Squadrismo toscano in Dalmazia

Se solo negli ultimi anni il mito del “bono ‘taliano” ha iniziato lentamente ad essere scalfito da una storiografia sempre più attenta allo scacchiere balcanico, molto resta ancora da fare per conoscere e comprendere appieno la particolare «guerra ai civili» condotta dalle truppe italiane nei territori orientali, occupati all’indomani dello smembramento della Jugoslavia nel 1941.
Da queste pagine di storia per troppo tempo rimosse emergono anche vicende locali che possono aiutarci a far luce su un’occupazione ben presto contraddistinta da una tenace resistenza armata affrontata con forme repressive sempre più estreme.
L’eruzione di un fenomeno partigiano dalla chiara matrice comunista fu infatti occasione, per le autorità fasciste nazionali e locali, per spingere verso la formazione di veri e propri reparti organici di squadristi, nella convinzione che l’esperienza maturata negli anni delle “squadre” potesse ora rivelarsi preziosa per affrontare il fenomeno comunista riaffacciatosi nei territori annessi al di là dell’Adriatico.

Tra il 1941 e il 1942 vedevano quindi la luce 6 battaglioni squadristi organizzati dalla Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, uno dei quali sorto proprio nella «fascistissima» Toscana; il 20 gennaio 1942 veniva infatti mobilitato il 1° (68°) battaglione squadristi “Toscano”, interamente costituito da volontari accorsi da tutta la regione in numero perfino superiore alle aspettative; allo zoccolo duro dei fascisti della prima ora (stime non verificabili indicavano in circa il 50% i partecipanti alla marcia su Roma), si affiancavano i numerosi reduci delle campagne africane o spagnola, al comando del forlivese, ma fiorentino d’adozione, 1° seniore (tenente colonnello) Pietro Montesi Righetti.
Con un’età media di circa 40 anni, il reparto si componeva di oltre 600 camicie nere, organizzate su 4 compagnie più il comando; accasermata a Montecatini Terme, l’unità completava nei 3 mesi successivi il proprio organico e l’addestramento, lasciando la Toscana il 15 aprile.
Dietro interessamento del Governatore della Dalmazia Giuseppe Bastianini, massima autorità civile nel territorio annesso delle provincie di Zara, Spalato e Cattaro, il “Toscano” raggiungeva il litorale dalmato il 26 aprile, scaglionandosi lungo il settore costiero tra Traù (sede del comando) e Spalato e ponendosi alle dirette dipendenze operative di Bastianini.

"In questi giorni i battaglioni squadristi sono inviati in altri teatri operativi. Hanno avuto numerosi scontri con le bande partigiane e bolsceviche nei Balcani. Ecco un reparto di camicie nere in un angolo dei Balcani, durante una purga [Sipho] 8.VI.1943".

“In questi giorni i battaglioni squadristi sono inviati in altri teatri operativi. Hanno avuto numerosi scontri con le bande partigiane e bolsceviche nei Balcani. Ecco un reparto di camicie nere in un angolo dei Balcani, durante una purga [Sipho] 8.VI.1943”.

Parallelamente all’ordinaria attività di presidio ed ordine pubblico, si scatenava fin dai primi giorni una vera e propria attività squadrista fatta di bastonature, sevizie e perfino omicidi di sospetti fiancheggiatori dei partigiani, condotta con il supporto dei fascisti locali e l’acquiescenza delle autorità civili.
L’incontrollabile violenza di una truppa di per sé particolarmente indisciplinata (e politicizzata) trovava però il suo apice il 12 giugno 1942, assumendo un virulento carattere antisemita: prendendo a pretesto una presunta provocazione da parte di alcuni ebrei, diverse decine di militi del “Toscano” e fascisti della locale Federazione assaltavano la storica sinagoga di Spalato, malmenando i presenti e devastandone locali ed arredi, mentre altre camicie nere saccheggiavano alcuni vicini negozi di proprietari ebrei. Il pogrom spalatino e successivi episodi di minacce verso militari e carabinieri scatenavano infine la dura reazione delle locali autorità militari, già in cattivi rapporti col Governatore Bastianini, costringendo quest’ultimo a ritirare gli squadristi in servizio a Spalato.
Particolarmente cruenta si sarebbe rivelata anche l’attività “ordinaria” del battaglione, spesso affiancata da elementi del Regio Esercito: oltre a fornire elementi per il plotone di esecuzione del Tribunale Speciale della Dalmazia (nella sola giornata del 22 maggio venivano fucilati 26 condannati a morte), il “Toscano” avrebbe condotto nei mesi a seguire numerosi rastrellamenti dell’immediato entroterra spalatino, sempre più minacciato dalla montante attività partigiana: negli scontri verificatisi nel corso dell’estate e la prima metà dell’autunno trovavano la morte alcune decine di partigiani o presunti tali (in un’azione del 28 giugno ne rimanevano 14 sul terreno), in un crescendo di violenze favorito dall’opacizzarsi della distinzione tra partigiani e popolazione civile.
Nella prima metà di novembre iniziava il trasferimento verso Vodice, nella parte meridionale della limitrofa provincia di Zara, area già sconvolta dalle durissime operazioni di rastrellamenti dei mesi precedenti.
Parallelamente alla continua opera di rastrellamento, nel corso delle prime settimane del 1943 lo stesso centro di Vodice veniva trasformato in una sorta di campo di concentramento a cielo aperto, con l’inasprimento di un coprifuoco duramente imposto: numerosi sarebbero stati i civili, tra cui molte donne, sorpresi fuori dal centro abitato e fucilati sul posto dagli squadristi del “Toscano” impegnati nella sorveglianza della zona.
Il 16 maggio il reparto abbandonava definitivamente la Dalmazia, a stretto giro seguito dagli altri battaglioni squadristi a loro volta schierati lungo il litorale dalmato: seppur ridotti in organico ed efficienza, non è da escludere che il rimpatrio fosse in parte dettato dai concomitanti (eppur infruttuosi) tentativi di puntellamento del regime condotti da parte del partito e, soprattutto, della milizia stessa. Truppa certamente fidata e pur sempre dotata di una certa “massa critica”, i 6 battaglioni squadristi trovavano accantonamento in varie sedi dell’Emilia Romagna, col “Toscano” riunito a Vergato, sull’Appennino bolognese.
La defenestrazione di Mussolini coglieva però impreparati i vertici della milizia e l’opera dello stesso Capo di Stato Maggiore Galbiati facilitava un pressoché indolore passaggio di consegne nelle mani di Armellini, generale fedele a Badoglio. Anche i reparti squadristi non opponevano particolare resistenza al cambiamento di regime, avviandosi, in un’atmosfera di smarrimento e rassegnazione, verso la fine della propria esperienza. Nell’impossibilità di disarmare o comunque ridimensionare la milizia, ancora presente in forze in praticamente tutti i teatri bellici, i vertici militari procedettero però a disinnescarne le maggiori criticità: tra i provvedimenti adottati rientrava anche il definitivo scioglimento dei battaglioni «già squadristi», posto in essere attraverso il congedo o il trasferimento dei militi verso altri reparti. Se a fine agosto il “Toscano” cessava di esistere, molte delle sue camicie nere avrebbero dimostrato la propria “coerenza” continuando, nei mesi a seguire, la guerra sotto le insegne della R.S.I.

Lorenzo Pera, laureato in “Storia e Civiltà” presso l’Università di Pisa, si interessa di storia militare della seconda guerra mondiale, con particolare riguardo vero i crimini di guerra compiuti dalle truppe italiane.

Articolo pubblicato nel febbraio del 2017.




Contestazione cattolica: Pistoia 1968

Dopo il Concilio Vaticano II, dal 1965, nacquero in molte città, soprattutto del centro Italia, numerosi gruppi di giovani cattolici che legarono la propria fede ad un impegno attivo nella società e che si trasformarono progressivamente in quello che sarebbe stato il dissenso cattolico. Così avvenne anche a Pistoia.
La contestazione cattolica a Pistoia crebbe all’interno della Gioventù dell’Azione cattolica, con il gruppo del Cineforum, e all’interno delle Acli, con il gruppo del Ventiquattro. Due casi non isolati nella città, ma certamente emblematici di una parabola del dissenso cattolico italiano.
I due gruppi infatti, sebbene diversi per provenienza ed età, condivisero analoghi temi di impegno: la non violenza e l’obiezione di coscienza al servizio militare, la volontà di informarsi ed informare sui problemi dei paesi in via di sviluppo e dei poveri di tutto il mondo. E furono proprio l’attenzione alla povertà, condivisa con una cospicua parte della Chiesa cattolica di quegli anni, e ai paesi del Sud del mondo a spingere molti cattolici su riflessioni vicine a quelle della sinistra. Una parte del mondo cattolico giunse perciò alle contestazioni dell’autunno del ’68 con posizioni molto vicine a quelle della sinistra e dei movimenti studenteschi. Il ’68 tuttavia segnò, se non la fine del dissenso cattolico, sicuramente un anno di svolta.
A Pistoia il 4 ottobre del 1968 alcuni giovani pistoiesi cercarono con la forza di impedire la proiezione del film Berretti verdi, diretto e interpretato da John Wayne, considerato un’apologia del militarismo americano in quegli anni di fortissima opposizione alla guerra degli Stati Uniti nel Vietnam. Un gruppo di ragazzi cercò di impedire l’ingresso del pubblico una prima volta per lo spettacolo pomeridiano; l’impresa riuscì al secondo tentativo, per quello serale. Ai primi sforzi pacifici di boicottare la proiezione, con la diffusione di volantini anti americani e un sit-in di fronte all’ingresso della sala, seguirono atti di violenza contro l’edificio del cinema Lux: furono spaccati alcuni vetri e fu divelta una saracinesca. Fu necessario l’intervento delle forze dell’ordine e il sindaco comunista Corrado Gelli decise di sospendere la proiezione serale. Il quotidiano «La Nazione» riportò ampiamente la notizia titolando: Per i «Berretti verdi» tafferugli al cinema Lux. Gremita la sala alla proiezione pomeridiana i «contestatori» sono tornati all’attacco la sera – Vetri rotti ed un’inferriata divelta – Fortunatamente nessun ferito. Venne aperta un’inchiesta che si concluse con la denuncia di alcuni con l’accusa di adunata sediziosa, oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale, violenza privata e danneggiamento doloso.
EPSON scanner ImageFu un’agitazione a cui parteciparono un migliaio di manifestanti e, sebbene di per sé non troppo originale, può essere assunta come spartiacque nella storia del dissenso cattolico pistoiese. Se infatti fino ad allora tutti i gruppi riconducibili alla contestazione cattolica si erano mantenuti su posizioni analoghe, di fronte ai tafferugli le posizioni si divaricarono irrimediabilmente.

Il gruppo del Ventiquattro partecipò al boicottaggio del film, e insieme a personaggi della sinistra pistoiese non si tirò più indietro negli anni a venire di fronte alle lotte sul territorio, a fianco degli studenti come degli operai. Abbandonò la Chiesa e assunse una nuova fisionomia per poi fondare insieme ad altri, nel ‘69, il gruppo di Lotta Continua a Pistoia.
Il gruppo del Cineforum, forse anche per l’età più adulta, assunse invece un atteggiamento critico di fronte alla contestazione. Avanzò le proprie valutazioni negative sia nei confronti della strumentalizzazione politica da parte di rappresentanti della Dc; sia contro le modalità di manifestazione di fronte al cinema. I dirigenti democristiani che gridarono alla violazione della libertà furono ironicamente invitati a scrivere una lettera agli organi di censura che, senza rompere vetri, impedivano al cittadino di vedere altri film come Teorema di Pasolini o Galileo di Liliana Cavani, entrambi censurati dal governo democristiano in Italia. Mentre agli organizzatori di quella “fetta di rivoluzione” fu contestata la sterilità dei metodi adottati. Secondo il Cineforum quella contro i Berretti verdi era stata infatti: «una rivoluzione anche un po’ comoda perché a “dialogare” con il padrone stavolta c’erano anche alti esponenti del PCI e in fondo una masturbazione collettiva dal godimento fine a se stesso perché, nella ricerca del fine immediato, è stato dimenticato proprio colui che avrebbe dovuto essere stato il beneficiario della dimostrazione; lo spettatore medio […] che avrebbe avuto per una volta l’occasione di guardare il film con occhio critico, se solo una volta la rivoluzione gli avesse offerto uno spunto per una riflessione». Il gruppo del Cineforum dopo il ’68 abbandonò le posizioni contestative per inserirsi nella dialettica istituzionale della città.
Così entrambi i gruppi con il ’68 conclusero la comune esperienza del dissenso cattolico, ma il Cineforum rimase cattolico e moderato, mentre il Ventiquattro abbandonò la Chiesa ed entrò a pieno titolo nella sinistra extraparlamentare pistoiese.

Francesca Perugi ha conseguito la laurea in storia contemporanea all’Università degli Studi di Firenze con la prof.ssa Bocchini Camaiani e ad oggi conduce un dottorato di ricerca all’Università Cattolica di Milano nell’ambito della storia del cristianesimo contemporaneo.
Collabora assiduamente con l’Istituto storico della Resistenza di Pistoia e coltiva un vivo interesse per la storia orale. Tra le sue pubblicazioni citiamo:
“Si può essere buoni cattolici e disubbidire apertamente ai vescovi?” Il mondo cattolico pistoiese di fronte al referendum per l’abrogazione del divorzio, in «Quaderni di Farestoria», dicembre 2014 .

Articolo pubblicato nel febbraio del 2017.




Togliatti e il PCI di fronte ai “fatti d’Ungheria”

Tra l’ottobre e il novembre del 1956 l’Ungheria balzò al centro delle cronache internazionali per la rivolta pacifica della popolazione contro il sistema sovietico. Un evento cruciale che riverberò i suoi effetti nel breve e nel lungo periodo rimodulando, anche in Italia, le coordinate entro le quali si sviluppò la Guerra Fredda e la questione comunista. In occasione dei sessant’anni da quegli avvenimenti l’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea nella provincia di Livorno (Istoreco), ha promosso un convegno dal titolo “Ungheria 1956. Considerazioni inattuali in una cornice di guerra”. L’iniziativa ha avuto luogo giovedì 27 ottobre 2016,  presso la Sala Conferenze dell’Istoreco, Palazzo della Gherardesca. Pubblichiamo qui un’estratto della relazione tenuta in quest’occasione da  Alexander Höbel, assegnista di ricerca presso l’Università di Napoli “Federico II”.

Dopo varie manifestazioni per commemorare Rajk e chiedere il ritorno al potere di Imre Nagy, il 23 ottobre una manifestazione che rivendica l’“indipendenza dell’Ungheria” è seguita da assalti alle sedi della radio e del partito, con le prime vittime da entrambe le parti [Dalos, 37-48]. Alla richiesta di intervento di truppe sovietiche si affianca la nomina a capo del governo di Nagy. Nei suoi Diari, Luciano Barca – allora a capo dell’edizione torinese de “l’Unità” – segnala, oltre al sorgere di “consigli operai”, la presenza “di gruppi di provocatori, veri e propri commandos”, legati alla “vecchia classe agraria” e al clero reazionario [Barca, 156-7].

Il PCI prende posizione con un editoriale di Ingrao – Da una parte della barricata – che esorta a scegliere “tra la difesa della rivoluzione socialista e la controrivoluzione bianca”; poi con un comunicato. Il 27 Nagy forma un governo comprendente anche non comunisti, che ordina il “cessate il fuoco” e annuncia il ritiro delle truppe sovietiche, lo scioglimento della polizia politica e il ritorno della vecchia bandiera. Il 30 è abolito il monopartitismo e si chiede all’URSS “di ritirare tutte le proprie forze armate dall’Ungheria”, ciò su cui il PCUS mostra una cauta disponibilità. I rivoltosi parrebbero aver vinto; solo l’uscita dal Patto di Varsavia – “una richiesta a cui nessun governo ungherese poteva venire incontro” – non è accolta [Dalos, 86-8, 97-101, 107-11].

Tuttavia la rivolta prosegue: un gruppo armato occupa il ministero della Difesa; inizia la “caccia al comunista”. La sede del partito a Budapest è assaltata con artiglieria pesante: vari funzionari vengono linciati o fucilati, e i loro cadaveri appesi agli alberi [Dalos, 76-7, 103-4, 122, 203]. In Italia si verificano aggressioni a sedi del PCI e dell’“Unità”, mentre una lettera di 101 intellettuali chiede “un rinnovamento profondo nel gruppo dirigente del partito” [Ajello, 401-6, 535-8]. “Poli di contestazione” emergono a Roma (la sezione “Italia”, Natoli, Lombardo Radice); Milano (Fortini, Rossanda, Occhetto, l’Istituto Feltrinelli); Torino (la cellula dell’Einaudi). L’intero partito è scosso da una discussione serrata. La CGIL deplora l’intervento sovietico, con un comunicato che indica nei fatti ungheresi “la condanna storica e definitiva di metodi antidemocratici di direzione”; Di Vittorio in persona conferma tale linea.

Il 30, un articolo di Togliatti stigmatizza l’“incomprensibile ritardo dei dirigenti” ungheresi “nel comprendere la necessità di attuare quei mutamenti […] che la situazione esigeva, di correggere errori di sostanza”; ma aggiunge che “alla sommossa armata […] non si può rispondere se non con le armi” [Höbel(b), 127-30]. In Direzione il Segretario afferma che la critica anche aspra va bene, ma non si può legittimare la rivolta armata nei paesi socialisti. Con lui concorda tutto il gruppo dirigente, eccetto Di Vittorio, secondo il quale “l’insurrezione è un fatto storico e dobbiamo trarne le lezioni”. Anche Berlinguer sottolinea che “in Ungheria c’è stata un’esplosione di malcontento popolare e ciò esige di spiegarne le cause”. Per Pajetta “chi non capisce che bisogna dirigere in modo nuovo non può dirigere il movimento operaio”. Da tutti però la rivolta è condannata, e Di Vittorio è aspramente criticato. Conclude Togliatti: “In Ungheria non era in corso una discussione, vi era una sommossa […]. In una simile situazione o si schiaccia la sommossa o si finisce per essere schiacciati” [Righi, 210-40]. Il comunicato riconduce la crisi alla “insufficiente capacità di consolidare le alleanze della classe operaia e il lavoro comune di edificazione socialista con una politica che rispondesse alle strutture sociali, alla storia e alle tradizioni nazionali”: da ciò “un distacco fra lo Stato e le masse” aggravato da “metodi burocratici di direzione”; tuttavia “era dovere sacrosanto […] sbarrare la strada” al ritorno delle forze reazionarie [Höbel(b), 151-61].

Intanto il gruppo dirigente sovietico, anche sotto l’influenza dell’attacco anglo-francese a Suez, si orienta per un secondo intervento [Kramer]. Il 1° novembre Nagy proclama l’uscita dell’Ungheria dal Patto di Varsavia, mentre il cardinale Mindszenty chiede la restituzione delle proprietà della Chiesa. Il 4 il secondo intervento sovietico ha luogo [Dalos, 117-20, 125-8, 135-7].

Per Togliatti, l’alternativa sarebbe stata “l’anarchia e il terrore bianco”. L’ intervento, quindi, è “una dura necessità”, che conferma l’urgenza di correggere gli errori del passato [“l’Unità, 6.11.1956; Bonchio et alii, 97-102]. La difesa delle ragioni dell’iniziativa sovietica procede quindi di pari passo con la critica avviata nell’intervista a “Nuovi Argomenti”.

L’articolazione della posizione del PCI sui “fatti d’Ungheria” è confermata dai colloqui di Parigi tra Velio Spano e una delegazione del PCF in vista di una eventuale posizione comune. La divergenza, però, è netta. Gli italiani imputano gli eventi a due fattori: “i gravi errori compiuti” e la “disgregazione” del Partito ungherese. Ciò ha reso “possibile che una parte delle masse popolari si lasciasse trascinare a un movimento di carattere insurrezionale”, in cui si sono inserite “forze reazionarie e fasciste”. Un emendamento inviato da Togliatti ribadisce che “una correzione degli errori […] avrebbe senza dubbio evitato il movimento popolare che ha portato all’insurrezione, così come un legame più profondo con le masse avrebbe permesso al partito” di evitare quell’appello alle forze sovietiche, che ha prodotto una “esasperazione del sentimento nazionale”. È un’aggiunta non marginale, respinta dai francesi. L’idea di una posizione comune sfuma [Höbel(a)].

La linea dei comunisti italiani è insomma lontana da un allineamento acritico. L’accento è posto in particolare rapporto partito-masse e sulle questioni più generali dell’egemonia, che non a caso saranno rilanciate di lì a poco con l’VIII Congresso, quello della “via italiana al socialismo”.

Articolo pubblicato nel gennaio del 2017.




E scese l’inferno dal cielo

La più grande tragedia di Empoli”, come l’ha definita Libertario Guerrini nella sua storia de “Il movimento operaio nell’Empolese 1861-1946” avviene alle ore 13.00 del 26 dicembre del 1943 quando per la prima volta la città è colpita da un bombardamento aereo alleato che colpisce e devasta i quartieri adiacenti alla stazione ferroviaria ed in particolare il rione delle Cascine, determinando la morte di 120 persone e il ferimento di oltre 200, secondo le prime stime riportate dai vigili del fuoco prontamente accorsi. I danni sono evidenti ed ingenti: 50 abitazioni ed uno stabilimento completamente distrutti, oltre 90 case e 5 fabbriche sinistrate.
Una vera tragedia aggravata non solo dall’effetto sorpresa da parte di una comunità impegnata nel pranzo festivo, e “rassicurata” dal fatto che ben 57 allarmi aerei erano risuonati senza alcuna conseguenza fra il 30 agosto e il 13 novembre precedenti, e dallo “scivolamento” delle bombe dai binari della ferrovia, cui erano dirette, alle zone vicine, ma anche dal fallimento del sistema di difesa e protezione antiaerea. Non è un caso che il Commissario prefettizio che gestisce il Comune nella sua prima relazione al Capo della Provincia (carica che sotto la Repubblica sociale italiana riunifica quelle di Prefetto e di Presidente della Provincia) insista sui danni da attribuire alla ferocia “nemica” e sulla solidarietà immediata che muove gli empolesi e anche le popolazioni dei paesi vicini nel cercare di portare i primi soccorsi e affrontare le emergenze più impellenti (abbattere le parti pericolanti degli edifici, soccorrere i feriti, seppellire i morti per evitare il diffondersi di epidemie), ma non analizzi in alcun modo l’assenza di ogni difesa anti-aerea.
Viene improvvisamente meno l’illusione di essere un piccolo nucleo provinciale che non avrebbe potuto attirare l’attenzione dei potenti stormi angloamericani, rispetto alle grandi città industriali del nord, ma anche ai capoluoghi toscani, come Firenze e Pisa attaccati nei mesi precedenti. Del resto Empoli non era affatto periferica, in quanto importante centro manifatturiero e, soprattutto, fondamentale snodo del sistema ferroviario lungo le direttrici che da Firenze portavano – e portano ancora oggi – al mare e a Roma. E proprio i centri di produzione, le vie di comunicazione delle truppe e delle merci e le reti infrastrutturali erano gli obiettivi primari della guerra aerea.
Anche gli empolesi conoscono e si trovano al centro del conflitto mondiale iniziato dal nazismo nel settembre del ’39, di cui l’Italia fascista era stata attiva protagonista fino ad esserne travolta nell’estate del ’43 con l’invasione angloamericana della Sicilia, la deposizione di Mussolini, l’armistizio dell’8 settembre e l’occupazione nazista della penisola che aveva trasformato la penisola in un tremendo campo di battaglia. E proprio la guerra aerea ne segna ed esprime la dimensione di “guerra totale” capace di colpire ciascuno e tutti (senza distinzioni fra civili e militari, uomini e donne) in ogni momento della giornata, in ogni luogo, fin nelle proprie abitazioni. L’Italia ne era stata fatta oggetto dall’autunno del ’42 a partire dai porti del Mezzogiorno e dalle grandi città industriali del nord.
Ma partire dalla primavera-estate del ’43 la strategia bellica alleata aveva puntato proprio sugli attacchi aerei su tutta la penisola – a partire da Roma – per demolire il morale di una popolazione già fortemente provata che, con gli scioperi del marzo precedente, aveva mostrato il proprio crescente distacco dal regime, così da favorirne la caduta e quindi la resa del Paese. Del resto proprio la tenuta o meno del “fronte interno”, cioè la capacità di una popolazione di resistere alle prove del conflitto sostenendo lo sforzo bellico del proprio governo, è la cartina di tornasole per misurare le sorti delle parti belligeranti. Il venir meno delle promesse della propaganda sulla rapida e vittoriosa fine del conflitto e l’evidente fallimento delle strategie di difesa antiaerea intrecciate con i forti limiti nella protezione ed assistenza dei civili aprono un solco crescente fra gli italiani e il regime e fanno emergere come prioritaria e maggioritaria la volontà di uscire dal conflitto, come mostrano l’entusiasmo con cui sono accolte dalla maggioranza della popolazione sia la notizia della “caduta” di Mussolini che quella dell’armistizio.
A partire da quel 26 dicembre quindi, anche all’ombra della Collegiata e nei borghi delle valli fiorentine si diffonde il terrore della morte quotidiana che scende dal cielo, accentuando il terrore e il senso di precarietà di popolazioni già provate dal prolungarsi del conflitto e dai suoi effetti a partire dalla mancanza di adeguate risorse alimentari. E sarà l’inizio di una lunga via crusis, anche se la tragedia del primo bombardamento resta insuperata. Nei mesi successivi gli attacchi aerei si ripetono con crescente insistenza in relazione all’avvicinarsi del fronte nell’estate successiva. Empoli, ed i territori circostanti, sono infatti colpiti dal cielo fra gennaio e luglio del ’44 altre 36 volte, delle quali 13 nel solo mese di luglio.
Inoltre, a seguito del primo bombardamento e ai due successivi nel gennaio del ’44 la città viene evacuata e gran parte della popolazione conosce così l’inevitabile, ma dolorosa esperienza dello sfollamento nelle campagne vicine, da “profughi” nella propria terra. Nei mesi successivi la città torna ad animarsi al mattino e nel tardo pomeriggio per lo svolgimento delle attività e dei lavori quotidiani in un contesto segnato da un crescente discredito delle autorità fasciste della Repubblica sociale, dall’ostilità verso queste e le truppe naziste e dal sostegno alle forze della Resistenza e alle forme di opposizione al nazifascismo e alla guerra, e nella trepidante attesa della fine del conflitto.

Matteo Mazzoni, dottore di ricerca in Studi storici in età moderna e contemporanea, è attualmente Direttore dell’Istituto Storico della Resistenza in Toscana e coordinatore del Portale ToscanaNovecento.

Articolo pubblicato nel dicembre del 2016.




Il riscatto della bellezza

ll 6 novembre 1966, appena due giorni dopo l’Alluvione, pochi trattennero le lacrime davanti all’imponente Crocifisso di Cimabue sfigurato nella sua quasi totalità.
Sicuramente non le trattennero Ugo Procacci, allora soprintendente di Firenze ed eroico monument man civile durante la II Guerra Mondiale, e Umberto Baldini, direttore del Gabinetto dei Restauri. Accorso in Santa Croce all’alba del 6, dopo una segnalazione dei gravi danni che avevano colpito la Basilica e il suo Museo, Procacci registrò che “la rovina della grande opera d’arte era ancora maggiore di ogni più infausta previsione; e fu questo forse per me il più tragico di questi tragici giorni”. Non un’ora ancora poteva essere ancora rimandata per tentare di salvare l’enorme tavola, capolavoro di ebanisteria e di pittura, opera simbolo di tutta l’arte medievale italiana. Fu così che, come come continuò a registrare Procacci nella relazione stilata per il Ministero della Pubblica Istruzione il 30 novembre 1966, “chiesto invano l’intervento e l’aiuto dei vigili del fuoco, la cui opera era invocata ovunque, si dové operare da soli”, come lo “smontaggio della smisurata croce dal supporto, eseguito in condizioni veramente disastrose, tra il fango altissimo con il solo aiuto di alcuni operai delle ditta Mugelli”.
il-crocifisso-di-cimabue-irrimediabilmente-danneggiatoIl Crocifisso di Cimabue fu sicuramente uno dei simboli della devastazione che colpì una quantità incredibile di opere d’arte, danneggiate sia dalla violenza dell’acqua che travolse oggetti anche pesantissimi, sia dall’azione chimica dovuta alla prolungata immersione e al conseguente deposito di fango, detriti, nafta, olio combustibile. Secondo i dati riportati da “Il Corriere UNESCO” del 1967 15 furono i musei colpiti, fra cui il Museo Nazionale del Bargello, il Museo dell’Opera del Duomo, il Museo dell’Opera di Santa Croce, i Chiostri monumentali di Santa Maria Novella, il Museo Horne, il Museo Bardini, il Museo Mediceo, Casa Buonarroti, il Museo di San Salvi, il Museo di Storia della Scienza; 18 le chiese monumentali invase dalle acque con conseguente danneggiamento di tutti gli oggetti artistici ivi conservati; un migliaio circa le opere d’arte complessivamente colpite, tra le quali 321 dipinti su tavola, 413 dipinti su tela, 3000 metri quadri di cicli di affreschi, 14 complessi di sculture, 144 sculture singole. Un complesso imponente, tra cui si ricordano la porte bronzee del Battistero, con le cornici spezzate e le formelle cadute, e la Maddalena lignea di Donatello.
Gli stessi Uffizi, così vicini all’Arno e fin da subito assediati dalle acque, avevano vissuto momenti di grande drammaticità; solo la presenza in loco del personale e la repentina messa in sicurezza delle opere collocate al piano terra impedì perdite ancora più ingenti. Verso le nove e mezzo di mattina del 4 novembre il museo era già diventato irraggiungibile da parte di chiunque; rimasero isolati e arroccati tra la furia delle acque Procacci e una quindicina di dipendenti, tra cui la direttrice degli Uffizi Luisa Becherucci e Umberto Baldini, “tagliati fuori da ogni comunicazione anche telefonica, e uniti solo attraverso il soprapassaggio con Palazzo Vecchio, dove erano assediati come noi il Sindaco e diverse altre persone”, ricorda il Soprintendente. Fin dalle prime ore della mattina si cercò di contrastare i danni della velocissima inondazione dei locali posti al piano terra degli Uffizi, adibiti a deposito di opere in attesa di restauro, per cui “senza perdere neanche un minuto furono incominciati a trasportare subito ai piani superiori numerosissimi quadri che si trovavano al piano terreno della Vecchia Posta. Questo intervento, fatto affannosamente, mentre l’acqua già invadeva i locali, crescendo poi con notevole velocità, valse la salvezza di un gran numero di dipinti di eccezionale importanza, ed evitò quindi una catastrofe di immense proporzioni: basti citare tra i tanti quadri posti in salvo il polittico di Giotto della Badia, la Incoronazione di Filippino Lippi degli Uffizi, la tavola centrale del trittico di Masaccio della Chiesa di San Giovenale a Cascia”. Mentre alcuni uomini trasportavano a mano, per le scale, tali opere (in alcuni casi di ingenti dimensioni), altri si precipitarono nel Corridoio Vasariano per rimuovere, in una lotta contro il tempo, tutta la collezione -unica al mondo- degli Autoritratti di artista. Il terrore di quei momenti fu infatti che la furia delle acque potesse travolgere, da un momento all’altro, il Ponte Vecchio e il loggiato. Solo nel tardo pomeriggio del 4 novembre, con il defluire delle acque, i colleghi della soprintendenza da Palazzo Pitti si avventurarono con coraggio lungo il Corridoio Vasariano per portare i primi viveri a coloro che erano rimasti agli Uffizi.
Alla devastazione delle opere d’arte si era quindi aggiunto il danneggiamento dei luoghi della conservazione: il Laboratorio della Vecchia Posta presso gli Uffizi era stato inondato e oramai impraticabile e i relativi macchinari completamente fuori uso.
5-13-gli-angeli-del-fango-alla-biblioteca-nazionaleNonostante la mancanza di luoghi e strumenti, Procacci decise con repentina lucidità che il grande cantiere per il salvataggio delle opere d’arte dovesse essere allestito a Firenze e non altrove. In una Firenze che, già moralmente colpita, non avrebbe visto la partenza di tutte le opere d’arte alluvionate, con l’ulteriore rischio di danneggiamenti dovuti ai trasferimenti in laboratori di restauro italiani ed europei. I luoghi di ricovero allestiti in tempi record furono Villa Petraia e alcuni ambienti di Palazzo Pitti per i mobili, il salone grande della Galleria dell’Accademia per le tele, il Forte Belvedere per la maggioranza dei libri, Palazzo Davanzati per le sculture e le arti minori e la Limonaia di Boboli per le tavole. Quest’ultime, appena conclusa la prima fase di deumidificazione, furono trasferite nel nuovo Laboratorio di restauro costruito appositamente alla Fortezza in un capannone militare in disuso.
Superati i primissimi giorni di emergenza, arrivarono immediatamente contributi economici e scientifici dai più importanti centri e istituti italiani e mondiali. Fu così, che, come auspicato da Ugo Procacci, la città riuscì, grazie anche agli uomini e agli strumenti messi a disposizione da pioneristici istituti e laboratori- a curare i propri malati e sfruttare la grande tragedia da cui era stata colpita per risollevarsi e crescere, per diventare un polo d’avanguardia del restauro e della cultura, per riscattarsi nuovamente in nome della bellezza e di un patrimonio artistico amato e aiutato da tutta la comunità internazionale.

Le immagini qui sono tratte da M. Carniani, P. Paoletti, Firenze. Guerra e Alluvione, Firenze, Becocci Editore, 1991.

Articolo pubblicato nel novembre del 2016.




Per la cultura e per il bene comune

Professore di lettere comandato dal 1933 presso la Soprintendenza alle Gallerie per le province di Firenze Arezzo e Pistoia, Cesare Fasola è ricordato soprattutto per l’attività svolta durante l’ultima fase della Seconda guerra mondiale a tutela delle opere d’arte che erano state messe in salvo in ville e castelli di varie località toscane. Come testimoniano le sue lettere-diario alla moglie Giusta, presenti nel fondo a lui intitolato conservato presso l’Istituto storico della Resistenza in Toscana, nel momento del passaggio del fronte egli si adopera per sorvegliare e presidiare i depositi di opere d’arte dei musei nella zona della Val di Pesa, a Montagnana, Montegufoni, Poppiano e Uliveto, prima sotto l’occupazione tedesca e poi, dal 27 luglio, sotto gli Alleati. Per questa attività Fasola riceverà nel 1947 la medaglia di bronzo al valore civile.
Da ricordare è anche il suo ruolo di funzionario delle Gallerie incaricato dal soprintendente Giovanni Poggi della tutela artistica dei beni ebraici. In occasione delle requisizioni antisemite Fasola si occupa di valutare se fra gli oggetti portati via si trovino delle opere d’arte da sottrarre ai sequestri, destinandole alla Galleria dell’Accademia secondo quanto disposto dall’Ufficio affari ebraici della Prefettura. Dopo aver cercato di salvare il più possibile dalle razzie nazifasciste, nel dopoguerra collabora attivamente per la ricognizione ed il recupero dei beni requisiti, lavorando anche in contatto con Rodolfo Siviero.

Tuttavia c’è un altro aspetto della sua vita che merita di essere raccontato, che va di pari passo con la sua attività culturale, nell’ambito di una concezione ampia di impegno civile e di servizio per il bene comune. Ci riferiamo ovviamente al suo impegno politico, che si realizza a partire dal 1942 con l’iscrizione al Partito d’azione (PdA), per poi proseguire come membro del Comitato di liberazione nazionale (CLN) di Fiesole prima e dopo la Liberazione, e come amministratore comunale dalla seconda metà degli anni ‘40 al 1960. Aspetto riguardo al quale non possiamo avvalerci di molte fonti; le carte del fondo Fasola e quelle del CLN di Fiesole, conservate presso l’Istituto storico della Resistenza in Toscana, integrano in misura piuttosto limitata i documenti della busta intitolata a Fasola e i resoconti delle sedute consiliari e della giunta conservati tra le carte dell’Archivio comunale postunitario di Fiesole.
Dal modulo di iscrizione alla Sezione fiorentina del Partito d’azione, datato 1° settembre 1944, risulta che Fasola – che ricordiamo essere stato sacerdote dalla giovane età fino ai primi anni ’30, sembra con scarsa convinzione – abbia “aderito” al Partito nazionale fascista dal 1927 al 1943, ma anche che sotto il fascismo sia stato “denunciato e sorvegliato”, senza subire provvedimenti di polizia.
Come abbiamo accennato, la sua attività politica vera e propria comincia nel 1942 con l’adesione, insieme alla moglie Giusta, al neonato Partito d’azione. Al suo interno Fasola fa parte del Comitato esecutivo della Sezione di Firenze. Inoltre durante la Resistenza rappresenta il PdA in seno al Comitato toscano di liberazione nazionale e milita nella Divisione Giustizia e libertà di Firenze, che riunisce le formazioni militari azioniste. Secondo un curriculum conservato nell’archivio del PdA fiorentino, presso l’ISRT, “durante il periodo clandestino nel suo recapito di città fece da centro di collegamento per gli emissari delle regioni dell’Italia liberata e occupata in rapporto con le attività antinazifasciste del Partito a Firenze… collaborò per la diffusione della stampa clandestina e alla raccolta di fondi”. Il suo ufficio presso le Gallerie di Firenze diventa un centro di ritrovo clandestino, con tutti i rischi che ne derivano: lo stesso curriculum riporta che Fasola viene denunciato alla famigerata banda Carità per mezzo di lettere anonime, fortunatamente intercettate.
Per l’attività svolta durante la Resistenza nella provincia di Firenze, nel 1950 la Commissione regionale toscana per il riconoscimento della qualifica di partigiano, istituita presso la Presidenza del consiglio dei ministri, dichiarerà Fasola “partigiano combattente” per il periodo che si estende dal 1° ottobre 1943 al 7 settembre 1944, ovvero da poco dopo l’inizio della Resistenza fino allo scioglimento delle formazioni partigiane ad opera degli Alleati. Inoltre sarà decorato della medaglia d’argento e riceverà la croce al merito di guerra.
Anche Giusta durante il periodo clandestino mette gravemente in pericolo la propria vita: nonostante sia stata segnalata e denunciata ai tedeschi, si occupa come il marito del collegamento di gruppi antifascisti, della trasmissione di informazioni e della distribuzione di stampa clandestina a Firenze e fuori città; inoltre è membro del Comitato consultivo del PdA di Firenze e del Comitato esecutivo di emergenza. Anche Giusta riceverà la qualifica di “partigiano combattente” e la croce al merito di guerra.
Venendo al contesto fiesolano, è proprio a casa dei coniugi Fasola che dal settembre 1943 si svolgono le prime riunioni del Comitato di liberazione locale, organismo pentapartitico nel quale i due intellettuali rappresentano il Partito d’azione. Il primo nucleo del CLN si riunisce infatti in via degli Angeli 4, in una casa della famiglia Micheli allora presa in affitto da Cesare e Giusta, dove ancor oggi possiamo vedere, scritte a matita su un lato del caminetto, le firme dei Fasola e di altri antifascisti: Giuseppe Roselli, Enrico Baroncini, Giovanni Ignesti, Aldo Gheri, Mino Labardi e Edoardo Salimbeni. Come gli analoghi CLN formatisi in Italia centro-settentrionale a partire dal settembre 1943, il Comitato fiesolano riveste un ruolo importante non solo nel periodo clandestino, durante il quale svolge principalmente propaganda antinazifascista e assiste le bande partigiane, ma anche dopo la liberazione di Fiesole, quando assume il governo del territorio e si adopera per la ripresa della vita politica, economica, associativa. Il Comitato si occupa del rifornimento di alloggi e di beni di prima necessità, coordina l’attività dei partiti, di cooperative di consumo, di associazioni, incoraggia iniziative di beneficenza e di assistenza, gestisce l’epurazione e tratta problemi inerenti la disoccupazione, il mercato nero, i trasporti.
I documenti dell’archivio del CLN fiesolano attestano l’attiva partecipazione di Fasola e di sua moglie, sempre presenti alle sedute del Comitato; Giusta fra l’altro ricopre la carica di segretaria, occupandosi della convocazione delle riunioni e della conservazione delle carte del CLN stesso. Come dimostrano i verbali delle sedute Cesare interviene su questioni diverse: la necessità dell’assistenza ai reduci di guerra, l’opportunità di schedare i fascisti che rientrano dal nord, la situazione dei CLN per i quali auspica un ruolo più incisivo nella vita politico-istituzionale del Paese.
É stato sottolineato come per molte persone l’attività all’interno dei Comitati di liberazione locali abbia costituito una sorta di palestra politica, la prima fase di un intenso impegno all’interno dei partiti e delle istituzioni comunali. A Fiesole il caso più evidente è quello del socialista Ignesti, presidente del CLN, che sarà sindaco tra il 1958 e il 1964, ma anche quello di Fasola è significativo, in quanto il suo ruolo di membro del Comitato sfocia senza soluzione di continuità in quello di assessore e di consigliere. Già dai primi di settembre 1944, del resto, la prima giunta post-Liberazione, insediata dal CLN e guidata dal socialista Casini, è composta per la maggior parte da membri del CLN stesso. Tra questi Cesare Fasola, nominato assessore in un primo momento con delega all’Assistenza sociale e l’igiene e poi con delega ai Lavori pubblici.
In una situazione drammaticamente caratterizzata dalla distruzione di alloggi, strade, ponti, acquedotti e impianti elettrici, dalla mancanza di mezzi di trasporto, dalla necessità di procedere ad un urgente intervento di sminamento, possiamo immaginare quanto impegnativo sia stato il suo incarico. In giunta Fasola riferisce e avanza proposte in merito alla condizione degli edifici scolastici che hanno subito danni di guerra, alla rimozione delle macerie che ingombrano le strade e a quella delle mine collocate dai tedeschi, alla riattivazione della corrente elettrica, ai danni alla produzione boschiva, e curiosamente alla necessità di provvedere alla fornitura di macchine da scrivere, dopo le razzie effettuate dai tedeschi. In quanto assessore interviene inoltre nella polemica tra il sindaco e monsignor Rodolfo Berti, proposto della Cattedrale, per la mancata partecipazione dell’amministrazione comunale alle cerimonie religiose in onore di S. Romolo, approvando la scelta di Lugi Casini di non aderire ad un’usanza “introdotta dai fascisti e di sapore medievale, come l’offerta del cero”, e biasimando l’affissione sulla porta della Cattedrale della lettera in cui il sindaco declinava l’invito a partecipare alle manifestazioni per la festa del patrono.
Alle elezioni amministrative del 24 marzo 1946 – le prime dopo la caduta del fascismo – Fasola è eletto consigliere comunale per il Blocco democratico della ricostruzione, formato da azionisti, socialisti e comunisti. Nel 1947, dopo la fine del Partito d’azione, come molti suoi ex-compagni aderisce al Partito socialista, e nelle file di questo partito sarà presente in tutte le successive amministrazioni, che lo vedranno di nuovo assessore, questa volta con delega all’istruzione e al turismo, in seguito alle elezioni del 1951, e consigliere in seguito alle elezioni del 1956 e a quelle del 1960.
Nel quindicennio circa che va dal 1946 al 1960, durante il quale prosegue l’opera di ricostruzione da parte delle giunte Casini e Ignesti, Fasola partecipa alla vita politica fiesolana muovendosi prevalentemente nell’ambito dell’istruzione, della cultura e del turismo. Già nel dicembre 1946 presenta un’interpellanza in Consiglio in merito alla riapertura al pubblico del Museo Bandini– “una istituzione che interessa il decoro della nostra Città e che rivolge l’invito al forestiero per essere visitata” – e alla antica Scuola di disegno – a proposito della quale chiede al sindaco “se non sia possibile riprendere una tradizione antica e utile alla cittadinanza”. Da assessore, lavora alla ricerca di contatti per lo svolgimento di spettacoli estivi al Teatro romano, riferisce in giunta in merito alla riattivazione degli scavi nella zona archeologica e ai rapporti con la Soprintendenza, su sollecitazione dell’Ente provinciale per il turismo fa parte di un comitato per la ricostituzione dell’Associazione turistica di Fiesole.
Una questione che lo interessa particolarmente, legata al turismo, è il decoro cittadino: ad esempio nel 1947 presenta un’interpellanza perché i muri fiesolani siano ripuliti da scritte e residui di manifesti, perché “E’ evidente l’interesse che abbiamo a che le nostre vie, che sono visitate da numerosi forestieri, presentino quel carattere di lindura e di proprietà, che mette in risalto la bellezza turistica, che è quasi sola ricchezza che noi possediamo”. In una lettera al sindaco datata 1948 chiede che la strada Vincigliata-Maiano, meta di gite domenicali, e l’area di San Francesco siano ripulite dalla spazzatura e dotate di apposti bidoni. In una lettera del 1954 avverte Luigi Casini del pericolo presentato da un muro in via degli Angeli ancora pericolante per le cannonate subite in guerra, con grave rischio per i passanti.
Un altro problema che sta a cuore a Fasola è il ripristino del servizio filoviario Firenze-Fiesole, la cui interruzione nell’immediato dopoguerra costringe gli operai a recarsi quotidianamente a piedi nel capoluogo, e ancora nel 1947, in mancanza di un collegamento diretto, ad effettuare lunghe soste tra i tratti in cui è suddiviso il percorso. Sempre in merito alla filovia presenta interpellanze in Consiglio e si pronuncia in difesa degli interessi dei lavoratori affinché i biglietti abbiano tariffe più eque.
I suoi interventi in Consiglio comunale tra il 1951 e il 1956 spaziano da questioni squisitamente locali ad altre di più ampio respiro. Si va dal cordoglio per la morte di due lavoratori in un incidente avvenuto a Villa Machiavelli, al problema della formazione dei turni scolastici alla scuola comunale, dovuto alle gravi carenze dell’edilizia scolastica, alla discussa scarcerazione di Francesco Moranino, partigiano medaglia d’oro arrestato per episodi avvenuti durante la guerra di liberazione, ai fatti del 1956 in Ungheria, in Egitto, nel Nord Africa e nel Medio Oriente, riguardo ai quali esprime la propria angoscia per “ciò che sarebbe potuto accadere, e che avrebbe ancora una volta interrotto la marcia del progresso e del proletariato”. Rispetto a questi eventi riesce a far convergere su un unico ordine del giorno i voti di democristiani e comunisti, notando come, nonostante esistano diversità di opinioni (anche tra comunisti e socialisti, come è noto), ci sia “un’unità di intenti, così come esisteva nel tempo della liberazione, quando tutto era chiaro, perché tutti si sapeva dove erano l’oppressione e la tirannia. Oggi è meno chiaro: c’è l’Ungheria, ma ci sono anche Suez, l’Algeria, il Kenia. Condanniamo allora, l’ingiustizia e la violenza, ovunque si trovino”. Nel maggio 1957, quando il Sindaco mette in approvazione un ordine del giorno in cui auspica che il nuovo governo insediato applichi la Costituzione e adotti una politica estera contro gli esperimenti atomici, Fasola interviene sollecitando un’ampia partecipazione su problemi di tale rilievo e di fronte ai quali non può esserci “alcuno spirito di rinunzia o sfiducia”.
Gli interventi di Fasola presentano più di una volta richiami ai valori della Resistenza e allo spirito ciellenistico. In una seduta del Consiglio comunale del dicembre 1957, relativamente ad un ordine del giorno comunista in difesa dei valori della Resistenza in occasione dell’omaggio reso dal Presidente della Repubblica federale tedesca Heuss ai martiri delle Fosse Ardeatine e in vista della traslazione a Firenze delle salme dei fucilati alle Cascine, Fasola ricorda che “è proprio in virtù della Resistenza e del sacrificio di chi vi partecipò” che “questo Consiglio comunale si riunisce, avendo la Resistenza segnato il ritorno alla libera manifestazione della volontà popolare e quello delle rappresentanze elettive del popolo”; anche questa volta, grazie alla sua mediazione, i voti dei democristiani e dei comunisti convergono su un unico ordine del giorno che viene votato all’unanimità. É importante per lui anche la conservazione della memoria resistenziale: iscritto all’ANPI, è tra i soci fondatori dell’Istituto storico della Resistenza in Toscana, istituito nel 1953, presso il quale si conserva il piccolo fondo personale che è già stato menzionato, e dove nel 1964 – anno successivo alla sua scomparsa – sarà commemorato da Carlo Ludovico Ragghianti.
Vale la pena ricordare anche che nel 1952 Fasola è tra i fondatori dell’Alleanza per la ricreazione popolare, un movimento che riprende in parte le posizioni del vecchio comitato di difesa dell’ENAL (Ente nazionale assistenza lavoratori), e che agisce come organismo di collegamento tra vari circoli e case del popolo: insieme a personalità di varia provenienza culturale e politica – ma soprattutto di sinistra, come Gaetano Pieraccini, Orazio Barbieri e Mario Fabiani – è membro del Comitato direttivo.
Torinese trapiantato a Firenze e poi a Fiesole, Fasola risulta infine ben integrato nel contesto sociale e culturale cittadino. Ad esempio intrattiene rapporti con Charlotte Spinn, vedova di Heinrich Ludolf Verworner, uno dei tanti artisti che avevano scelto il “colle lunato” come luogo d’elezione. Nel 1953 pronuncia un discorso in occasione dello scoprimento della lapide in ricordo di Verworner a villa di Fontelucente; da una cartolina a Charlotte datata Natale 1955 (conservata nel fondo archivistico intitolato a suo marito presso l’Archivio comunale) si intuisce un legame basato non solo su comuni interessi artistici ma anche su stima e affetto.
Il suo ultimo incarico di consigliere comunale, assunto in seguito alle elezioni amministrative del 6 novembre 1960, ha durata brevissima: dopo due anni di malattia, l’8 novembre Giusta viene a mancare e Cesare decide di dimettersi. Il 3 dicembre successivo le sue dimissioni sono discusse e approvate dal Consiglio, che si rammarica per la perdita e lo ringrazia per l’impegno profuso sin dai tempi del CLN.
Dopo la scomparsa della moglie, con cui ha condiviso decenni di impegno politico e culturale – ricordiamo che Giusta era storica dell’arte ben conosciuta, studiosa del Medioevo e del Rinascimento, docente universitaria a Genova – Fasola si trasferisce a Bagno a Ripoli, dove morrà tre anni dopo; ma possiamo immaginare che un legame particolare abbia continuato a unirlo a Fiesole. Secondo il verbale della seduta di insediamento del nuovo Consiglio dopo le elezioni del 1951, Fasola stesso sottolinea che per quanto sia nato altrove, “a Fiesole è giunto nel momento più cruciale ed a Fiesole si sente legato dal più affettuoso attaccamento, poiché qui ha vissuto il periodo più bello della vita”.

Articolo pubblicato nel novembre del 2016.




L’ALTRA ALLUVIONE

«Ognuno ricorderà come nei giorni dell’alluvione si facessero le cose che erano necessarie con l’unico criterio del fare subito, del fare presto, dell’intervenire immediatamente».

Dopo la devastazione che ha colpito il centro di Firenze fin dalle primissime ore del mattino, alle 5.00 a Lastra a Signa, i torrenti Rimaggio, Guardiana e Vingone, affluenti in riva sinistra dell’Arno, rompono gli argini e inondano Ponte a Signa, lungo via di Sotto, le zone di Stagno e Tripetetolo, oltre al centro storico, dove si registrano picchi di inondazione di cinque metri. Quasi contemporaneamente il Bisenzio rompe a San Piero a Ponti, per un tratto di circa ottanta metri, riversando le proprie acque su San Mauro a Signa e Campi Bisenzio. Poco dopo, alle prime luci dell’alba, sotto una pioggia ancora incessante, l’Ombrone Pistoiese rompe l’argine sinistro prima a Ponte a Tigliano, per un tratto di quasi cento metri, inondando la campagna meridionale di Prato (Tavola, Cascine Medicee di Tavola, Castelnuovo, San Giorgio a Colonica, Le Fontanelle) poi a Castelletti, nel comune di Signa. Unendosi a quelle del Bisenzio, le acque dell’Ombrone sommergono Lecore, Sant’Angelo (dove si registrerà una delle situazioni più difficili da gestire per il totale isolamento in cui la frazione si verrà a trovare) e Le Miccine. Più a ovest i torrenti Stella e Quadrelli sommergono Caserana e l’area della Querciola, nel comune di Quarrata, oltre a Valenzatico e Olmi. Il Fosso di Iolo e il Torrente Calice peggiorano la situazione pratese. Infine, l’Arno, rompe a San Donnino. Il reticolo è completamente collassato: l’Arno, è al massimo della sua portata, e i suoi due affluenti principali nella zona, Bisenzio e Ombrone, sono costretti a “tornare indietro” perché il fiume non riceve e così fanno gli affluenti minori e tutto il reticolo di canali e gore, causando rotte e tracimazioni. La tempesta perfetta.

s-mauro

San Mauro

A metà mattina il cielo si rischiara, tutto intorno un’unica, luccicante distesa d’acqua, a perdita d’occhio. Ma non si tratta di un “mare della tranquillità” bensì di un’inondazione senza precedenti, improvvisa e furibonda, che in alcuni punti ha raggiunto oltre cinque metri e spazzato via tutto ciò che ha trovato sul suo cammino: case, negozi, fondi artigianali, automobili, mezzi da lavoro, fattorie, animali. Chi abita in quelle zone è abituato alle piccole inondazioni, venti, trenta centimetri, ma nessuno si aspetta niente del genere e le precauzioni, quindi si sono limitate a paratoie alle porte e qualche suppellettile riparata sopra un tavolo o su un mobile. Tutto inutile.

La macchina dei soccorsi si organizza, spontanea, in ogni frazione colpita, e le testimonianze qui si assomigliano un po’ tutte: grande spirito di solidarietà, coraggio, intraprendenza: zattere di fortuna costruite con assi e bidoni, i cosiddetti “brusini”, per portare in salvo parenti, amici, vicini o far arrivare loro da mangiare. Beni di prima necessità, come acqua, pane e latte, per chi ha ancora la fortuna di averli, passati di casa in casa sui fili dei panni o con canne di bambù; mezzi privati a disposizione dei comuni, che in brevissimo tempo si organizzano in centri operativi (piccole unità di protezione civile ante litteram) di raccolta e smistamento di aiuti e interventi. Un’unica grande comunità riunita, oltre ogni distinzione culturale, sociale e politica, in un’unità d’intenti che non si vedeva, forse, dal secondo Dopoguerra. Gli aiuti organizzati arriveranno pochi giorni dopo e, fra i contadini che non erano mai stati al mare, in molti ricordano i patini di Viareggio, che vedevano per la prima volta.

In tutto questo va ricordata la straordinaria opera del Comune di Prato, “un’isola in un mare di disperazione”, come fu definita più volte nelle cronache di quei giorni, il cui centro rimase all’asciutto, sommersa la sua parte meridionale, prestata con grandissima generosità sul suo fronte cittadino e su tutti quelli circostanti, fino a Fiesole, Empoli, Castelfiorentino. Come scrisse il sindaco di Firenze Piero Bargellini in un telegramma al sindaco di Prato Giorgio Vestri del 21 novembre: “Firenze ancora col fango alla gola rivolge a lei e alla sua generosa città un primo fervido ringraziamento per l’opera di soccorso”.
Con il deflusso delle acque arrivò il grande problema della ripulitura dalla nafta e dal fango e l’amara constatazione che molto era irrimediabilmente perduto, soprattutto nelle zone agricole, che saranno in gran parte abbandonate a favore di piccola imprenditoria tessile e artigiana. Ma erano gli anni Sessanta e a Natale di quell’anno il peggio sembrava davvero già superato.

*estratto dal libro di Aurora Castellani “L’altra alluvione – Il 4 novembre 1966 a Prato, Campi Bisenzio, Signa, Lastra a Signa e Quarrata” – Edizioni Medicea Firenze – www.edizionimediceafirenze.it

“L’altra alluvione” racconta, con materiale fotografico e documenti inediti, il 4 novembre 1966 fuori Firenze: Prato, Campi Bisenzio, Signa, Lastra a Signa e Quarrata. Una calamità quasi sconosciuta ma non meno dolorosa per chi subì la furia improvvisa di Arno, Bisenzio, Ombrone pistoiese e di molti torrenti, in molti casi perdendo tutto; di certo non lo spirito, il coraggio e la generosità. Si reagisce e ci si rimboccano subito le maniche per ripartire e aiutare parenti e amici, offrendo quel che si ha per distribuirlo ai meno fortunati. E i comuni, Prato in testa, si fanno trovare pronti ad accogliere questo grande slancio, la mobilitazione spontanea di una comunità intera che si riunisce per portare aiuto ovunque ci sia bisogno.

Aurora Castellani (Prato, 1980), editor e traduttrice, lavora nel mondo dell’editoria dal 2007, curando pubblicazioni di vario genere. È stata assessore alla Cultura e Pubblica Istruzione del Comune di Vaiano dal 2009 al 2014 e attualmente è Presidente del Museo della Deportazione e Resistenza di Prato. Dal 2015 è direttore editoriale di Edizioni Medicea Firenze. Questo è il primo lavoro a sua firma, frutto di una lunga ricerca d’archivio e interviste inedite.

Articolo pubblicato nell’ottobre del 2016.




Terra e Lavoro

La nascita della prima organizzazione sindacale dei lavoratori della terra d’ispirazione socialista fu di difficile gestazione. Il periodico locale del partito, L’Avvenire, che fiancheggiava anche l’attività della neonata Camera del lavoro, fin dal 1902 tenne un’intensa campagna rivolta in particolare ai contadini mezzadri e fittavoli, ma senza risultati. Un’azione che nell’estate del 1906 si andò intensificando ed entrò in polemica con il giornale dei cattolici, La difesa religiosa e sociale, impegnati a loro volta nella costituzione delle leghe “bianche”. Tuttavia i tempi stavano maturando e verso la fine dell’autunno del 1906 nel paese di Ramini i contadini si resero disponibili a costituire una Lega. Nel gennaio del 1907 era già ben avviata ed alle riunioni partecipavano anche lavoratori di altre zone come Collina, Casale (o Casalguidi), Sant’Alessio. Nel giro di pochi mesi erano già costitute leghe anche nei paesi limitrofi di Casale, Cantagrillo, Masiano, ed in quelli sul lato opposto della piana di Sant’Alessio e  Valdibrana. A Vinacciano la lega nacque al termine di un comizio – secondo un tipico modus operandi – durante il quale si era verificato un contraddittorio tra i sindacalisti e il sindaco di Serravalle Pistoiese, che tentò di far interrompere l’adunata.

unspecified2Nel 1907 batteva le campagne Giovanni Martini, sempre presente come oratore in tutti i paesi in cui si costituirono le leghe ed anche in quelli dove l’organizzazione non riuscì a radicarsi, come Montale, in mano ai cattolici. Il suo Vademecum del contadino toscano si apriva con l’affermazione: «la scintilla della ribellione è finalmente penetrata». L’opuscolo conteneva le norme interne del sindacato ed elencava gli obiettivi rivendicativi, in primis il miglioramento dei contratti di mezzadria e affitto e la difesa  dei braccianti, che dovevano essere pagati in denaro e non in natura, ma anche l’istituzione di un ufficio di consulenza, di magazzini sociali dove comperare semi, attrezzi, concimi, solfato di rame ecc… e magazzini di deposito per i prodotti di parte contadina. Del sindacato potevano far parte i braccianti, i mezzadri, gli affittuari e come soci aggregati anche i coltivatori diretti. Il risultato di questo movimento, che più che in scioperi si risolse nella nascita e organizzazione delle leghe, fu un’immediata risposta padronale. Nel marzo 1907 questi costituirono una propria associazione con l’obbiettivo di riaffermare il patto mezzadrile, introducendo alcuni cambiamenti per sottrarre terreno ai socialisti attraverso un cauto riformismo.
Si assistette così nella primavera ad un confronto a distanza tra le proposte dei proprietari e quelle delle leghe, che non sfociò mai in un tavolo di trattativa. La prima mossa la fece il fronte padronale, appoggiato dalla Lega democratico nazionale – d’ispirazione cattolica –presentando nel maggio le norme per un nuovo patto colonico per fittavoli e mezzadri. La CdL le respinse, irridendone i contenuti limitati mentre lasciavano inalterati altri aspetti palesemente sproporzionati a favore del padrone, negando che si trattasse di una reale riforma. Soprattutto l’attacco investì il metodo, rendendo evidente che in gioco c’era anche il futuro delle relazioni sindacali e più in generale della democrazia. L’Avvenire commentava infatti la “comunicazione” del patto senza mezzi termini: «Non avendo poi interpellato la Camera del Lavoro e le leghe dei contadini,[l’associazione dei proprietari] ha voluto escludere ogni diritto di ingerenza nelle loro vedute e di discussione dei loro deliberati alla classe dei contadini: ha voluto sottrarsi al controllo dell’organizzazione lasciando arbitri i proprietari di fare ciò che desiderano». Al progetto dei proprietari le leghe risposero con una mobilitazione e con una propria proposta, entrambe fatte partire da Ramini.

Il 12 maggio nel paese si tenne un comizio, con la partecipazione delle leghe dei paesi vicini di Vinacciano, Masiano, Cantagrillo e Casale, al termine del quale fu approvata una piattaforma con una serie di richieste di cambiamento del patto colonico, che rientrava nel solco delle tipiche rivendicazioni mezzadrili d’inizio ‘900, senza discostarsi dall’approccio riformistico mirante ad ottenere miglioramenti immediatamente godibili e verificabili. Che in quel momento la dirigenza del movimento sindacale socialista dei contadini a Pistoia fosse in mano ai riformisti è testimoniato anche da un altro fatto. Nelle zone di Gabbiano, Vinacciano e Collina alcuni contadini avrebbero voluto dare un colpo di acceleratore alla protesta, abbandonando le necessarie operazioni di ramatura delle piante e alzando il livello delle richieste, ma vennero convinti a desistere, a non precipitare gli eventi e ad attendere con pazienza gli sviluppi della situazione. La linea era quella della trattativa, dura ma proiettata verso un esito che si riteneva fattibile, come nel caso della mobilitazione – portata ad esempio – di una quarantina di braccianti che, entrati in sciopero, riuscirono a chiuderlo positivamente. Probabilmente i dirigenti erano anche dell’idea che il movimento mezzadrile non fosse ancora abbastanza forte da sostenere l’organizzazione di uno sciopero e il suo impatto, e scelsero una linea mobilitativa basata su manifestazioni meno impegnative, ma capaci di essere portate a termine da un’organizzazione giovane e debole.
unspecified3Non a caso il passo successivo non fu il lancio di uno sciopero per ottenere l’accettazione del memoriale di Ramini, ma l’organizzazione di una manifestazione nella forma del comizio. Si tenne il 30 maggio al Politeama Mabellini di Pistoia, con l’intervento di tutte le leghe contadine e l’invito a partecipare anche ai contadini non organizzati. Per L’Avvenire alla manifestazione parteciparono circa 1.000 persone. Alla fine fu approvato un OdG che dava mandato ai Consigli delle leghe di eleggere una Commissione che insieme alla Commissione esecutiva della CdL predisponesse una piattaforma da discutere poi con i singoli proprietari. Questo primo confronto tra le organizzazioni padronali e le neonate strutture sindacali contadine dei socialisti restò confinato al dibattito pubblico, non verificandosi atti di scontro più rilevanti da ambo le parti, e cioè senza disdette ai contadini da parte dei concedenti e senza scioperi. Non ci furono nemmeno risultati apprezzabili, rimanendo di fatto lettera morta i due progetti di riforma, senza nessun confronto o accordo tra le parti, che continuavano a confrontarsi a distanza. Anche gli organi dello Stato restarono a guardare, mentre le amministrazioni locali, guidate da ceti legati alla proprietà agricola, non intervennero nel merito. In pratica l’applicazione dell’uno o dell’altro progetto di riforma veniva lasciata al confronto diretto tra singoli proprietari e contadini, e non ci fu nemmeno per questa via nessun accordo di rilievo. La questione però era posta, e continuò a tener vivo il dibattito e una certa agitazione tra i contadini anche negli anni immediatamente successivi.

Stefano Bartolini è ricercatore presso l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia e coordina le attività di ricerca storica, archivistiche e bibliotecarie della Fondazione Valore Lavoro. Ha partecipato al recupero dell’archivio Andrea Devoto ed attualmente si occupa di storia sociale, del lavoro e del sindacato. Tra le sue pubblicazioni: Fascismo antislavo. Il tentativo di bonifica etnica al confine nord orientale; Una passione violenta. Storia dello squadrismo fascista a Pistoia 1919-1923; Vivere nel call center, in La lotta perfetta. 102 giorni all’Answers; La mezzadria nel Novecento. Storia del movimento mezzadrile tra lavoro e organizzazione.

Articolo pubblicato nell’ottobre del 2016.