La crisi del tessile a Prato

Nel secondo dopoguerra l’industria tessile pratese, dopo la fase della ricostruzione, dovette affrontare, tra il 1949 ed il 1952 circa, una crisi drammatica che si risolse con una profonda modificazione della struttura produttiva, lo smantellamento dei grandi lanifici a ciclo completo e la nascita del distretto industriale. Al superamento della crisi fece seguito un lungo periodo di sviluppo. Tra il 1961 ed il 1981 i principali indicatori economici si mantennero costantemente in crescita: le unità locali, per esempio, che erano 10.700 nel 1971, salirono a 14.700 nel 1981, mentre gli addetti passarono, nello stesso arco di tempo, da 50.000 a 61.000.

Le prime avvisaglie di una nuova crisi, che investì soprattutto il settore del cardato, si manifestarono verso la metà degli anni Ottanta. I suoi effetti furono contenuti grazie allo sviluppo della fase di nobilitazione dei tessuti ed alla possibilità di ricollocare nel terziario parte dei lavoratori rimnasti disoccupati, ma l’inversione del trend positivo era un dato di fatto innegabile: fra il 1981 ed il 1991 i fusi di cardato scesero da 770.000 a 400.000, le unità locali tessili da 14.700 a 10.500 e gli addetti al tessile da 61.100 a 46.200.

La situazione si aggravò negli anni successivi in seguito ad un complesso di cause eterogenee, che per gli industriali erano rappresentate in primo luogo dal costo del lavoro – a loro avviso troppo elevato –, dagli alti oneri sociali, dalla mancanza di infrastrutture adeguate e così via, mentre il sindacato ed il Partito comunista insistevano soprattutto sull’eccessiva frammentazione della struttura produttiva. Valgano al riguardo alcuni dati: a Prato la media dei dipendenti per azienda era pari a 3,7 (e le aziende con più di quindici dipendenti costituivano dunque una minoranza); nel 1999, a parità di fatturato, i lanifici attivi a Biella, il più importante centro laniero italiano, erano cinquanta, nella città toscana cinquecento, molti dei quali strutturati in maniera inadeguata rispetto alle esigenze del mercato. Tra la fine del secolo scorso e l’inizio di questo l’industria tessile locale, già in seria difficoltà, precipitò in una crisi dalla quale non si sarebbe più ripresa: a determinarla furono l’entrata in vigore dell’euro (1999-2002) – che rese impossibile fare assegnamento sulla svalutazione della lira per ridurre i prezzi in moneta estera dei beni esportati e sostenere così le esportazioni – e l’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio (11 dicembre 2001), dopo un negoziato durato una quindicina di anni. L’entrata in tale organizzazione consentì al gigante asiatico di usufruire di tariffe più vantaggiose per l’export in cambio di dazi minori sull’import (e del rispetto di una serie di impegni poi in larga parte disattesi). I mercati occidentali furono così invasi da una massa di prodotti cinesi a basso costo, e ciò produsse conseguenze pesantissime per il tessile manifatturiero in Italia e quindi anche per il distretto locale.

Alla fine degli anni Novanta i segnali di sofferenza del settore si moltiplicarono: ai primi di marzo del 1999 gli operai pratesi in attesa di riscuotere la cassa integrazione ordinaria erano cinquemila e lo stillicidio delle chiusure e dei licenziamenti appariva inarrestabile. Ai primi di aprile risultavano in attività duecentosettanta filature per conto terzi (nel 1995 le filature erano trecentottanta e nel 1985 quattrocentocinquanta). Negli ultimi quattro anni avevano chiuso i battenti ben sessanta aziende di cardato. La struttura economica di Prato stava insomma subendo una trasformazione irreversibile, caratterizzata da una progressiva riduzione del peso del comparto tessile.
Ma questo non significava che fosse in crisi l’economia cittadina: nel dicembre del 2002, in occasione del tradizionale incontro di fine anno con i giornalisti, il presidente della Provincia, Daniele Mannocci, e l’assessore al lavoro, Fabio Giovagnoli, rilevarono che, pur essendo indiscutibile la gravità della crisi in cui il tessile si dibatteva, nel periodo gennaio-novembre l’occupazione era aumentata di 3.882 unità e che tale aumento si doveva principalmente allo sviluppo di settori diversi da quelli tradizionali. Prato si stava insomma muovendo verso un nuovo assetto produttivo, verso lo stadio postindustriale, contraddistinto dall’incremento delle attività terziarie e dalla diminuzione degli addetti alle attività industriali. In questo quadro, il tessile non poteva certo riconquistare le posizioni perdute. Ne fanno fede alcuni dati resi noti ai primi di giugno del 2023, secondo i quali dal 2001 al 2021 le aziende tessili sono passate a Prato da 4.301 a 1.816 (-57%), mentre il numero degli addetti del comparto è sceso da cinquantamila a trentacinquemila.

Nella primavera del 2000 la crisi che attanagliava il tessile a Prato raggiunse anche il Lanificio Pecci, l’unico che, a quell’epoca, aveva ancora mantenuto il ciclo completo di lavorazione: la vicenda del Pecci può essere considerata come l’emblema di quanto stava allora accadendo in città.
La ditta era all’epoca una società in accomandita semplice con un fatturato di circa ottanta miliardi. A dirigerla era Pierluigi Marrani, affiancato da Enrico Biguzzi, Fabio Faggi, Piergiuseppe Gremmo ed Andrea Bini (che si occupava delle trattative con il governo per le commesse militari). La proprietà reagì alle difficoltà puntando sull’abbattimento dei costi attraverso i licenziamenti: al Pecci erano in forza circa trecento lavoratori ed i licenziamenti, annunciati il 27 aprile all’assemblea degli operai, erano trentacinque, concentrati nei seguenti reparti: filatura a pettine, tessitura, tintoria e rifinizione. Non erano previsti tagli fra gli impiegati. Le motivazioni addotte dall’azienda per giustificare il ridimensionamento erano il progressivo calo degli ordini (in particolare delle commesse militari) e l’onerosità dei costi fissi. L’obiettivo dichiarato era quello di ritrovare quanto prima l’equilibrio di bilancio, ma la mancanza di un preciso piano di rilancio preoccupava molto i lavoratori (il fatto di avere almeno in parte intercettato il malcontento degli operai per i licenziamenti che si profilavano all’orizzonte permise all’Unione libertaria pratese – un sindacato di ispirazione anarchica che aspirava a diffondere fra i lavortatori il concetto di autorganizzazione – di ottenere il 15% dei voti in occasione delle elezioni per il rinnovo della Rsu aziendale svoltesi il 7 febbraio 2000).
Il 24 maggio i lavoratori del Lanificio scioperarono dalle dieci alle undici per riunirsi in assemblea. Al termine della discussione fu approvato un documento in cui si chiedeva di proseguire il dialogo con la direzione che, fino ad allora, era stato infruttuoso (da un incontro svoltosi alcuni giorni prima non erano infatti emerse novità significative, tranne una generica proposta da parte dell’azienda di ridurre i tagli nella filatura a pettine). Non vennero proclamate altre ore di sciopero. Il 18 luglio le parti raggiunsero una soluzione di compromesso per la chiusura della vertenza. L’ipotesi di accordo fu approvata all’unanimità da un’assemblea svoltasi il 21: i lavoratori da porre in mobilità – che da trentacinque si erano ridotti a ventiquattro nel corso delle trattative – sarebbero stati tredici (la maggior parte dei quali “volontari”: nove lavoratori, fra cui alcune donne vicine all’età pensionabile, si erano infatti detti disponibili a lasciare il posto). I tagli si sarebbero concentrati nella tintoria matasse. L’accordo finale, sottoscritto il 27 luglio nella sede dell’Unione industriale pratese (Uip), recepiva in sostanza i termini della bozza di accordo. Esso prevedeva tredici licenziamenti (di cui dieci “volontari”, cioè accettati in cambio di incentivazioni all’esodo). I tagli erano concentrati nei reparti della filatura a pettine e della tintoria matasse, che venne esternalizzata. La proprietà si impegnava infine ad effettuare investimenti nel reparto rifinizione.
Ma il raggiungimento di questo accordo significò per i lavoratori del Pecci soltanto una tregua. Nell’estate del 2001 cominciarono difatti a circolare voci sempre più insistenti di ulteriori tagli al personale: il 25 luglio i sindacati furono informati delle intenzioni dell’azienda nel corso di un incontro svoltosi all’Uip. Verso la metà di settembre, la ditta, che contava allora duecentocinquanta dipendenti e sviluppava un fatturato di cento miliardi, aprì la procedura di mobilità per ben settantatré lavoratori. I tagli riguardavano tutti i reparti, ad eccezione dell’orditura, ed erano così distribuiti: cinquantadue in filatura a pettine (della quale era previsto lo smantellamento, a meno che non si fosse trovato un nuovo socio di minoranza cui affidarne la gestione), cinque in tessitura, due in tintoria, sette in rifinizione ed altrettanti nei servizi generali. La proprietà presentò contestualmente un piano di ristrutturazione che contemplava dieci miliardi di investimenti in due anni e la divisione dell’azienda in due società: una di filati per maglieria diretta da Marrani, ed un’altra, a capo della quale sarebbe andato Filippo Busi, nipote di Alberto Pecci, che, pur non abbandonando il settore tradizionale della drapperia, avrebbe puntato su una linea di tessuti donna di qualità medio-alta.
Le organizzazioni sindacali proclamarono per il 19 settembre un’ora e mezzo di sciopero con assemblee alla fine di ogni turno, dichiarandosi assolutamente contrarie alla chiusura della filatura a pettine. La nuova vertenza era molto più complicata, rispetto a quella conclusasi con l’accordo del 27 luglio 2000, perché, stavolta, pochi fra gli operai in esubero erano in procinto di accedere alla pensione e nella filatura a pettine (che la ditta voleva assolutamente chiudere, giudicandola non più competitiva) erano in forza molte donne, la cui ricollocazione sul mercato del lavoro non sarebbe certo stata semplice. Secondo l’azienda, i tagli erano funzionali alla riconversione su un prodotto per donna di qualità medio alta ed alla necessità di riprendere la produzione di divise militari in Romania, dove era stato aperto da poco un ufficio (le commesse militari, perdute a causa della concorrenza di altri paesi, erano state pari al 15% del fatturato dell’azienda nel biennio precedente). Il sindacato chiedeva che la filatura non cessasse l’attività, una verifica del numero degli esuberi ed infine la riqualificazione ed il riassorbimento in altre ditte dei licenziati.
Il primo incontro fra le parti, svoltosi il 21 settembre, ebbe un esito interlocutorio: la ditta si disse disponibile a cercare di ricollocare le persone che avrebbero perso il posto di lavoro, ma ribadì la volontà di chiudere la filatura. Il mondo della politica si interessò della grave controversia, ma senza ottenere risultati concreti. Il 25 settembre i lavoratori del Pecci scioperarono per un’ora e mezzo e tennero un’assemblea davanti ai cancelli dello stabilimento, confermando la loro recisa opposizione alla chiusura della filatura a pettine. Il 5 ottobre ebbe luogo un nuovo incontro fra l’azienda ed i sindacati, che però non fece registrare alcun passo avanti nella trattativa. In seguito al fallimento di questo incontro, tre giorni dopo gli operai del Pecci si astennero per un’ora e mezzo dal lavoro, tenendo un’altra assemblea fuori dai cancelli della fabbrica.
Le parti tornarono ad incontrarsi il 17 ottobre e la difficile vertenza giunse finalmente ad un punto di svolta. Il giorno successivo il sindacato informò i lavoratori dei termini dell’ipotesi di accordo siglata con la controparte: gli esuberi scendevano da settantatré a trenta ed erano così ripartiti: diciotto in filatura, sei in rifinizione, uno in tintoria e cinque tra gli impiegati. I lavoratori da collocare in mobilità sarebbero stati scelti – in accordo con quanto previsto dalla legge 23 luglio 1991, n. 23 (art. 5) – tenendo conto di tre parametri: il carico familiare, il maggiore o minore grado di anzianità e le esigenze tecnico-produttive ed organizzative. La filatura a pettine non sarebbe rimasta all’interno della fabbrica, ma, conformemente al piano di ristrutturazione aziendale, sarebbe passata, dal 1° gennaio 2002, alla Pecci filati (una nuova azienda, diretta da Marrani, che sarebbe nata dallo scorporo delle attività filati dal Lanificio Pecci). La Pecci filati, più piccola della filatura che faceva parte del vecchio lanificio a ciclo completo, avrebbe lavorato non solo per l’altra azienda prevista dal piano di ristrutturazione (quella specializzata nella produzione di tessuti, di cui avrebbe preso le redini Filippo Busi) ma anche in conto terzi. L’Uip si impegnava formalmente a favorire la ricollocazione degli operai licenziati (quest’ultimo era un forte elemento di novità in quanto a Prato la parte datoriale non aveva mai assunto in precedenza un impegno del genere). Dopo l’approvazione della bozza di accordo da parte dell’assemblea dei lavoratori, l’intesa definitiva fu siglata il 29 ottobre da Marrani per la ditta, da Manuele Marigolli per la Cgil, da Calogero Aronica per la Cisl e da Angelo Colombo per la Uil. Così, in poco più di un anno, tra uscite volontarie e licenziamenti, la proprietà era riuscita a ridurre in modo consistente il numero dei dipendenti, ed anche l’intesa sottoscritta il 29 ottobre poteva dirsi, dal suo punto di vista, soddisfacente dato che, stando a quanto fonti aziendali avevano lasciato trapelare, pur avendo parlato di settantatré esuberi, il vero obiettivo della ditta era quello di ottenerne fra i trantacinque ed i cinquanta.
Ma la serie dei tagli non era finita. Come si è accennato, dal piano di ristrutturazione aziendale del 2001 erano scaturite due ditte, e precisamente la Pecci filati (diretta da Marrani) e la Pecci tessuti (diretta da Busi). Ai primi di dicembre del 2002 quest’ultima informò le organizzazioni sindacali della necessità di ridurre il personale a causa della diminuzione del fatturato. Stavolta gli esuberi erano una ventina e sarebbero stati distribuiti in tutti i reparti, ma, stando alle voci che circolavano, essi si sarebbero concentrati soprattutto in tessitura ed in tintoria. Quanto alla tessitura (anche se negli ultimi anni erano stati acquistati nuovi telai, assunti nuovi tecnici e si era cominciato distinguere la tessitura vera e propria da quella a campioni), sarebbe stato eliminato il turno di notte. La tintoria in rocche era invece destinata alla chiusura: il lavoro scarseggiava e nell’arco di una giornata lavorativa veniva tinto solo qualche chilo di filato, a fronte di una potenzialità di quattromila chili al giorno. I tagli avrebbero forse interessato anche la tintoria in pezze, la rifinizione e gli uffici. Era questa un’altra tappa del processo di disimpegno della proprietà dal settore tessile, in linea con la strategia di diversificazione già avviata negli anni Sessanta con l’acquisto di una quota rilevante della Segnalamento marittimo ed aereo, una ditta che produceva radar per uso militare.
Il processo di ridimensionamento dell’azienda si concluse nel giro di qualche anno col suo smantellamento, reparto dopo reparto. Oggi – anche se la Pecci filati è ancora aperta a Capalle e, con un numero di dipendenti stimabile fra venti e quarantanove, rientra nella classe di fatturato che va dai tredici ai venticinque milioni di euro – la famiglia Pecci ha interessi in vari settori ed il tessile non è più il suo core business. Di particolare rilievo è il ruolo di Alberto Pecci all’interno della El.En., una società per azioni con sede a Calenzano che si occupa della produzione di sistemi laser: Pecci possiede infatti il 10,40% delle azioni e siede in consiglio d’amministrazione. Per avere un’idea dell’importanza di questa azienda, basti pensare che, fondata a Firenze nel 1981, la El.En. è oggi capofila di un gruppo formato da più di trenta imprese sparse in tutto il mondo: al 31 dicembre 2020 il gruppo vantava un fatturato consolidato di circa quattrocentodieci milioni di euro, un utile netto consolidato di venti milioni ed impiegava circa milleseicento dipendenti, di cui settecento in organico alla capogruppo.

 




Il lavoro femminile a Campo Tizzoro

La Società Metallurgica Italiana – Smi – nacque il 14 aprile 1886 a Roma. Già a partire dall’anno seguente iniziarono ad aprire i primi stabilimenti in Toscana e di particolare rilevanza furono quelli della Montagna Pistoiese: Limestre, Mammiano e Campo Tizzoro. La costruzione di quest’ultimo iniziò nel 1910 e divenne operativo a partire dall’anno seguente. Campo Tizzoro, trovandosi in un fondovalle isolato e stretto tra ripidi monti, veniva considerato un posto protetto da possibili attacchi, era inoltre una zona in cui era presente abbondante «manodopera a basso costo, di provenienza rurale e perciò non ancora politicizzata o sindacalizzata».

L’arrivo della Smi sull’Appenino toscano produsse numerosi cambiamenti a livello sia sociale che culturale: migliaia di persone vennero inserite nel lavoro salariato in zone rurali e montane, inoltre, nel 1915, la Smi contribuì alla costruzione della Ferrovia Alto Pistoiese e anche al finanziamento della rete telefoninca sulla montagna. Ciò che caratterizzava gli stabilimenti della Smi nella zona della Montagna era «l’autoritario disciplinamento delle maestranze, la volontà di consolidare nei lavoratori un sentimento di appartenenza all’azienda e di acquietare insubordinazioni», cose che vennero conseguite sia all’interno che all’esterno della fabbrica. Se da una parte la Smi era dunque centro propulsore del miglioramento delle condizioni di vita degli abitanti e oprattutto degli operai della zona, dall’altra imponeva una presenza quasi autoritaria. A tal proposito, la Società realizzò numerose infrastrutture sociali che avevano lo scopo di pianificare la vita dei dipendenti e della comunità a vari livelli: culturale, ricreativo, sportivo, didattico. A Campo Tizzoro – zona deserta prima dell’avvento dello stabilimento industriale – venne per esempio creato quello che fu battezzato “Villaggio Orlando”, che racchiudeva istituti scolastici, impianti sportivi, ma anche un museo, una biblioteca, una chiesa, oltre a numerosi alloggi per le famiglie. Venivano organizzati corsi serali di scuola elementare per gli operai e le operaie analfabeti, oltre al cinematografo e alla filodrammatica.

Durante la Prima guerra mondiale, la Smi fu la principale fornitrice delle munizioni per l’esercito e la marina, in quel periodo venne inoltre avviata la costruzione del nuovo impianto di Fornaci di Barga, che cominciò a produrre nel giugno 1916. In occasione dei periodi bellici, la Società metallurgica era stata dichiarata «industria ausiliaria», per questa ragione usufruì non solo di agevolazioni nell’approvigionamento di materie prime e di privilegi relativi alla manodopera, ma anche dell’esonero delle maestranze maschili dal servizio militare, cosa che ebbe sicuramente delle conseguenze nella vita delle comunità locali.

Negli anni Venti, la produzione della Smi non fu costante: nel 1926, in seguito a un momento di crisi, recuperò, per poi retrocedere nuovamente con la crisi del ’29, tanto che a Campo Tizzoro le maestranze erano circa 700 nel 1927, mentre nel 1930 passarono a essere solo 126.

Per quel che riguarda il rapporto della fabbrica di Campo Tizzoro con il fascismo, soprattutto nel periodo dalla guerra di Spagna, emerse l’avversione verso il regime, tanto che nel 1943 cominciarono i rallentamenti per sabotare la produzione di munizioni e in seguito la S.A.P. – Squadra di Azione Patriottica – utilizzò le gallerie sotterranee della fabbrica per trafugare viveri, armi e munizioni destinate ai partigiani. Anche a Fornaci si registrano posizioni antifasciste tra gli operai.

Seguì, nel secondo dopoguerra, un momento di crisi e una diminuzione della manodopera, che portò a numerose mobilitazioni e proteste nel pistoiese in opposizione ai licenziamenti. Complice sicuramente anche il clima che si respirava a livello nazionale e internazionale in quegli anni, ci fu un inaspriamento del rapporto tra lavoratori e direzione aziendale, oltre a forti discriminazioni in base all’appartenenza politica: per esempio a Campo Tizzoro i comunisti furono i primi a essere licenziati.

Nel 1976, la Metallurgia Italiana si dotò di una nuova organizzazione finanziaria e le imprese produttive vennero concentrate nel gruppo La Metalli Industriale S.p.A (Lmi), così che la Smi diventò holding di un gruppo industriale metallurgico internazionale.

Una particolarità dell’industria metalmeccanica della zona della Montagna Pistoiese fu la forte presenza femminile, soprattutto a partire dal periodo del primo conflitto mondiale: nel 1918 le donne a Campo Tizzoro rappresentavano il 44,7% della manodopera, ma già da prima della Grande Guerra vi era comunque una partecipazione femminile considerevole all’interno dell’industria. Nonostante il brusco calo dell’occupazione delle donne nel secondo dopoguerra, il ruolo avuto dalle operaie precedentemente aveva permesso loro di creare un rapporto molto stretto con la fabbrica, di conseguenza iniziarono a ottenere ruoli sempre più importanti e maggiori responsabilità all’interno degli stabilimenti.

Fu proprio a Campo Tizzoro che Gabriella Venturi – sindacalista attiva tra fine anni ’60 e inizi 2000 – mosse i primi passi all’interno della fabbrica. Le vicende che hanno caratterizzato la sua vita sono ricostruibili attraverso i pochi documenti di archivio conservati, ma anche grazie alle parole di chi l’ha conosciuta personalmente: amici, compagni e parenti.

Gabriella nacque il 29 dicembre 1942 a Pistoia e visse tutta la vita a Pracchia, in via Fontana, dove, non essendosi mai sposata, abitò con i genitori. Non si ha una data precisa del suo ingresso alla Smi di Campo Tizzoro come operaia, probabilmente ciò avvenne attorno ai diciotto anni. Per quel che riguarda l’istruzione, sappiamo che Gabriella portò a termine il perscorso della scuola media, ma non frequentò mai le superiori, e, presubilmente, prima di iniziare il suo percorso nell’industria metallurgica, svolse qualche lavoro saltuario.

Proveniente da una famiglia profondamente credente, inizialmente s’iscrisse alla Cisl, in quanto sindacato più vicino al mondo cattolico e quindi alla sensibilità con la quale era cresciuta. In seguito avvenne il passaggio dalla Cisl alla Cgil, nei primi anni Settanta, un passaggio che, nelle loro interviste, Renzo Innocenti e Simonetta Bartoletti descrivono come qualcosa che avvenne in maniera naturale e repentina[1]. La nipote Simonetta sottolinea il fatto che la svolta, quindi il passaggio dal sindacato cattolico alla Cgil, all’interno della famiglia di Gabriella aveva avuto un certo peso, quasi come se la donna avesse tradito alcuni ruoli e alcuni valori con i quali era cresciuta. Simonetta racconta che il padre di Gabriella si ritrovò presto a dover fare i conti con la realtà e ad adeguarsi a essa: i tempi erano cambiati e le cose «stavano andando avanti più vivacemente rispetto a quello che lui aveva vissuto». La trasformazione di Gabriella fu radicale: non solo entrò nella Cgil, ma si iscrisse al Partito comunista italiano nel 1974. Oltre a essere iscritta al Pci, la nipote Simonetta riporta che Gabriella, nel 1984, era iscritta anche all’Anpi. Purtroppo non ci sono elementi che permettono di attestare se fosse iscritta anche precedentemente.

Venne licenziata, per motivi non del tutto chiari, dalla Smi di Campo Tizzoro probabilmente nel 1983 o nel 1984, infatti le ultime attestazioni della sua presenza nella fabbrica trovate in archivio risalgono al 27 gennaio 1983, quando venne eletta, come anche precedentemente, nel reparto Nastro[2]. Nei primi anni Ottanta, all’interno della Lmi vennero eliminati migliaia di posti di lavoro, tanto che si passò dai circa 7’000 occupati nel 1980 ai 3’000 nel 1985. Dopodichè la ritroviamo assunta in Cgil il 2 gennaio 1985 e Simonetta Bartoletti afferma che Gabriella è stata la prima donna in Segreteria Confederale, cosa che, purtroppo, non si può confermare attraverso i documenti consultati.

Renzo Innocenti – segretario provinciale quando Gabriella faceva parte della segreteria Fiom – nella sua intervista racconta che il suo primo incontro con Venturi avvenne nel periodo dell’autunno caldo, in occasione di un’occupazione – probabilmente la prima – dell’Istituto tecnico industriale di Pistoia frequentato dallo stesso Renzo. Gabriella, già dipendente della Smi di Campo Tizzoro, arrivò alla scuola con una delegazione. Si tratta di un evento che conferma il fatto che anche a Pistoia il movimento degli studenti aprì un fronte di confronto e unità con gli operai. Innocenti afferma che, fin dall’inizio, Gabriella gli diede l’impressione di essere una combattente, una persona molto concreta, pragmatica, tenace e una donna che emergeva in un mondo di uomini. Del suo animo guerriero si hanno delle attestazioni grazie ai documenti di archivio. A tal proposito, colpisce un evento in particolare: durante le assemblee di fabbrica del 20 ottobre 1971, viene indetto, attraverso il volantino «No! Ai 400 licenziamenti», uno sciopero per il giorno seguente. In quell’occasione, insieme ad alcuni compagni, Gabriella venne accusata di aver organizzato una manifestazione non autorizzata, di aver ostacolato la libera circolazione e di avere usato violenza contro alcune guardie giurate. Per queste ragioni, venne citata a comparire il 21 novembre 1973.

Gabriella aveva inoltre un’attenzione e un legame profondo nei confronti della Montagna Pistoiese, sentiva la necessità di scommettere su un suo ruolo più forte e visibile, in modo tale da contribuire a contrastare la perdita del ruolo industriale e manifatturiero dovuto al ridimensionamento della presenza della Smi, ma voleva anche impedire la chiusura di aziende occupate in altri settori nella zona della Montagna. Nonostante Renzo Innocenti non ricordi che Gabriella abbia mai seguito le lavoratrici a domicilio, in un documento risalente al 21 maggio 1985 e a lei destinato, emerge che la donna era stata nominata come componente della Commissione Comunale per il lavoro a domicilio «per il comune di San Marcello Pistoiese in rappresentanza dei lavoratori».

Il rapporto di Venturi con il movimento femminista è interessante, dal momento che, a partire dal secondo dopoguerra, in Italia ci fu un radicale mutamento all’interno dei sindacati, sia della partecipazione femminile, sia dell’organizzazione delle strutture delle donne. La maggior parte della nuova generazione delle sindacaliste aveva preso parte alle vicende che avevano caratterizzato il loro tempo: avevano beneficiato della scolarizzazione di massa e in molte avevano preso parte al movimento del 1968. Si erano inoltre distanziate e avevano iniziato a guardare con scetticismo alcune posizioni delle loro precorritrici. Dall’intervista di Renzo Innocenti emerge però il fatto che Venturi non sembrerebbe aver mai avuto stretti rapporti con il femminismo, anzi, in diverse occasioni pare abbia criticato alcune posizioni radicali del movimento. Simonetta Bartoletti ricorda che Gabriella era spesso in giro, in diverse occasioni si recava anche all’estero, e più che cercare di trovare un proprio spazio in quanto donna all’interno del sindacato, con i suoi tempi e le sue differenze, sembrava piuttosto voler adeguarsi a uno stile di vita che solitamente caratterizzava la sfera maschile. Era sicuramente molto legata alla famiglia, ma allo stesso tempo era sempre sui fronti, passava poco tempo in casa. Non erano molte le donne disposte a dedicare tutto il loro tempo a un impegno così totalizzante e questo fu sicuramente un elemento che colpiva tutti coloro con i quali si trovava a confrontarsi Gabriella. Nonostante questa presa di distanza dal movimento femminista, Gabriella era comunque consapevole delle difficoltà, delle differenze e delle disparità di genere all’interno del movimento sindacale per i ruoli di responsabilità e di direzione.

Andata in pensione nei primissimi anni 2000, Gabriella si spense nel 2002, ma il suo ricordo è sopravvisuto a lei. Una prova dell’affetto e dell’importanza che ha avuto la donna all’interno del sindacato si ha in occasione della tredicesima edizione di CGIL INCONTRI del 2009, che si svolse tra il 23 giugno e il 5 luglio. L’incontro del 2 luglio con i ragazzi del campo di lavoro Liberarci dalle Spine s’intitolava «….dedicato alla Lella (Gabriella Venturi) “Racconti di lotte al femminile”», coordinato da Maria Cangioli e con la partecipazione di Anna Goretti.

Martina Lopa studia storia all’Università di Firenze, dove sta lavorando a una testi di laurea sulle prime organizzazioni femminili e l’animalismo nell’800, e collabora con la Fondazione Valore Lavoro, per la quale sta curando una mostra sul 70° anniversario della prima Conferenza nazionale della donna lavoratrice svoltasi a Firenze il 23-24 gennaio 1954.




Guido Cerbai, un percorso sghembo e coerente

Le stagioni più vivaci della sinistra italiana – quelle, diciamo, dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta – sono state animate da soggettività molto diverse e sono state tante le figure che hanno attraversato questi anni con bagagli politico-culturali e lungo percorsi non convenzionali.
Una di queste figure è Guido Cerbai, nato a Galliano di Mugello nel 1934, vissuto dal 1946 al 1959 a Firenze e successivamente trasferitosi a Pisa, dove attualmente risiede.
Oggi, alle soglie dei novant’anni, Cerbai è una figura sempre presente e visibile nella vita politica cittadina come attivista e dirigente di Rifondazione Comunista, ereditando una fitta rete di relazioni intessuta nel corso di sessant’anni di attività dapprima sindacale e quindi nelle istituzioni e portando sempre nelle assemblee e nelle iniziative politiche una voce autorevole che si appoggia a una memoria precisa, lucida e colta.
Tutte queste caratteristiche hanno fatto in modo che diverse persone, indipendentemente tra loro, lo abbiano individuato nella seconda metà degli anni Dieci come testimone privilegiato di un lungo periodo di vita politica e sindacale cittadina. Questo riconoscimento si è materializzato nel febbraio 2019 in una lunga intervista di vita in video della durata di oltre quattro ore che è stata successivamente montata, suddivisa in sette scansioni cronologiche e caricata sulla piattaforma Youtube. Per favorire l’accesso all’intervista è stato quindi realizzato un apposito sito web (cerbairacconta.wordpress.com), dal quale è possibile anche scaricare una versione sintetica dell’intervista di poco più di un’ora.
È molto difficile se non impossibile individuare una fase saliente di questo lungo percorso di vita, in quanto in tutte le sue diverse fasi si ritrova lo stesso intreccio armonico tra universo affettivo, impegno politico e lavoro, segnato peraltro da una forte coerenza di fondo.
Ciò che cambia nel tempo sono gli scenari, raccontati con viva partecipazione emotiva e con ricchezza di particolari. Scenari molteplici e articolati ma che possono essere ricondotti a quattro fondamentali: la dura campagna mugellese della famiglia, dell’infanzia e degli anni della prima adolescenza, la Firenze della frequentazione della Madonnina del Grappa fino al compimento degli studi universitari, la vita di fabbrica a Pisa fino ai primi anni Novanta e infine l’impegno politico nel territorio, cioè nel quartiere e in città, prevalente negli ultimi decenni. Questi scenari si articolano poi internamente e si sovrappongono tra loro, come nel caso dell’impegno politico e di quello sindacale, entrambi intensi soprattutto a partire dal Sessantotto, oppure, più indietro nel tempo, come nel caso della vita all’interno della Madonnina del Grappa, dove la formazione scolastica e universitaria s’intrecciano con la vita dell’istituto ma anche con la vita politica fiorentina, fortemente segnata dalla presenza di grandi personalità del cattolicesimo progressista.

Roma, manifestazione per la pace 1991

Figura impegnata in prima fila e al tempo stesso osservatore analitico e capace di ricostruire il contesto storico e politico, Cerbai restituisce in modo altrettanto dettagliato e preciso gli eventi personali e quelli collettivi: i difficili anni del dopoguerra, la Firenze di Giorgio La Pira e di Don Lorenzo Milani, il clima oppressivo della fabbrica degli anni Sessanta, l’imprevista e galvanizzante svolta del Sessantotto, che sconvolge sia la sfera politica che quella culturale, il robusto impegno sindacale nella fase ascendente degli anni Settanta e poi in quella del lento regresso degli anni Ottanta e Novanta, ma segnata dallo straordinario successo costituito dalla salvezza dell’impianto pisano e di tutti i suoi posti di lavoro, il parallelo emergere di un impegno di partito che pur nelle successive formazioni non verrà mai meno e gli darà la possibilità di trasporre l’ispirazione democratica di base ereditata da Don Milani e da La Pira dal consiglio di fabbrica alla presidenza del consiglio di circoscrizione.
Questa interpretazione tenacemente radicale dell’impegno pubblico prende infatti varie forme e si traduce nell’adesione a diverse sigle, dalla Cisl al Movimento politico dei lavoratori, da Democrazia proletaria a Rifondazione comunista, ma non tradisce l’ispirazione di fondo maturata negli anni dell’adolescenza all’incrocio tra cattolicesimo progressista e un socialismo non burocratico, ma al contrario anzitutto autogestionario.
La testimonianza di Guido Cerbai permette di ripercorrere anche le trasformazioni economiche e sociali che hanno via via segnato gli anni della ricostruzione, quindi del miracolo economico e poi degli ultimi decenni e di osservare da vicino figure come quella di Don Giulio Facibeni o quella di Don Lorenzo Milani, oltre ad altri protagonisti della sinistra politica e sindacale pisana e nazionale.

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La vicenda amianto alla Breda di Pistoia.

Raccontare la storia dell’amianto e del suo utilizzo in Breda ferroviaria non è possibile senza prima un breve cenno alle origini più antiche. I primi accenni all’utilizzo dell’amianto si trovano negli scritti di Plinio il Vecchio (I secolo d.C.), il quale ricorda gli schiavi impegnati nella produzione degli stoppini per le lampade, che per proteggersi usavano una sorta di mascherina di tela; negli scritti di Marco Polo, poi, in particolare ne «Il Milione», si leggono descrizioni delle sue proprietà ignifughe. Il nome amianto, infatti, significa «incorruttibile» ed è sinonimo di asbesto, «inestinguibile». Già questo ne evidenzia alcune delle caratteristiche fondamentali, che lo resero un materiale ideale per le produzioni industriali. Prodotto in fibre, il suo primo utilizzo nel settore manifatturiero fu nelle tessiture, ma è dal secondo dopoguerra, con l’esplosione dell’industrializzazione, che l’amianto si diffuse in maniera massiva in tanti settori grazie alle sue qualità di coibentazione e isolamento: dalla produzione di navi, aerei e materiale rotabile ferroviario, all’utilizzo nell’industria chimica e alla produzione di energia elettrica.

Nella produzione di materiale rotabile è importante ricostruire la vicenda di Pistoia, con la lunga vertenza che si è tenuta negli anni ’90 alla Breda ferroviaria per il riconoscimento dei benefici pensionistici legati all’amianto e la lunga vicenda penale per l’accertamento delle responsabilità dei dirigenti dell’azienda. La produzione di treni viene avviata a Pistoia nei primi anni del ‘900, con l’acquisto da parte delle «Officine San Giorgio» della carrozzeria di Aiace Trinci. Nel secondo dopoguerra l’azienda verrà poi acquistata dall’IRI, che ne manterrà la proprietà fino al 1968, quando verrà acquistata dalla «Società Breda Ferroviaria», a sua volta proprietà di un altro attore del sistema delle partecipazioni statali, l’«EFIM – Ente Partecipazioni e Finanziamento Industria manifatturiera»[1]. In questi anni si afferma con forza l’utilizzo dell’amianto «a spruzzo» per coibentare le carrozze dei treni.

Valter Bartolini, sindacalista Cgil recentemente scomparso, ha ricordato così quella fase: «Fino al 1979 e poi ancora un po’ a seguire venivano coibentate con l’amianto, cioè venivano sparati almeno 500 chili [di amianto, n.d.a] per carrozza di cui almeno un terzo non si appiccicava… cioè, usavano una specie di lanciafiamme che da una parte schizzava a pressione la colla e dall’altra l’amianto macinato, perché a fibra lunga non andava bene… lo dovevano macinare prima e lo sparavano. Probabilmente tra i 100 e i 150 chili per carrozza rimanevano nell’atmosfera. All’inizio lo facevano in un’area di produzione vagamente isolata… C’era questo telo di nylon e dietro ci spruzzavano le carrozze» (intervista effettuata a Pistoia l’8 novembre 2022).

Dalla metà degli anni ’80 la spruzzatura dell’amianto non sarà più il metodo standard per la coibentazione delle carrozze (seppure almeno fino al 1992 continuino ad essere utilizzati dei componenti in amianto), ma non sarà l’unico utilizzo dell’amianto in fabbrica. Il 1973 è l’anno dell’inaugurazione della nuova sede della Breda a Pistoia, dove sorge tutt’ora, in via Ciliegiole. Costruito con ampio uso di cemento-amianto, lo stabilimento sarà oggetto di una scoibentazione, effettuata nel 1987-’88 in maniera approssimativa: durante l’operazione, la polvere d’amianto cadeva direttamente sui reparti produttivi, causando anche un elevato inquinamento ambientale. Come ha detto Daniele Ferri, ex operaio Breda: «Lavoravano la notte, e noi la mattina si trovava i pezzi di eternit per terra… Mettevano una rete, per le cadute più che altro, ma la polvere girava, il tendone di nylon ‘unn’è che teneva la polvere… Noi ‘un si sapeva nulla, tant’è che la mattina appena si arrivava noi si pigliava la pistola a aria e si soffiava il banco che era pieno di questa polverina bianca…» (intervista effettuata a Pistoia il 1º febbraio 2023).

In questo quadro si inserisce la legge 257/1992 che mette al bando l’amianto in Italia, e che innesca anche in fabbrica la piena consapevolezza della sua pericolosità, non più considerabile come una questione generica di pericolosità delle «polveri», com’era definito fino ad allora. La norma richiedeva un’esposizione minima di almeno 10 anni all’amianto per poter usufruire dei benefici pensionistici, ovvero la possibilità di avere accesso alla pensione prima del tempo. Questa misura sottendeva ad una terribile verità: l’esposizione alla polvere d’amianto poteva, potenzialmente, accorciare il tempo di vita delle persone, delle lavoratrici e dei lavoratori. Ai sensi della normativa l’esposizione era comprovabile in pochi modi: era riconosciuta automaticamente qualora l’azienda fosse soggetta al pagamento dell’assicurazione supplementare dell’INAIL per l’asbestosi oppure in caso di insorgenza di malattie amianto-correlate, mentre, qualora non sussistesse almeno una delle due condizioni precedenti, era obbligatoria una dichiarazione dell’azienda che certificasse i periodi d’esposizione.

Nasce così la vertenza amianto alla Breda, che si lega a doppio filo anche al percorso di smantellamento delle partecipazioni statali che vedrà i lavoratori impegnati nella difesa dello stabilimento dal rischio della chiusura, poi evitata con l’acquisto da parte di Ansaldo di tutto il gruppo Breda da EFIM. Inizialmente, infatti, la direzione aziendale decide di non rilasciare le certificazioni, al fine di evitare possibili implicazioni penali per i dirigenti e il danno di immagine di identificare la Breda come «la fabbrica della morte», oltre a «boicottare» di fatto il prepensionamento di lavoratori in possesso di quelle professionalità necessarie a portare avanti il lavoro. Su queste stesse tematiche, alcuni anni più tardi, la direzione deciderà di inserirsi nel processo civile intentato dai lavoratori contro l’INAIL per vedersi riconoscere un’estensione dell’esposizione. Posizione contro la quale la Segreteria Provinciale della FIOM presentò un esposto in procura nel 1995, atto che segnò l’avvio dell’indagine «Breda» sull’amianto.

La vertenza per il riconoscimento dei benefici si concluderà, dopo numerosi scioperi e manifestazioni, con l’emanazione degli atti di indirizzo da parte del governo D’Alema, ideati dal Ministro Salvi dei Comunisti Italiani nel 2001. Non mancheranno però numerosi strascichi polemici in fabbrica: qui un sindacato autonomo, i CUB, assumerà il ruolo di contestatore della politica del centrosinistra. La critica verte sul fatto che se da una parte il governo aveva avviato i meccanismi che hanno garantito un parziale riconoscimento dei diritti dei lavoratori, mettendo fine al contenzioso nelle aule di Tribunale, dall’altra non seppe o non volle superare il vincolo dei 10 anni minimi di esposizione all’amianto, obiettivo realizzabile visti i numerosi atti parlamentari presentati dallo stesso centrosinistra. È interessante constatare come il malcontento verrà poi raccolto, nel 2004, dall’UGLM, sigla sindacale forte di un rapporto privilegiato con il nuovo esecutivo di centrodestra: questa rivendicherà una possibilità di colloquio riuscendo anche ad ottenere una rappresentanza nelle RSU aziendali, ma nonostante questo canale il Governo procederà poi allo smantellamento delle tutele minime previste dalla legge 257/1992.

Ancora maggior rilievo assume quanto avviene con la conclusione del processo penale, il capitolo pistoiese di quella che lo storico Enrico Bullian ha chiamato la «stagione dei processi». Il processo fu accompagnato da un’animata discussione negli organismi del Comune sulla possibilità di costituirsi parte civile in favore dei lavoratori, che vedrà prevalere il «no» alla costituzione con un voto di misura in Consiglio Comunale. Di grande rilievo fu anche una parallela trattativa sindacale per definire un rimborso per il danno alla salute dei lavoratori, rivolto anche ai familiari interessati, conclusa nel novembre del 2002 e oggetto di dibattito e strumentalizzazione da parte del sindacato autonomo e dell’UGL in fabbrica.

Il 1º giugno del 2004 viene finalmente emessa la sentenza, che scagiona tutti i dirigenti aziendali; negli stessi giorni il Congresso Nazionale della FIOM voterà compattamente per stigmatizzare l’ingiustizia della sentenza. L’esito processuale contraddiceva quanto avvenuto, ad esempio, a Napoli per la Sofer, in una vicenda analoga. Si tratta di un altro capitolo buio di quella «stagione dei processi», che a Porto Marghera e a Sesto San Giovanni, come a Pistoia, ha lasciato le morti senza colpevoli.

Nota
1. La produzione di treni resterà nel sistema delle partecipazioni statali fino al 2013, quando Ansaldobreda verrà venduta ad Hitachi Rail Italy. Negli anni ricordati si afferma la centralità dei lavoratori della fabbrica nella vita politica pistoiese. Proprio nel 1948, durante una manifestazione in solidarietà dei lavoratori della SMI, viene ucciso dalla Celere un lavoratore della «San Giorgio», Ugo Schiano, evento ricordato in un articolo di Stefano Bartolini su ToscanaNovecento: https://www.toscananovecento.it/custom_type/fu-una-mattinata-tremendissima/




È bene che si vada via, ma però che si torni in Italia.

La Barbiera che vien di Francia è un canto tradizionale, di origine piemontese, conosciuto con alcune varianti più o meno in tutto il centro-nord d’Italia. La versione attestata sull’Appennino toscano parla di una donna che accetta di fare la barba ad un viandante, nel quale riconosce il marito rientrato dalla Francia solo dopo averlo rasato. La diffusione di questo motivo nell’Appennino toscano è provata dal fatto che gli alunni della scuola elementare di Piteglio (PT) la trascrissero, su dettato delle nonne, in un quaderno illustrativo realizzato per un progetto scolastico. Questi quaderni, oggi conservati alla Biblioteca Forteguerriana di Pistoia, rappresentano una fonte popolare di straordinaria originalità, che mostra quanto la migrazione rientrasse negli orizzonti tradizionali degli abitanti dell’entroterra toscano.

All’inizio del Novecento, la Francia rappresentava la mèta europea più frequentata dai migranti italiani, e per alcune regioni la prima destinazione in assoluto. Nel caso della Toscana (come del Piemonte e della Liguria), questa migrazione di massa si era innestata sulle rotte migratorie risalenti all’età moderna, percorse da stagionali e ambulanti, che sino all’Unità d’Italia avevano rappresentato i principali esempi di presenza italiana oltralpe. Dei 21.971 toscani partiti nel 1900, ben 10.571 erano diretti in Francia. L’attrattività di questo paese aumentò dopo la Prima guerra mondiale: nel 1921 il 78% degli emigranti toscani si dirigeva in Francia e tale percentuale giunse al 92% nel 1925, dopo la chiusura delle rotte transatlantiche.
La guerra aveva arrestato le partenze per qualche anno, ma anche posto le basi per una massiccia ripresa: in Francia, la mancanza di crescita demografica e la costante carenza di manodopera erano state aggravante dalle ingenti perdite umane sul fronte occidentale, mentre l’industrializzazione ormai avviata rendeva necessario un costante afflusso di lavoratori stranieri. La storiografia ha evidenziato recentemente il ruolo della Grande guerra come incentivo per una regolamentazione dei movimenti di lavoratori tramite canali diplomatici. Il Commissariato generale dell’emigrazione (CGE) era stato fondato nel 1901 e aveva esteso via via le proprie funzioni; nel 1915 fu incaricato di approvare le richieste di reclutamenti di manodopera dall’estero e di rilasciare nullaosta per le richieste di espatrio, divenendo di fatto «organismo competente» per il disciplinamento dei reclutamenti. Dopo la guerra, il Trattato di lavoro Italia-Francia del 30 settembre 1919, equiparava i lavoratori italiani ai francesi in merito all’accesso alle tutele sociali e previdenziali; a livello pratico, era previsto che il Servizio manodopera straniera presso il Ministère du Travail raccogliesse le richieste e le relative proposte contrattuali e le trasmettesse al CGE, il quale, valutatane la liceità, attivava i canali di reclutamento locali.

Il caso di Piteglio dimostra che questo canale di reclutamento fu talvolta utilizzato da alcuni migranti giunti individualmente nel bacino minerario del Nord della Francia, che riuscirono a servirsene per richiamare amici e parenti.
Il comune di Piteglio si trova sull’Appennino pistoiese, a nord della Val di Nievole, a pochi chilometri dalla provincia di Lucca e a quasi 700 metri sul livello del mare, mal collegato con la pianura e dunque troppo distante dall’agglomerato industriale in via di sviluppo sull’asse Firenze-Prato-Pistoia. L’abitato sparso tipico dell’Appennino comportava l’inclusione nell’ente comunale, oltre al borgo di Piteglio, di diverse località, come Popiglio, Calamecca, La Lima e Prataccio, per una popolazione totale di 4.761 abitanti secondo il censimento del 1921, il primo a registrare un calo demografico che non si sarebbe più arrestato. Ad eccezione della Società Metallurgica Italiana a Campotizzoro, il comparto industriale era praticamente inesistente e la scarsità di entrate provenienti dalle professioni tradizionali, legate allo sfruttamento del bosco e alla raccolta delle castagne, esponevano da tempo l’Appennino pistoiese alla migrazione stagionale.
Il quaderno realizzato dagli alunni della scuola elementare di Piteglio fu prodotto nel 1929 insieme ad altri 362, provenienti dalle scuole del circondario, nell’ambito del progetto La scuola in mostra, lanciato in occasione dell’istituzione della provincia di Pistoia. Con qualche differenza, i quaderni rispondono tutti allo stesso schema dettato dall’insegnante: la storia del paese, le sue caratteristiche geografiche, la piazza, la chiesa, la popolazione e il folklore.
L’emigrazione è una costante nella descrizione dei borghi della montagna, mentre è spesso assente nei quaderni dedicati a comuni di pianura, ad esempio Quarrata; la sua presenza fra gli orizzonti culturali della comunità appenninica è provata anche dalle filastrocche, come era appunto La barbiera che vien di Francia, o Il carbonaio, il cui mestiere «Venire e andare è tutto un via vai». Qualcuno aveva spiegato ai bambini che le risorse della montagna «non basta[no] al mantenimento di tutti, perciò c’è bisogno dell’emigrazione. Senza contar quelli che fanno ogni anno la migrazione nella Maremma, molti àn sic trovato lavoro nelle miniere della Francia del Nord o alle macchie dell’alta Marna. […] Anche quelli che vanno nell’America del Nord son minatori, mentre quelli che vanno nel Brasile sono boscaioli».

L’influenza delle politiche del regime in materia migratoria è presente anche in una fonte così periferica: i piccoli cittadini di Piteglio scrivevano che «è bene che vanno a guadagnare. Arricchisce la famiglia e quei soldi vanno spesi in Italia. È bene che si vada via ma però che si ritorni in Italia». Nei quaderni non mancano i grafici recanti dati demografici sui nati, i morti e le partenze: il 1921 risulta l’anno in cui l’emigrazione toccò picchi particolarmente alti, sono indicate 254 partenze dal solo borgo capoluogo, a dispetto di 90 nel 1920 e 72 nel 1922; 42 dalla frazione di Prataccio, contro le 15 nell’anno precedente e le 12 nel successivo. Nel censimento del 1931 il comune di Piteglio aveva perso il 20% della popolazione rispetto al censimento di dieci anni prima e 1.273 pitegliesi risultavano stabilmente residenti all’estero.
Ritroviamo buona parte dei pitegliesi espatriati nel comune di Fenain, nel Nord della Francia: la ragione di questo trasferimento potrebbe sembrare una richiesta di manodopera al sindaco del comune proveniente dalla Compagnia delle miniere di Aniche, attiva nello sfruttamento dei pozzi di estrazione del bacino carbonifero del Nord-Pas-de-Calais.
L’Archivio storico comunale conserva la corrispondenza in merito tra il sindaco e il sottoprefetto. Un incrocio con i dati contenuti nello Stato civile dimostra che quando le miniere di Aniche si rivolsero al sindaco avevano già alle proprie dipendenze alcuni pitegliesi, arrivati prima della guerra e interessati a farsi raggiungere da amici e parenti. I documenti reperiti ci dicono ad esempio che Giovanni Picchiarini giunse a Fenain con la moglie nel 1911 e che i fratelli Giuseppe ed Eugenio Ferrari lavoravano per la compagnia già nel 1912. Dopo la guerra, tra il 1919 e il 1920 migrarono nel Nord anche i fratelli di Picchiarini e i cognati, Luigi e Orlando Pacini, fratelli della moglie.
La richiesta di manodopera giunse al sindaco alla metà del 1921, momento dell’aumento delle partenze dal borgo appenninico registrato dai piccoli pitegliesi. Non ci è possibile stabilire precisamente il numero di espatri dal comune alla regione mineraria francese, tuttavia negli anni Trenta le fonti di polizia individuano circa una cinquantina di minatori, stabiliti in Francia con le proprie famiglie da diversi anni. Lo Stato civile del comune permette di dire con certezza che una decina di famiglie espatriarono in diversi momenti tra il 1922 e 1929, secondo una prassi ben nota alle dinamiche migratorie: prima gli uomini, in un secondo momento i fratelli minori, le mogli e i figli. Ad esempio, a Pietro e Bruno Orsucci si unirono prima il fratello Renato, poi Duilio e nel 1928 il padre Silvio, con l’omonimo nipotino, rimasto orfano.
È verosimile supporre che l’attivazione del canale di reclutamento ufficiale nel 1921 volesse regolarizzare una filiera migratoria spontanea. Alcuni pitegliesi giunsero nella corona mineraria Douai-Valenciennes per motivi contingenti e vi restarono, verosimilmente in considerazione del fatto che il carbone rientrava fra i propri orizzonti professionali. Una riconversione, dalla produzione di carbone dai boschi all’estrazione di tipo industriale, si rese senz’altro necessaria, ma la familiarità con il carbone appare la base per l’inserimento di questa comunità nella produzione industriale su scala europea. Il fatto poi che la richiesta di manodopera salti i canali ufficiali – Ministère du Travail e CGE – e giunga direttamente al sindaco, unita alla presenza pregressa di pitegliesi nel comune di Fenain, avvalla l’ipotesi che la richiesta di reclutamento sia stata mossa dai compaesani già stabiliti.
Le ragioni essenzialmente economiche alla base di questa migrazione si intrecciano e si sovrappongono a casi in cui è possibile evidenziare anche ragioni politiche, ovvero a militanti, nella gran parte dei casi socialisti, che preferirono trasferirsi per fuggire al montare dello squadrismo in Italia: la prefettura di Pistoia riferiva nel 1930 che tal Ardelio Cecchini fu «in passato un ardente comunista propagandista […] col sorgere del fascismo, per tema di rappresaglie, emigrò all’estero»; Federico Coppi «durante il periodo bolscevico fu accanito comunista e segretario della sezione del partito a Mammiano»; Egidio Seghi «prima del suo espatrio, malgrado la giovine età, professò apertamente sentimenti comunisti dimostrando palesemente la sua ostilità al regime».
Insomma, nella migrazione da Piteglio al Nord della Francia dei primi anni Venti, vi sono percorsi individuali per cui le ragioni puramente economiche sono completate dal pesante clima che si respirava nella penisola: l’inflazione, la crisi occupazionale, ma anche l’instabilità degli ultimi governi liberali, le agitazioni sociali e il vorticoso sviluppo del movimento fascista.
Una rapida analisi della migrazione da Piteglio all’indomani della prima guerra mondiale ha dunque offerto Spunti di riflessione in tre direzioni: il trasmutarsi dei mestieri e delle rotte migratorie risalenti all’età moderna in movimenti inquadrati nell’ambito degli Stati nazionali e del sistema di produzione industriale; la presenza di reti comunitarie, indispensabili al concepimento della mobilità, che negoziano con la normativa vigente per permettere gli espatri e i ricongiungimenti familiari; infine, il fatto che le rotte della migrazione economica siano servite anche per l’espatrio di militanti comuni che si sentivano minacciati dal fascismo, tematica di grande interesse che meriterebbe una maggiore attenzione storiografica

RIFERIMENTI ARCHIVISTICI

Biblioteca Forteguerriana, La scuola in mostra, quad. 106 Piteglio
Archivio storico comunale di Piteglio, Corrispondenza 1921, titolo XIII Esteri
Archives Departementales du Nord, Carte d’identités étrangers, 321 W 115579
Archivio centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Casellario politico centrale, b. 1221, 1463, 4732




Lavoratori di tutto il mondo unitevi

Nella notte fra il 3 e il 4 marzo 2022 il mondo è rimasto con il fiato sospeso alla notizia del bombardamento russo della centrale nucleare di Zaporizhzhia, in Ucraina, una fra le più grandi d’Europa. Un evento che ha suscitato sdegno, timori, ansie e paure apocalittiche, anche sulla scorta della memoria del disastro di Cernobyl del 1986, sempre in Ucraina. Ma una notizia che in Toscana, per la precisione a Pistoia, ha anche risvegliato molti ricordi e senso di vicinanza e solidarietà alla popolazione colpita dalla guerra, che si sono concretizzati in una serie di telefonate e messaggi al segretario provinciale della Camera del lavoro CGIL. Con il corso della storia cambiano gli stati, i confini, i sistemi di traslitterazione dall’alfabeto cirillico a quello latino, ma non erano in pochi a capire subito che si trattava proprio di quella città a lungo gemellata con il sindacato pistoiese e al tempo dell’Unione sovietica nota in Italia con il nome di Zaporojie (o con sue varianti quali Zaparojie, Zaporojki…). Chi si faceva vivo intendeva segnalare le proprie emozioni nel sentire il nome di quel luogo carico di ricordi associato all’immane tragedia della guerra, ricercando al tempo stesso tracce di quella storia e di quella memoria. Tracce che fortunatamente sono ben custodite nell’archivio storico della Camera del lavoro di Pistoia gestito dalla Fondazione Valore Lavoro, dove è conservata un’intera busta titolata proprio Zaporoje URSS, che conserva tutti i documenti del gemellaggio
Si tratta di una vicenda di cui fu promotrice proprio la CGIL locale nel 1969. Era la vigilia dell’Autunno caldo e in Italia già si respirava l’aria delle mobilitazioni degli anni Settanta, mentre nel mondo continuava il processo di decolonizzazione. L’internazionalismo, l’amicizia fra i popoli, l’unità dei lavoratori erano temi molto sentiti. L’occasione fu data da un incontro fortuito fra il Segretario della CGIL di Pistoia Giuliano Lucarelli e la delegazione dei sindacati sovietici, fra cui il Segretario generale Nicolai Romanov, al congresso nazionale della Confederazione a Livorno nel giugno di quell’anno. A seguito di uno scambio reciproco informale di disponibilità ad ospitare delegazioni sindacali, il 19 giugno e il 2 agosto Lucarelli scrisse a Mosca a Romanov per finalizzare l’accordo, allegando una scheda descrittiva sulla provincia di Pistoia con specificati i settori industriali presenti e lasciando la scelta della città da gemellare ai sovietici, dichiarando al contempo la volontà dei pistoiesi di ospitare per primi la delegazione in visita. Lucarelli aggiungeva anche che di recente un sindacalista pistoiese, Angiolo Mungai, si era recato in visita in URSS ospite dei sindacati delle istituzioni di Stato, tornando entusiasta dell’esperienza vissuta[1]. Il 12 agosto da Mosca veniva comunicato che il Consiglio dei sindacati di Zaporoje aveva risposto favorevolmente alla richiesta dei pistoiesi[2]. Ne nasceva uno scambio epistolare tra l’organizzazione di Pistoia e quella di Zaporojie, con il francese usato come lingua franca, che si prolungava per alcuni mesi, con alcuni ritardi nelle risposte dovuti anche, come apprendiamo da una lettera di Lucarelli del 14 aprile 1970, «à l’intense développement des luttes ouvriéres en Italie ces derniers mois».
Alla fine la prima delegazione sovietica da Zaporojie arrivò il 2 luglio 1970. Nel dare notizia della visita a enti locali, associazioni ed aziende del territorio la CGIL fornì anche una descrizione della città gemellata attraverso l’opera sindacale: «La regione di Zaporojié che si estende su un territorio di 27mila kmq con una popolazione di 1 milione e 700mila abitanti, è un importante centro industriale nel Sud dell’Ucraina ai confini con la Crimea. La città omonima, che conta 650mila abitanti, oltre che grande centro industriale è un importante centro culturale e di istruzione altamente qualificato. L’acciaieria di Zaporojié produce 4 milioni e mezzo di tonnellate di acciaio all’anno e oltre 3milioni di tonnellate di laminati e profilati destinati alle industrie ferroviarie, trattoristiche, automobilistiche. Occupa 17mila operai (di cui 6.000 donne) 1.400 ingegneri e tecnici, 500 impiegati. Un altro colosso è la “Zaporojski Transpormaber Zavod”, che produce attrezzature elettriche e soprattutto trasformatori per 50 milioni di Kilovolts-ampere all’anno. La sua manodopera, in larga parte formata da giovani e ragazze, è costituita da 12.000 operai e 2.300 tecnici e impiegati. Anche l’agricoltura è altamente sviluppata. Zaporojié è un importante centro culturale con 135 scuole generali dell’obbligo con 10 anni di frequenza, 10 Istituti Tecnici e Facoltà di Ingegneria, di Medicina, di Pedagogia, di Ricerca scientifica ecc. Nella città vi sono 128 Biblioteche, 30 cinema, studio televisivo, il Palazzo della Cultura ecc.» [3].
Il programma della visita, che si prolungò fino all’11 luglio, non trascurava niente e portava i sovietici a stretto contatto con il territorio. Furono invitati ad incontrare la delegazione gli altri sindacati, CISL e UIL, i partiti PCI, PSI e PSIUP, l’ARCI[4], furono richiesti materiali per organizzare visite alle bellezze artistiche della città all’Ente provinciale per il turismo, si chiese a Renato Risaliti, storico dell’URSS e dell’Europa orientale ed al tempo impegnato anche nella politica locale, di fornire la sua opera di conoscenza linguistica[5] , furono organizzati gli incontri con i comuni e la Provincia e con le aziende del territorio ed anche ì colazioni con le diverse case del popolo, fra cui quella del Teso sulla montagna[6]. Di numerose aziende disponiamo della risposta positiva ad accogliere la delegazione: Arco di Montecatini (confezioni); Unione cooperativa della Valdinievole; Fratelli Capecchi piante[7]. Dal programma sappiamo anche che la delegazione visito la Supercoop di Montecatini, le municipalizzate ad Agliana, la centrale del latte, il centro riconversione rifiuti solidi, lo zoo, l’azienda Franchi, la cooperativa Di Vittorio, l’oleificio cooperativo di Lamporecchio. La SMI rispose freddamente comunicando di aver trasmesso l’invito alla propria Direzione generale[8], poi se ne perdono le tracce. La Breda invece si rifiutò di accogliere la delegazione nel proprio stabilimento, provocando la reazione ferma della CGIL che scrisse all’Intersind accusando la Direzione aziendale di addurre motivi fittizi[9]. Nel saluto alla delegazione, ricevuta in Camera del lavoro, Lucarelli rivendicava le lotte dell’autunno del ’69 che avevano coinvolto numerose categorie anche localmente e rilanciava l’unità internazionale dei lavoratori per la pace e contro il capitalismo e l’imperialismo: «È con questa visione internazionalista e di unità del movimento operaio internazionale , che abbiamo voluto allacciare rapporti fraterni con i rappresentanti dei sindacati di Zaparojié per conoscersi più a fondo, nell’intento di contribuire tutti assieme alla battaglia generale che i lavoratori di tutto il mondo conducono per la pace, contro l’imperialismo, contro le forze totalitarie e fasciste, per l’emancipazione dei lavoratori, la libertà dallo sfruttamento capitalistico»[10].
Nel 1972 fu la volta della visita dei pistoiesi a Zaporoije. Inizialmente doveva svolgersi nel 1971 ma un’improvvisa e grave malattia di Lucarelli – che in seguitò venne a mancare – fece saltare il viaggio. Nonostante la grave perdita del promotore del gemellaggio l’iniziativa andò avanti e la delegazione che si recò in URSS nel 1972 fu composta anche da un rappresentante della CISL, Sauro Gori, su esplicita richiesta dei sovietici di includere gli altri sindacati italiani[11], e fu guidata da Silvano Cotti, nuovo segretario della Camera del lavoro. Il gruppo, composto anche da Duilio Puccianti del consiglio di fabbrica della SMI e da Paolo Innocenti della FILLEA di Montecatini, arrivò in URSS il 30 agosto. La stampa sovietica diede risalto alla visita dei sindacalisti italiani. Oltre ai consueti incontri nelle sedi sindacali, la delegazione fu portata a visitare la diga sul Dnepr, i servizi sociali, la palestra sul ghiaccio, l’acciaieria, le case di riposo, i centri culturali, i gruppi di pionieri, i servizi sanitari, incontrò il sindaco, si recò sul mare d’Azov dove visitò anche un sovchoz e un asilo. Tra le altre, il gruppo visitò anche un’azienda dove venivano prodotti i materiali oleosi per lo stabilimento FIAT di Togliattigrad. Durante la permanenza uno degli italiani, Puccianti, si ammalò e venne ricoverato in una clinica sovietica, dove rimase in osservazione per diversi giorni essendogli stati diagnosticati problemi renali seri che vennero curati in loco. Di conseguenza il Puccianti rientrò in Italia successivamente al resto del gruppo. In una lettera inviata a Pistoia durante la degenza esprimeva una valutazione che racchiudeva tutte le speranze che ancora buona parte degli operai italiani riponevano nell’URSS a quel tempo: «vi dirò che i medici sono sorpresi che nelle attuali condizioni fisiche si possa ancora essere operai metalmeccanici, anche se valutiamo tutta l’attenzione ed il valore che essi danno della persona e dell’uomo, e non come da noi dopo la macchina»[12].
La soddisfazione della delegazione italiana per la visita fu tale che il 30 settembre il Cotti inviò una lettera al sindaco di Pistoia, il comunista Francesco Toni, per invitarlo a prendere in considerazione un gemellaggio anche istituzionale con Zaporojie, rispetto al quale il sindaco della città ucraina aveva già dimostrato a voce un interesse[13].
Negli anni successivi i rapporti fra i sindacati di Zaporoje e quelli di Pistoia andarono avanti. Lo scambio di auguri in occasione del Primo maggio, del nuovo anno ed anche per le feste della Liberazione divenne abituale e furono organizzati nuovi scambi. Nel 1973 i pistoiesi invitarono nuovamente i sovietici per il 1974, questi ultimi si resero disponibili a tornare nel 1975[14]. La seconda visita avvenne nel mese di settembre per esplicita volontà della Camera del lavoro che voleva far partecipare i sindacalisti sovietici alle celebrazioni della Liberazione di Pistoia l’8 settembre. La visita però, inizialmente prevista dal 4 all’11 del mese, all’ultimo momento slittò al 18-25 settembre. Da un appunto manoscritto sappiamo che Sanguinetti dell’ufficio internazionale della CGIL a Roma aveva indicato per quell’occasione di «avere con sindacati sovietici rapporto più vivace aderente alla nuova realtà internazionale. Cile, Portogallo, cosa facciamo…? Porre esigenza che nei rapporti – a livello internazionale – fra CGIL e sindacati sovietici, si esca dal semplice formalismo degli “evviva” e si istauri rapporto più politico, che affronti problemi “nuovi” che emergono nel mondo»[15]. La delegazione era composta da Petr Pavlov, segretario regionale, Victor Kazatchovsky, presidente comitato sindacale dell’azienda Azovcabel, e da Nicolai Medvedkov. Fu organizzata anche una visita a Collodi al Parco di Pinocchio, circostanza che alcuni mesi dopo diede luogo alla donazione al Parco delle edizioni in lingua russa delle Avventure di Pinocchio, a quanto pare molto diffuse in Unione sovietica[16]. Nonostante il ritardo rispetto alle celebrazioni resistenziali, in quell’occasione fu comunque organizzata una visita nel paese di Agliana al monumento dedicato al partigiano sovietico Ivan Baranovskij, nome di battaglia Paolo, combattente della Brigata Bozzi caduto in quella località, una visita alla Breda – che questa volta non si negò – con un incontro con il Consiglio di fabbrica e un incontro con gli operai della Ital Bed in “assemblea permanente” da diversi mesi[17]
La delegazione pistoiese tornò in URSS nel 1978, questa volta composta da Graziano Battiloni della segreteria CGIL, Floriano Frosetti del consiglio di fabbrica Breda e Marcello Vettori del sindacato enti locali[18]. Nel consueto discorso di saluto, oltre ai temi all’ordine del giorno del programma sindacale che venivano sempre richiamati, Battiloni ricordò Baranovsky ed enfatizzò in più occasioni il successo elettorale delle sinistre, e del PCI in particolare, alle elezioni politiche del 1976[19].
Nonostante l’uscita della CGIL dalla Federazione sindacale mondiale (FSM) legata all’URSS in favore dell’adesione alla Confederazione europea dei sindacati (CES) a fine anni Settanta, nel novembre del 1980 una nuova delegazione sovietica giungeva a Pistoia, composta da Juri Vladimirovc Efrenov e Valentin Vassilievic Podporin. Il discorso di saluto di Battiloni era però molto diverso da quegli degli anni Settanta. L’accento si spostava dalle lotte operaie e dalla vicinanza con il paese della rivoluzione del ’17 ai temi della politica internazionale del tempo, assicurando l’azione di contrasto alla guerra fredda e di sostegno alle politiche di disarmo del sindacato italiano, condannando la politica americana in Iran e l’espansionismo israeliano ma sottolineando anche che «gli avvenimenti della Polonia aprono, nella società polacca, importanti possibilità di sviluppo democratico» e che «il sindacato italiano ha espresso, a suo tempo, la contrarietà e il disaccordo per l’intervento sovietico in Afghanistan. Per questo, facciamo un appello perché, attraverso la vostra delegazione sia accelerato il ritiro delle truppe e sia garantito al popolo afghano il diritto a decidere da sé le proprie scelte». Parole forti, che si tentava poi di stemperare richiamando l’amicizia tra gli italiani e il popolo sovietico e la volontà di non rompere il sodalizio anche a fronte di disaccordi su alcune scelte, perché fra amici era lecito rimproverarsi qualcosa[20].
Quella del 1980 fu l’ultima visita. Da lì in poi gli scambi si interrompono. L’archivio tace sui motivi, che tuttavia è lecito ipotizzare vadano ricercati nei mutati rapporti che le parole di Battiloni del 1980 facevano cogliere, nella nuova collocazione internazionale della CGIL ed anche nella situazione particolarissima che l’URSS attraversò nel corso degli anni Ottanta fino alla sua dissoluzione. Tuttavia, almeno per i pistoiesi, sembrava trattarsi di una pausa più che di un addio. Il gemellaggio doveva essersi radicato fra i sindacalisti italiani. Lo testimonia l’ultimo fascicolo della busta d’archivio, titolato 1990 Zaporozhye. Nel clima post ’89 a Pistoia si pensò subito di riallacciare i rapporti di scambio. Ma evidentemente era troppo tardi, il mondo cambiava inesorabilmente, di lì a poco l’URSS cessava di esistere e dei sindacati di Zaporojie si perdevano le tracce. Il fascicolo era destinato a rimanere vuoto, testimone silenzioso di una volontà mai concretizzatasi.
Da quest’ultimo tentativo sono passati più di 30 anni ed è arrivata una centrale nucleare che prima non c’era. Del gemellaggio il ricordo si era affievolito fin quasi a scomparire. Ma non del tutto. La tragica notizia del bombardamento ha spazzato via la polvere che si era depositata su questa vicenda, ed a Pistoia, come già nel 1990, ci si è ricordati della città sulle rive del Dnepr. La Camera del lavoro ha interrogato i propri archivi prendendo spunto da questa amicizia del passato per lanciare un appello pubblico per la pace. Battiloni, ormai anziano, intervistato dai giornali locali ha ricordato con emozione quel tempo e quei viaggi, ed anche i punti di divergenza con i sovietici che erano progressivamente emersi, vivendo con sofferenza i fatti di guerra del presente[21]. Una piccola storia di amicizia internazionale, che continua a scagliarsi contro la grande storia della guerra fra i popoli.
[1] Archivio storico Camera del lavoro CGIL Pistoia, Busta Zaporoje URSS (d’ora in poi ASCGILPT, B. Zaporoje), Fasc. Rapporti sindacati Zaporoje URSS, lettera di Lucarelli al Segretario generale dei sindacati sovietici 19 giugno 1969; lettera di Lucarelli a Romanov 2 agosto 1969.

[2] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Rapporti sindacati Zaporoje URSS, lettera del 12 agosto 1969 a firma Sergueev, originale in cirillico copiata in traduzione francese.

[3] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Rapporti sindacati Zaporoje URSS, modello di lettera del 1° giugno 1970.

[4] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Rapporti sindacati Zaporoje URSS, lettere dl 27 giugno 1970.

[5] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Rapporti sindacati Zaporoje URSS, lettere del 26 giugno 1970.

[6] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Rapporti sindacati Zaporoje URSS, Programma visita delegazione sovietica Zaparoje’ 30 giugno 1970.

[7] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Rapporti sindacati Zaporoje URSS.

[8] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Rapporti sindacati Zaporoje URSS, lettera della Società metallurgica italiana del 4 giugno 1970.

[9] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Rapporti sindacati Zaporoje URSS, lettera di Lucarelli del 26 giugno 1970.

[10] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Rapporti sindacati Zaporoje URSS, Saluto del segretario generale della CCdL di Pistoia alla delegazione dei sindacati di Zaparojié nell’URSS.

[11] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Rapporti sindacati Zaporoje URSS, lettera di Nedobyvailo a Lucarelli, originale in francese; lettera di Lucarelli alla CISL del 13 aprile 1971; lettera di Lucarelli al Presidente del consiglio dei sindacati di Zaporojie Nedobyvaile del 4 maggio 1971. ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Zaporojie 1972-1978, lettera del 31 luglio 1972.

[12] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Zaporojie 1972-1978, resoconto manoscritto del viaggio; lettera manoscritta di Puccianti del 7 settembre 1972.

[13] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Zaporojie 1972-1978, lettera di Cotti a Toni del 30 settembre 1972.

[14] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Zaporojie 1972-1978, lettera di Silvano Cotti a Pavel Nedonuyailo e la risposta.

[15] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. 1975 visita delegazione Zaporozhye (URSS), appunto manoscritto. Le sottolineature sono nell’originale.

[16] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. 1975 visita delegazione Zaporozhye (URSS), lettera del 9 gennaio 1976.

[17] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. 1975 visita delegazione Zaporozhye (URSS), documento Una delegazione dei sindacati sovietici di Zaporojie ospite della nostra provincia.

[18] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Zaporojie 1972-1978, comunicato stampa del 1° agosto 1978.

[19] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Zaporojie 1972-1978, discorso di saluto manoscritto.

[20] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc.1980 Zaporoje URSS delegazione materiale. Documento Battiloni saluto alla delegazione di Zaporoje 24 novembre 1980.

[21] La nazione, 6 marzo 2022; Il giornale di Pistoia e della Valdinievole, 11 marzo 2022.

 

Stefano Bartolini, direttore della Fondazione Valore Lavoro e della rivista “Farestoria”, responsabile degli archivi CGIL Toscana e coordinatore del gruppo dell’AIPH dedicato alla Public History del lavoro. Fa parte della redazione della rivista Il De Martino. Ha pubblicato articoli di approfondimento sulla Public History sulle riviste “Clionet” e “Officina della storia”




La deportazione politica in Toscana

Come è noto, in Toscana l’occupazione nazista ha imposto un sacrificio straordinario alle popolazioni civili a causa del perdurare di una guerra totale e devastante con eccidi e stragi che rendono la Toscana la più colpita d’Italia per numero di morti. A questo si aggiungono le vittime della deportazione, un’ulteriore modalità per terrorizzare una popolazione già allo stremo.

Nel periodo che va dal dicembre 1943 al settembre 1944 numerosi gli arresti per motivi politici e la conseguente deportazione degli arrestati nei campi di concentramento nazisti dipendenti dalle strutture delle SS (da distinguere nettamente dai campi per militari internati controllati dalla Wehrmacht o dai campi di lavoro coatto gestiti direttamente dalle aziende.) L’arresto e la deportazione dei “politici” era motivato perlopiù con la definizione Schutzhaft (arresto e detenzione dei sospetti “a protezione del popolo e dello stato”), un provvedimento messo in atto fin dal 1933 dalle autorità naziste per trasferire a scopo preventivo nei lager i propri avversari politici, dapprima i connazionali, considerati pericolosi per la sicurezza del Reich.

All’incirca 1000 i deportati politici nati o arrestati in Toscana fermati con l’allora vigente procedura d’arresto con destinazione campo di concentramento. Tale procedura fu utilizzata fin dall’inizio del 1944 dalle forze occupanti (SS e polizia tedesca in Italia), in collaborazione con le strutture repressive della RSI e riguardava le tre categorie principali dei deportati politici: partigiani veri e propri, sospetti fiancheggiatori, renitenti alla leva. Si annoverava tra questi anche chi aveva aderito a forme di resistenza civile, ad esempio ai grandi scioperi nelle aree urbane ed industriali. Per la Toscana, ma soprattutto per l’area Firenze/Prato/Empoli, prevalenti sono i casi di arresto nel corso della retata avvenuta proprio a seguito dello sciopero generale del marzo 1944. Il trasporto che partì l’8 marzo 1944 da Firenze e arrivò l’11 marzo a Mauthausen nell’Austria annessa al Reich Germanico, conteneva  338 uomini rastrellati in Toscana in seguito allo sciopero. Poche decine i sopravvissuti.

Nel contesto della crescita dell’attività resistenziale ma anche della repressione nazifascista, vanno iscritti arresti, detenzioni e deportazioni particolarmente intensi nel mese di giugno del 1944. Il trasporto partito dal campo di transito di Fossoli (MO) il 21 giugno e arrivato a Mauthausen il 24 giugno è per numero di deportati il secondo trasporto con cittadini nati e/o arrestati in Toscana, dopo quello dell’8 marzo. Molti di loro, prima di essere trasferiti a Fossoli in attesa della successiva deportazione, avevano trascorso un periodo di detenzione nel carcere delle Murate a Firenze. Diversi i nomi di noti antifascisti toscani tra i deportati del 21 giugno, come Enzo Gandi, Giulio Bandini, Marino Mari o Dino Francini. In questo trasporto troviamo anche persone legate alla vicenda dei fatti di Radio Co.Ra.: Marcello Martini, Guido Focacci, Angelo Morandi e Salvatore Messina, tutti arrestati a seguito dell’irruzione delle forze naziste in un palazzo di Piazza D’Azeglio a Firenze dove avvenivano collegamenti radio clandestini con gli alleati.

In conclusione, la deportazione politica dalla Toscana ha visto il sacrificio di antifascisti e resistenti noti e meno noti, ma gli arresti e le retate hanno avuto anche carattere indiscriminato perché non sempre si teneva conto della reale attività d’opposizione al regime dell’arrestato. Questo è particolarmente evidente nel trasporto col numero più alto di deportati dalla Toscana: quello già menzionato dell’8 marzo 1944 da Firenze. Infatti, l’intenzione delle forze d’occupazione era quella di creare, attraverso le deportazioni, un forte deterrente da possibili ulteriori azioni di lotta o resistenza civile ma contestualmente quella di trasferire in massa manodopera da ridurre in schiavitù, utile per l’economia di guerra del Terzo Reich. L’organizzazione del lavoro schiavo dei deportati è testimoniata da un numero cospicuo di fonti documentali: elenchi, schede personali, corrispondenza. Di particolare interesse le schede del sistema Hollerith-IBM.

Ad arrestare i “politici” toscani furono soprattutto italiani, cioè i militi della Guardia Nazionale Repubblicana (ca. il 90% degli arresti è da attribuire a loro); è documentata in molti casi anche la presenza dei carabinieri. Questo ci dice l’alto grado di collaborazionismo da parte delle autorità fasciste, essenziale per la stessa riuscita della deportazione.

A Dachau ma soprattutto nel complesso concentrazionario di Mauthausen con le sue decine di sottocampi, destinazione della maggior parte dei deportati politici della Toscana, si determinò un altissimo tasso di mortalità per le condizioni così estreme da non far loro superare in media più di otto mesi di sopravvivenza. In molti casi gli “inabili al lavoro”, dopo le selezioni, furono eliminati nelle camere a gas.

Questo testo è tratto dal saggio di Camilla Brunelli e Gabriella Nocentini, presente nel secondo volume de IL LIBRO DEI DEPORTATI – Deportati, deportatori, tempi, luoghi (ed. Mursia, 2010) a cura di Brunello Mantelli.

Interno Museo della Deportazione Figline di Prato




Resistenza civile e movimento partigiano nelle zone minerarie della Maremma

La Resistenza civile dei minatori maremmani contro le truppe tedesche occupanti e i loro alleati italiani trasse origine da un sentimento di ostilità e di rabbia verso il fascismo, presente nelle zone minerarie prima che lo facesse proprio la gran parte del popolo italiano, quando si rese palese la possibilità della sconfitta militare e si moltiplicavano gli effetti disastrosi della guerra. I minatori invece avevano maturato da tempo quello stato d’animo; nello stesso modo l’avevano maturato i loro familiari e in generale gli abitanti dei paesi in cui abitavano, ad eccezione forse dei collaboratori stretti dei direttori di miniera con il loro contorno di guardie giurate. Non si può dire che fosse una convinzione politica strutturata, fondata su analisi del regime totalitario condivise e che lasciassero intravedere qualche obiettivo perseguibile: o fosse sostenuta, come ci si aspetterebbe, da nuclei antifascisti clandestini. Di questi anzi non c’era traccia nelle zone minerarie della Maremma. C’era stato, è vero, qualche timido tentativo sul Monte Amiata, a Abbadia San Salvatore, a opera di comunisti grossetani, ma non aveva avuto seguito e chi vi era stato implicato finì poi al confino. Piuttosto si verificavano qua e là manifestazioni di dissenso; il più delle volte frasi o imprecazioni imprudenti pronunciate all’osteria, magari un motivetto sovversivo che tornava in mente: niente che le autorità non potessero agevolmente derubricare a intemperanza di qualche originale, a maggior ragione se avvinazzato.  Eppure, come prova il numero di provvedimenti repressivi, il regime se ne preoccupava, avvertendo evidentemente anch’esso, sotto traccia, un’ostilità diffusa, difficile da contenere. In effetti, dopo aver condotto coscientemente al fallimento le velleità “sindacaliste” delle origini, il fascismo aveva finito per considerare i minatori come un’entità estranea, irrimediabilmente impermeabile alla sua propaganda, insensibile alla retorica delle sue ritualità e assolutamente non inquadrabile nelle sue organizzazioni. Tanto più insidiosa, quanto più concentrata attorno ai suoi luoghi di lavoro.

Come spiegare tale situazione? La ragione deve essere cercata nelle condizioni materiali di vita dei minatori: in particolare nelle tensioni che si producevano nel rapporto di lavoro, nel momento in cui proprio lì, nei cantieri della miniera, gli operai sperimentavano sulla propria pelle una contrapposizione irriducibile nei confronti del direttore, dei capi-servizio, delle guardie, talvolta dei sorveglianti. Era il classico conflitto di classe, tra lavoro e capitale, che l’ideologia corporativa, con i suoi espedienti giuridici e organizzativi, si illudeva di risolvere e non riusciva invece neppure a nascondere. Che si trattasse appunto solo odi ideologia lo aveva mostrato, tra il 1931 e il 1932, una serie di agitazioni spontanee verificatesi a Gavorrano e a Boccheggiano. Ci furono allora astensioni – illegali – dal lavoro e anche manifestazioni violente, dirette infine a contrastare il tentativo della Montecatini di introdurre in miniera il sistema di cottimo Bedaux: fu insomma una rivolta, che traeva motivo unicamente dalle condizioni di lavoro, senza mostrare alcun contenuto politico definito.

Le tensioni, originatesi nel fondo della miniera, si rispecchiavano all’esterno e inevitabilmente, una volta venute in superficie, coinvolgevano il regime e producevano avversione al fascismo. Accanto alle società minerarie, e perfettamente solidale con esse, si ergeva infatti appena fuori dai pozzi di estrazione l’apparato dello stato totalitario, che ne faceva propri gli interessi e, quando era il caso, anche le politiche paternalistiche. Non erano allora tanto i vecchi desideri di vendetta a tornare a galla, i conti in sospeso dai primi anni Venti, o almeno non erano solo quelli; nasceva piuttosto nella giovane generazione operaia una rabbia nuova rivolta contro il sistema di potere che si era costituito: quel perfetto connubio fascio-capitalista sancito, ai piani alti, dalla solida comunanza di interessi che le società minerarie, prima tra tutte la Montecatini, avevano stretto con il governo di Mussolini e saldato, ai piani bassi, dallo stesso intento di sfruttare e di opprimere quanti lavoravano per loro.

Venne dunque a crearsi progressivamente un antifascismo di massa, di carattere prettamente operaio e ancora privo in larga parte di consapevolezza politica. Esso costituì tuttavia, all’indomani dell’8 settembre, il più solido fondamento del movimento di Resistenza.

Già in agosto del resto i minatori avevano ritrovato un motivo politico di mobilitazione nella rivendicazione della pace. Ci fu anche uno sciopero verso la fine del mese e in quell’occasione, a Boccheggiano, un corteo di lavoratori e di popolo si mosse lungo i sentieri che conducevano alla miniera chiedendo di porre fine alla guerra. Ci fu qualche tafferuglio con le forze dell’ordine e qualche arresto, a dimostrazione di quanto il governo Badoglio non tollerasse le manifestazioni di protesta. La novità però fu la ripresa in quei giorni dei contatti con l’antifascismo politico e specificamente con l’organizzazione comunista, che aveva ripreso a operare a livello regionale e stava inviando ovunque i propri emissari. Fu così, ad esempio, che proprio a Boccheggiano un gruppetto di giovani che da qualche anno avevano preso a riunirsi di nascosto e che, per qualche reminiscenza familiare già si autodefinivano “comunisti”, divennero a tutti gli effetti una cellula del partito e iniziarono a porsi concretamente il problema della Resistenza armata.

L’obiettivo della pace, che dopo il 25 luglio sembrava dovesse consistere nella cessazione delle ostilità, per farla finita subito con le morti, le distruzioni e la miseria, dopo l’8 settembre e l’occupazione tedesca di gran parte dell’Italia, richiese modalità in apparenza opposte: fu chiaro a molti a quel punto che la pace si poteva ottenere solo con la sconfitta militare della Germania, ovvero imponendo ai nazisti una resa senza condizioni. Si trattava dunque di continuare la guerra e stavolta contro la Germania. Il Partito Comunista, che continuò a agire in clandestinità ma con contatti sempre più solidi e estesi tra i minatori, si mosse su questa linea, non esitando a recuperare motivazioni patriottiche mai del tutto estinte nelle zone minerarie.

I comprensori minerari furono il terreno ideale per la diffusione delle parole d’ordine comuniste e per la costituzione di cellule o sezioni di paese che a quell’organizzazione facevano riferimento. Il radicamento sociale fu il primo obiettivo del partito e la lotta armata rappresentò il compito più urgente da assolvere. Ben presto gran parte dei giovani affluiti nelle numerose bande che, tra l’autunno e la primavera, si formarono nelle macchie della Maremma, si proclamarono comunisti, anche quando, e furono la maggior parte dei casi, i loro comandanti erano ex-ufficiali monarchici e le loro formazioni facevano capo alla rete intessuta dagli emissari del governo del sud, piuttosto che a quella delle brigate garibaldine. La proposta comunista, che non si limitava a nuclei ristretti di rivoluzionari, ma riusciva ormai a raggiungere la grande massa dei lavoratori, rispondeva all’esigenza di rivolta dei giovani, al loro bisogno di abbattere il vecchio ordine e di aprire nuove e più libere prospettive di vita. La posizione dei comunisti riguardo alla Resistenza peraltro era molto chiara: no all’attesismo, che consisteva nel rinvio del confronto con il nemico; no alle trattative e agli accordi anche parziali; no a qualsiasi richiesta – e ce n’erano – di usare benevolenza con il nemico per il timore di rappresaglie e nell’illusione che così si giungesse prima alla fine della guerra. La disponibilità di armi era ovviamente la prima condizione perché le formazioni partigiane fossero operative; l’assalto alle caserme della GNR fu il modo principale per procurarsele, fino a quando gli alleati non provvidero a rifornimenti sistematici tramite i cosiddetti e tanto attesi aviolanci. Si comprende come entro questo quadro non trovasse spazio alcuna opzione pacifista.

Eppure la Resistenza dei minatori rimase essenzialmente una Resistenza civile, non armata. In molti casi ci fu da parte della popolazione un supporto materiale, politico e organizzativo alle formazioni partigiane, soprattutto tramite i CLN comunali di cui i minatori fecero parte in rappresentanza per lo più del Partito Comunista. Non ci fu però una partecipazione generalizzata di minatori alla Resistenza armata. Si deve considerare che i minatori, lavorando in aziende militarizzate, erano soggetti alla disciplina militare e proprio per questo erano esclusi dal reclutamento. Anche i tedeschi del resto, che nel periodo dell’occupazione assunsero il controllo delle miniere, avevano interesse che gli operai rimanessero al loro posto a garantire la produzione. Il fenomeno della renitenza al reclutamento della RSI toccò quindi solo marginalmente le famiglie dei minatori, mentre erano proprio i renitenti alla leva di Salò, contadini, studenti, artigiani, operai non militarizzati, a infoltire le formazioni partigiane. Non mancarono episodi di incomprensione tra minatori e partigiani, come nel caso del minamento  del pozzo Baciolo, che fu l’unico esempio di attacco diretto da parte dei partigiani a una struttura mineraria e, in generale, l’unico esempio di sabotaggio industriale vero e proprio nella provincia di Grosseto. I minatori, che pure dettero la loro collaborazione all’operazione, rimasero perplessi e sicuramente preoccupati per le conseguenze che ci sarebbero state sul loro lavoro, che infatti rimase sospeso per qualche settimana.

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Le vedove di Niccioleta, 1944

Il maggiore contributo che i minatori dettero alla lotta di Liberazione fu, com’è noto, il martiro di 83 di loro, abitanti di Niccioleta, fucilati dai tedeschi tra il 13 e il 14 giugno 1944. Si trattò anche in quel caso di Resistenza civile, visto che il rapporto di quel villaggio con la Resistenza armata, nelle settimane e nei mesi precedenti, era stato del tutto sporadico, essendosi limitato a qualche aiuto materiale e semmai a qualche scorribanda in paese da parte di uomini armati, accolti con entusiasmo – questo sì – dagli abitanti. Ci fu sicuramente, da parte degli abitanti di Niccioleta, il desiderio di contribuire in qualche modo alla cacciata dei tedeschi, che, data la vicinanza degli alleati, sembrava essere imminente. Fu forse la voglia di essere protagonisti, di non star solo a guardare, che suggerì l’idea di organizzare la cosiddetta “guardia armata” attorno al paese e alla miniera, che poi fu il pretesto della strage. Immagine 025Niente in realtà che potesse realmente impensierire i comandi tedeschi. Gli episodi che si susseguirono durante tutta l’estate in molte località della Toscana fanno pensare piuttosto a un piano stragista preordinato, del quale Niccioleta rappresentò nient’altro che una tappa, una delle prime. I motivi per i quali fu scelta Niccioleta per attuare il piano possono essere stati diversi: si è pensato alle vie di comunicazione da rendere sicure per la ritirata, a contatti particolari che il reparto responsabile della strage poteva avere nel paese, ma possono essercene stati altri. Si trattava comunque per i tedeschi di spezzare il legame tra la popolazione civile e le formazioni partigiane: legame che essi ritenevano essenziale – e lo era effettivamente – per l’operatività e la stessa sopravvivenza delle bande e che, senza bisogno di ulteriori prove, supponevano funzionasse ovunque queste operassero. E chi se non i minatori, concentrati per di più in un villaggio isolato e abitato solo da loro, com’era appunto Niccioleta, poteva offrire sostegno ai partigiani, anzi costituire il brodo di coltura stesso del partigianato? Ecco dunque emergere la colpa originale dei minatori: quell’antifascismo ostinato legato alla condizione di lavoratori salariati in lotta perenne con il loro datore di lavoro, per cui il fascismo li aveva sempre considerati una categoria litigiosa, infida, non riducibile ai propri canoni di ordine e disciplina. Non c’è bisogno di andare in cerca di altre motivazioni di ordine politico o militare: il solo fatto di essere minatori bastò a renderli colpevoli e segnò il loro destino.