Comunicare la Resistenza: sfide e proposte

Una riflessione sulla complessa, contraddittoria immagine della Resistenza nel panorama politico italiano può agevolmente partire da un’immagine recente: il corteo per il 25 aprile organizzato a Milano dal centro-sinistra. Scevra di una preventiva discussione capace di giustificarne i presupposti e di evidenziarne i legami con decenni di celebrazioni resistenziali, la giallo-blu festa della libertà e dell’Unione Europea ha attutito la percezione della festa della Liberazione dal nazi-fascismo. Il problema non è l’infondatezza del collegamento, peraltro ragionevole e giustificabile: le dimensioni transnazionali ed europee della Resistenza e l’elaborazione, proprio in quel drammatico contesto e davanti alle atrocità della seconda guerra mondiale, di un’unione politica che scongiurasse simili eventi, danno ai due processi un sostrato comune. A lasciare dubbiosi sono le modalità con cui temi e problemi nuovi sono stati giustapposti all’esistente come una patina, senza alcun legame con la Resistenza e le sue ricorrenze celebrative; e tutto ciò rende evidente, a mio avviso, quanto ora più che mai sia urgente e necessaria una discussione sul tema.

Da diversi anni l’“oblio della Resistenza” ricorre con insistente puntualità in articoli, pubblicazioni e discorsi accademici. Non è certo un vezzo professorale. Per accorgersene, è sufficiente prestare un po’ d’attenzione e osservare tutte le “memorie di pietra” – dai cippi alle lapidi, dalle targhe ai monumenti – dedicate agli anni ’43-45 da enti locali e associazioni, chi ricordano e in quali anni sono state inaugurate. Non è la rarefazione delle nuove testimonianze a saltare all’occhio, quanto piuttosto un cambiamento dei temi e delle modalità espressive: a essere ricordate – con pietre a inciampo o targhe contenute, scarsamente osservabili dall’occhio distratto del cittadino o del visitatore occasionale – sono soprattutto le vittime del conflitto, che siano per i bombardamenti o per le retate naziste. I monumenti, più costosi e maggiormente suscettibili, con la loro stazza, di cambiare il paesaggio cittadino, sono poco presenti nelle nuove politiche della memoria; ugualmente rare sembrano anche le testimonianze a favore di chi attivamente contribuì alla guerra.

Questa consapevolezza apre la strada a ulteriori considerazioni su come guerra e resistenza siano differentemente commemorate e recepite. Non abbiamo guerre sul nostro suolo da più di settant’anni, è vero. Ma chi non sa cosa sia una guerra? Chi non ha letto o guardato un reportage sulle innumerevoli tragedie belliche che ancora si consumano nei più disparati angoli del pianeta? La guerra, nonostante tutto, fa ancora parte del nostro orizzonte mentale e culturale. E la Resistenza, invece? È questo, indubbiamente, un concetto molto più difficile da assumere e da collocare nei nostri schemi mentali, soprattutto da quando, come ha giustamente notato Ersilia Perona, l’89 e la fine del comunismo hanno rivoluzionato i nostre prospettive. Spesso, per incardinarla nella narrazione politica italiana, la Resistenza è stata accostata al Risorgimento fino a farne un “secondo Risorgimento”, come ricorda Aldo Agosti nel volume Resistenza e autobiografia di una nazione: un paragone che alla Resistenza, soprattutto in questi ultimi anni di contestazione e revisione del processo di costruzione nazionale, non ha certo portato fortuna.

È tuttavia indubbio che un’efficace divulgazione della Resistenza e dei suoi valori debba incardinarsi sulle tematiche dell’oggi. Deve sapersi indirizzare alle inquietudini e alle problematiche contemporanee coinvolgendo, e coinvolgendo emotivamente, visitatori e fruitori, fino a renderli parte viva e attiva del reperimento e della costituzione della mostra. È certamente un processo rischioso e denso di pericoli, come è stato giustamente notato nel corso della conferenza: ma, se diretto e controllato passo per passo da storici ed esperti, può garantire, a mio avviso, un apprendimento più radicato e duraturo. In questa prospettiva si sono mossi in questi anni gli Istituti della Resistenza e dell’età contemporanea in Toscani con progetti che, in particolare a partire dal 70° della Liberazione, hanno conseguito significativi risultati di divulgazione scientifica e partecipazione di pubblico: dall’esposizione “Firenze in guerra” curata dall’Istituto storico della Resistenza in Toscana al “La Storia in soffitta” dell’Istituto lucchese, dal progetto “Cantieri della memoria” realizzato dall’Istituto grossetano alla mostra diffusa “Cupe vampe” allestita dall’Istituto di Pistoia per ricordare  il bombardamento dell’ottobre 1943 fino a quella sugli “Ebrei in Toscana” curata dall’Istoreco livornese.

Bisogna innanzitutto puntare al significato di scelta che per molti significò la partecipazione alla Resistenza – sia che vi avessero aderito in modo attivo combattendo nelle formazioni partigiane oppure che, con il sostegno dalle retrovie, avessero assicurato ai combattenti vitto, equipaggiamento e materiale. Non un mero tornaconto personale, ma un fine collettivo ne animò l’azione: quello di poter vivere in una società più giusta e democratica. È un significato che dobbiamo recuperare, perché sottende quella cura dell’altro e del bene pubblico che è alla base del moderno concetto di cittadinanza e che, oggi più che mai, latita. Quel che dobbiamo ricordare con le nostre esposizioni e le nostre mostre, e che ha valore tanto oggi quanto settant’anni fa, è che solo quando si ritiene il benessere della collettività la necessaria condizione per far avverare anche il proprio che si realizza una società giusta e democratica.

Chiara Martinelli ha conseguito il dottorato in storia contemporanea all’Università di Firenze nel 2015. Dal 2013 ricopre la carica di consigliere nel consiglio direttivo dell’Istituto storico della Resistenza di Pistoia, con cui collabora dal 2007. E’ autrice di diverse pubblicazioni sulla storia della scuola, tra cui:  Schools for workers? Industrial and artistic industrial institutes in Italy (1861-1914); in E. Berner and P. Gonon (edd. by), History of Education and Training in Europe: Cases and concepts, Lang, 2016; Branding technical institutes in Italy (1861-1913), in A. Heikkinen and L. Lassnigg (edd. by), Myths and Brands in Vocational Education, Cambridge, 2015; Esigenze locali, suggestioni europee: le scuole industriali e d’arte applicata all’industria in Italia (1861-1886), “Passato e presente”, XXXII (2014); Lo sguardo ambivalente sulla tradizione nei quaderni di scuola durante il periodo fascista: Pistoia 1929, “Società e storia”, 137 (2012).

Articolo pubblicato nel giugno del 2017.




La Resistenza in un piccolo comune pistoiese: Lamporecchio

L’inizio dell’attività partigiana e della Resistenza armata in provincia di Pistoia deve essere collocato poco dopo l’inizio dell’occupazione nazista nel settembre 1943, quando le prime squadre sorsero sulle montagne pistoiesi, nelle aree collinari e nella zona valdinievolina. Erano formate da soldati sbandati, renitenti alla leva, uomini di altre nazionalità fuggiti dalla Wehrmacht, donne e antifascisti.

Nell’accezione più ampia del termine, la Resistenza è un fenomeno complesso che coinvolse, a vari livelli, un’ampia maggioranza della nazione e tutti gli strati sociali della popolazione: dal fornire cibo e alloggio a un estraneo, che sia un partigiano o un soldato sbandato, al rivelare informazioni a un “bandito” o agli alleati; dall’ascoltare Radio Londra al non presentarsi alla leva obbligatoria; dal combattere attivamente i tedeschi all’effettuare sabotaggi.

In Toscana il 9 ottobre 1943 fu costituito il Comitato Toscano di Liberazione Nazionale (CTLN), erede dei comitati interpartiti e dei fronti antifascisti già attivi durante il ventennio fascista. La resistenza pistoiese s’inserisce nel quadro di quella toscana: in parte ebbe origini autoctone e in parte fu promossa, coordinata e supportata dall’esterno e dai partiti. Militarmente fu suddivisa in due zone: undicesima e dodicesima.

A Lamporecchio, l’unica formazione costituita fu la “Squadra di Azione Patriottica” (S.A.P.), chiamata anche “Lamporecchio”, di ispirazione profondamente comunista. Nel comune operarono sporadicamente anche le formazioni “Comunista n. 1”, “Ribelli del Montalbano” e “Silvano Fedi” di Pistoia.

La S.A.P., guidata dal comunista Giovanni Calugi, aveva sede presso la Cisterna di Montefiori, situata sulle colline, svolse la sua attività sul Montalbano e operò nei comuni di Lamporecchio, Larciano, Vinci, Serravalle Pistoiese. La sua forza raggiungeva e superava la cinquantina di uomini, specialmente quando venivano effettuate azioni e si aggregavano vari patrioti; la squadra sostenne dieci scontri a fuoco e inflisse ai tedeschi 4 morti, 13 feriti e 8 prigionieri. Due partigiani morirono, tre restarono feriti; un russo che si trovava nella formazione da due mesi, chiamato Ivan, rimase ucciso da una raffica di mitra durante uno scontro il 12 agosto 1944 e venne sepolto al cimitero di Larciano; Leonetto Neri, residente in Cerbaia, fu ferito in uno scontro il 2 settembre e morì dopo qualche settimana all’ospedale di Siena; Enzo Verdiani, residente a San Baronto, fu ferito a una gamba da una pallottola di mitra il 28 luglio; Ivo Ancillotti, residente in Cerbaia, fu ferito a una mano da una pallottola di mitra; Osvaldo Desideri, residente a Larciano, rimase ferito in seguito allo scoppio del proprio fucile il 12 agosto.

La formazione lamporecchiana, oltre agli scontri a fuoco, si occupò della raccolta delle armi, del servizio informazioni, dei sabotaggi e di aiuto nei confronti dei fuggiaschi e della popolazione. Fu continuamente in contatto con la brigata “Bozzi” con la quale effettuò alcune azioni sulla montagna pistoiese. Un personaggio di spicco della formazione fu Giovanni Frediani con ruoli di comando, di collegamento con altre formazioni e di rifornimento alimentare.

La squadra “Comunista n. 1” si scontrò il 2 e il 4 agosto con pattuglie tedesche nella zona di Lamporecchio; la “Silvano Fedi” di Pistoia effettuò alcune azioni di sabotaggio presso San Baronto il 15 agosto; i “Ribelli del Montalbano” sostennero combattimenti armati il 4 e il 5 settembre lungo la strada che da San Baronto conduce a Casalguidi e obbligarono i repubblichini a ricostruire le vie e i ponti distrutti.

Lamporecchio venne liberata dall’occupazione nazifascista dopo circa un anno, esattamente il 2 settembre 1944. La liberazione ricalcava in molte zone lo stesso schema. Può essere applicato in maniera appropriata al caso lamporecchiano e a quello di parte della provincia pistoiese: i tedeschi scappavano dal territorio e arretravano verso nord, gli angloamericani prendevano contatto con le formazioni partigiane e avanzavano prudentemente, i partigiani assumevano il possesso della città, infine gli angloamericani arrivavano definitivamente e imponevano il proprio controllo sul paese.

Gli alleati a fine agosto si avvicinarono a Pistoia da sud e gli inglesi presero contatto il 1° settembre con le formazioni partigiane valdinievoline.

La formazione partigiana S.A.P. di Lamporecchio partecipò attivamente alla liberazione insieme alla banda Silvano Fedi di Pistoia, comandata da Enzo Capecchi e Artese Benesperi. Giunta la notizia che gli alleati avevano attraversato il fiume Arno, la squadra si divise in varie pattuglie per “rastrellare la zona”. Il paese fu occupato dopo vari scontri a fuoco: il primo avvenuto in Cerbaia e costato la vita a Leonetto Neri, il secondo nei pressi di Lamporecchio, il terzo nella località Giugnano, il quarto nella frazione Vaccareccia.

Quel giorno vennero catturati alcuni nazisti e consegnati agli inglesi, i primi ad arrivare in paese. Successivamente, il 3 settembre, la formazione partecipò alla liberazione di San Baronto, seguita da quella di Pistoia, occupata l’8 settembre in collaborazione con le altre squadre partigiane della provincia.

I partigiani residenti e riconosciuti in città furono 35; i patrioti, invece, 31.

Fu fondamentale la presenza di numerose donne all’interno della Resistenza, anche lamporecchiane, come possiamo intuire dalla relazione sull’attività svolta dai gruppi di “Difesa della Donna” nella provincia di Pistoia: “Tutte le organizzate hanno prestato la loro opera con fede e costanza, senza avvertire la stanchezza e rifiutando la paura, viaggiando attraverso i posti di blocco tedeschi, soggette a perquisizioni e requisizioni. Hanno continuato la loro lotta contro i nazi-fascisti, adoperandosi a seguirne i movimenti, ad ostacolare le loro opere di rastrellamento, fiduciose che i loro sacrifici sarebbero stati coronati dalla vittoria completa”.

Il giorno dopo la liberazione, il 3 settembre 1944, il CLN si riunì nell’ufficio comunale del paese: i componenti progettarono un piano di attività basato sulla collaborazione di tutti e destinato esclusivamente al bene della collettività; vennero anche salutate le truppe di liberazione dell’esercito alleato che, per mezzo di cinque rappresentanti, assistettero all’assemblea.

Il 6 settembre, su richiesta angloamericana, fu nominata la giunta comunale che si sarebbe riunita per la prima volta l’11 settembre alle 9.30. La giunta a sua volta nominò Foscolo Maccioni, già presidente del CLN, come primo sindaco di Lamporecchio dopo la liberazione.

Decine di cittadini lamporecchiani continuarono la lotta di liberazione, arruolandosi nei Gruppi di Combattimento (Legnano, Folgore, Cremona, Friuli, Mantova e Piceno.) e affiancando le truppe alleate durante la risalita nel nord Italia. Furono circa 500 i pistoiesi partiti da piazza del Duomo il 16 febbraio 1945: ex militari, ex partigiani, semplici cittadini che desideravano dare il loro contribuito alla liberazione del resto d’Italia, avvenuta ufficialmente nell’aprile 1945.

Matteo Grasso, laureato in storia contemporanea con una tesi sull’occupazione nazifascista di Monsummano terme, è direttore dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia. Svolge attività di ricerca archivistica, orale e bibliografica finalizzata all’approfondimento locale e nazionale di particolari momenti del Novecento e lavora presso l’Associazione Culturale Orizzonti di Lamporecchio che diffonde il mensile Orizzonti. In precedenza ha svolto un tirocinio annuale per la valorizzazione culturale di Villa La Quiete a Firenze. Fra le pubblicazioni ricordiamo: “Giovanni Fattori. Lettere di un montalese dal lager nazista” (2017); “Sulle tracce della memoria. Percorsi pistoiesi nei luoghi della guerra” (2015); “Guerra e Resistenza. Vicende partigiane per uno della «Bozzi», la storia personale di Doriano Monfardini” (2014).

Articolo pubblicato nel giugno del 2017.




Grosseto e l’acquedotto delle Arbure tra abbondanza e scarsità d’acqua

Grosseto è una città giovane. Infatti, nonostante lo status di civitas ricevuto nel 1138, fino all’Ottocento rimane un piccolo borgo all’interno delle proprie mura cittadine, assediato esternamente dalle paludi e dalla malaria, caratterizzato da una bassa densità abitativa e da un minimo sviluppo sociale ed economico. Del resto anche Gian Franco Elia parla di Grosseto come di una “città malgrado” perché «sorge in un’area priva dei requisiti essenziali per divenire città»; perché «nel suo primo millennio, non ha un’organizzazione politica espressa in qualche modo dalla popolazione e manca di quella autonomia che (…) costituisce condizione indispensabile per lo sviluppo della civilizzazione urbana in Italia» ed infine perché «nello stesso periodo, la perimentazione della città è rigorosamente definita dalla sua cerchia muraria ed accoglie una popolazione assai ridotta»(1).

È con la fine dell’Ottocento che la situazione inizia a cambiare, quando Grosseto acquista una dimensione demografica di vera città e soprattutto nella pianura maremmana si avvia quel lungo processo di bonifica che porterà alla messa in sicurezza idrogeologica e al debellamento della malaria. L’acqua paludosa è un tratto distintivo nella storia del territorio, la sua presenza ne ha frenato lo sviluppo, creando condizioni igienico-sanitarie precarie per la popolazione, mentre la bonifica ne ha assicurato la crescita economica e sociale.

È possibile capire la storia di Grosseto e il suo percorso per diventare città attraverso il racconto dell’acqua. Se è vero che nell’immaginario collettivo è legata alla terra e all’agricoltura, la costituzione dell’identità maremmana è legata a doppio filo al ruolo dell’acqua, non solo per la vicinanza al fiume Ombrone, spesso protagonista di tragiche alluvioni, ma soprattutto per il legame forte con il padule circostante.

Anche l’andamento demografico è il frutto del rapporto tra la città e l’acqua; il breve aumento e poi la stabilizzazione della popolazione tra il 1861 e il 1881 racconta la prosecuzione della bonifica, la progressiva lotta alla malaria, la regimentazione delle acque e la costruzione dell’acquedotto. Furono queste le condizioni che migliorarono lo stato delle cose sul versante igienico-sanitario della città.

È necessario quindi tenere ben presenti queste variabili esplicative: poca popolazione, abbondanza di acque paludose e presenza della malaria.

Il rapporto della città con le acque, declinato nell’abbondanza e nella scarsità, ci rivela la situazione assai complicata di un luogo che fatica a crescere e a trovare la propria via per lo sviluppo economico e sociale. Senza questo elemento, diventerebbe incomprensibile, infatti, la scelta del regime fascista di investire le proprie energie nella costruzione del nuovo acquedotto e diventerebbero di difficile comprensione le ragioni che portarono i fascisti grossetani ad usare in maniera propagandistica l’elemento dell’acqua quale simbolo della redenzione di un’intera terra. Una redenzione che nel discorso pubblico fascista risolveva i problemi atavici della Maremma e poneva fine alla lunga guerra delle acque.

In questa prospettiva, il primo problema da affrontare per Grosseto fu dunque quello della sovrabbondanza d’acqua delle zone paludose. Queste, fin da epoche remote avevano invaso la pianura maremmana e diffuso la malaria. Davanti a quella sterminata pianura abbandonata e in parte occupata da zone umide, la Repubblica di Siena, una volta preso il possesso di quella terra, non vide altro che pascolo, luoghi di transumanza e di campi aperti. La situazione non cambiò neppure con i Medici che seguirono ai senesi, e che, pur cercando di risolvere i problemi idraulici di quella terra, ne lasciarono invariati il paesaggio e l‘economia. La prima vera svolta si ebbe con i Lorena, i Granduchi di Toscana, primi governanti a prendersi cura con devozione delle sorti della Maremma. In realtà, il primo che se ne prese cura fu Sallustio Bandini, arcidiacono senese. Nel suo famoso Discorso sopra la Maremma di Siena del 1737 non la vedeva solo come terra di sfruttamento e di pascolo ma come area dove il libero mercato e l’indipendenza amministrativa avrebbero potuto fare da volano per lo sviluppo sociale ed economico. Da quelle idee rivoluzionarie si innescarono le azioni di governo dei Lorena, che grazie alle opere idrauliche di Ximenes e di Fossombroni riuscirono a bonificare la pianura maremmana.

Il 1828 è un anno cruciale nella storia della Maremma; Leopoldo II, dopo aver emanato un importante motuproprio, dette inizio a novembre alla bonifica per colmata, architettata da Fossombroni; è la svolta nella storia di questa terra, l’atto di fondazione della Maremma moderna e l’inizio di quel lungo viaggio che portò al bonificamento e alla modernizzazione. Se le idee e la lungimiranza dei sovrani lorenesi e dei loro consiglieri (tecnici e politici) dettero un impulso fondamentale, il cammino vide progressi e regressi, non fu lineare ma lento e travagliato, tanto che solo dopo un trentennio i lavori potevano dirsi conclusi. La bonifica generale della Maremma aveva creato circa 9000 ettari di pianura, nuova terra vergine per l’agricoltura. Grazie a quella gigantesca opera si erano create le condizioni minime per un’adeguata produzione di grano, che avrebbe potuto far progredire e sviluppare quella terra.

È in questo periodo che nasce, o meglio rinasce, la città di Grosseto; se il problema della sovrabbondanza dell’acqua paludosa era in parte risolto, rimaneva da affrontare quello della scarsità di acqua potabile. Una vera città aveva bisogno di un acquedotto e Grosseto non ne aveva mai avuto uno. Il primo costruito fu quello del Maiano nel 1872, che però fin dal principio si dimostrò insufficiente a garantire le esigenze della città: portava in maniera discontinua pochissima acqua e solo in alcune fontane pubbliche cittadine; con una portata di soli 5 litri al secondo e le tubature in cotto non garantiva un servizio continuato, soprattutto d’estate.

Con il crescere della popolazione la situazione del sistema idrico cittadino appariva sempre più carente; era necessario migliorare le condizioni igienico-sanitarie della popolazione presente, sopratutto per combattere la diffusione della malaria. In quegli anni, infatti, il processo di bonifica non era ancora terminato e nella pianura grossetana imperversava questa malattia, con dei picchi gravissimi in estate. Era per questa ragione che era stata istituita l’estatatura, quella pratica che prevedeva, nel periodo più pericoloso per la diffusione del morbo, lo spostamento degli uffici pubblici dalla città alla collina, principalmente a Scansano. E’ chiaro che una città falcidiata dalla malaria e priva per molti mesi all’anno delle funzioni pubbliche non poteva sperare in un futuro di espansione e progresso. La strada per un futuro moderno e rigoglioso passava da un nuovo acquedotto capace di garantire migliori condizioni igienico-sanitarie della città. Per realizzare quest’opera modernizzatrice fu necessario cercare l’acqua molto lontano dalla città: nacque così il primo vero acquedotto di Grosseto, un sistema di tubazioni sicuro che trasportava l’acqua dalle fonti delle Arbure sul Monte Amiata verso la città.

Il primo acquedotto delle Arbure fu inaugurato a Grosseto l’11 giugno 1896. Fu frutto di un lungo processo di miglioramento e di modernizzazione, non episodio marginale, ma tappa del percorso che Grosseto e la Maremma vissero dal tempo dei Lorena fino al fascismo; sarebbe infatti riduttivo osservarne la costruzione senza il contesto di lungo periodo e apparirebbe opera di poca importanza se slegata dalla lunga e difficile guerra delle acque. Purtroppo, anche questo acquedotto dopo alcuni anni si rivelò non adeguato alle esigenze demografiche di una città in progressiva espansione. La situazione andò peggiorando fino a manifestarsi come una vera e propria crisi nel primo dopoguerra. Se per l’epoca era «largamente sufficiente ai bisogni di Grosseto, tanto che nel principio quasi la metà della totale portata giornaliera dell’acquedotto veniva concessa al Comune pel rifornimento della stazione ferroviaria e del deposito d’allevamento cavalli»(2), negli anni successivi si rivelò insufficiente. Mentre diminuiva il flusso idrico la popolazione della città cresceva e con essa aumentavano le esigenze igienico-sanitarie, tanto che negli anni Venti la portata bastava solo «per uso potabile ed [era] del tutto manchevole per i servizi di igiene e per ogni altra esigenza cittadina» (3).

L’aumento demografico e un progressivo deterioramento della struttura resero l’acquedotto antiquato e poco utile alla città; è così che a partire dal primo decennio del Novecento le amministrazioni comunali che si susseguirono a Grosseto iniziarono a pensarne e a progettarne uno nuovo. Nel 1914 l’ingegner Ulivieri propose di ristrutturare il tracciato esistente e di raddoppiarne la condotta adduttrice per aumentare la dotazione idrica dell’acquedotto di 60 litri al secondo ma lo scoppio del primo conflitto mondiale ne bloccò la realizzazione.

Nel primo dopoguerra dunque la situazione igienico-sanitaria della città divenne insostenibile tanto da costringere l’Amministrazione comunale a una rapida soluzione, partendo proprio dalle riflessioni dell’ingegner Ulivieri che aveva fatto un quadro ben chiaro sull’inadeguatezza dell’acquedotto:

«non potevasi d’altra parte prevedere che la città ed il contado maremmano si fossero quasi improvvisamente destati da un letargo millenario e si fossero quasi improvvisamente destati da un letargo millenario e si fossero sviluppati in modo da moltiplicare a tal punto le esigenze ed i bisogni fin quasi al livello dei grandi centri; e che lo sviluppo grandissimo dell’igiene, il concetto più umanitario per il trattamento dell’operaio del vasto latifondo, non del tutto scomparso e del colono che gradualmente ad esso si sostituisce e gli impianti per i pubblici servizi sorti di un tratto e sviluppati per l’improvviso addensarsi della popolazione, avrebbero richiesto soprattutto acqua, acqua purissima in abbondanza, senza la quale non è possibile ingaggiare alcuna lotta contro le infezioni malariche, non è possibile alimentare le conquiste in vantaggio della salute pubblica» (4).

Intorno agli anni Venti il Comune di Grosseto scelse una soluzione drastica: invece di continuare ad adeguare il tracciato del vecchio acquedotto propose di costruirne uno nuovo. La svolta nella storia dell’acquedotto grossetano avvenne nel periodo dell’ascesa del fascismo, una fase che qui come altrove si caratterizzò per episodi di violenze e brutalità.

Il 9 agosto 1923 fu deliberato dal Consiglio Comunale un nuovo studio per poter capire se fosse possibile progettare un nuovo acquedotto; era quindi necessario «affidare ad un ingegnere idraulico specialista lo studio e presentazione di uno studio definito di derivazione in città delle acque delle sorgenti comunali delle Arbure e Bugnano per una quantità di circa litri 75 al minuto secondo» (5). Il sindaco durante quel consiglio sottolineò come «le condizioni dell’acquedotto si [facessero] ogni anno più critiche per il progressivo aumento delle esigenze del servizio e per nuovi inconvenienti che si [manifestavano] fra cui quello recentemente osservato della corrosione dell’esterno di alcuni tratti di tubazione rimasta gravemente danneggiata». Aggiunse poi: «il problema dell’acquedotto si dibatte da circa un decennio tanto che fu concretato un progetto prima del 1915, progetto che non poté avere attuazione per ragioni varie e per il sopraggiungere della guerra» e per questo concluse affermando quanto fosse «urgente la necessità di riprendere in esame questo importantissimo problema e di risolvere il più rapidamente possibile perché il disagio della popolazione possa eliminarsi quanto prima» (6).

Lavori del grande serbatoio del Grancia. Visita sindacati fascisti

Lavori del grande serbatoio del Grancia. Visita sindacati fascisti

Il progetto fu affidato il 14 novembre a Luciano Conti, ingegnere capo del Genio Civile e della provincia di Grosseto. Fin da quel primo progetto si capì che il nuovo acquedotto sarebbe stato totalmente diverso da quello del 1896, più moderno e soprattutto adeguato alle esigenze igienico-sanitarie di una città in rapida espansione. L’ingegnere sottolineò il fatto che l’acquedotto avrebbe dovuto avere un uso domestico, avrebbe dovuto servire le fontane pubbliche e tutti quei servizi di pubblica utilità che avevano bisogno dell’acqua corrente ma soprattutto avrebbe dovuto essere destinato agli usi industriali e agricoli del territorio comunale. Il nuovo acquedotto aveva quindi bisogno di una grossa portata e di una struttura idrica sicura e capace di servire adeguatamente e senza interruzione le molte e varie esigenze della cittadinanza.

Era chiaro che le sole acque delle Arbure non bastavano più; si decise allora di convogliare anche quelle del Bugnano, oltre ad altre piccole polle d’acqua. Il progetto dell’ing. Conti fu approvato dal Comune il 22 dicembre 1924 e oltre alle nuove fonti proponeva anche la costruzione di un grande serbatoio terminale posto nei pressi della Grancia di Alberese, che avrebbe garantito un servizio continuativo e sicuro. I lavori furono affidati alla Ditta Del Fante; dopo alcuni problemi economici, ritardi nella consegna dei lavori e alcuni piccoli scandali il nuovo tracciato dell’acquedotto fu completato.

Ponte sulle Trasubbie in costruzione. Foto con maestranze e tecnici

Ponte sulle Trasubbie in costruzione. Foto con maestranze e tecnici

Figura fondamentale nella costruzione di questa grande opera fu Aldo Scaramucci, podestà e figura ambigua del fascismo locale; fu lui che costruì l’acquedotto grazie dell’Onorevole Pierazzi, che riuscì ad ottenere i mutui necessari alla costruzione. Il 13 novembre 1932 a Grosseto Re Vittorio Emanuele III, alla presenza di tutti i gerarchi fascisti della provincia, inaugurò davanti al nuovo palazzo delle Poste il nuovo acquedotto cittadino. Due inaugurazioni solenni e retoriche che il regime, in quel momento, stava usando per far passare un chiaro messaggio propagandistico: il fascismo grossetano si presentava come unico movimento politico ad essere riuscito, primo tra tutti, a portare l’acqua in città ma soprattutto a portare Grosseto nell’era moderna.

Il nuovo acquedotto simboleggiava la fine dei problemi inerenti alla scarsità di acqua potabile e richiamava la guerra delle acque che il fascismo stava concludendo con la bonifica integrale. La scelta di inaugurarlo davanti al palazzo delle Poste era un altro chiaro segno propagandistico. Il palazzo, infatti, realizzato dal famoso architetto Angiolo Mazzoni, non solo sarebbe dovuto diventare il nuovo centro nevralgico della città ma attraverso il linguaggio architettonico avrebbe dovuto simboleggiare l’imponenza del regime. La stessa destinazione d’uso di palazzo Mazzoni era coerente con l’idea di profondo rinnovamento della città: gli uffici delle Poste e delle Comunicazioni erano un tipico simbolo della modernità, che il regime seppe usare e sfruttare a proprio favore. Il centro della nuova Grosseto, quindi, appariva moderno grazie a questi tre elementi di valore simbolico: il potere, la comunicazione e l’acqua.

È in questo senso che vanno lette le parole, piene di toni propagandistici, del podestà Scaramucci, durante l’inaugurazione:

«Abbiamo trovato la Maremma abbandonata e intristita. In questa terra tre sole cose erano permesse: pagare le tasse, contare i malarici che venivano ricoverati all’ospedale e dare ospitalità ai briganti che la legge, qui, lasciava impuniti. Il popolo maremmano ha già visto e vede ogni giorno le opere che portano il segno del Littorio: decine e decine di Km di strade, edifici pubblici, acquedotti, scuole, ponti ricostruiti sulla via dell’Impero, migliaia di ettari strappati dal lavoro umano e dalla saggezza fascista al danno e alla vergogna della palude. (…) Quando tutte le opere in programma saranno compiute e la Legge sulla Maremma avrà avuto la sua piena attuazione il nostro sogno sarà un’irrevocabile realtà» (7).

Al di là dei toni propagandistici, in effetti nessuno dei tentativi di prosciugamento delle zone paludose era riuscito in maniera definitiva a risanare e a recuperare la Maremma. Fino agli anni Trenta del Novecento, la natura era sempre riuscita ad avere la meglio sulle opere artificiali. La cosiddetta “bonifica integrale” tentò di creare le condizioni per rendere irreversibili prosciugamento e risanamento dell’ambiente. Questi furono accompagnati da massicce opere su tutto il bacino idrologico della pianura: dal miglioramento della viabilità, alle politiche utili a favorire migrazioni per il popolamento delle campagne. Causa ed effetto di questo processo fu l’aumento del fabbisogno idrico sia in città che in campagna. Sarebbe incomprensibile, senza questo sguardo d’insieme, capire la grande opera che ebbe il suo completamento con una scenografica inaugurazione nella piazza completamente trasformata dalla modernissima architettura del palazzo delle Poste. L’investimento in denaro per lavori di bonifica e miglioramento rispetto al periodo compreso tra il 1930 e il 1940 fu maggiore proprio negli anni delle opere necessarie alla costruzione del grande acquedotto.

Le autorità presenziano all'inaugurazione del nuovo acquedotto

Le autorità presenziano all’inaugurazione del nuovo acquedotto

Un aspetto non marginale è inoltre l’effetto che l’acquedotto ebbe sull’economia locale. Gli ultimi anni Venti erano stati di crisi, una crisi globale, con l’effetto di un forte calo dell’occupazione. Le opere pubbliche programmate e poi realizzate, tra la lunga e complessa conduzione delle acque dall’Amiata alla pianura, contribuirono a limitare la disoccupazione in Maremma. Il 1932 è infatti l’anno in cui raggiunse il suo livello più alto l’impiego di manodopera in opere pubbliche.

Per il regime fascista la costruzione dell’acquedotto ebbe dunque una duplice valenza di utilità pubblica, sia per soddisfare un bisogno sociale primario, sia nel migliorare l’economia locale; ma si colloca anche a buon diritto tra le politiche del regime finalizzate alla propaganda politica. Nel caso grossetano possiamo osservare un fenomeno interessante: centro e periferia sembrano viaggiare in piena sintonia nella ricerca del consenso. Il fascismo, fin dai primi anni, promosse la costruzione di opere introducendo uno strettissimo rapporto tra politica e architettura: questa, infatti, divenne «uno strumento di governo, attraverso cui ottenere il consenso delle masse. Gli edifici pubblici realizzati vengono identificati come architettura del fascismo, costruite dal regime per il popolo. Tutto ciò che viene costruito espone sempre e con evidenza le insegne del fascio»(8). Il fascismo si identifica con le opere pubbliche, che a loro volta diventano simboli tangibili della modernità e del progresso del regime; del resto l’architettura ha il compito di costruire simboli chiari che tutti possano capire: «il monumento architettonico ha la capacità di trasmettere significati in grado di raggiungere tutta una comunità, la quale in esso poi si viene a riconoscere» (9). Con una semplificazione, si può istituire un parallelo con una delle fasi storiche che hanno trasformato le città – l’età medioevale – quando le cattedrali e le opere che custodivano avevano anche il fine di evangelizzare il popolo. Il fascismo usò l’architettura e più in generale le opere pubbliche per creare consenso e fascistizzare le masse. Il nuovo acquedotto di Grosseto non era un’opera architettonica che poteva essere ammirata e neppure un monumento, ma faceva comunque parte di questo contesto sinergico tra opere pubbliche e propaganda.

Dopo l’inaugurazione del 1932 l’acquedotto continuò a servire d’acqua potabile la città di Grosseto, anche se rimasero ritardi nella prosecuzioni degli altri tronchi, emersero problemi di liquidità e si verificarono altre complicazioni con le ditte appaltatrici. La pur faticosa fine della costruzione dell’acquedotto delle Arbure si connotò in realtà come un nuovo inizio; nel 1938 il regime annunciò la costruzione di una nuova opera che avrebbe portato l’acqua a tutta la Maremma: l’acquedotto del Fiora.

  1. Gian Franco Elia, Città malgrado, 2002.
  2. ASGr, Comune di Grosseto, nuovo deposito, XV, b, 16, Corpo Reale del Genio Civile, Ufficio di Grosseto, “Progetto di massima del nuovo acquedotto”, 29 luglio 1925.
  3. Ibidem.
  4. ASGr, Comune di Grosseto, nuovo deposito, XV, b, 16, Progetto Ulivieri per il nuovo acquedotto, 28 dicembre 1914.
  5. ASG, Comune di Grosseto, nuovo deposito, XV, b, 16, Delibera del Comune di Grosseto, 9 agosto 1923, numero 163.
  6. Ibidem.
  7. “La Maremma”, 19 novembre 1932.
  8. Paolo Nicoloso, Mussolini architetto. Propaganda e paesaggio urbano nell’Italia fascista, 2008.
  9. “La Maremma”, 19 novembre 1932.

Articolo pubblicato nell’aprile del 2017.




Squadrismo toscano in Dalmazia

Se solo negli ultimi anni il mito del “bono ‘taliano” ha iniziato lentamente ad essere scalfito da una storiografia sempre più attenta allo scacchiere balcanico, molto resta ancora da fare per conoscere e comprendere appieno la particolare «guerra ai civili» condotta dalle truppe italiane nei territori orientali, occupati all’indomani dello smembramento della Jugoslavia nel 1941.
Da queste pagine di storia per troppo tempo rimosse emergono anche vicende locali che possono aiutarci a far luce su un’occupazione ben presto contraddistinta da una tenace resistenza armata affrontata con forme repressive sempre più estreme.
L’eruzione di un fenomeno partigiano dalla chiara matrice comunista fu infatti occasione, per le autorità fasciste nazionali e locali, per spingere verso la formazione di veri e propri reparti organici di squadristi, nella convinzione che l’esperienza maturata negli anni delle “squadre” potesse ora rivelarsi preziosa per affrontare il fenomeno comunista riaffacciatosi nei territori annessi al di là dell’Adriatico.

Tra il 1941 e il 1942 vedevano quindi la luce 6 battaglioni squadristi organizzati dalla Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, uno dei quali sorto proprio nella «fascistissima» Toscana; il 20 gennaio 1942 veniva infatti mobilitato il 1° (68°) battaglione squadristi “Toscano”, interamente costituito da volontari accorsi da tutta la regione in numero perfino superiore alle aspettative; allo zoccolo duro dei fascisti della prima ora (stime non verificabili indicavano in circa il 50% i partecipanti alla marcia su Roma), si affiancavano i numerosi reduci delle campagne africane o spagnola, al comando del forlivese, ma fiorentino d’adozione, 1° seniore (tenente colonnello) Pietro Montesi Righetti.
Con un’età media di circa 40 anni, il reparto si componeva di oltre 600 camicie nere, organizzate su 4 compagnie più il comando; accasermata a Montecatini Terme, l’unità completava nei 3 mesi successivi il proprio organico e l’addestramento, lasciando la Toscana il 15 aprile.
Dietro interessamento del Governatore della Dalmazia Giuseppe Bastianini, massima autorità civile nel territorio annesso delle provincie di Zara, Spalato e Cattaro, il “Toscano” raggiungeva il litorale dalmato il 26 aprile, scaglionandosi lungo il settore costiero tra Traù (sede del comando) e Spalato e ponendosi alle dirette dipendenze operative di Bastianini.

"In questi giorni i battaglioni squadristi sono inviati in altri teatri operativi. Hanno avuto numerosi scontri con le bande partigiane e bolsceviche nei Balcani. Ecco un reparto di camicie nere in un angolo dei Balcani, durante una purga [Sipho] 8.VI.1943".

“In questi giorni i battaglioni squadristi sono inviati in altri teatri operativi. Hanno avuto numerosi scontri con le bande partigiane e bolsceviche nei Balcani. Ecco un reparto di camicie nere in un angolo dei Balcani, durante una purga [Sipho] 8.VI.1943”.

Parallelamente all’ordinaria attività di presidio ed ordine pubblico, si scatenava fin dai primi giorni una vera e propria attività squadrista fatta di bastonature, sevizie e perfino omicidi di sospetti fiancheggiatori dei partigiani, condotta con il supporto dei fascisti locali e l’acquiescenza delle autorità civili.
L’incontrollabile violenza di una truppa di per sé particolarmente indisciplinata (e politicizzata) trovava però il suo apice il 12 giugno 1942, assumendo un virulento carattere antisemita: prendendo a pretesto una presunta provocazione da parte di alcuni ebrei, diverse decine di militi del “Toscano” e fascisti della locale Federazione assaltavano la storica sinagoga di Spalato, malmenando i presenti e devastandone locali ed arredi, mentre altre camicie nere saccheggiavano alcuni vicini negozi di proprietari ebrei. Il pogrom spalatino e successivi episodi di minacce verso militari e carabinieri scatenavano infine la dura reazione delle locali autorità militari, già in cattivi rapporti col Governatore Bastianini, costringendo quest’ultimo a ritirare gli squadristi in servizio a Spalato.
Particolarmente cruenta si sarebbe rivelata anche l’attività “ordinaria” del battaglione, spesso affiancata da elementi del Regio Esercito: oltre a fornire elementi per il plotone di esecuzione del Tribunale Speciale della Dalmazia (nella sola giornata del 22 maggio venivano fucilati 26 condannati a morte), il “Toscano” avrebbe condotto nei mesi a seguire numerosi rastrellamenti dell’immediato entroterra spalatino, sempre più minacciato dalla montante attività partigiana: negli scontri verificatisi nel corso dell’estate e la prima metà dell’autunno trovavano la morte alcune decine di partigiani o presunti tali (in un’azione del 28 giugno ne rimanevano 14 sul terreno), in un crescendo di violenze favorito dall’opacizzarsi della distinzione tra partigiani e popolazione civile.
Nella prima metà di novembre iniziava il trasferimento verso Vodice, nella parte meridionale della limitrofa provincia di Zara, area già sconvolta dalle durissime operazioni di rastrellamenti dei mesi precedenti.
Parallelamente alla continua opera di rastrellamento, nel corso delle prime settimane del 1943 lo stesso centro di Vodice veniva trasformato in una sorta di campo di concentramento a cielo aperto, con l’inasprimento di un coprifuoco duramente imposto: numerosi sarebbero stati i civili, tra cui molte donne, sorpresi fuori dal centro abitato e fucilati sul posto dagli squadristi del “Toscano” impegnati nella sorveglianza della zona.
Il 16 maggio il reparto abbandonava definitivamente la Dalmazia, a stretto giro seguito dagli altri battaglioni squadristi a loro volta schierati lungo il litorale dalmato: seppur ridotti in organico ed efficienza, non è da escludere che il rimpatrio fosse in parte dettato dai concomitanti (eppur infruttuosi) tentativi di puntellamento del regime condotti da parte del partito e, soprattutto, della milizia stessa. Truppa certamente fidata e pur sempre dotata di una certa “massa critica”, i 6 battaglioni squadristi trovavano accantonamento in varie sedi dell’Emilia Romagna, col “Toscano” riunito a Vergato, sull’Appennino bolognese.
La defenestrazione di Mussolini coglieva però impreparati i vertici della milizia e l’opera dello stesso Capo di Stato Maggiore Galbiati facilitava un pressoché indolore passaggio di consegne nelle mani di Armellini, generale fedele a Badoglio. Anche i reparti squadristi non opponevano particolare resistenza al cambiamento di regime, avviandosi, in un’atmosfera di smarrimento e rassegnazione, verso la fine della propria esperienza. Nell’impossibilità di disarmare o comunque ridimensionare la milizia, ancora presente in forze in praticamente tutti i teatri bellici, i vertici militari procedettero però a disinnescarne le maggiori criticità: tra i provvedimenti adottati rientrava anche il definitivo scioglimento dei battaglioni «già squadristi», posto in essere attraverso il congedo o il trasferimento dei militi verso altri reparti. Se a fine agosto il “Toscano” cessava di esistere, molte delle sue camicie nere avrebbero dimostrato la propria “coerenza” continuando, nei mesi a seguire, la guerra sotto le insegne della R.S.I.

Lorenzo Pera, laureato in “Storia e Civiltà” presso l’Università di Pisa, si interessa di storia militare della seconda guerra mondiale, con particolare riguardo vero i crimini di guerra compiuti dalle truppe italiane.

Articolo pubblicato nel febbraio del 2017.




Contestazione cattolica: Pistoia 1968

Dopo il Concilio Vaticano II, dal 1965, nacquero in molte città, soprattutto del centro Italia, numerosi gruppi di giovani cattolici che legarono la propria fede ad un impegno attivo nella società e che si trasformarono progressivamente in quello che sarebbe stato il dissenso cattolico. Così avvenne anche a Pistoia.
La contestazione cattolica a Pistoia crebbe all’interno della Gioventù dell’Azione cattolica, con il gruppo del Cineforum, e all’interno delle Acli, con il gruppo del Ventiquattro. Due casi non isolati nella città, ma certamente emblematici di una parabola del dissenso cattolico italiano.
I due gruppi infatti, sebbene diversi per provenienza ed età, condivisero analoghi temi di impegno: la non violenza e l’obiezione di coscienza al servizio militare, la volontà di informarsi ed informare sui problemi dei paesi in via di sviluppo e dei poveri di tutto il mondo. E furono proprio l’attenzione alla povertà, condivisa con una cospicua parte della Chiesa cattolica di quegli anni, e ai paesi del Sud del mondo a spingere molti cattolici su riflessioni vicine a quelle della sinistra. Una parte del mondo cattolico giunse perciò alle contestazioni dell’autunno del ’68 con posizioni molto vicine a quelle della sinistra e dei movimenti studenteschi. Il ’68 tuttavia segnò, se non la fine del dissenso cattolico, sicuramente un anno di svolta.
A Pistoia il 4 ottobre del 1968 alcuni giovani pistoiesi cercarono con la forza di impedire la proiezione del film Berretti verdi, diretto e interpretato da John Wayne, considerato un’apologia del militarismo americano in quegli anni di fortissima opposizione alla guerra degli Stati Uniti nel Vietnam. Un gruppo di ragazzi cercò di impedire l’ingresso del pubblico una prima volta per lo spettacolo pomeridiano; l’impresa riuscì al secondo tentativo, per quello serale. Ai primi sforzi pacifici di boicottare la proiezione, con la diffusione di volantini anti americani e un sit-in di fronte all’ingresso della sala, seguirono atti di violenza contro l’edificio del cinema Lux: furono spaccati alcuni vetri e fu divelta una saracinesca. Fu necessario l’intervento delle forze dell’ordine e il sindaco comunista Corrado Gelli decise di sospendere la proiezione serale. Il quotidiano «La Nazione» riportò ampiamente la notizia titolando: Per i «Berretti verdi» tafferugli al cinema Lux. Gremita la sala alla proiezione pomeridiana i «contestatori» sono tornati all’attacco la sera – Vetri rotti ed un’inferriata divelta – Fortunatamente nessun ferito. Venne aperta un’inchiesta che si concluse con la denuncia di alcuni con l’accusa di adunata sediziosa, oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale, violenza privata e danneggiamento doloso.
EPSON scanner ImageFu un’agitazione a cui parteciparono un migliaio di manifestanti e, sebbene di per sé non troppo originale, può essere assunta come spartiacque nella storia del dissenso cattolico pistoiese. Se infatti fino ad allora tutti i gruppi riconducibili alla contestazione cattolica si erano mantenuti su posizioni analoghe, di fronte ai tafferugli le posizioni si divaricarono irrimediabilmente.

Il gruppo del Ventiquattro partecipò al boicottaggio del film, e insieme a personaggi della sinistra pistoiese non si tirò più indietro negli anni a venire di fronte alle lotte sul territorio, a fianco degli studenti come degli operai. Abbandonò la Chiesa e assunse una nuova fisionomia per poi fondare insieme ad altri, nel ‘69, il gruppo di Lotta Continua a Pistoia.
Il gruppo del Cineforum, forse anche per l’età più adulta, assunse invece un atteggiamento critico di fronte alla contestazione. Avanzò le proprie valutazioni negative sia nei confronti della strumentalizzazione politica da parte di rappresentanti della Dc; sia contro le modalità di manifestazione di fronte al cinema. I dirigenti democristiani che gridarono alla violazione della libertà furono ironicamente invitati a scrivere una lettera agli organi di censura che, senza rompere vetri, impedivano al cittadino di vedere altri film come Teorema di Pasolini o Galileo di Liliana Cavani, entrambi censurati dal governo democristiano in Italia. Mentre agli organizzatori di quella “fetta di rivoluzione” fu contestata la sterilità dei metodi adottati. Secondo il Cineforum quella contro i Berretti verdi era stata infatti: «una rivoluzione anche un po’ comoda perché a “dialogare” con il padrone stavolta c’erano anche alti esponenti del PCI e in fondo una masturbazione collettiva dal godimento fine a se stesso perché, nella ricerca del fine immediato, è stato dimenticato proprio colui che avrebbe dovuto essere stato il beneficiario della dimostrazione; lo spettatore medio […] che avrebbe avuto per una volta l’occasione di guardare il film con occhio critico, se solo una volta la rivoluzione gli avesse offerto uno spunto per una riflessione». Il gruppo del Cineforum dopo il ’68 abbandonò le posizioni contestative per inserirsi nella dialettica istituzionale della città.
Così entrambi i gruppi con il ’68 conclusero la comune esperienza del dissenso cattolico, ma il Cineforum rimase cattolico e moderato, mentre il Ventiquattro abbandonò la Chiesa ed entrò a pieno titolo nella sinistra extraparlamentare pistoiese.

Francesca Perugi ha conseguito la laurea in storia contemporanea all’Università degli Studi di Firenze con la prof.ssa Bocchini Camaiani e ad oggi conduce un dottorato di ricerca all’Università Cattolica di Milano nell’ambito della storia del cristianesimo contemporaneo.
Collabora assiduamente con l’Istituto storico della Resistenza di Pistoia e coltiva un vivo interesse per la storia orale. Tra le sue pubblicazioni citiamo:
“Si può essere buoni cattolici e disubbidire apertamente ai vescovi?” Il mondo cattolico pistoiese di fronte al referendum per l’abrogazione del divorzio, in «Quaderni di Farestoria», dicembre 2014 .

Articolo pubblicato nel febbraio del 2017.




Togliatti e il PCI di fronte ai “fatti d’Ungheria”

Tra l’ottobre e il novembre del 1956 l’Ungheria balzò al centro delle cronache internazionali per la rivolta pacifica della popolazione contro il sistema sovietico. Un evento cruciale che riverberò i suoi effetti nel breve e nel lungo periodo rimodulando, anche in Italia, le coordinate entro le quali si sviluppò la Guerra Fredda e la questione comunista. In occasione dei sessant’anni da quegli avvenimenti l’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea nella provincia di Livorno (Istoreco), ha promosso un convegno dal titolo “Ungheria 1956. Considerazioni inattuali in una cornice di guerra”. L’iniziativa ha avuto luogo giovedì 27 ottobre 2016,  presso la Sala Conferenze dell’Istoreco, Palazzo della Gherardesca. Pubblichiamo qui un’estratto della relazione tenuta in quest’occasione da  Alexander Höbel, assegnista di ricerca presso l’Università di Napoli “Federico II”.

Dopo varie manifestazioni per commemorare Rajk e chiedere il ritorno al potere di Imre Nagy, il 23 ottobre una manifestazione che rivendica l’“indipendenza dell’Ungheria” è seguita da assalti alle sedi della radio e del partito, con le prime vittime da entrambe le parti [Dalos, 37-48]. Alla richiesta di intervento di truppe sovietiche si affianca la nomina a capo del governo di Nagy. Nei suoi Diari, Luciano Barca – allora a capo dell’edizione torinese de “l’Unità” – segnala, oltre al sorgere di “consigli operai”, la presenza “di gruppi di provocatori, veri e propri commandos”, legati alla “vecchia classe agraria” e al clero reazionario [Barca, 156-7].

Il PCI prende posizione con un editoriale di Ingrao – Da una parte della barricata – che esorta a scegliere “tra la difesa della rivoluzione socialista e la controrivoluzione bianca”; poi con un comunicato. Il 27 Nagy forma un governo comprendente anche non comunisti, che ordina il “cessate il fuoco” e annuncia il ritiro delle truppe sovietiche, lo scioglimento della polizia politica e il ritorno della vecchia bandiera. Il 30 è abolito il monopartitismo e si chiede all’URSS “di ritirare tutte le proprie forze armate dall’Ungheria”, ciò su cui il PCUS mostra una cauta disponibilità. I rivoltosi parrebbero aver vinto; solo l’uscita dal Patto di Varsavia – “una richiesta a cui nessun governo ungherese poteva venire incontro” – non è accolta [Dalos, 86-8, 97-101, 107-11].

Tuttavia la rivolta prosegue: un gruppo armato occupa il ministero della Difesa; inizia la “caccia al comunista”. La sede del partito a Budapest è assaltata con artiglieria pesante: vari funzionari vengono linciati o fucilati, e i loro cadaveri appesi agli alberi [Dalos, 76-7, 103-4, 122, 203]. In Italia si verificano aggressioni a sedi del PCI e dell’“Unità”, mentre una lettera di 101 intellettuali chiede “un rinnovamento profondo nel gruppo dirigente del partito” [Ajello, 401-6, 535-8]. “Poli di contestazione” emergono a Roma (la sezione “Italia”, Natoli, Lombardo Radice); Milano (Fortini, Rossanda, Occhetto, l’Istituto Feltrinelli); Torino (la cellula dell’Einaudi). L’intero partito è scosso da una discussione serrata. La CGIL deplora l’intervento sovietico, con un comunicato che indica nei fatti ungheresi “la condanna storica e definitiva di metodi antidemocratici di direzione”; Di Vittorio in persona conferma tale linea.

Il 30, un articolo di Togliatti stigmatizza l’“incomprensibile ritardo dei dirigenti” ungheresi “nel comprendere la necessità di attuare quei mutamenti […] che la situazione esigeva, di correggere errori di sostanza”; ma aggiunge che “alla sommossa armata […] non si può rispondere se non con le armi” [Höbel(b), 127-30]. In Direzione il Segretario afferma che la critica anche aspra va bene, ma non si può legittimare la rivolta armata nei paesi socialisti. Con lui concorda tutto il gruppo dirigente, eccetto Di Vittorio, secondo il quale “l’insurrezione è un fatto storico e dobbiamo trarne le lezioni”. Anche Berlinguer sottolinea che “in Ungheria c’è stata un’esplosione di malcontento popolare e ciò esige di spiegarne le cause”. Per Pajetta “chi non capisce che bisogna dirigere in modo nuovo non può dirigere il movimento operaio”. Da tutti però la rivolta è condannata, e Di Vittorio è aspramente criticato. Conclude Togliatti: “In Ungheria non era in corso una discussione, vi era una sommossa […]. In una simile situazione o si schiaccia la sommossa o si finisce per essere schiacciati” [Righi, 210-40]. Il comunicato riconduce la crisi alla “insufficiente capacità di consolidare le alleanze della classe operaia e il lavoro comune di edificazione socialista con una politica che rispondesse alle strutture sociali, alla storia e alle tradizioni nazionali”: da ciò “un distacco fra lo Stato e le masse” aggravato da “metodi burocratici di direzione”; tuttavia “era dovere sacrosanto […] sbarrare la strada” al ritorno delle forze reazionarie [Höbel(b), 151-61].

Intanto il gruppo dirigente sovietico, anche sotto l’influenza dell’attacco anglo-francese a Suez, si orienta per un secondo intervento [Kramer]. Il 1° novembre Nagy proclama l’uscita dell’Ungheria dal Patto di Varsavia, mentre il cardinale Mindszenty chiede la restituzione delle proprietà della Chiesa. Il 4 il secondo intervento sovietico ha luogo [Dalos, 117-20, 125-8, 135-7].

Per Togliatti, l’alternativa sarebbe stata “l’anarchia e il terrore bianco”. L’ intervento, quindi, è “una dura necessità”, che conferma l’urgenza di correggere gli errori del passato [“l’Unità, 6.11.1956; Bonchio et alii, 97-102]. La difesa delle ragioni dell’iniziativa sovietica procede quindi di pari passo con la critica avviata nell’intervista a “Nuovi Argomenti”.

L’articolazione della posizione del PCI sui “fatti d’Ungheria” è confermata dai colloqui di Parigi tra Velio Spano e una delegazione del PCF in vista di una eventuale posizione comune. La divergenza, però, è netta. Gli italiani imputano gli eventi a due fattori: “i gravi errori compiuti” e la “disgregazione” del Partito ungherese. Ciò ha reso “possibile che una parte delle masse popolari si lasciasse trascinare a un movimento di carattere insurrezionale”, in cui si sono inserite “forze reazionarie e fasciste”. Un emendamento inviato da Togliatti ribadisce che “una correzione degli errori […] avrebbe senza dubbio evitato il movimento popolare che ha portato all’insurrezione, così come un legame più profondo con le masse avrebbe permesso al partito” di evitare quell’appello alle forze sovietiche, che ha prodotto una “esasperazione del sentimento nazionale”. È un’aggiunta non marginale, respinta dai francesi. L’idea di una posizione comune sfuma [Höbel(a)].

La linea dei comunisti italiani è insomma lontana da un allineamento acritico. L’accento è posto in particolare rapporto partito-masse e sulle questioni più generali dell’egemonia, che non a caso saranno rilanciate di lì a poco con l’VIII Congresso, quello della “via italiana al socialismo”.

Articolo pubblicato nel gennaio del 2017.




E scese l’inferno dal cielo

La più grande tragedia di Empoli”, come l’ha definita Libertario Guerrini nella sua storia de “Il movimento operaio nell’Empolese 1861-1946” avviene alle ore 13.00 del 26 dicembre del 1943 quando per la prima volta la città è colpita da un bombardamento aereo alleato che colpisce e devasta i quartieri adiacenti alla stazione ferroviaria ed in particolare il rione delle Cascine, determinando la morte di 120 persone e il ferimento di oltre 200, secondo le prime stime riportate dai vigili del fuoco prontamente accorsi. I danni sono evidenti ed ingenti: 50 abitazioni ed uno stabilimento completamente distrutti, oltre 90 case e 5 fabbriche sinistrate.
Una vera tragedia aggravata non solo dall’effetto sorpresa da parte di una comunità impegnata nel pranzo festivo, e “rassicurata” dal fatto che ben 57 allarmi aerei erano risuonati senza alcuna conseguenza fra il 30 agosto e il 13 novembre precedenti, e dallo “scivolamento” delle bombe dai binari della ferrovia, cui erano dirette, alle zone vicine, ma anche dal fallimento del sistema di difesa e protezione antiaerea. Non è un caso che il Commissario prefettizio che gestisce il Comune nella sua prima relazione al Capo della Provincia (carica che sotto la Repubblica sociale italiana riunifica quelle di Prefetto e di Presidente della Provincia) insista sui danni da attribuire alla ferocia “nemica” e sulla solidarietà immediata che muove gli empolesi e anche le popolazioni dei paesi vicini nel cercare di portare i primi soccorsi e affrontare le emergenze più impellenti (abbattere le parti pericolanti degli edifici, soccorrere i feriti, seppellire i morti per evitare il diffondersi di epidemie), ma non analizzi in alcun modo l’assenza di ogni difesa anti-aerea.
Viene improvvisamente meno l’illusione di essere un piccolo nucleo provinciale che non avrebbe potuto attirare l’attenzione dei potenti stormi angloamericani, rispetto alle grandi città industriali del nord, ma anche ai capoluoghi toscani, come Firenze e Pisa attaccati nei mesi precedenti. Del resto Empoli non era affatto periferica, in quanto importante centro manifatturiero e, soprattutto, fondamentale snodo del sistema ferroviario lungo le direttrici che da Firenze portavano – e portano ancora oggi – al mare e a Roma. E proprio i centri di produzione, le vie di comunicazione delle truppe e delle merci e le reti infrastrutturali erano gli obiettivi primari della guerra aerea.
Anche gli empolesi conoscono e si trovano al centro del conflitto mondiale iniziato dal nazismo nel settembre del ’39, di cui l’Italia fascista era stata attiva protagonista fino ad esserne travolta nell’estate del ’43 con l’invasione angloamericana della Sicilia, la deposizione di Mussolini, l’armistizio dell’8 settembre e l’occupazione nazista della penisola che aveva trasformato la penisola in un tremendo campo di battaglia. E proprio la guerra aerea ne segna ed esprime la dimensione di “guerra totale” capace di colpire ciascuno e tutti (senza distinzioni fra civili e militari, uomini e donne) in ogni momento della giornata, in ogni luogo, fin nelle proprie abitazioni. L’Italia ne era stata fatta oggetto dall’autunno del ’42 a partire dai porti del Mezzogiorno e dalle grandi città industriali del nord.
Ma partire dalla primavera-estate del ’43 la strategia bellica alleata aveva puntato proprio sugli attacchi aerei su tutta la penisola – a partire da Roma – per demolire il morale di una popolazione già fortemente provata che, con gli scioperi del marzo precedente, aveva mostrato il proprio crescente distacco dal regime, così da favorirne la caduta e quindi la resa del Paese. Del resto proprio la tenuta o meno del “fronte interno”, cioè la capacità di una popolazione di resistere alle prove del conflitto sostenendo lo sforzo bellico del proprio governo, è la cartina di tornasole per misurare le sorti delle parti belligeranti. Il venir meno delle promesse della propaganda sulla rapida e vittoriosa fine del conflitto e l’evidente fallimento delle strategie di difesa antiaerea intrecciate con i forti limiti nella protezione ed assistenza dei civili aprono un solco crescente fra gli italiani e il regime e fanno emergere come prioritaria e maggioritaria la volontà di uscire dal conflitto, come mostrano l’entusiasmo con cui sono accolte dalla maggioranza della popolazione sia la notizia della “caduta” di Mussolini che quella dell’armistizio.
A partire da quel 26 dicembre quindi, anche all’ombra della Collegiata e nei borghi delle valli fiorentine si diffonde il terrore della morte quotidiana che scende dal cielo, accentuando il terrore e il senso di precarietà di popolazioni già provate dal prolungarsi del conflitto e dai suoi effetti a partire dalla mancanza di adeguate risorse alimentari. E sarà l’inizio di una lunga via crusis, anche se la tragedia del primo bombardamento resta insuperata. Nei mesi successivi gli attacchi aerei si ripetono con crescente insistenza in relazione all’avvicinarsi del fronte nell’estate successiva. Empoli, ed i territori circostanti, sono infatti colpiti dal cielo fra gennaio e luglio del ’44 altre 36 volte, delle quali 13 nel solo mese di luglio.
Inoltre, a seguito del primo bombardamento e ai due successivi nel gennaio del ’44 la città viene evacuata e gran parte della popolazione conosce così l’inevitabile, ma dolorosa esperienza dello sfollamento nelle campagne vicine, da “profughi” nella propria terra. Nei mesi successivi la città torna ad animarsi al mattino e nel tardo pomeriggio per lo svolgimento delle attività e dei lavori quotidiani in un contesto segnato da un crescente discredito delle autorità fasciste della Repubblica sociale, dall’ostilità verso queste e le truppe naziste e dal sostegno alle forze della Resistenza e alle forme di opposizione al nazifascismo e alla guerra, e nella trepidante attesa della fine del conflitto.

Matteo Mazzoni, dottore di ricerca in Studi storici in età moderna e contemporanea, è attualmente Direttore dell’Istituto Storico della Resistenza in Toscana e coordinatore del Portale ToscanaNovecento.

Articolo pubblicato nel dicembre del 2016.




Il riscatto della bellezza

ll 6 novembre 1966, appena due giorni dopo l’Alluvione, pochi trattennero le lacrime davanti all’imponente Crocifisso di Cimabue sfigurato nella sua quasi totalità.
Sicuramente non le trattennero Ugo Procacci, allora soprintendente di Firenze ed eroico monument man civile durante la II Guerra Mondiale, e Umberto Baldini, direttore del Gabinetto dei Restauri. Accorso in Santa Croce all’alba del 6, dopo una segnalazione dei gravi danni che avevano colpito la Basilica e il suo Museo, Procacci registrò che “la rovina della grande opera d’arte era ancora maggiore di ogni più infausta previsione; e fu questo forse per me il più tragico di questi tragici giorni”. Non un’ora ancora poteva essere ancora rimandata per tentare di salvare l’enorme tavola, capolavoro di ebanisteria e di pittura, opera simbolo di tutta l’arte medievale italiana. Fu così che, come come continuò a registrare Procacci nella relazione stilata per il Ministero della Pubblica Istruzione il 30 novembre 1966, “chiesto invano l’intervento e l’aiuto dei vigili del fuoco, la cui opera era invocata ovunque, si dové operare da soli”, come lo “smontaggio della smisurata croce dal supporto, eseguito in condizioni veramente disastrose, tra il fango altissimo con il solo aiuto di alcuni operai delle ditta Mugelli”.
il-crocifisso-di-cimabue-irrimediabilmente-danneggiatoIl Crocifisso di Cimabue fu sicuramente uno dei simboli della devastazione che colpì una quantità incredibile di opere d’arte, danneggiate sia dalla violenza dell’acqua che travolse oggetti anche pesantissimi, sia dall’azione chimica dovuta alla prolungata immersione e al conseguente deposito di fango, detriti, nafta, olio combustibile. Secondo i dati riportati da “Il Corriere UNESCO” del 1967 15 furono i musei colpiti, fra cui il Museo Nazionale del Bargello, il Museo dell’Opera del Duomo, il Museo dell’Opera di Santa Croce, i Chiostri monumentali di Santa Maria Novella, il Museo Horne, il Museo Bardini, il Museo Mediceo, Casa Buonarroti, il Museo di San Salvi, il Museo di Storia della Scienza; 18 le chiese monumentali invase dalle acque con conseguente danneggiamento di tutti gli oggetti artistici ivi conservati; un migliaio circa le opere d’arte complessivamente colpite, tra le quali 321 dipinti su tavola, 413 dipinti su tela, 3000 metri quadri di cicli di affreschi, 14 complessi di sculture, 144 sculture singole. Un complesso imponente, tra cui si ricordano la porte bronzee del Battistero, con le cornici spezzate e le formelle cadute, e la Maddalena lignea di Donatello.
Gli stessi Uffizi, così vicini all’Arno e fin da subito assediati dalle acque, avevano vissuto momenti di grande drammaticità; solo la presenza in loco del personale e la repentina messa in sicurezza delle opere collocate al piano terra impedì perdite ancora più ingenti. Verso le nove e mezzo di mattina del 4 novembre il museo era già diventato irraggiungibile da parte di chiunque; rimasero isolati e arroccati tra la furia delle acque Procacci e una quindicina di dipendenti, tra cui la direttrice degli Uffizi Luisa Becherucci e Umberto Baldini, “tagliati fuori da ogni comunicazione anche telefonica, e uniti solo attraverso il soprapassaggio con Palazzo Vecchio, dove erano assediati come noi il Sindaco e diverse altre persone”, ricorda il Soprintendente. Fin dalle prime ore della mattina si cercò di contrastare i danni della velocissima inondazione dei locali posti al piano terra degli Uffizi, adibiti a deposito di opere in attesa di restauro, per cui “senza perdere neanche un minuto furono incominciati a trasportare subito ai piani superiori numerosissimi quadri che si trovavano al piano terreno della Vecchia Posta. Questo intervento, fatto affannosamente, mentre l’acqua già invadeva i locali, crescendo poi con notevole velocità, valse la salvezza di un gran numero di dipinti di eccezionale importanza, ed evitò quindi una catastrofe di immense proporzioni: basti citare tra i tanti quadri posti in salvo il polittico di Giotto della Badia, la Incoronazione di Filippino Lippi degli Uffizi, la tavola centrale del trittico di Masaccio della Chiesa di San Giovenale a Cascia”. Mentre alcuni uomini trasportavano a mano, per le scale, tali opere (in alcuni casi di ingenti dimensioni), altri si precipitarono nel Corridoio Vasariano per rimuovere, in una lotta contro il tempo, tutta la collezione -unica al mondo- degli Autoritratti di artista. Il terrore di quei momenti fu infatti che la furia delle acque potesse travolgere, da un momento all’altro, il Ponte Vecchio e il loggiato. Solo nel tardo pomeriggio del 4 novembre, con il defluire delle acque, i colleghi della soprintendenza da Palazzo Pitti si avventurarono con coraggio lungo il Corridoio Vasariano per portare i primi viveri a coloro che erano rimasti agli Uffizi.
Alla devastazione delle opere d’arte si era quindi aggiunto il danneggiamento dei luoghi della conservazione: il Laboratorio della Vecchia Posta presso gli Uffizi era stato inondato e oramai impraticabile e i relativi macchinari completamente fuori uso.
5-13-gli-angeli-del-fango-alla-biblioteca-nazionaleNonostante la mancanza di luoghi e strumenti, Procacci decise con repentina lucidità che il grande cantiere per il salvataggio delle opere d’arte dovesse essere allestito a Firenze e non altrove. In una Firenze che, già moralmente colpita, non avrebbe visto la partenza di tutte le opere d’arte alluvionate, con l’ulteriore rischio di danneggiamenti dovuti ai trasferimenti in laboratori di restauro italiani ed europei. I luoghi di ricovero allestiti in tempi record furono Villa Petraia e alcuni ambienti di Palazzo Pitti per i mobili, il salone grande della Galleria dell’Accademia per le tele, il Forte Belvedere per la maggioranza dei libri, Palazzo Davanzati per le sculture e le arti minori e la Limonaia di Boboli per le tavole. Quest’ultime, appena conclusa la prima fase di deumidificazione, furono trasferite nel nuovo Laboratorio di restauro costruito appositamente alla Fortezza in un capannone militare in disuso.
Superati i primissimi giorni di emergenza, arrivarono immediatamente contributi economici e scientifici dai più importanti centri e istituti italiani e mondiali. Fu così, che, come auspicato da Ugo Procacci, la città riuscì, grazie anche agli uomini e agli strumenti messi a disposizione da pioneristici istituti e laboratori- a curare i propri malati e sfruttare la grande tragedia da cui era stata colpita per risollevarsi e crescere, per diventare un polo d’avanguardia del restauro e della cultura, per riscattarsi nuovamente in nome della bellezza e di un patrimonio artistico amato e aiutato da tutta la comunità internazionale.

Le immagini qui sono tratte da M. Carniani, P. Paoletti, Firenze. Guerra e Alluvione, Firenze, Becocci Editore, 1991.

Articolo pubblicato nel novembre del 2016.