marzo 1919, Benito Mussolini ha fondato i Fasci di combattimento, il cui avvenire non sembra roseo fino al 1920 quando – sull’onda del riflusso delle occupazioni operaie e del crescente declino del PSI – il nuovo soggetto politico si pone a capo della “reazione borghese antiproletaria” conoscendo una rapida crescita in termini di iscritti [9]. Anche a Lucca, che soltanto un paio di settimane prima ha subito gli effetti del devastante terremoto che vede il suo epicentro nella Garfagnana, nel settembre 1920 si avvia il processo volto alla fondazione di una sezione locale del fascio, per iniziativa del romagnolo Nino Malavasi, studente di veterinaria, e del farmacista ed ex ufficiale Baldo Baldi [10 ], entrambi provenienti dagli ambienti mazziniani, una cinquantina di simpatizzanti – perlopiù giovani di famiglie benestanti – al seguito [11]. Il fascismo lucchese nasce ufficialmente un mese dopo in via Guinigi, il 26 ottobre 1920, sotto la presidenza onoraria del colonnello Umberto Minuto; il 5 dicembre esce il primo numero de L’intrepido, periodico della sezione.

Il “battesimo dello squadrismo” a Lucca si tiene il 14 dicembre 1920, in piazza S. Michele, dove circa 500 persone si sono riunite nella piazza in occasione di un comizio socialista contro il carovita: l’onorevole Lorenzo Ventavoli prende la parola, ma i fascisti lo interrompono continuamente, accusandolo di vivere nell’agio grazie all’indennità parlamentare [12 ]; dalle parole si passa ben presto alle vie di fatto, agli squadristi lucchesi si uniscono gli oltre 300 camerati pisani e senesi giunti in città, e la Guardia Regia spara sulla folla mentre le camicie nere rientrano indisturbate nella propria sede di via S. Andrea. Restano a terra 19 feriti e due morti, Valente Vellutini, proprietario di una filanda, e l’ex consigliere comunale liberale Angelo Della Bidia. A nulla valgono le denunce di Ventavoli e del comunista Luigi Salvatori: gli unici arresti effettuati dalla polizia vanno a colpire i socialisti. Anche a Lucca dunque, come a Milano e Bologna un anno prima, si registra la connivenza tra apparati dello Stato e fascisti [13]. Il mattino successivo in quella stessa piazza, a fianco della chiesa, compare una scritta minacciosa a caratteri cubitali: “A Lucca comanda il fascio”[14]. E chi comanda il fascio a Lucca sarà da lì a poco Carlo Scorza.

Il Ras di Lucca

Calabrese, classe 1897, Scorza si trasferisce quindicenne a Lucca con la famiglia e alla vigilia della Prima guerra mondiale si fa notare per il suo acceso attivismo interventista; durante il conflitto si distingue durante la difesa del Piave, venendo decorato al valore militare. L’adesione ufficiale al fascismo avviene proprio in quel fatidico 14 dicembre 1920 che ha lasciato dietro di sé due morti, numerosi feriti e ben più di qualche sospetto sulla complicità tra forze dell’ordine e camicie nere. La carriera del futuro “condottiero”[15] dentro il fascio lucchese è rapidissima, tanto da arrivare a ricoprire la carica di segretario a soli quattro mesi dalla sua iscrizione, nell’aprile 1921: sotto la guida di Scorza, ha evidenziato Nicola Laganà [16], si rafforza la componente più violenta del movimento, che si scatena contro le sedi e i luoghi di ritrovo del movimento operaio. Nel dicembre dello stesso anno, dopo la trasformazione dei fasci di combattimento in partito, diviene segretario federale per Lucca; nell’ottobre 1922 partecipa alla marcia su Roma, occupando con i suoi duemila legionari lucchesi Civitavecchia. Il lungo regno del “gangster” Scorza [17] è contraddistinto dalla costante scalata ai vertici del PNF, culminata (non senza contrasti con i capi nazionali e lo stesso Mussolini) nel 1943 con la nomina a segretario nazionale del partito: una strada macchiata di sangue – quello degli antifascisti, ma anche di qualche fascista – e caratterizzata da una gestione del potere che Ugo Clerici, collaboratore di Mussolini da questi inviato a Lucca per far luce sulle “cose poco pulite” che girano sul conto di Scorza e di suo fratello Giuseppe, definirà “camorristica”[18].

1 Per un quadro generale si rimanda alla lettura del recente volume di Edoardo Parisi e Maurizio Sacchetti Dario Calderai, medico mazziniano nella Versilia del marmo di fine Ottocento (2022), edita da Ed. l’Ancora e A.M.I. – Associazione Mazziniana Italiana – sez. Versilia, circolo “Mauro Raffi”.

2 Per una lettura approfondita del fenomeno si rimanda all’esaustivo saggio di Francesco Petrini Aspetti dell’industrializzazione in Lucchesia: 1880-1901, pubblicato per la prima volta sul n. 5 di “Documenti e Studi” del dicembre 1986 ed oggi consultabile a questo link.

3 Vedi anche il saggio di Luciana Spinelli 1914: la Manifattura di Lucca e lo sciopero generale nelle manifatture dei tabacchi, in “Documenti e Studi” n. 3/1985 (pp. 3-34), consultabile a questo link.

4 Per un quadro completo delle proteste lucchesi del 1917 si rimanda al saggio di Andrea Ventura “L’inizio del conflitto sociale? Il caso della provincia di Lucca“, in Roberto Bianchi, Andrea Ventura (a cura di), Il 1917 in Toscana. Proteste e conflitti sociali, Pacini Editore, Pisa 2019, pp. 35-51; altro significativo caso di conflittualità durante e dopo la guerra è costituito dalla SMI di Fornaci di Barga, oggetto del saggio di A. Ventura Fornaci di Barga 1915-1920, in “Documenti e Studi” n. 38/2015, pp. 61-72.

5 Eugenio baronti, Leana Quilici, Lucca 1919: la vita politica e sociale della città raccontata dai giornali lucchesi, p. 7, in “Documenti e Studi” n. 1/1984, pp. 5-36.

6 Ivi, pp. 8-9

7 Vedi anche Antonella Dragonetti, Le vicende elettorali del Partito popolare lucchese nelle elezioni del 1919, in “Documenti e Studi” n. 4/1986, pp. 18-33.

8 Andrea Ventura, Italia ribelle. Sommosse popolari e rivolte militari nel 1920, Carocci, Roma 2020, p. 59.

9 Emilio Gentile, Il fascismo in tre capitoli, Laterza, Roma-Bari 2004, pp. 20-21.

10 Marco Pomella (a cura di), La storia di Lucca, Typimedia, Roma 2019, pp. 121-122.

11 Umberto Sereni, “Carlo Scorza e il fascismo in stile camorra”, p. 193, in Paolo Giovannini, Marco Palla (a cura di), Il fascismo dalle mani sporche. Dittatura, corruzione, affarismo, Laterza, Roma-Bari 2019, pp. 190-217.

12 Andrea Ventura, “Lorenzo Ventavoli”, in Gianluca Fulvetti, Andrea Ventura (a cura di), Antifascisti lucchesi nel casellario politico centrale. Per un dizionario biografico della provincia di Lucca, Maria Pacini Fazzi, Lucca 2018, pp. 183-185.

13 Per un quadro più approfondito si rimanda alla lettura del volume di Andrea Ventura Il diciannovismo fascista. Un mito che non passa, Viella, Roma 2021.

14 Luciano Luciani, Armando Sestani, Lucca e dintorni tra antifascismo, guerra e Resistenza, pp. 18-19, in Gianluca Fulvetti, Guida ai luoghi della memoria in provincia di Lucca (vol. 3), Pezzini, Viareggio 2016.

15 Titolo in origine attribuito al signore ghibellino di Lucca Castruccio Castracani degli Antelminelli (1281-1328), la cui figura sarà sfruttata in chiave propagandistica da Scorza proponendone l’identificazione con sé stesso; vedi anche Umberto Sereni, “Carlo Scorza e il fascismo stile camorra”, in Giovannini-Palla (a cura di), Op. cit.

16 Cit. in Pomella, Op. cit., p. 127

17 Secondo il ritratto che ne da il settimanale britannico Observer al momento della nomina di Scorza a nuovo segretario del PNF; in Mimmo Franzinelli, L’amnistia Togliatti, Feltrinelli, Milano 2016, p. 166

18 Cit. in Sereni, Op. cit., p. 203.




Alla conquista della “piccola Russia”

oltre mille fascisti, inquadrati militarmente, sono sboccati in piazza Vittorio Emanuele, fermandosi dinanzi al Palazzo Comunale. Il marchese Dino Perrone Compagni, dopo aver salutato il tricolore che sventola dalla sommità del Palazzo civico, ha intimato a gran voce all’amministrazione comunale socialista di dimettersi entro le ore 12. La folla ha vivamente applaudito. [«Il Telegrafo», 3 agosto 1922.]

Dopo un colloquio con il prefetto Eduardo Verdinois e l’on. Costanzo Ciano esponente emergente della classe dirigente livornese, forte della sua fama di eroe della Grande Guerra e degli stretti rapporti con i vecchi ceti dominanti (a partire dalla famiglia Orlando) e con il fascio urbano, il sindaco socialista Umberto Mondolfi decide di dimettersi, cedendo alle minacce di Dino Perrone Compagni, ras del fascismo toscano, alla guida dell’offensiva squadrista contro la città labronica e regista delle spedizioni squadriste dirette da Firenze nelle altre province della regione.
Questi era stato inviato a Livorno a luglio dal Comitato centrale del PNF sia per riportare ordine all’interno del fascio locale scosso da gravi tensioni interne e dalla minaccia di scissione della componente più estremista vicina all’ex segretario Marcello Vaccari sia per attuare l’ultimo atto dello scontro con le forze “sovversive”: la conquista violenta del municipio.
Dati i precedenti personali di Perrone Compagni, figura carismatica all’interno di quel fascismo toscano che da mesi guardava con odio al sopravvivere della giunta socialista di Mondolfi in un contesto regionale già fortemente fascistizzato, il prefetto Verdinois, in una relazione al Ministero degli Interni di quello stesso mese di luce, si fa facile profeta di una spedizione fascista contro la città, vista anche come occasione perfetta per ricompattare gli sforzi e gli interessi delle diverse anime del fascio e degli ambienti collaterali come gli ex combattenti, rinsaldando una rinnovata unità.
Livorno del resto non era solo uno degli ultimi municipi a guida socialista ma una città simbolo, sede del congresso fondativo del partito comunità, città di consolidate tradizioni “sovversive”, teatro di importanti scioperi e manifestazioni negli anni del primo dopoguerra fra miti rivoluzionari e crescenti timori nei ceti medi e borghesi e nei tradizionali gruppi dirigenti di una città, provata dalle forti divisioni politiche suscitate dal primo conflitto mondiale e provata dalle difficoltà economiche e dalle conseguenze sociali determinate dai processi di riconversione economica postbellica.

Nella notte tra il 2 e il 3 agosto le squadre fasciste erano arrivate con i treni da tutta la Toscana. Un gruppo era riuscito a penetrare nel Municipio e ad issare sulla torre un grande vessillo tricolore. La mattina del 3 agosto Perrone Compagni, sia con una lettera, sia con una telefonata in municipio, lo aveva chiaramente ammonito: «dopo il tramonto non avremo più alcun sentimentalismo verso nessuno come voi non avete mai alcun sentimentalismo per la Patria e l’onestà». [Testo della conversazione telefonica fra Perrone Compagni e Mondolfi, secondo quanto riportato da «Il Telegrafo», 4 agosto 1922.]

Già nelle ore precedenti la città aveva conosciuto la violenza degli squadristi. Appena si era sparsa la notizia dell’adesione della Camera di Lavoro confederale e di quella sindacale allo sciopero generale proclamato dall’Alleanza del lavoro, gli squadristi erano stati mobilitati da Perrone Compagni. La mattina del 2 agosto due squadre erano state inviate nei vari stabilimenti e alla stazione dei tramvai; gruppi in auto e camion carichi di camice nere avevano iniziato a pattugliare le vie della città. I fascisti avevano ordinato di appendere le bandiere nazionali alle finestre delle case e il tricolore veniva issato anche sul Duomo.
Subito dopo il suo arrivo in città, Costanzo Ciano aveva fatto affiggere un manifesto in cui esprimeva il suo pieno sostegno all’azione dei fascisti, in quanto «l’attentato alla Nazione compiuto dai dirigenti delle organizzazioni sovversive, impone agli italiani di difendere la Patria, la libertà, la famiglia! Contro i matricidi insorge il fascismo. Concittadini, nella calma, nella serenità più perfetta attendete la vittoria».
Il ferimento di due militi aveva provocato le prime spedizioni punitive contro i circoli ´sovversivi`: Il Cigno, Il Germoglio all’Ardenza, e quello dei ferrovieri. La violenza fascista aveva colpito in particolare la famiglia Gigli:
appena è stato loro aperto, hanno iniziata una scarica di revolverate nella stanza d’ingresso, ferendo mortalmente il tranviere avventizio Pilade Gigli, di anni 30, il fratello Pietro Gigli, di anni 35, consigliere comunale comunista, parrucchiere, e la loro madre, la vecchia settantacinquenne Giulia Cantini nei Gigli. Un figlio di Pietro, Armando, noto anche lui come comunista, insieme allo zio Manlio Gigli, riuscirono a dileguarsi calandosi da una finestra. [«Il Telegrafo», 3 agosto 1922]

Nella giornata del 3 le dimissioni della giunta, che sanciscono la vittoria di Perrone Compagni, non segnano la fine degli scontri, che anzi riprendono con maggiore intensità in seguito al ferimento dell’ex segretario del fascio Marcello Vaccari. Gli squadristi attaccano e devastano la Camera del lavoro e le abitazioni di vari esponenti socialisti:
sfondata la porta dell’assessore Bacci hanno fatto irruzione nell’appartamento devastandolo. I mobili, i quadri e quanto altro vi si trovava ed era asportabile è stato gettato sulla strada ove n’è stato fatto un immenso falò. La cronaca registra inoltre un tentativo d’invasione del quartiere abitato dall’assessore Urbani, in piazza Magenta, dove la porta, solidissima ha resistito. […] Un altro gruppo di fascisti in Corso Amedeo ha fatto irruzione, devastandola, nella casa del consigliere comunale Luigi Gemignani che è rimasto ferito alla guancia sinistra. [«Il Telegrafo», 4 agosto 1922]
Stessa sorte tocca alla sede dei comunisti in via Santa Fortunata, alla casa dell’assessore Giuseppe Cardon, la cartoleria dell’assessore Giuseppe Bacci, il banco di commercio dell’assessore Giorgio Urbani, la sede della Federazione socialista: «dopo non pochi sforzi la porta ha ceduto e gli assalitori sono penetrati nell’interno. I fascisti si sono impossessati dei mobili, delle carte, hanno staccati dai muri i numerosi quadri e hanno gettato ogni cosa nella strada. Tutto è stato devastato». Al termine della giornata il bilancio degli scontri riportato da «Il Telegrafo» è di 18 feriti, fra cui un ragazzo di 18 anni, due donne e un vecchio di 71 anni, e di 4 morti: Gilberto Catarsi, operaio del Cantiere Parodi e Del Pino, ucciso da un colpo di arma da fuoco partito da un camion, Oreste Romanacci di 73 anni, il muratore Filippo Filippetti, Bruno Giacobini di 14 anni casualmente ferito durante degli scontri in via Palestro, dove si era recato per curiosità.

Nei giorni successivi la pubblica sicurezza perquisisce il circolo repubblicano di via Pellegrini e, trovandovi armi ed esplosivi, arresta Gino Reggioli segretario della sezione del PRI, il presidente del Circolo e altri membri; intanto le bandiere nazionali vengono appese ai balconi e alle finestre delle case e il preposto della Cattedrale monsignor Pera acconsente che il tricolore sventoli sul Duomo.

Il 4 agosto la manifestazione patriottica che sfila per le strade della città suggella, anche simbolicamente, l’unione tra le forze industriali, patriottiche, ex combattenti e fasciste che avevano concorso all’abbattimento della bandiera rossa dalla torre municipale, mentre il generale Ibba Piras, comandante della Divisione militare, assume la gestione dell’amministrazione cittadina come commissario straordinario fino all’11 agosto.

La lettura del “Telegrafo”, quotidiano cittadino, può aiutare a ricostruire il clima di sollievo e soddisfazione che la caduta della giunta porta negli ambienti della borghesia cittadina. La violenta aggressione e deposizione di un’istituzione legalmente eletta si trasforma nella retorica del giornale in una liberazione salvifica, una grande festa per la fine del “governo bolscevico”:
Livorno ha salutato ieri il ritorno del tricolore in modo che sarebbe follia voler descrivere. E’ stata un’altra vibrante festa italiana quella che si è svolta in un trionfo di bandiere nazionali e alla quale il nostro popolo -ancor fiero delle sue tradizioni patriottiche- ha partecipato con un entusiasmo che supera ogni immaginativa. [“Telegrafo”, 5 agosto 1922]

Così in due giorni, sfruttando l’occasione dello sciopero legalitario proclamato in tutta Italia dall’Alleanza del Lavoro proprio contro le violenze fasciste, Perrone Compagni guida le camice nere labroniche alla conquista della città, grazie al sostegno degli squadristi giunti da tutta la regione, alla complicità di ampia parte della vecchia classe dirigente e al benevolo attendismo delle forze di pubblica sicurezza.




Spartaco Lavagnini e la nuova Internazionale: una polemica del 1917

Poco più di un mese dopo il disastro di Caporetto sul fronte italiano della Grande Guerra e poche settimane dopo la Rivoluzione d’Ottobre in Russia, il 1° dicembre 1917, Spartaco Lavagnini pubblica su La Difesa – settimanale del PSI fiorentino, cui collaborava regolarmente dall’ottobre del 1915 – un articolo intitolato La nuova Internazionale, destinato ad avere una risonanza non trascurabile sulla stampa socialista dell’epoca. Lo firma con l’ormai abituale pseudonimo di Vezio. L. parte dalla constatazione del fallimento della Seconda Internazionale e – rilevati i limiti e l’insufficienza della tattica parlamentare – addita la prospettiva di un nuovo organismo sovranazionale, basato sull’accordo fra tutte le scuole del sovversivismo rivoluzionario, che dia unità d’organizzazione alle masse operaie. Auspica che divenga possibile discutere nelle grandi assise internazionali fra socialisti, sindacalisti ed anarchici i grandi problemi che interessano il proletariato del mondo ed avvistare i mezzi più adatti a risolverli.  Prosegue Vezio: Nei grandi avvenimenti [della storia contemporanea] (…) l’unità proletaria si è immediatamente realizzata, gli aggruppamenti politici sovversivi hanno saputo trovare il comune terreno per una comune azione. Non ci pare quindi impossibile dare a questa unità ed a questi atteggiamenti più stabile consistenza e forme più durature.

Una settimana dopo, dalle colonne de Il Grido del Popolo – organo della Federazione socialista torinese – giunge severa la critica di Gramsci: Così la “Difesa” cade in questo errore di logica. Scambia il compito che può avere un convegno internazionale, nel quale si fissano dei princìpi generali che rinsaldino le coscienze in un determinato momento della storia, (…) e il compito di un organismo stabile. Il partito ha una continuità, è un organismo complesso, ha bisogni pratici, e solo in quanto riesce a soddisfarli acquista in potenza, e suscita le forze sociali necessarie per il raggiungimento dei suoi fini. E poi l’attacco a fondo alle posizioni di L. – (…) la nostra distinzione [in quanto partito] sarebbe distrutta da una fusione con gli anarchici e i sindacalisti. Non è solo l’antiparlamentarismo che ci separa dai sindacalisti e specialmente dagli anarchici. Siamo non solo distinti, ma diversi dagli anarchici, a malgrado dagli occasionali accostamenti. Divergiamo per il fine, per la mentalità che la divergenza di fine determina.

Emerge qui il fondamento della posizione e della critica gramsciana: una concezione organica del partito, di una compagine fondata su una precisa identità politica, con una sua visione d’insieme del corso storico e del rapporto con la classe nella sua totalità – di contro alla visione del partito come un processo, legato alla spontaneità delle masse in movimento e da questa dinamica definito nei suoi modi d’essere e nei suoi obbiettivi.

Vale comunque la pena di leggere per intero il testo di Gramsci (cfr. la bibliografia), non fosse altro in quanto riporta pressoché integralmente l’articolo di Vezio, anche se questo scambio polemico fra i due dirigenti rivoluzionari è noto da tempo ed è stato ampiamente ricostruito nella bella biografia che Andrea Mazzoni ha recentemente dedicato a L.

Meno ricordati sono gli interventi, in questo confronto, di Amadeo Bordiga e di Giacinto Menotti Serrati. Il primo, all’epoca animatore e dirigente della Federazione napoletana del PSI, prende posizione dalle colonne de L’Avanguardia – il settimanale della FGSI, che in quell’autunno 1917 si trova temporaneamente a dirigere – con una breve nota, nella quale si dice sostanzialmente in pieno accordo con la posizione de Il Grido del Popolo. Questo trafiletto introduce un più ampio articolo di un giovanissimo militante d’origine sarda, non ancora sedicenne, Giuseppe Sotgiu, ben presto destinato a diventare segretario della FGSI e ad entrare nella direzione de L’Avanguardia, in seguito al richiamo di Bordiga sotto le armi e all’arresto del segretario dell’organizzazione giovanile, Luigi Polano. Sotgiu, dopo aver ricordato la fine della Prima Internazionale proprio per le inconciliabili divergenze fra anarchici e marxisti e il crollo della Seconda, a causa della sua disomogeneità, vista la presenza dei “social-nazionalisti”, fa proprie le conclusioni dell’articolo di Gramsci

Serrati – allora direttore dell’Avanti! – interverrà sul quotidiano socialista il 6 gennaio 1918, riprendendo le posizioni di Gramsci e Bordiga, rinviando inoltre ad un proprio articolo di due anni prima, pubblicato sullo stesso quotidiano socialista, nel quale egli già aveva proposto agli anarchici la ricerca di un terreno comune nell’azione contro la guerra, senza che ciò comportasse l’abiura alle rispettive concezioni politiche generali, che erano inconciliabili.

Si può già intravedere come traspaiano in filigrana in questa polemica, apparentemente marginale e condotta in punta di penna, alcuni temi ed alcuni atteggiamenti politici che ricompariranno – mutatis mutandis, ma con ben altre conseguenze pratiche – nel corso degli anni successivi, dalla primavera-estate del 1920 e nei mesi che precedono la scissione di Livorno, fino al periodo della lotta contro il fascismo, nei mesi che precedono e seguono la marcia su Roma (si pensi alla scelta della direzione del PCd’I di non aderire nel 1921  agli Arditi del Popolo e alla questione del Fronte unico, oggetto di profonde controversie fra la sezione italiana dell’Internazionale Comunista e lo stato maggiore di Mosca).

È importante cogliere come questa polemica non sorga dal nulla, come una tempesta in un bicchier d’acqua, ma si ricolleghi alla spinta di non poche frange della sinistra giovanile socialista ad approfondire e rendere organico il legame con anarchici e sindacalisti rivoluzionari nella comune azione contro la guerra. È tutto un fermento nel movimento operaio e socialista italiano, che fiorisce a partire dalla fine del 1915 e si estende con l’amplificarsi in Italia degli echi delle conferenze di Zimmerwald (5-8 settembre 1915) e di Kienthal (25-30 aprile 1916).

In Puglia, ad esempio, un gruppo di giovani socialisti rivoluzionari, fra cui Nicola Modugno (che ritroveremo a Firenze il 18 novembre 1917 – vedi più oltre), tenta di organizzare per il giugno 1916 un Congresso interregionale giovanile socialista anarchico rivoluzionario, poi impedito dalla polizia, che mira a spengere sul nascere i focolai dell’insubordinazione. Ma le spinte a saldare, a livello locale e “dal basso”, un’unità fattiva contro la guerra fra giovani socialisti, anarchici e sindacalisti rivoluzionari non sono confinate al solo Meridione (sui cui movimenti sovversivi si veda l’utile libro di Daria Del Donno, citato nella bibliografia).

Il 10 giugno 1916 Gramsci – in un articolo pubblicato sulla pagina torinese dell’Avanti! – annuncia che: Un gruppo di giovani del circolo “Andrea Costa” ha preso l’iniziativa per la costituzione a Torino di un fascio internazionalista rivoluzionario che dovrebbe comprendere i socialisti, gli anarchici e i sindacalisti. Un blocco rosso insomma. Gramsci si dice contrario ad una fusione organica: una fusione di tal genere avviene naturalmente nel momento dell’azione, quando si ha un fine immediato da raggiungere un nemico comune da colpire (…) E’ opinione volgare e diffusa che gli anarchici e i sindacalisti siano più “rivoluzionari” che i socialisti anche estremi. E questo è un pregiudizio perché il rivoluzionarismo non è in funzione assoluta con le affermazioni gladiatorie e con la violenza di linguaggio (…). Crediamo perciò che il nostro partito non abbia affatto bisogno di queste iniezioni per irrobustirsi (…).  Una posizione analoga aveva vivacemente sostenuto Bordiga, già nell’aprile, allorché – nell’ambito della Federazione socialista di Napoli – si era esaminata la possibile convergenza con elementi anarchici nel lavoro politico e sindacale.

Sulla stampa socialista il dibattito sulla questione dell’unità di classe contro la guerra sta andando avanti dagli inizi di quel 1916; a partire dal già menzionato articolo di Serrati del gennaio. Da questo confronto emerge la sintonia fra Gramsci e Bordiga – che ritroveremo nel dicembre 1917 – nell’escludere ogni alleanza spuria a sinistra.

Anche in ambito libertario e sindacalista la questione troverà vasta risonanza soprattutto a partire dal 1° maggio 1917, quando sull’Avanti! compare un articolo di Jacques Mesnil sul tema della nuova internazionale. Mesnil è un anarchico di origini belghe, particolarmente legato al PSI e in ottimi rapporti con Serrati, che lo accetterà come corrispondente parigino del quotidiano socialista. Nel 1921 parteciperà al III° Congresso del Komintern e per alcuni anni sarà nella redazione de L’Humanité, allora organo della sezione francese dell’I.C.

In autunno, con una lettera da Londra, pubblicata su Guerra di classe (la rivista fondata dal sindacalista Armando Borghi, dopo la rottura con gli elementi interventisti dell’Unione Sindacale Italiana), prende posizione Errico Malatesta a favore di una nuova Internazionale, che si batta per l’emancipazione del proletariato mondiale dal capitalismo e dai suoi governi. Una formazione (Malatesta propone di chiamarla la Mondiale per sottolinearne il carattere sovranazionale) alla quale potrebbero partecipare i socialisti non anarchici ed i laburisti non socialisti, a patto che rinuncino ad imporre le proprie tattiche, ovvero il parlamentarismo e il gradualismo riformista. Una posizione speculare, se vogliamo, a quella di Gramsci e di Bordiga.

L. interviene nel momento culminante di tutto questo dibattito. Per quanto riguarda l’evoluzione di Vezio, la posizione espressa nell’articolo da cui siamo partiti è in assoluta coerenza con tutta la sua militanza politica e sindacale. L. è sicuramente espressione dell’ambiente massimalista fiorentino, pur se gli resteranno sempre estranei i toni esagitati e la verbosità demagogica da comiziante.

Del resto il massimalismo sarà uno dei tratti distintivi di gran parte dei militanti socialisti che aderiranno tre anni dopo alla mozione di Imola e, nei primi mesi del 1921, daranno vita alle sezioni toscane del PCd’I.  Basti qui ricordare l’estrazione anarchica, negli anni di gioventù, di quadri del livello di un Ilio Barontini o di un Ersilio Ambrogi (entrambi originari della provincia di Pisa – Cecina e Castagneto rientravano allora in tale ambito amministrativo), oppure l’apprendistato e i tratti dell’impegno politico di un Arturo Caroti, o di un Armando Aspettati (entrambi fiorentini), di un Luigi Salvatori (originario di Querceta in provincia di Lucca), o di un Egidio Gennari (per diversi anni, particolarmente significativi, attivo su Firenze).

Quella di L. – la sua visione e la sua passione per fomentare e sviluppare l’unità di classe al di là delle appartenenze di sindacato e di partito (potremmo dire dal basso), resta una coerenza totale, dispiegata fino all’ultimo. C’è una coerenza di fondo fra lo spirito dell’articolo del dicembre 1917 e l’impegno unitario, senza riserve, di L. a fianco degli anarchici (due nomi per tutti: il pisano Augusto Castrucci e il livornese Enzo Fantozzi) e dei sindacalisti rivoluzionari all’interno del Sindacato Ferrovieri Italiani (S.F.I.), per la cui adesione alla CGdL Vezio non rinunciò a battersi durante il biennio rosso.

Una coerenza che ritroviamo nella collaborazione con l’avvocato Mario Trozzi, al tempo stesso legale dello S.F.I. e esponente di rilievo del massimalismo fiorentino. Vale la pena di ricordare che nel suo studio il 18 novembre 1917 si tiene, fra i principali esponenti della sinistra socialista italiana, la riunione nazionale clandestina per raccordare le posizioni degli aderenti alla frazione intransigente rivoluzionaria del PSI, che ha preso vita nel corso dell’estate precedente: una pietra miliare lungo la strada che porterà alla nascita del PCd’I. Una riunione nella quale – e la circostanza ha anche un suo forte significato simbolico –  si incontrano di persona per la prima volta Gramsci, Bordiga e anche – secondo quanto riporta Andrea Mazzoni nel suo libro – lo stesso Lavagnini.

In fondo la vicenda qui richiamata ci ricorda ancora oggi quanto tormentato, non breve e di certo non lineare sia stato il cammino che ha portato i più importanti dirigenti del futuro PCd’I ad emanciparsi – forse mai completamente del tutto – dai limiti del massimalismo, tratto caratteristico del movimento operaio italiano nei primi decenni del ‘900 (e forse non solo in questi). Giustamente Andrea Mazzoni sottolinea quanto L. si ispirasse al modello di Karl Liebknecht nella sua intransigente opposizione alla guerra e al militarismo prussiano. Ma tanto al tribuno di Firenze che a quello di Berlino (caduto due anni prima di lui), la reazione borghese – fascista per il primo, d’ispirazione socialdemocratica (maggioritaria) per il secondo – non ha consentito di contribuire ulteriormente a dare uno sbocco politico ai fermenti rivoluzionari sorti in Europa all’indomani dell’Ottobre sovietico.




Bagni di Casciana 1922: Gino Bonicoli, morte di un mezzadro

Morire a diciott’anni con una pallottola in testa. Per un fiore rosso portato con orgoglio all’occhiello. O per aver fischiettato Bandiera Rossa passeggiando per le strade del paese.

Piccoli gesti – apparentemente innocui – mossi dagli ideali, che si riveleranno fatali per Gino, perché considerati un affronto da coloro che stanno dalla parte opposta della barricata, resa ogni giorno più forte dall’arroganza che sfocia in violenza, dalla prepotenza che spazza via la ragione, lasciando sul campo una scia infinita di sangue. Date lontane un secolo, luoghi così vicini, scene maledettamente simili. Tanti nomi che oggi rischiano di ridursi a semplici elementi della toponomastica, legati a una via o a una piazza. Persone che hanno pagato con la vita il loro desiderio di libertà, per sé e per gli altri, finendo calpestati dallo squadrismo fascista. Quello di Gino Bonicoli, mezzadro ucciso per la sua fede comunista, non fu soltanto il frutto dell’esaltazione di un gruppetto di ragazzi, che se la presero con un coetaneo. Non fu solo la fredda esecuzione di un giovane che si ribellava alle nuove regole che si facevano strada seminando distruzione e violenza, sopraffazione. Esaltazione accompagnata dal tentativo di annientamento degli avversari politici.

Il libro “Gino Bonicoli. Morte di un mezzadro. Bagni di Casciana, 1° giugno 1922” (Tagete Edizioni, 2015), di Francesco Turchi, giornalista del Tirreno e scrittore per passione, ha l’obiettivo di ripercorrere una vicenda che rischiava di essere cancellata nella Memoria della comunità locale e non solo. L’autore ha ricostruito la vicenda attraverso i documenti originali del tempo, raccolti negli archivi anche al di fuori dei confini regionali; verbali di consigli e giunte, informative prefettizie, sentenze. Ma anche articoli di giornale dell’epoca.

Quell’omicidio per essere compreso va inserito nel contesto storico nel quale maturò. Con un’Italia in ginocchio per le conseguenze della prima guerra mondiale.  Ed è qui che si inserisce il lavoro di Francesco Biasci, autore di una introduzione che prende il lettore per mano e lo porta indietro nel tempo, in un quadro ben definito sul piano economico, sociale e politico.

L’Italia del primo dopoguerra è un paese lacerato, fatto di padroni e di servi che rivendicavano condizioni di vita migliori. In questo contesto, i fascisti, in un crescendo di violenza, prendono possesso dei paesi, fino a dominarli, soffocando qualsiasi opposizione. Minacciando, picchiando. Uccidendo. In tutta la provincia di Pisa come nel resto d’Italia. Con una frequenza terribile. Marzo 1921: a Barca di Noce viene ucciso Enrico Ciampi, fondatore della prima sezione comunista del Pisano. Il 13 aprile la stessa sorte tocca al maestro Carlo Cammeo, direttore del giornale socialista “L’Ora Nostra”, freddato nel cortile della scuola dove insegna a Pisa. Il 17 agosto viene ucciso Silvio Rossi, segretario comunale della giunta di sinistra a Palaia; un mese dopo vengono assassinati a Cascina i socialisti pontederesi Paris Profeti e Guido Bellucci. E ancora, nella primavera successiva, Alvaro Fantozzi, segretario della Camera del lavoro di Pontedera, socialista, assessore, viene ammazzato a Casteldelbosco mentre sta andando a Marti a una riunione sindacale. Il fuoco riduce in cenere sedi di partito e sindacati, i manganelli fanno il resto. E quando non bastano, entrano in scena le armi da fuoco.

Succede anche la sera del 1° giugno 1922 a Bagni di Casciana. Cinque mesi prima della marcia su Roma, Gino è vittima di un agguato mentre sta tornando a casa, nella campagna di Fichino. Non gli sono bastati avvertimenti e ultimatum. Continua a portare quel garofano rosso all’occhiello, ignorando le minacce. L’ha fatto anche la mattina stessa e poi la sera, “sorpreso” in un caffè quando invece gli era stato ordinato di starsene a casa. Nello Menicacagli, mugnaio di 21 anni e i due braccianti di poco più giovani, Alfredo Falchetti e Pietro Fabbri lo affrontano con una pistola. Menicagli spara, Gino muore. E morirà una seconda volta, poco tempo dopo, in un’aula di tribunale, quando al termine di un processo-farsa, gli imputati difesi dall’avvocato Guido Buffarini Guidi (sindaco di Pisa e poi podestà tra il 1923 e il 1933, futuro ministro della Repubblica sociale di Mussolini), ottengono l’assoluzione: «Hanno agito per legittima difesa», minacciati da Bonicoli. Che in realtà non ha mai avuto una pistola in vita sua, tanto meno quella sera maledetta. Ucciso due volte, umiliato una terza. Perché i suoi genitori fecero scrivere sulla lapide “vilmente assassinato mentre rincasava“. Nessun riferimento esplicito a mandanti (la cui esistenza non può essere esclusa ma non è mai stata provata) o esecutori. Ma tanto bastò per “invitare” i familiari a rimuoverla. Mamma Anna Maria, non obbedì, ma ordinò al marmista di girare la lapide. Per capovolgerla di nuovo e iniziare a riscrivere la verità, serviranno ventitré anni.

il cippo in memoria di G. BonicoliDopo la Liberazione e la fine dell’occupazione tedesca, i cascianesi rendono omaggio a Gino e poco dopo la Corte di Cassazione cancella il processo del 1922. Dodici mesi più tardi, il 19 giugno 1946 la Corte d’Assise di Pisa ristabilisce la verità su tutta la vicenda, condannando Alfredo Falchetti, l’unico rimasto in vita dei tre che tesero l’agguato a Bonicoli.

Ricordato, in questi giorni, nel centenario della sua morte,  con una serie di iniziative promosse dall’Amministrazione Comunale di Casciana Terme Lari, dalla sezione “Gino Bonicoli” dell’ANPI Valdera Colline, dal Circolo ARCI di Casciana Terme “Il proletario”, con la speranza che la Memoria non cancelli il suo sacrificio per la libertà.

Sono intervenuti alla commemorazione istituzionale di sabato 28 maggio il Sindaco di Casciana Terme Lari Mirko Terreni, il presidente nazionale Anpi Gianfranco Pagliarulo, Ivan Mencacci presidente della sezione Anpi Valdera Colline “Gino Bonicoli”, il responsabile Memoria e Antifascismo Arci Toscana Stefano Carmassi, l’Assessora Regionale alla Cultura della Memoria Alessandra Nardini. Con la partecipazione e i contributi degli alunni della scuola media di Casciana Terme, accompagnati dalla Dirigente Scolastica Maria Rosaria Pizza.

Nel programma altre due  iniziative: il concerto del 1° giugno del Gruppo Musicale “La serpe d’oro”, e il 3 giugno una serata di musica e parole a cura di Guascone Teatro con la regia di Andrea Kaemmerle e la partecipazione del prof. Roberto Bianchi dell’Università di Firenze.