Tosca Martini (1914-1988)

Ritratto di Tosca Martini, anni Trenta (©️Archivio famiglia Maullu Martini)

 

Nata a Cantagallo nel 1914 in una numerosa famiglia contadina della zona, a dodici anni Tosca va a lavorare nella fabbrica tessile di La Briglia, di proprietà della famiglia ebrea Forti. Proviene da un ambiente antifascista, come pure l’amato fratello minore Lido, che nel dopoguerra sarà dirigente sindacale della Val di Bisenzio e di Prato. Sotto il regime, Tosca diviene un punto di riferimento per le rivendicazioni operaie e per la propaganda antifascista.

Lido, fratello di Tosca Martini (©️Archivio Fondazione CDSE)

Dopo l’8 settembre 1943 agisce da staffetta nella formazione “Orlando Storai” di stanza sul Monte Javello; aiuta i renitenti a raggiungere i partigiani diventando anche punto di riferimento per le loro famiglie e fidanzate.

Nel suo percorso è cruciale la decisione di far cucire in segno di protesta una bandiera rossa per la festa dei lavoratori del 1944. La mattina del 1° maggio il paese di Usella, nel fondovalle, si sveglia con una bandiera rossa che sventola su un alto cipresso, sopra la strada provinciale (oggi SR 325), e con manifesti che tappezzano i muri delle case (“morte ai fascisti, fuori i tedeschi e viva il 1° maggio”). Di nascosto dalle famiglie, infatti, nei giorni precedenti Tosca e altre donne di Usella (Giulia Lavati, Martina Martini, Nigella Catani, Fernanda Ferrantini, Rosa “la merciaia”) hanno confezionato il drappo con un nastrino tricolore. I militi della Guardia nazionale repubblicana accorrono immediatamente per togliere la bandiera e per arrestare Tosca, ritenuta autrice della protesta. Già il 2 maggio è nel carcere femminile di Santa Verdiana a Firenze, dove conosce la partigiana fiorentina Tosca Bucarelli, che di lei racconterà: “insieme a me era la più torturata di tutte”.

Tosca Martini, al centro, con una sorella e un’amica di Usella, anni Trenta (©️Archivio Fondazione CDSE)

Viene interrogata numerose volte dalla Banda Carità presso Villa Triste e torturata per circa due mesi, ma non rivela mai informazioni sulla Resistenza. Secondo la sua testimonianza è salvata dalla possibile deportazione grazie all’intervento, tra giugno e luglio, di un noto avvocato pratese su insistenza dei compagni partigiani.

Tornata a casa, benché debilitata dalle sevizie e dal carcere, continua a dare il proprio contributo all’organizzazione della Resistenza fino al passaggio del fronte in Val di Bisenzio nel settembre 1944. Il 23 aprile 1951 si aprirà a Lucca il processo alla Banda Carità e Tosca Martini verrà chiamata più volte a testimoniare.

Nel Dopoguerra riprende a lavorare nel tessile, impegnandosi nel sindacato con il fervore che sempre l’ha contraddistinta; è riconosciuta partigiana combattente il 12 marzo 1947.

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🟪Stralci dall’intervista realizzata da Laura Landi il 10 settembre 1988, pubblicata in Alessia Cecconi, Francesco Venuti (a cura di), Sul cipresso più alto. La storia di Tosca Martini e altre vicende di guerra e Resistenza, Montemurlo, Fondazione CDSE, 2013, pp. 66-69.

Io entrai al Forti alla briglia appena finito dodici anni, sono nata di gennaio, a marzo ero già a lavorare nel reparto orditura. Si lavorava tante ore e ho imparato alle macchine di ritorto, sempre in orditura. Poi c’era il magazzino e poi si andava alla grande tessitura, perché il Forti è sempre stata una grande ditta, lì siamo cresciuti. […]

In fabbrica ci andavo in bicicletta, dopo parecchio tempo hanno messo un autobus. Noi donne non si prendeva la stessa paga degli uomini, per carità, e allora ho dovuto fare la sindacalista.

Nel 1943 morì la mia povera sorella Duilia di malattia e lasciò due bambine. Succede il patatrac di Badoglio, a questo punto mi venne chiesto di iscrivermi al sindacato di Badoglio, ma io non volevo assolutamente accettare, perché dovevo badare alle bambine ed ero troppo occupata, gli dissi “sentite, non ho proprio punta voglia di mettermi a fare la sindacalista perché ho altre cose, m’hanno lasciato due bambine”, non volevo accettare. Allora cosa hanno fatto? Hanno fermato tutte le macchine, i magazzinieri, 14 orditoi, tutte le macchine da ritorto, poi tutte quelle che facevano le rocche e i fusi, tutta la tessitura, era una grande ditta e io mi son trovata in mezzo a tutti gli operai in quella maniera, “lo devi far te, lo devi far te”, e alla fine ho accettato.

Ora succede che Badoglio sta poco, liberano il Duce e ritorna il sindacato fascista. Noi tutti in fabbrica si era d’accordo che questa cosa non si poteva assolutamente accettare. E allora vengono in tessitura a sparare con le rivoltelle, allora quel pover’uomo del mio zio di Vaiano, fratello della mia mamma, disse che accettava lui di essere delegato del sindacato fascista, mentre tutti urlavano e scappavano come pazzi. Poi [dopo l’8 settembre] successe la ribalta un’altra volta e allora io sono rimasta lì al sindacato mio, che non era più il sindacato di Badoglio, ma era il nostro. Sono sempre rimasta all’avanguardia della briglia fino a quando il 1° maggio non sono stata arrestata e portata via.

Dall’8 settembre al maggio ’44 si lavorava con le formazioni partigiane. Io avevo tutta l’organizzazione: quando venivano gli aerei americani o inglesi a portare la roba sulle colline, informavo le formazioni sugli arrivi: s’aveva il nostro ordine del giorno. […]

Salivo anche ai Faggi personalmente a portare le notizie e si vede che il Barellini2 l’hanno messo a fare la spia e mi ha visto. io e la povera Teresa moglie del mio povero fratello [Lido] si fece finta di andare a lavorare perché mi seguivano. Si aveva il segretario del partito fascista che stava lì a dormire nell’ultima casa in fondo, era di Prato, era un gobbino e diceva “benedetto il Dio, quella donna ci va la mia padrona di casa a veglia la sera e vado a chiamarla delle volte, ci resto anche io, l’è tutta casa e lavoro, possibile che lei la faccia codeste cose?”.

Insomma, mi presero il 1° maggio del ’44, qui [facendo riferimento a un libro] è un po’ raccontato, un po’ tralasciato, ’un possono mica dire tutto. Si capisce quanto è importante, c’è fatti per fare un libro. Mi arrestarono per cosa si è fatto con il mio cognato che era ferroviere di Vaiano.

Al mio cognato dissi: te la metti, e io preparo la bandiera, e vai per il 1° maggio a metterla proprio in cima al cipresso, quello che va al cimitero gl’era bello alto. Proprio in cima in cima aveva messo questa bandiera rossa, l’aveva legata con una maniera che lui figurati gl’ha avuto il primo premio che ha in casa, andava a allacciare i fili quando va il treno.3 L’aveva messa in un modo che non c’era modo nemmeno levarla, mandarono a levarla e non lo sapevano fare. La vedevano proprio bene dalla ferrovia, la si vedeva proprio bene, tutti la vedevano. La sera prima gli si dette la botta, si mise tre manifesti “morte ai fascisti”, ma grandissimi, tre di qua e tre di là, rivolti alla chiesa, e la mattina tutti li leggevano: “morte ai fascisti, fuori i tedeschi, viva il 1° maggio”, grandi così, io e la povera Fernanda sia andò a metterli. Non mi avevano visto, era notte.

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🟥Amiche per la libertà – Tosca Martini, Tosca Bucarelli e le altre – Corto realizzato dalla Scuola di Cinema “Anna Magnani” di Prato con regia di Massimo Smuraglia, ispirato alla vicenda della partigiana Tosca Martini di Usella, alla cui sceneggiatura ha collaborato la Fondazione CDSE (il film è liberamente ispirato al libro “Sul cipresso più alto”, edizioni CDSE). Con Francesca Cellini e Doriana Clemente. Musica Originale di Samuele Luca.

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🟪ISRT, Fondo Calamandrei, Processo alla Banda Carità, Busta 4.1.3. Stralcio della sentenza della Corte di Assise di Lucca del 28 luglio 19512, 25esimo episodio – Martini Tosca – (imputazione n. 27) – Il documento integrale è pubblicato in pubblicata in Alessia Cecconi, Francesco Venuti (a cura di), Sul cipresso più alto. La storia di Tosca Martini e altre vicende di guerra e Resistenza, Montemurlo, Fondazione CDSE, 2013 

[…] Questi come primo atto la prese per il petto nonostante le proteste della donna che irritarono maggiormente il Bellesi, quindi cominciò a coprirla con pugni e ceffoni al viso così violenti da farle uscire copioso il sangue dalle orecchie e dal naso. Dicendo poi che non voleva farsi male alle mani, si tolse la cinghia dei pantaloni e con questa prese a colpire la ragazza, in maniera che la placca di metallo piuttosto grossa la colpiva sulla carne che in tal modo veniva a lacerarsi avendole sollevato all’uopo anche le vesti e riducendola tutta pesta. Le cinghiate sempre più violente si protrassero per lungo tempo e la Martini per il dolore continuava ad urlare in modo tale che alcuni funzionari della Questura, che si trovavano nella stanza vicina, si affacciarono alla porta per protestare contro quel trattamento inumano. […]




Walma Montemaggi (1926-2017)

Walma (a sinistra) nel 1946 con le sorelle Clara e Fulvia

Nasce nel 1926 a Pontorme, sobborgo operaio di Empoli, da una famiglia composta dal padre, vetraio soffiatore, dalla madre sarta e da sei figli, di cui Walma è la più piccola. Frequenta le scuole elementari dalle suore, perché la famiglia antifascista non vuole che partecipi ai rituali della scuola di regime. Successivamente inizia a lavorare come operaia in una piccola ditta che produce vestiario militare.

Si avvicina all’attività politica aiutando il fratello Alfiero, comunista, nella distribuzione di volantini e nella raccolta di fondi per il Soccorso rosso. L’arresto di Alfiero nel 1936 segna anche per lei una tappa significativa, dato che a scuola è additata come sovversiva. Nella sua formazione svolgono inoltre un ruolo i legami con la famiglia allargata: è cugina per parte di madre di Giuseppina e Ateo Garemi, entrambi emigrati in Francia; Ateo aderirà ai GAP e sarà ucciso a Torino nel dicembre 1943.[1] Durante la guerra approfondisce i legami con gli ambienti clandestini empolesi e contribuisce già alla preparazione dello sciopero del marzo 1943.

Subito dopo l’8 settembre si impegna col fratello nel soccorso a militari fuggiaschi e renitenti alla leva, che vengono messi in contatto con i gruppi partigiani. Svolge il ruolo di staffetta e partecipa all’organizzazione dello sciopero del 4 marzo 1944; l’agitazione è infatti appoggiata da un corteo di donne verso il centro cittadino, alla quale si uniscono contadini dalle vicine frazioni, artigiani e bottegai e gli operai che escono dalle officine.[2] Per queste attività sarà riconosciuta patriota.

Dopo la Liberazione è assunta in una fabbrica di fiammiferi, diventando un’operaia specializzata. Il PCI le propone di frequentare un corso di formazione rivolto alle donne; Walma accetta e in seguito decide di abbandonare l’impiego per dedicarsi all’attività politica. Svolge prima un ruolo nella Federazione giovanile e poi diventa segretaria provinciale dell’UDI. Nel 1953 partecipa alla vertenza della fabbrica Pignone di Firenze, divenendo la portavoce delle famiglie degli operai presso il sindaco Giorgio La Pira, che riuscirà a evitare la chiusura dello stabilimento.

Walma Montemaggi

Nel 1955 si sposa con Ilio Bastianoni, anche lui aderente al PCI. La coppia successivamente si allontana dalla politica attiva; Walma decide nel 1963 di lasciare il ruolo di funzionaria, nel 1964 ha un figlio. Non abbandona però l’impegno pubblico, in specie nel sindacato e nell’ANPI, e nell’ultima fase della sua vita si dedica alla scrittura di racconti e memorie. Muore ad Empoli nel 2017.

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🟥Stralci dell’intervista a Walma Montemaggi in Laura Antonelli, Voci dalla storia. Le donne della resistenza in Toscana tra storie di vita e percorsi di emancipazione, Prato, Pentalinea, 2006, pp. 155-7 e 168-169

L’anno successivo, il 1944, preparammo lo sciopero del quattro marzo con una riunione preparatoria nel bosco di Corniola, facendola sembrare una scampagnata di ragazze e ragazzi.

Lì ci fu detto il giorno e l’ora (il 4 marzo appunto, ad Empoli in Comune alle ore 10-11). Così iniziammo a formare piccoli gruppi che camminavano per il “giro” di Empoli, poi si fecero dei capannelli iniziando a parlare fra noi donne, in seguito diffondemmo la voce: “Andiamo in Comune dal podestà”. Eravamo un centinaio, tutte affollate al portone del palazzo comunale, entrammo. Fummo ricevute dalle autorità di allora: il podestà appunto, il segretario del Fascio repubblichino, il commissario di polizia, il maresciallo dei carabinieri e alcuni responsabili dei servizi comunali. Noi avanzammo le nostre richieste, erano mesi che con la tessera non ci veniva dato neppure ciò che toccava di diritto. Chiedevamo pane, un po’ di carne, vedevamo i tedeschi che stavano portando via tutto. Facemmo le nostre rimostranze. Le autorità ci calmarono, dicendo che in qualche modo avrebbero provveduto e così andammo via con queste promesse verbali. Appena fuori dal Comune, le donne e gli uomini ormai erano divenuti una folla che andava via via aumentando. La strada era piena di gente che ci domandava come fosse andata, cosa ci avessero risposto.

In quel momento fummo affiancate dalla polizia dell’OVRA[3] che ci provocò, dicendo: “Penerone![4] Andate a casa”. A queste parole venne fuori da parte di tutte le donne un abbaione di risposta: “Andate voi a casa!” e li rincorremmo. Uno si dileguò andando verso la stazione, un altro si diresse in piazza della Vittoria presso un albergo, quando fu arrivato ci mostrò la pistola e una bomba a mano. Allora presero in mano la situazione i compagni partigiani che erano scesi dalla montagna per scortarci ed il poliziotto fascista, vista la malaparata, si rifugiò nell’albergo. Di lì a pochi minuti arrivò un camion tedesco con una mitragliatrice innestata con due soldati che ci intimarono di sciogliere il raduno non autorizzato altrimenti avrebbero fatto fuoco. Noi non ci lasciammo intimorire, tenemmo ancora per un po’ la piazza, alcuni proposero di andare ad assaltare il silos del grano, ma ci fu detto di non andare che il grano se l’erano già preso i tedeschi. In quegli istanti di paura ma anche di coraggio ricordo che accanto a me avevo mamma “Palmira”, un’anziana compagna madre di un giovane che era stato condannato a tanti anni di carcere dal Tribunale Speciale perché comunista. Questa donna mi diceva: “Abbracciami Walma, stringiti a me e non aver paura, tanto non sparano. Lo fanno per impaurirci” […].

– Aveva paura?

– Sarei stata un’incosciente a non averne. Anzi ne ho avuta tanta. Quando andavo a prendere la stampa clandestina ad Avane, e la sistemavo nella borsa a doppiofondo fatta da mia madre, ti dirò che facevo in un lampo a distribuirla a tutti, così quando c’erano i libri, li diffondevo il pomeriggio nascondendo il fatto con la giratina in bicicletta oppure che andavo a Empoli a comprare i bottoni per i vestiti delle clienti di mamma. Poi c’erano i giorni nei quali venivano ammazzate le bestie comprate dai contadini, per mandare un po’ di carne ai ragazzi che erano in montagna e per noi. Vendevamo le frattaglie e le parti meno nobili da fare il lesso e lo spezzatino; a volte compravo anche per casa, ma la carne anche la meno nobile, costava molto e non sempre potevamo permettercela. Poi passare un posto di blocco dove c’erano i tedeschi, quelli della Wehrmacht, quando dovevo portare qualcuno in formazione: giovani renitenti alla leva militare che non volevano andare al fronte a morire o disertori dell’esercito che non volevano più combattere. Questi erano i pericoli che si correvano ogni giorno. Le prime volte, tremavo ma poi riuscivo sempre a cavarmela; non ti ho detto che ero piuttosto bellina e allora a volte tiravo un po’ più su del dovere la gonna andando in bicicletta e così passavo. Però passavo più volentieri dai posti di blocco tenuti dai tedeschi che da quelli dei repubblichini: avevo paura di incontrarci qualcuno che mi conosceva.[…]

 Nel 1943 iniziò la nostra Resistenza in Toscana. Con mio fratello Alfiero portammo tanti ragazzi sia in montagna, specialmente i renitenti alla leva, ma anche ufficiali badogliani che andarono nelle formazioni partigiane che come sai, si aggregarono agli alleati per compiere azioni di disturbo ai tedeschi allora invasori ed ai repubblichini fascisti visto che Mussolini aveva formato la Repubblica di Salò. Io feci scappare in montana un maresciallo della finanza che doveva andare sul fronte russo ed anche un ufficiale dell’esercito che era ricercato come disertore: episodi che ho descritto nei miei racconti. È proprio vero che più difficile diventa la vita, più si lotta. Il coraggio a me veniva dalla consapevolezza del rischio che era anche paura. Ma nei momenti più acuti io mi vedevo la fine di tutto questo patimento e la morte mi sembrava liberazione e rinascita ad una vita più giusta, migliore e degna di essere vissuta.