La strage della famiglia Einstein

Il 3 agosto 1944 la famiglia di Robert Einstein, cugino del più famoso Albert, fu oggetto di un atroce massacro ad opera di soldati della Wehrmacht presso Villa il Focardo a Rignano Valdarno. Robert e Albert Einstein erano cugini per parte paterna; i due ragazzi avevano trascorso l’infanzia insieme prima in Germania e poi in Italia. Le loro strade si separeranno poi. Albert  diventerà un fisico di fama mondiale, Robert inizierà gli studi di ingegneria.

Robert Einstein aveva sposato Cesarina (Nina) nel  1913. La coppia aveva due figli: Luce nata nel 1917 e Annamaria nel 1927. Dopo una parentesi a Roma la famiglia si era trasferita a Villa il  Focardo fra Rignano e San Donato. La loro è una famiglia relativamente benestante. Possiedono anche un’abitazione in Corso Tintori a Firenze, dove risiedono nel periodo invernale. Annamaria e le cugine frequentano il liceo Michelangiolo, mentre Luce è iscritta alla facoltà di medicina. La villa del Focardo è meta di frequenti visite. Gli Einstein sono molto conosciuti e al Focardo sono spesso ospiti personalità eminenti : il pastore valdese Vinay, e poi pittori, docenti universitari, ma anche personalità legate alla resistenza.

Strage FocardoEppure questa vita serena e agiata viene ben presto sconvolta dall’8 settembre 1943 e dall’occupazione tedesca. Il piano superiore della villa viene sequestrato per gli ufficiali della Wehrmacht mentre le truppe si sistemano intorno alla fattoria. Ancora nessuno sembra in pericolo, ma il pastore Vinay inizia a preoccuparsi per Robert, di note origini ebree. Robert non solo è ebreo. Ma è anche il cugino di Albert che all’insorgere del nazismo ha lasciato la Germania e che con la sua fama e il suo prestigio mondiale è la smentita più evidente alle teorie razziste di Hitler. Alla fine Robert si convince anch’egli del pericolo e decide di rifugiarsi nei boschi. Riesce così a salvarsi da quel tragico 3 agosto 1944 in cui un comando nazista si reca al Focardo. Sembra chieda di Robert senza trovarlo. Viene inscenato un processo farsa e i in pochi attimi i mitra tedeschi si abbattono sulla moglie e le due figlie. Vengono risparmiate  due gemelle e una terza cugina loro ospiti in quei giorni. A salvarle sono i cognomi diversi: Mazzetti e Bellavite. Come scriverà poi una di queste, Lorenza Mazzetti, nella dedica al suo racconto autobiografico “Il cielo cade”: Questo libro vuole descrivere la gioia e l’allegria che quella famiglia mi ha dato nella mia infanzia, accogliendomi come “uguale”, mentre sono stata “uguale” a loro nella gioia e “diversa” al momento della morte. Nel giardino esterno viene lasciato un biglietto. Recita “Abbiamo giustiziato i componenti della famiglia Einstein, rei di tradimento e giudei”. La villa viene data alle fiamme. Robert dal suo rifugio fra i boschi vede alzarsi una colonna di fumo proveniente dal Focardo. Corre verso il luogo della strage, ma ormai non può fare più niente.

Nei giorni immediatamente successivi sul luogo del delitto arriva, incaricato delle indagini, il maggiore della V armata statunitense Milton Wexler. È stato un allievo del grande fisico Albert Einstein che è molto preoccupato per la famiglia del cugino. Vorrebbe poterlo rincuorare. A lui invece tocca informare il suo ex professore della tragedia. Dei risultati delle indagini americane si è persa ogni traccia. Così come sono rimasti ignoti gli esecutori del delitto. Solo nei primi anni 2000, dopo le ricerche dello storico Carlo Gentile sulle truppe di stanza nella zona in quei giorni, si è iniziato ad avere un’idea più precisa sui possibili responsabili della strage. Le ultime ricerche di Gentile hanno capovolto quanto si era creduto circa le responsabilità della strage:  ad uccidere non furono reparti delle SS, ma uomini appartenenti al comando di un’unità della Wehrmacht, l’esercito regolare tedesco, verosimilmente la quindicesima divisione del 104° Reggimento di granatieri corazzati.  Al momento non è emersa nessuna prova definitiva per capire se l’omicidio delle tre donne abbia a che vedere con una vendetta personale nei confronti di Albert Einstein o sia stato un delitto a sfondo razzista. Anche il biglietto lasciato sul luogo della tragedia “Abbiamo giustiziato i componenti della famiglia Einstein, rei di tradimento e giudei” lascia aperti più dubbi. È scritto in perfetto italiano. I tedeschi avevano con loro un interprete o qualcuno che conosceva bene l’italiano? Oppure quel biglietto non è stato scritto dai soldati tedeschi?

Tomba EinsteinAltrettanto tragico è purtroppo l’epilogo di Robert Einstein. L’anno successivo,distrutto dal dolore, ritorna sui resti del Focardo e si suicida inghiottendo del veleno. Decide di farlo un giorno particolare: il 13 luglio 1945, la data del suo anniversario di matrimonio. Riposa adesso nel cimitero della Badiuzza di Rignano insieme ai suoi cari. Ai piedi della stele funebre in  tubi  di acciaio disegnata dagli allievi della Scuola d’ Arte di Porta Romana a Firenze che il comune di Rignano ha loro dedicato.

 

Articolo pubblicato nell’agosto 2014.




Bianca Bianchi: dall’antifascismo esistenziale al “virus della politica”

Bianca Bianchi nasce a Vicchio il 31 luglio 1914. La sua educazione alla politica ha origine nell’ambiente familiare, in particolare grazie alla personalità del padre Adolfo, fabbro e segretario della federazione socialista del paese, con il quale ogni pomeriggio Bianca intrattiene lunghe chiacchierate, durante le quali impara che socialismo vuol dire “amare i più poveri e fare qualcosa per loro”. Ogni giovedì inoltre salta la scuola e accompagna il padre alla sezione del partito dove fuori, durante il mercato settimanale, in piedi su un tavolo, tiene appassionati comizi.

Dopo la morte prematura del padre, all’età di sette anni, Bianca si trasferisce, insieme alla madre e alla sorella maggiore a Rufina, presso l’abitazione dei nonni materni. Ha un rapporto conflittuale con la madre che, ripiegata sul modello domestico, non comprenderà mai l’attrazione della figlia per lo studio e per la volontà di evadere dal mondo provinciale. Trova però un valido sostenitore nel nonno Angiolo, contadino antifascista, figura importante nella sua formazione intellettuale dopo la morte del padre, che stimolerà Bianca con discussioni letterarie, religiose e politiche.

Bianca dimostra presto il suo interesse per lo studio e, grazie all’appoggio del nonno, abbandona la campagna e si trasferisce a Firenze, per frequentare la Scuola Magistrale “Gino Capponi”, prima, e la Facoltà di Magistero poi. Nel 1939 consegue la laurea con una tesi dal titolo Il pensiero religioso di Giovanni Gentile, discussa con il relatore prof. Ernesto Codignola, che l’anno successivo viene pubblicata.

IMG_3280Inizia da subito ad insegnare: le viene offerta una cattedra a Genova, dove non rispetta i programmi, che prevedevano l’esclusione degli argomenti riguardanti la civiltà ebraica, tenendo lezioni personali in proposito. Tale comportamento insubordinato le vale l’allontanamento dall’istituto genovese. Le viene affidato allora un nuovo incarico a Cremona, da dove viene, anche questa volta, presto licenziata, a causa del primo compito in classe proposto ai suoi studenti, in cui ha chiesto di riflettere sui caratteri della società moderna e sui progetti per il futuro. In particolare aveva invitato un suo studente di origine ebraica ad essere sincero e a scrivere liberamente il proprio pensiero. Bianca viene allora assegnata all’Istituto italiano di cultura in Bulgaria. L’ “esilio” a Sofia, dove intrattiene anche una prima relazione amorosa, in realtà permette a Bianca di imparare una nuova lingua e di insegnare liberamente, senza le limitazioni politiche del regime. Il soggiorno però è breve e nel giugno 1942 torna in Italia, per aiutare la madre e la sorella, in difficoltà nel contesto bellico.

Dopo la caduta del fascismo e la firma dell’armistizio, si impegna, in quell’opera di soccorso e di travestimento di massa dei soldati sbandati, messa in atto dalle donne italiane, in quello che è stato definito maternage di massa (Bravo). Partecipa poi, su invito del prof. Codignola, che era stato il suo relatore di tesi, alle riunioni del Partito d’Azione, contribuendo attivamente alla resistenza. In particolare distribuisce volantini antifascisti e, qualche giorno prima dell’insurrezione fiorentina, le viene affidato il compito di trasportare un carretto carico di armi. L’esperienza della resistenza è breve, ma per Bianca ha un valore importante, perché permette il passaggio dall’antifascismo esistenziale, vissuto individualmente, ad una maturazione politica consapevole, vissuta in condivisione con i compagni partigiani.

È dunque dopo la fine della guerra che Bianca passa alla vita politica attiva. Il momento della svolta è rappresentato, nel ricordo stesso di Bianca Bianchi (si veda il documento allegato), dalla presa di parola, che avviene durante il comizio del democristiano Gianfranco Zoli nella primavera del 1945. Bianca accoglie l’invito dell’oratore al contraddittorio, criticando il suo fare da “pompiere” che sembrava voler spegnere gli ideali di rinnovamento, e invita invece a realizzare una politica diversa, che si faccia portavoce della volontà di cambiamento e di speranza degli italiani. Alla fine del comizio un gruppo di socialisti avvicinano la giovane, invitandola ad iscriversi al PSIUP. Bianca Bianchi inizia a frequentare la sezione di via San Gallo, per “ascoltare e osservare”, ma la sua passione e la sua convinzione di “poter contribuire a creare un mondo di eterna primavera” la fanno passare ben presto all’azione. Si iscrive al partito, organizza iniziative culturali, dibattiti, ed è subito protagonista della campagna elettorale, riuscendo ad acquisire molti consensi tra la base, anche grazie alle sue abilità oratorie.

Al Congresso provinciale della primavera del 1946, per la formazione della lista dei candidati per la Costituente infatti, viene votata quasi all’unanimità come capolista. I compagni di partito però, diffidando delle donne in politica e della giovane età della Bianchi, la sostituiscono con un esponente di spicco e di consolidata militanza nel partito, Sandro Pertini. Nonostante la delusione, Bianca Bianchi continua la sua appassionata e frenetica campagna elettorale, raggiugendo così, alle elezioni del 2 giugno, un successo personale inaspettato, riuscendo ad accaparrarsi il doppio dei voti del capolista Pertini (15384 voti) ed entrando così di diritto tra le 21 donne elette all’Assemblea Costituente.

Si ricorda in seno alla discussione della Costituente l’impegno di Bianca Bianchi a favore della scuola pubblica, opponendosi fermamente alla parificazione tra le scuole pubbliche e quelle private, previsto dall’art. 27 (poi 33) della Costituzione.

IMG_3308Al Congresso del partito del 9-13 gennaio 1947 inoltre, dopo una lunga e sofferta riflessione, decide di seguire la minoranza di Saragat, a cui la legava anche una profonda amicizia, nel Partito Socialista dei Lavoratori Italiani. La sua carriera politica prosegue poi nel 1948, quando viene eletta nella I legislazione in Sicilia.

Da ricordare poi la sua battaglia a favore di una legislazione meno discriminatoria nei confronti dei figli illegittimi, iniziata in seguito alla sua partecipazione al Congresso dell’Alleanza femminile internazionale di Amsterdam del 1948 e conclusasi con l’approvazione della legge nel 1953.

Tra il 1953 e il 1970 Bianca Bianchi non viene rieletta nelle successive legislature e riprende quindi l’impegno nel settore dell’istruzione, curando la rubrica de La Nazione, Occhio ai ragazzi e fondando la “Scuola d’Europa”.

Rientra in politica nel 1970, per una legislatura, eletta consigliera comunale a Palazzo Vecchio a Firenze, e successivamente continua ad occuparsi dei temi dell’istruzione e si dedica alla letteratura, intrisa di quella passione e di quel “virus della politica” che aveva caratterizzato tutta la sua vita.

Si è infine spenta il 9 luglio 2000.

 

Articolo pubblicato nel luglio 2014.




I fratelli Melauri e la famiglia Soffici

YADVASHEMQuella dei Soffici è una famiglia contadina che vive lavorando la terra nel Valdarno fiorentino. La loro storia si incrocia con due giovani ebrei Tullio e Aldo Melauri  a cui fra il dicembre del 1943 ed il luglio del 1944 Dante e Giulia, Oreste e Marianna Soffici scelsero, nonostante i pericoli, di dare rifugio e accoglienza.

La loro storia inizia a Trieste il 15 febbraio del 1925. Paolo e Lea Melauri danno alla luce il loro primo figlio: Tullio. Sedici mesi dopo sarà seguito dal fratello Aldo.
La loro è una famiglia relativamente benestante. Pur vivendo a Trieste, in realtà la loro non è una famiglia triestina. Il padre infatti proviene da Leopoli nell’odierna ucraina. Hanno origini ebraiche. Ma sono e si sentono completamente integrati. Anche per questo hanno prima rinunciato al cognome originario di Goldfrucht per cambiarlo nell’italiano Melauri e poi ottenuto la cittadinanza italiana nel 1920.
Tullio e Aldo hanno un’infanzia serena ed osservante delle proprie tradizioni religiose, ma tutt’altro che isolata dai compagni. Frequentano delle scuole elementari ebraiche, ma poi proseguono i loro studi nelle scuole pubbliche e sono in amicizia con molti altri adolescenti italiani di famiglia cattolica.

Le leggi razziali dell’autunno 1938 sconvolgono però le loro vite. Per fortuna il padre non subisce conseguenze immediate nel proprio lavoro, anche se perderà ben presto la cittadinanza italiana divenendo apolide. Sono proprio loro due Tullio e Aldo a subire all’inizio le ripercussioni più pesanti della discriminazione. Devono abbandonare la scuola pubblica per re-iscriversi in una scuola ebraica.

Ben presto le leggi razziali sono foriere di altre conseguenze molto più pesanti. Quella che fino ad allora era stata una discriminazione diventa chiaramente una persecuzione. I Melauri non si sentono più al sicuro a Trieste. Nel 1940 avevano acquistato un appezzamento di terreno al Brollo nel comune di Figline Valdarno (FI). A coltivarlo è una famiglia di contadini composta da Oreste e Marianna Soffici e i loro 5 figli. Ma quello fra i Melauri e i Soffici non è solo un rapporto di lavoro. È un’amicizia. I Melauri, insieme alla nonna paterna, si trasferiscono così in casa loro nell’estate del 1943. Partecipano alla vita, al lavoro e alle feste della piccola comunità di contadini del Brollo.

Oreste ha un fratello, Dante, che vive con la moglie Giulia in una casa isolata in località Scandelaia, sopra al Ponte agli Stolli. Così nascosta quell’abitazione può tornare utile in caso di pericolo e Oreste la mostra ai Melauri. Purtroppo tutti i segnali lasciano intendere che il pericolo potrebbe giungere presto. Nell’ottobre del 1943 infatti era arrivato in Italia uno dei più fedeli collaboratori dell’organizzatore della soluzione finale al problema ebraico: il capitano delle SS Theodor Dannecker, esperto nella caccia agli ebrei. Agisce con  poche decine di uomini, ma sa perfettamente come muoversi.

Vengono organizzate  retate in tutte le città d’Italia. il 6 novembre 1943 verrà rastrellata la comunità ebraica di Firenze. Gli ebrei vengono trasferiti in prigioni o nei campi di raccolta come Fossoli, Bolzano o la Risiera di San Sabba e da qui smistati verso Auschwitz o altri campi di concentramento. Presto si  uniscono alla caccia  anche  le autorità della Repubblica sociale italiana. Il 30 novembre il ministro degli interni della RSI emana precise direttive ai prefetti per l’arresto di tutti gli ebrei. Dall’Ottobre del ‘43 fino al Marzo del ‘45 verranno deportati quasi 8000 dei circa 32000 ebrei italiani. Di questi se ne salveranno poco più di 600 soltanto.

In questo clima di terrore è difficile mantenere la speranza e la fiducia. E i Melauri non si fanno illusioni: sanno benissimo cosa li attende quando l’antivigilia di Natale, il 23 dicembre 1943, vedono arrivare sotto casa loro una camionetta dei carabinieri.
Paolo Melauri, dopo aver perso la cittadinanza italiana è un apolide. È costretto a comunicare i propri spostamenti alle autorità. Crede di avere instaurato un rapporto di amicizia con il maresciallo dei carabinieri di Figline e crede che questa amicizia possa fornirgli protezione. Ma quando fa il  nome del maresciallo ai carabinieri scesi dalla camionetta nessuno di loro torna sui suoi passi. Lui e la sua famiglia devono seguirli. Gli viene concesso solo il tempo di tornare in casa a preparare le valigie.

Ma la sorveglianza non è ferrea. Così prende piede un’idea. I figli Tullio e Aldo di 18 e 17 anni possono scappare sul retro della casa attraverso i campi verso quella casa isolata di Dante Soffici che gli era stata mostrata. Il piano ha successo. Tullio e Aldo riescono a fuggire fino a Scandelaia e lì vengono accolti da Dante e Giulia Soffici. Ma non possono essere sempre tenuti in casa. È  troppo rischioso. Così per loro dopo il periodo invernale viene costruita una baracca nascosta nei campi. Tutti i giorni Dante o Giulia vanno a portargli da mangiare. In quelle giornate di isolamento il tempo è lunghissimo per i due ragazzi. A fargli visita e portargli dei libri viene anche la famiglia dei Banchetti che avevano conosciuto durante il periodo al Brollo. A Tullio e Aldo arrivano anche delle lettere dei genitori e della nonna. La madre e la nonna sono rinchiuse nel carcere fiorentino di Santa Verdiana, il padre in quello delle Murate. Ma Tullio e Aldo non si fanno illusioni. Mesi prima hanno ascoltato Radio Londra. Sanno qual’è la sorte scelta dai nazisti per gli ebrei. Purtroppo sia la madre che la nonna verranno deportate ad Auschwitz e lì verranno uccise il 6 febbraio del 1944; il padre sopravviverà poco oltre e morirà nel dicembre del 1944.

Con l’arrivo del fronte bellico in prossimità del Valdarno nel luglio del ‘44 un giorno Dante gli suggerisce di scappare. Sta diventando troppo rischioso per loro rimanere lì. Devono fuggire verso gli alleati. Così Tullio e Aldo scappano nella direzione che gli ha indicato Dante. Nella loro fuga incrociano anche una truppa tedesca, ma riescono a non farsi vedere. Infine dopo quarantotto ore senza bere e senza mangiare si imbattono in dei soldati inglesi.

Tullio e Aldo nel dopoguerra sono stati privati della famiglia, ma per fortuna non sono allo sbando. Con l’aiuto economico di alcuni amici di famiglia riescono a riprendere gli studi e a diplomarsi a Roma. Verranno a Firenze da una zia, poi rientrano a Trieste nel 1947. Ma la loro prospettiva come per  molti altri ragazzi ebrei europei scampati allo sterminio è una sola: Israele. Si iscrivono ad una scuola preparatoria poi dopo un anno si trasferiscono definitivamente in Israele lavorando nei kibbutz.

Nei primi anni ’50 le vite di Tullio e Aldo dopo tutto il tempo passato insieme si separano. Tullio durante una vacanza dalla zia di Firenze conosce quella che diventerà sua moglie. Nel 1957 Tullio si sposa e rientra definitivamente in Italia. Succede anche altro. Sta trascorrendo le proprie vacanze all’Impruneta quando re-incontra Oreste Soffici che proprio lì si è trasferito e allacciano rapporti di fraterna amicizia.

Con gli anni in Tullio matura un’idea. Ha sentito parlare dell’onorificenza di “Giusto fra le nazioni” che lo stato di Israele, attraverso l’ente apposito, lo Yad Vashem, concede ai non ebrei che durante la seconda guerra mondiale hanno contribuito a salvare la vita degli ebrei. Si sente in dovere di far assegnare il titolo alle persone cui deve la propria vita. Chiede aiuto al fratello che vive ancora in Israele e insieme inviano la richiesta.

Il 14 novembre 1988 lo Yad Vashem, con il dossier 2604, riconosce Dante, Giulia, Oreste e Marianna Soffici come “Giusti fra le nazioni”. Il loro nome viene aggiunto al Giardino dei giusti presso il museo dello Yad Vashem a Gerusalemme dove per primo nel 1961 era stato invitato a piantare un albero Oscar Schindler.

Articolo pubblicato nel luglio 2014.




Vittorio Locchi

Vittorio_Locchi_Toscana_NovecentoQuella di Vittorio Locchi è stata una figura di rilievo nel panorama della poesia italiana di inizio Novecento. Poeta ben più che promettente scomparse però, a soli 28 anni, a causa di un sommergibile tedesco durante la prima guerra mondiale.

Locchi era nato a Figline Valdarno l’8 marzo 1889. Aveva ricevuto il medesimo nome del padre ucciso solo tre mesi prima mentre cercava di separare due contendenti in una rissa. La sua adolescenza è quella di un ragazzino esuberante, uno scapestrato. I giochi all’aria aperta e i cavalli lo attirano più dei libri. Uno dei suoi due biografi, Vittorio Franchini, racconta un episodio di una lite con un compagno. In un impeto d’ira il giovane Vittorio afferra un calamaio e glielo scaglia addosso. Il maestro si infuria e gli pone un ultimatum «O mettete giudizio, o coi cavalli di ‘Zio Pasqualone’». Vittorio resta appartato tutta la mattina, poi con fare sicuro va verso il maestro e lo informa della decisione «voglio studiare», gli dice.
Si fa chiudere in un collegio a Firenze. Studia ardentemente e in un anno recupera il tempo perduto prendendo la licenza tecnica. Prosegue gli studi all’Istituto tecnico, ramo Ragioneria. E qui ha il primo incontro fondamentale della sua carriera: quello con il suo professore, il poeta di scuola carducciana Diego Garoglio. È questi il primo ad accorgersi del talento del giovane. Allora Vittorio è ideatore e direttore del giornalino “L’Idea studentesca” un foglio portatore di idee patriottiche e nazionalistiche.

Tornando a Figline Valdarno Vittorio dà vita con alcuni amici ad una brigata in cui si compongono e si leggono poesie. I luoghi di raduno sono le sponde del fiume Resco e un bar nella piazza del paese. La loro diventa la “Brigata del Giacchio”. È lo stesso Vittorio Locchi a raccontare l’origine del singolare nome:
«Una sera che il vento soffiava più forte, nacque d’improvviso il nome della brigata. Uno di noi, il più sciammanato e allegro […] portava sempre […] una giacca ampia e prolissa che non finiva mai. A vederlo, così lungo e magro com’è, camminare […] sventolando le braccia con le falde di quella sua giacchettina sempre al vento come ali, pareva proprio un uccellaccio. Quella sera il vento era più forte e a veder venire l’amico verso di noi come portato dalla giacchetta, mi venne fatto di dire: ‘Ecco il giacchio’. In lingua ‘giacchio’ è una rete, ma io gli avevo dato un significato tutto mio di giacchettine, tutti lo capirono subito e sul momento fu stabilito di chiamare la nostra compagnia ‘La Brigata del giacchio.’».

Nella brigata viene composto il nucleo di quelle poesie che, pochi anni dopo, verranno pubblicate come “Le canzoni del Giacchio.” Intanto Vittorio diplomatosi ragioniere ha necessità di un impiego. È il 1909, ha vent’anni, e trova lavoro come contabile in un’azienda fiorentina. È un lavoratore scrupoloso, per quanto di fronte alle  non riesca a non distrarsi e così alcuni clienti alle lettere contabili trovano allegati fogli di poesie. Vince poi un concorso per impiegato postale. Deve lasciare familiari e amici e partire per Venezia.

È il 1910. Il periodo veneziano, che per Vittorio durerà fino alla sua chiamata al fronte, si dimostrerà il più importante e fecondo. Fonda una nuova compagnia poetica che chiama “Tempestissima”. Si fa strada nel giornalismo e collabora con il giornale “L’Adriatico”. Grazie all’interessamento del suo vecchio professore Diego Garoglio riesce a pubblicare nella collana “Scrittori nostri” una scelta di liriche del poeta veneziano del XV secolo Giustinian da lui commentate. Si consolida poi in lui una fiorente vena drammaturgica e compone “La Notte di Natale”, “La Tempesta” e soprattutto “L’Uragano”.

Negli anni veneziani avverrà anche l’incontro che lo consacrerà come uno dei più promettenti giovani poeti italiani: quello con l’editore spezzino Ettore Cozzani. Questi pubblica una collana di poesia denominata “l’Eroica”, a celebrare la poesia che eroicamente resiste nonostante i tempi ostili. Il critico Sam Benelli gli fa avere alcune poesie del giovane Vittorio e Cozzani ne rimane entusiasta e decide di pubblicarle nel 1914 ne “L’Eroica” con il titolo “Le canzoni del Giacchio”.

Intanto, sempre nel 1914, quando Gabriele D’Annunzio pronuncia a Quarto la famosa orazione per l’intervento italiano nella prima guerra mondiale Vittorio ascolta entusiasta. Rientrato a Venezia, una sera balza sui tavoli di un caffè in Piazza San Marco e arringa la folla.
Frontespizio Santa GoriziaCon l’ingresso dell’Italia in guerra il 24 maggio 1915, Vittorio parte immediatamente per il fronte come tenente della XII divisione di fanteria. Al fronte scrive articoli per il Giornale d’Italia e compone “Il Testamento”. Si ammala, ma riesce a rientrare in tempo per partecipare il 9 agosto 1916 alla presa di Gorizia. Il generale Laderchi ha per Vittorio un incarico diverso dal suo ruolo abituale: comporre un poema per celebrare il successo. Obietta timidamente che forse non è la persona più adatta. Ma non può discutere l’ordine e completa l’opera prima del Natale di quell’anno. Ne nascerà la sua opera più famosa, “La Sagra di Santa Gorizia”, che pubblicata postuma per iniziativa del Cozzani verrà ristampata continuamente  fino al 1968.

Poco prima, nonostante le condizioni di salute non ottimali, Locchi aveva scritto ai superiori chiedendo di “tenerlo presente nell’eventualità di una spedizione all’estero: essendo scapolo, giovane ed entusiasta della nostra guerra, sarà tanto più lieto quanto più si tratterà di andare lontano e d’incontrare rischi e disagi”.
All’inizio del 1917 il comando italiano decide di inviare un corpo di spedizione in Palestina. Vittorio Locchi viene prescelto per partecipare. Deve imbarcarsi per Napoli il 13 febbraio. Sono cinque le navi che salpano da quel porto. A Vittorio, che è ufficiale, sarebbe destinata una nave più agiata. Sceglie invece di imbarcarsi su una nave stracolma di soldati semplici: il Minas. La scelta gli sarà fatale. Il Minas viene affondato da un sommergibile tedesco a largo delle coste greche il 15 febbraio 1917.
Per alcuni giorni la famiglia di Vittorio spera. Poi la testimonianza del tenente Luigi Trevale scampato al naufragio fa piazza pulita di ogni dubbio. Vittorio ha scelto di andare incontro al suo destino, senza accapigliarsi con il resto della folla per un posto sulle scialuppe insufficienti. La testimonianza del Trevali è riportata da Cozzani nella sua appassionatissima biografia Come visse e come morì Vittorio Locchi. «È morto eroicamente cercando di calmare l’equipaggio in preda al panico. Il primo siluro, urla con tutta la sua forza il giovane Vittorio, non ha colpito gravemente, la nave non sta affondando. Poi un secondo sicuro e la nave si inclina verticalmente scomparendo in pochi minuti.».

Articolo pubblicato nel luglio 2014.




Antifascisti e perseguitati politici nel Chianti

ANTIFASCISTI_5Che cosa hanno rappresentato, per le popolazioni del Chianti, la dittatura e il regime fascista? Domanda non facile a cui la storiografia non ha ancora dato, a tutt’oggi, una risposta soddisfacente. La memoria delle violenze, delle sopraffazioni, delle tragedie provocate dalla dittatura con la suapolitica razzista, imperialista, aggressiva e guerrafondaia nel ventennio, ha sicuramente lasciato una traccia nella memoria della gente ma non ha prodotto ancora risultati significativi sul piano della conoscenza storica.

I dati che si propongono nelle tabelle seguenti sono il risultato di lunghe ricerche effettuate su documenti finora poco studiati ma di grande importanza. Si tratta dei fascicoli del Casellario politico centrale, dipendente dal Ministero degli Interni, direzione generale di pubblica sicurezza, conservate presso l’Archivio centrale dello Stato a Roma. Dallo studio e dall’analisi delle migliaia e migliaia di fascicoli intestati ad altrettanti antifascisti, sovversivi o anche semplici cittadini sottoposti alle misure poliziesche del regime fascista, emerge un universo dolorante e represso, un intreccio di storie e di peripezie che hanno caratterizzato il ventennio nel nostro paese e nella nostra regione, ma che finora raramente sono affiorate nelle ricostruzioni di uno dei periodi più drammatici della storia.

I dati che si forniscono richiederebbero una spiegazione ampia e approfondita, ma già nella loro crudezza e immediatezza offrono ampia materia di riflessione. Basti pensare che, in un territorio come il Chianti, popolato da non più di 70-80.000 persone ma con un tessuto urbano rarefatto e diffuso in un’area più ampia a forte connotazione agricola, sono oltre 200 gli schedati come antifascisti, sovversivi e perseguitati politici da tenere sotto sorveglianza e da sottoporre a misure repressive e restrittive della libertà, a provvedimenti che possono privare del lavoro e ridurre in miseria intere famiglie. Già, perché in realtà non si tratta solo di 205 individui, ma di 205 nuclei familiari, ciascuno con le sue reti di parentela e di amicizie. Sono dunque 205 storie di vita, 205 itinerari biografici che si snodano attraverso violenze subite, angherie, miserie, tragedie di vita quotidiana.

ANTIFASCISITI_628 persone saranno deferite al Tribunale Speciale per la difesa dello Stato, quel famigerato tribunale da cui sono passati i Gramsci, i Pertini e tanti altri grandi della nostra storia. Anche una donna nata a Montespertoli, Preziosa Borri, casalinga e comunista, finita sotto le grinfie degli sbirri nel 1929, quando aveva già 65 anni, veniva deferita al tribunale speciale; 19 persone finiranno al confino di polizia, costrette ad abbandonare famiglia, casa, lavoro, amicizie, abitudini, libertà; 18 emigreranno all’estero per motivi politici e finiranno iscritti nella rubrica di frontiera, con la minaccia incombente di venire arrestati non appena si fossero avvicinati a una frontiera nazionale; 14 finiranno nelle maglie della cosiddetta giustizia ordinaria, processati per reati classificati comuni, anche se di natura politica; 45 infine verranno sottoposti a diffida o ad ammonimento, che non erano provvedimenti innocui e senza conseguenze, soprattutto per quel che concerneva la conservazione del lavoro.

Venivano colpite persone delle più diverse appartenenze sociali e di livello culturale assai differenziato: si potevano trovare due possidenti accanto a 5 contadini, 14 coloni e 20 braccianti; o una dozzina di commercianti di vario livello: gestori di ristoranti, vinai, negozianti, salumieri, pizzicagnoli e perfino rappresentanti di commercio; o una settantina di artigiani, 17 calzolai, 11 falegnami, 7 meccanici, 3 fabbri, 3 parrucchieri e tanti altri come scalpellini, sarti, barrocciai, boscaioli, lattai, fornai, legatori di libri e tanti altri. Vi erano anche operai di industria, tipografi, ma anche un industriale e anche rappresentanti delle professioni, un veterinario, un geometra, un pubblicista, maestri e insegnanti e perfino un artista di varietà. Numerosi i ferrovieri, una decina e anche un carabiniere condannato, nel 1941, al confino di polizia. Naturalmente queste poche righe e questi pochi dati danno solo un’idea molto limitata e sommaria di quelle che furono le caratteristiche e le vicende dell’universo, del popolo degli antifascisti, dei perseguitati politici del regime. Ma il filone che si prospetta è particolarmente ricco e, per ognuno dei 205 nominativi è possibile andare a riscoprire e ristudiare, attraverso i fascicoli personali e con un lavoro di ricerca sulle fonti orali, attraverso le testimonianze, storie di vita vissuta e vissuta intensamente, drammaticamente.

L’articolo era stato pubblicato sulla rivista “InChianti” n. 10, 2004.

Ivano Tognarini, docente di Storia moderna all’Università di Siena, è stato Presidente dell’Istituto Storico della Resistenza in Toscana dal 2000 fino alla sua recente scomparsa il 15 marzo 2014. Questo piccolo contributo ne vuol ricordare il vasto impegno nello studio della presenza antifascista nell’Italia del Ventennio attraverso l’analisi della documentazione del Casellario politico centrale dello Stato.

Articolo pubblicato nel maggio 2014.




Report di una strage: il 24 luglio 1944 a Empoli

Luglio 1944.

I tedeschi si muovono verso Firenze, incalzati dall’avvicinarsi delle truppe alleate impegnate nell’opera di liberazione.
E’ lunedì, il 24 per la precisione, e alcuni soldati tedeschi si avvicinano ad un casupola alla periferia di Empoli, in una zona conosciuta come Pratovecchio. Probabilmente cercano informazioni, ma si scontrano con i partigiani che sono riuniti proprio lì. Ne nasce uno scontro a fuoco e diversi soldati muoiono. Scatta la rappresaglia e molti uomini vengono rastrellati a forza nel circondario e senza spiegazioni costretti a spengere un incendio appiccato dai tedeschi. Qualcuno riesce a fuggire, ma in trenta vengono condotti verso il centro di Empoli e fucilati.

Solo uno si salva, dandosi alla fuga poco prima dell’esecuzione. Ventinove persone rimangono a terra nella piazza F. Ferrucci, ventinove nomi sono ricordati nella stessa piazza che ora commemora il “XXIV luglio”. Arturo Passerotti è l’unico superstite alla strage.

Muoiono Luigi Bagnoli (61 anni), Mario Bargigli (22 a.), Guido Bartolini (28 a.), Arduino Bitossi (60 a.), Orlando Boldrini (60 a.), Pietro Capecchi (50 a.), Bruno, Francesco e Giulio Cerbioni (18, 66 e 28 a.), Gaspero e Gino Chelini (46 e 52 a.), Giuseppe, Pietro e Virgilio Ciampi (55, 48 e 51 a.), Giulio Cianti (55 a.), Pasquale Gimignani (55 a.), Corrado Gori (64 a.), Giulio e Pietro Martini (66 e 59 a.), Gino Morelli (56 a.), Palmiro Nucci (56 a.), Gaspero Padovani (78 a.), Alfredo Parri (34 a.), Antonio Parrini (56 a.), Carlo Peruzzi (62 a.), Gino Piccini (48 a.), Alfredo Pucci (51 a.), Gino Taddei (38 a.) e Domenico Vizzone (45 a.).
Quello stesso giorno il comando tedesco mina i campanili del Duomo e degli Agostiniani e la porta Pisana.

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Articolo pubblicato nel gennaio 2014




Maria Luigia Guaita (1912-2007)

Maria Luigia Guaita

Maria Luigia Guaita nasce a Pisa l’11 agosto 1912. Cresciuta tra Torino e Firenze, nel capoluogo toscano si avvicina agli ambienti liberalsocialisti. Agli inizi degli anni Quaranta, assieme al fratello Giovanni, aderisce al Partito d’Azione (Pd’A) e inizia a operare come staffetta, contribuendo in particolare alla diffusione di stampa antifascista e all’organizzazione delle cellule clandestine legate al partito. Durante l’occupazione tedesca, il Comando militare azionista le affida, inoltre, il mantenimento dei contatti tra il Comitato toscano di liberazione nazionale (CTLN), gli Alleati e le formazioni partigiane presenti nell’area compresa tra Viareggio, Massa Carrara, la Lunigiana e il Pistoiese. Di particolare rilievo risulta anche la sua partecipazione alla “Commissione intendenza” del Pd’A, principalmente con mansioni inerenti alla falsificazione di documenti, permessi e timbri utili per l’assistenza ai partigiani e ai perseguitati politici. È durante questo periodo che la sua abitazione fiorentina, in via Giovanni Caselli 4, nella zona del Campo di Marte, diviene uno dei punti di riferimento dell’organizzazione clandestina azionista. Per il tenace e valoroso impegno profuso nella lotta al nazifascismo, Maria Luigia Guaita sarà riconosciuta partigiano combattente, afferente alla Divisione “Giustizia e Libertà”- Servizio “I” (Informazioni).

Nei primi anni di vita della giovane Repubblica italiana, delusa dal prematuro scioglimento del Pd’A e non riconoscendosi in altri partiti, Maria Luigia Guaita decide di non occuparsi più di politica.

Maria Luigia Guaita

Tale assenza viene da lei compensata con un intenso impegno nel campo dell’imprenditoria e della cultura: attiva nel settore tessile pratese, a fine anni Cinquanta fonda, a Firenze, la Stamperia d’arte “Il Bisonte”, cui segue l’apertura di una scuola per insegnare ai giovani le tecniche tradizionali dell’incisione. Promotrice e animatrice delle Edizioni “U”, che pubblicano libri sull’arte contemporanea italiana, collaboratrice della rivista “Il Mondo” di Mario Pannunzio, Maria Luigia Guaita è anche autrice di un noto libro di memorie, La guerra finisce, la guerra continua, edito nel 1957 nei “Quaderni de Il Ponte”, diretti da Piero Calamandrei.

Nel 1981 il presidente della Repubblica Sandro Pertini le conferisce il titolo di commendatore. Maria Luigia Guaita muore a Firenze il 26 dicembre 2007. In lei l’azionista Ferruccio Parri, il comandante “Maurizio”, ha riconosciuta “una delle staffette più brave, ardite, estrose e generose” della lotta di Liberazione.

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🟧Intervista a MARIA LUIGIA GUAITA, in L. Antonelli, “Voci dalla storia. Le donne della Resistenza in Toscana tra storie di vita e percorsi di emancipazione”, Pentalinea, 2006, p. 153

Come ha fatto ad entrare nella Resistenza?
Come? Ero un’antifascista eh. La mia famiglia era antifascista, mio fratello… soltanto che io sono sempre molto…voglio sempre fare di più di quello che debbo fare e m’hanno fatto fare la steffetta partigiana. Sono stata io che ho avvertito gli americani, gli inglesi che i tedeschi se ne stavano andando di Firenze. Io andai ad avvertire che suonassero la campana del Bargello, sono stata la prima che ho passato tutto il Palazzo Vecchio.
[…]
È stata un’esperienza bella?
No, l’esperienza della Resistenza è stata un’esperienza piena di paure, ci voleva proprio tutto il mio coraggio, non era molto bello e poi sono morti anche tanti amici.




Teresa Mattei (1921-2013)

Teresa Mattei

 

Nasce in provincia di Genova nel 1921, in una numerosa famiglia borghese cattolica e di tradizione liberale. Cresce a Firenze in un clima culturalmente vivace e anticonformista; i suoi famigliari condividono una precoce attività antifascista, dal boicottaggio alla propaganda. Durante gli anni della guerra civile in Spagna a Teresa, allora sedicenne, viene affidato il compito di trasportare in Francia una colletta per i fratelli Rosselli.

Teresa Mattei

Fin dall’infanzia si mostra capace di svolgere un’analisi critica del fascismo, con un’attitudine al ribellismo verso le ingiustizie e alla disobbedienza nei confronti delle istituzioni del regime. Ne paga le conseguenze in prima persona: emblematico è l’episodio in cui si esprime con fermezza contro le leggi razziali, che le costa l’espulsione immediata dal Liceo Michelangiolo e da tutte le scuole del Regno; consegue il diploma da privatista e si iscrive a Filosofia all’Università di Firenze, laureandosi nel 1944.

La sua attività antifascista ha un crescendo con l’inizio della guerra, a cui si oppone organizzando una manifestazione, e successivamente con la propaganda antifascista e antinazista e il sabotaggio dei macchinari nelle fabbriche destinate alla produzione bellica. Nel 1942 insieme al fratello Gianfranco si iscrive al PCI e partecipa alle prime riunioni che seguono il 25 luglio 1943. Dall’8 settembre partecipa alla Resistenza col nome di battaglia “Chicchi”, entrando in clandestinità e lavorando con i Gruppi di difesa della donna, col Fronte della gioventù comunista e coi Gruppi di azione patriottica (GAP), con attività di assistenza, di organizzatrice e di staffetta; contribuisce inoltre all’organizzazione degli scioperi del marzo 1944 a Firenze e a Empoli.

È un periodo segnato da ferite profonde e perdite incolmabili, come quella del fratello Gianfranco, che, arrestato a Roma a causa di una delazione per cui era stato individuato come artificiere dei GAP, sceglie di suicidarsi nel luogo di detenzione di Via Tasso, dopo atroci torture. Nei giorni della Liberazione di Firenze è attiva come staffetta tra il fuoco incrociato e al comando della compagnia “Gianfranco Mattei” del Fronte della gioventù.

Teresa Mattei, la più giovane delle madri costituenti, nel giorno della firma della Costituzione

Nel dopoguerra è la più giovane eletta nell’Assemblea costituente e ne diviene segretaria di Presidenza. Espulsa dal PCI nel 1955 perché non condivide la linea del partito, si impegna per tutta la vita sul piano politico, sociale e culturale nell’affermare l’uguaglianza sostanziale, i diritti delle donne, delle bambine e dei bambini. La sua figura è legata all’articolo 3 della Costituzione, che contribuisce a scrivere, e alla mimosa, perché proprio lei lo propone come fiore simbolo per la festa dell’8 marzo. Negli ultimi decenni risiede vicino Lari, in provincia di Pisa, dove muore nel 2013.

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 🟥 Intervista di Bruno Enriotti e Ibio Paolucci, Dall’antifascismo attivo all’Assemblea Costituente, “Triangolo rosso”, maggio 2004, pp. 11-3.

Mio padre ha sostenuto sempre la necessità di un impegno diretto, soprattutto di noi giovani, nei confronti di un regime che – lui lo aveva capito – avrebbe portato l’Italia al disastro. Diceva che per essere antifascisti non ci si può limitare a raccontare barzellette contro il regime.
Per questo, quando avevo poco più di 16 anni, venni mandata in Costa Azzurra, per portare dei soldi ai fratelli Rosselli, capi di Giustizia e Libertà. Al ritorno venni arrestata, mentre mi trovavo a Mantova da don Primo Mazzolari. Sapevano che ero stata in Francia e quel mio incontro con un prete antifascista li insospettì, ma riuscii a cavarmela dicendo che mi occupavo di problemi religiosi. In quegli anni l’attività antifascista di tutta la nostra famiglia era notevole. In casa stampavamo in modo rudimentale dei volantini che poi con mio fratello Nino andavamo a mettere nelle buche delle lettere, all’ufficio postale o a quello dei telefoni. […]
Qualche giorno dopo il 25 luglio, credo fosse il 30, vi fu una grande riunione antifascista al Politecnico di Milano. Mio fratello Gianfranco era allora assistente di Natta, insignito in seguito del premio Nobel. Mio fratello era un chimico molto promettente, tanto è vero che dopo la Liberazione, Natta disse a mia madre che buona parte di quel premio se lo meritava Gianfranco, per le sue ricerche. Io vivevo a Firenze e Gianfranco mi avvertì di venire a Milano per partecipare a quella riunione. Cosa che feci e partecipai così ad un incontro di alto significato politico: gli intellettuali milanesi che si impegnavano a lottare contro il fascismo.
Poi tornai a Firenze, entusiasmata; e mi impegnai con gli antifascisti di quella Università dove frequentavo la Facoltà di Lettere. Ricordo Adriana Fabbri e Adriano Seroni che poi si sposarono e lei con il nome del marito divenne responsabile delle donne del Pci, ricordo Aldo Braibanti e molti altri giovani di allora. Facemmo una sorta di associazione degli studenti antifascisti e pochi giorni dopo, l’8 settembre, mentre eravamo riuniti, udimmo i carri armati tedeschi che passavano per piazza San Marco. Riunimmo le nostre forze e capimmo che dovevamo passare alla clandestinità. Con noi c’erano anche Mario Spinella ed Emanuele Rocco, ci riunivamo in casa sua. Io tenevo i collegamenti tra i diversi gruppi partigiani, ero una staffetta, ma facevo anche azioni molto più impegnative. Come quella del 3 giugno 1944. […]
Ricordo molto bene la data perché il giorno dopo mi sono laureata in modo rocambolesco.
Dunque avevamo saputo che in una galleria, i tedeschi avevano nascosto dei vagoni carichi di esplosivo, soprattutto dinamite. Io e un altro ragazzo, Dante, dovevamo farli saltare. Ci siamo inoltrati nel tunnel, io da una imboccatura lui dall’altra e siamo riusciti ad accendere una miccia, fuggendo da parti diverse prima dell’esplosione.
Quando essa avvenne io ero fuori dal tunnel; Dante, invece, era inciampato e l’esplosione lo ha travolto. È stata una cosa orribile. Sono fuggita in bicicletta e capivo che i tedeschi mi stavano inseguendo. Mi sono rifugiata nell’Università e sono entrata in una stanza dove Garin teneva una riunione di professori.1 Proprio con Garin in quei mesi stavo preparando la tesi. Gli ho detto: “professore, i tedeschi mi stanno inseguendo, dica che sono qui per discutere la tesi”. Così fecero e quando i tedeschi entrarono Garin disse: “questa ragazza sta discutendo la sua tesi, è sempre stata qui”. Con questo stratagemma non solo mi sono salvata, ma i professori hanno considerato valida la discussione della mia tesi e mi hanno laureato.

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🟩L’Italia è libera! Protagonisti della Resistenza – Nell’ambito del webdoc di RaiCultura ‘25 Aprile: il giorno della Liberazione’



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🟧 Belle storie. Donne e uomini nella Resistenza – Radio Rai3 – Michela Ponzani racconta la vita di Teresa Mattei, partigiana comunista, Firenze e Roma. Per la trasmissione di Rai Radio3 ‘Belle storie. Donne e uomini nella Resistenza’.



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🟦 Teresa Mattei raccontata da Simonetta Soldani, Puntata di Wikiradio del 08/03/2017