Vittorio Locchi

Vittorio_Locchi_Toscana_NovecentoQuella di Vittorio Locchi è stata una figura di rilievo nel panorama della poesia italiana di inizio Novecento. Poeta ben più che promettente scomparse però, a soli 28 anni, a causa di un sommergibile tedesco durante la prima guerra mondiale.

Locchi era nato a Figline Valdarno l’8 marzo 1889. Aveva ricevuto il medesimo nome del padre ucciso solo tre mesi prima mentre cercava di separare due contendenti in una rissa. La sua adolescenza è quella di un ragazzino esuberante, uno scapestrato. I giochi all’aria aperta e i cavalli lo attirano più dei libri. Uno dei suoi due biografi, Vittorio Franchini, racconta un episodio di una lite con un compagno. In un impeto d’ira il giovane Vittorio afferra un calamaio e glielo scaglia addosso. Il maestro si infuria e gli pone un ultimatum «O mettete giudizio, o coi cavalli di ‘Zio Pasqualone’». Vittorio resta appartato tutta la mattina, poi con fare sicuro va verso il maestro e lo informa della decisione «voglio studiare», gli dice.
Si fa chiudere in un collegio a Firenze. Studia ardentemente e in un anno recupera il tempo perduto prendendo la licenza tecnica. Prosegue gli studi all’Istituto tecnico, ramo Ragioneria. E qui ha il primo incontro fondamentale della sua carriera: quello con il suo professore, il poeta di scuola carducciana Diego Garoglio. È questi il primo ad accorgersi del talento del giovane. Allora Vittorio è ideatore e direttore del giornalino “L’Idea studentesca” un foglio portatore di idee patriottiche e nazionalistiche.

Tornando a Figline Valdarno Vittorio dà vita con alcuni amici ad una brigata in cui si compongono e si leggono poesie. I luoghi di raduno sono le sponde del fiume Resco e un bar nella piazza del paese. La loro diventa la “Brigata del Giacchio”. È lo stesso Vittorio Locchi a raccontare l’origine del singolare nome:
«Una sera che il vento soffiava più forte, nacque d’improvviso il nome della brigata. Uno di noi, il più sciammanato e allegro […] portava sempre […] una giacca ampia e prolissa che non finiva mai. A vederlo, così lungo e magro com’è, camminare […] sventolando le braccia con le falde di quella sua giacchettina sempre al vento come ali, pareva proprio un uccellaccio. Quella sera il vento era più forte e a veder venire l’amico verso di noi come portato dalla giacchetta, mi venne fatto di dire: ‘Ecco il giacchio’. In lingua ‘giacchio’ è una rete, ma io gli avevo dato un significato tutto mio di giacchettine, tutti lo capirono subito e sul momento fu stabilito di chiamare la nostra compagnia ‘La Brigata del giacchio.’».

Nella brigata viene composto il nucleo di quelle poesie che, pochi anni dopo, verranno pubblicate come “Le canzoni del Giacchio.” Intanto Vittorio diplomatosi ragioniere ha necessità di un impiego. È il 1909, ha vent’anni, e trova lavoro come contabile in un’azienda fiorentina. È un lavoratore scrupoloso, per quanto di fronte alle  non riesca a non distrarsi e così alcuni clienti alle lettere contabili trovano allegati fogli di poesie. Vince poi un concorso per impiegato postale. Deve lasciare familiari e amici e partire per Venezia.

È il 1910. Il periodo veneziano, che per Vittorio durerà fino alla sua chiamata al fronte, si dimostrerà il più importante e fecondo. Fonda una nuova compagnia poetica che chiama “Tempestissima”. Si fa strada nel giornalismo e collabora con il giornale “L’Adriatico”. Grazie all’interessamento del suo vecchio professore Diego Garoglio riesce a pubblicare nella collana “Scrittori nostri” una scelta di liriche del poeta veneziano del XV secolo Giustinian da lui commentate. Si consolida poi in lui una fiorente vena drammaturgica e compone “La Notte di Natale”, “La Tempesta” e soprattutto “L’Uragano”.

Negli anni veneziani avverrà anche l’incontro che lo consacrerà come uno dei più promettenti giovani poeti italiani: quello con l’editore spezzino Ettore Cozzani. Questi pubblica una collana di poesia denominata “l’Eroica”, a celebrare la poesia che eroicamente resiste nonostante i tempi ostili. Il critico Sam Benelli gli fa avere alcune poesie del giovane Vittorio e Cozzani ne rimane entusiasta e decide di pubblicarle nel 1914 ne “L’Eroica” con il titolo “Le canzoni del Giacchio”.

Intanto, sempre nel 1914, quando Gabriele D’Annunzio pronuncia a Quarto la famosa orazione per l’intervento italiano nella prima guerra mondiale Vittorio ascolta entusiasta. Rientrato a Venezia, una sera balza sui tavoli di un caffè in Piazza San Marco e arringa la folla.
Frontespizio Santa GoriziaCon l’ingresso dell’Italia in guerra il 24 maggio 1915, Vittorio parte immediatamente per il fronte come tenente della XII divisione di fanteria. Al fronte scrive articoli per il Giornale d’Italia e compone “Il Testamento”. Si ammala, ma riesce a rientrare in tempo per partecipare il 9 agosto 1916 alla presa di Gorizia. Il generale Laderchi ha per Vittorio un incarico diverso dal suo ruolo abituale: comporre un poema per celebrare il successo. Obietta timidamente che forse non è la persona più adatta. Ma non può discutere l’ordine e completa l’opera prima del Natale di quell’anno. Ne nascerà la sua opera più famosa, “La Sagra di Santa Gorizia”, che pubblicata postuma per iniziativa del Cozzani verrà ristampata continuamente  fino al 1968.

Poco prima, nonostante le condizioni di salute non ottimali, Locchi aveva scritto ai superiori chiedendo di “tenerlo presente nell’eventualità di una spedizione all’estero: essendo scapolo, giovane ed entusiasta della nostra guerra, sarà tanto più lieto quanto più si tratterà di andare lontano e d’incontrare rischi e disagi”.
All’inizio del 1917 il comando italiano decide di inviare un corpo di spedizione in Palestina. Vittorio Locchi viene prescelto per partecipare. Deve imbarcarsi per Napoli il 13 febbraio. Sono cinque le navi che salpano da quel porto. A Vittorio, che è ufficiale, sarebbe destinata una nave più agiata. Sceglie invece di imbarcarsi su una nave stracolma di soldati semplici: il Minas. La scelta gli sarà fatale. Il Minas viene affondato da un sommergibile tedesco a largo delle coste greche il 15 febbraio 1917.
Per alcuni giorni la famiglia di Vittorio spera. Poi la testimonianza del tenente Luigi Trevale scampato al naufragio fa piazza pulita di ogni dubbio. Vittorio ha scelto di andare incontro al suo destino, senza accapigliarsi con il resto della folla per un posto sulle scialuppe insufficienti. La testimonianza del Trevali è riportata da Cozzani nella sua appassionatissima biografia Come visse e come morì Vittorio Locchi. «È morto eroicamente cercando di calmare l’equipaggio in preda al panico. Il primo siluro, urla con tutta la sua forza il giovane Vittorio, non ha colpito gravemente, la nave non sta affondando. Poi un secondo sicuro e la nave si inclina verticalmente scomparendo in pochi minuti.».

Articolo pubblicato nel luglio 2014.




Antifascisti e perseguitati politici nel Chianti

ANTIFASCISTI_5Che cosa hanno rappresentato, per le popolazioni del Chianti, la dittatura e il regime fascista? Domanda non facile a cui la storiografia non ha ancora dato, a tutt’oggi, una risposta soddisfacente. La memoria delle violenze, delle sopraffazioni, delle tragedie provocate dalla dittatura con la suapolitica razzista, imperialista, aggressiva e guerrafondaia nel ventennio, ha sicuramente lasciato una traccia nella memoria della gente ma non ha prodotto ancora risultati significativi sul piano della conoscenza storica.

I dati che si propongono nelle tabelle seguenti sono il risultato di lunghe ricerche effettuate su documenti finora poco studiati ma di grande importanza. Si tratta dei fascicoli del Casellario politico centrale, dipendente dal Ministero degli Interni, direzione generale di pubblica sicurezza, conservate presso l’Archivio centrale dello Stato a Roma. Dallo studio e dall’analisi delle migliaia e migliaia di fascicoli intestati ad altrettanti antifascisti, sovversivi o anche semplici cittadini sottoposti alle misure poliziesche del regime fascista, emerge un universo dolorante e represso, un intreccio di storie e di peripezie che hanno caratterizzato il ventennio nel nostro paese e nella nostra regione, ma che finora raramente sono affiorate nelle ricostruzioni di uno dei periodi più drammatici della storia.

I dati che si forniscono richiederebbero una spiegazione ampia e approfondita, ma già nella loro crudezza e immediatezza offrono ampia materia di riflessione. Basti pensare che, in un territorio come il Chianti, popolato da non più di 70-80.000 persone ma con un tessuto urbano rarefatto e diffuso in un’area più ampia a forte connotazione agricola, sono oltre 200 gli schedati come antifascisti, sovversivi e perseguitati politici da tenere sotto sorveglianza e da sottoporre a misure repressive e restrittive della libertà, a provvedimenti che possono privare del lavoro e ridurre in miseria intere famiglie. Già, perché in realtà non si tratta solo di 205 individui, ma di 205 nuclei familiari, ciascuno con le sue reti di parentela e di amicizie. Sono dunque 205 storie di vita, 205 itinerari biografici che si snodano attraverso violenze subite, angherie, miserie, tragedie di vita quotidiana.

ANTIFASCISITI_628 persone saranno deferite al Tribunale Speciale per la difesa dello Stato, quel famigerato tribunale da cui sono passati i Gramsci, i Pertini e tanti altri grandi della nostra storia. Anche una donna nata a Montespertoli, Preziosa Borri, casalinga e comunista, finita sotto le grinfie degli sbirri nel 1929, quando aveva già 65 anni, veniva deferita al tribunale speciale; 19 persone finiranno al confino di polizia, costrette ad abbandonare famiglia, casa, lavoro, amicizie, abitudini, libertà; 18 emigreranno all’estero per motivi politici e finiranno iscritti nella rubrica di frontiera, con la minaccia incombente di venire arrestati non appena si fossero avvicinati a una frontiera nazionale; 14 finiranno nelle maglie della cosiddetta giustizia ordinaria, processati per reati classificati comuni, anche se di natura politica; 45 infine verranno sottoposti a diffida o ad ammonimento, che non erano provvedimenti innocui e senza conseguenze, soprattutto per quel che concerneva la conservazione del lavoro.

Venivano colpite persone delle più diverse appartenenze sociali e di livello culturale assai differenziato: si potevano trovare due possidenti accanto a 5 contadini, 14 coloni e 20 braccianti; o una dozzina di commercianti di vario livello: gestori di ristoranti, vinai, negozianti, salumieri, pizzicagnoli e perfino rappresentanti di commercio; o una settantina di artigiani, 17 calzolai, 11 falegnami, 7 meccanici, 3 fabbri, 3 parrucchieri e tanti altri come scalpellini, sarti, barrocciai, boscaioli, lattai, fornai, legatori di libri e tanti altri. Vi erano anche operai di industria, tipografi, ma anche un industriale e anche rappresentanti delle professioni, un veterinario, un geometra, un pubblicista, maestri e insegnanti e perfino un artista di varietà. Numerosi i ferrovieri, una decina e anche un carabiniere condannato, nel 1941, al confino di polizia. Naturalmente queste poche righe e questi pochi dati danno solo un’idea molto limitata e sommaria di quelle che furono le caratteristiche e le vicende dell’universo, del popolo degli antifascisti, dei perseguitati politici del regime. Ma il filone che si prospetta è particolarmente ricco e, per ognuno dei 205 nominativi è possibile andare a riscoprire e ristudiare, attraverso i fascicoli personali e con un lavoro di ricerca sulle fonti orali, attraverso le testimonianze, storie di vita vissuta e vissuta intensamente, drammaticamente.

L’articolo era stato pubblicato sulla rivista “InChianti” n. 10, 2004.

Ivano Tognarini, docente di Storia moderna all’Università di Siena, è stato Presidente dell’Istituto Storico della Resistenza in Toscana dal 2000 fino alla sua recente scomparsa il 15 marzo 2014. Questo piccolo contributo ne vuol ricordare il vasto impegno nello studio della presenza antifascista nell’Italia del Ventennio attraverso l’analisi della documentazione del Casellario politico centrale dello Stato.

Articolo pubblicato nel maggio 2014.




Report di una strage: il 24 luglio 1944 a Empoli

Luglio 1944.

I tedeschi si muovono verso Firenze, incalzati dall’avvicinarsi delle truppe alleate impegnate nell’opera di liberazione.
E’ lunedì, il 24 per la precisione, e alcuni soldati tedeschi si avvicinano ad un casupola alla periferia di Empoli, in una zona conosciuta come Pratovecchio. Probabilmente cercano informazioni, ma si scontrano con i partigiani che sono riuniti proprio lì. Ne nasce uno scontro a fuoco e diversi soldati muoiono. Scatta la rappresaglia e molti uomini vengono rastrellati a forza nel circondario e senza spiegazioni costretti a spengere un incendio appiccato dai tedeschi. Qualcuno riesce a fuggire, ma in trenta vengono condotti verso il centro di Empoli e fucilati.

Solo uno si salva, dandosi alla fuga poco prima dell’esecuzione. Ventinove persone rimangono a terra nella piazza F. Ferrucci, ventinove nomi sono ricordati nella stessa piazza che ora commemora il “XXIV luglio”. Arturo Passerotti è l’unico superstite alla strage.

Muoiono Luigi Bagnoli (61 anni), Mario Bargigli (22 a.), Guido Bartolini (28 a.), Arduino Bitossi (60 a.), Orlando Boldrini (60 a.), Pietro Capecchi (50 a.), Bruno, Francesco e Giulio Cerbioni (18, 66 e 28 a.), Gaspero e Gino Chelini (46 e 52 a.), Giuseppe, Pietro e Virgilio Ciampi (55, 48 e 51 a.), Giulio Cianti (55 a.), Pasquale Gimignani (55 a.), Corrado Gori (64 a.), Giulio e Pietro Martini (66 e 59 a.), Gino Morelli (56 a.), Palmiro Nucci (56 a.), Gaspero Padovani (78 a.), Alfredo Parri (34 a.), Antonio Parrini (56 a.), Carlo Peruzzi (62 a.), Gino Piccini (48 a.), Alfredo Pucci (51 a.), Gino Taddei (38 a.) e Domenico Vizzone (45 a.).
Quello stesso giorno il comando tedesco mina i campanili del Duomo e degli Agostiniani e la porta Pisana.

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Articolo pubblicato nel gennaio 2014




Maria Luigia Guaita (1912-2007)

Maria Luigia Guaita

Maria Luigia Guaita nasce a Pisa l’11 agosto 1912. Cresciuta tra Torino e Firenze, nel capoluogo toscano si avvicina agli ambienti liberalsocialisti. Agli inizi degli anni Quaranta, assieme al fratello Giovanni, aderisce al Partito d’Azione (Pd’A) e inizia a operare come staffetta, contribuendo in particolare alla diffusione di stampa antifascista e all’organizzazione delle cellule clandestine legate al partito. Durante l’occupazione tedesca, il Comando militare azionista le affida, inoltre, il mantenimento dei contatti tra il Comitato toscano di liberazione nazionale (CTLN), gli Alleati e le formazioni partigiane presenti nell’area compresa tra Viareggio, Massa Carrara, la Lunigiana e il Pistoiese. Di particolare rilievo risulta anche la sua partecipazione alla “Commissione intendenza” del Pd’A, principalmente con mansioni inerenti alla falsificazione di documenti, permessi e timbri utili per l’assistenza ai partigiani e ai perseguitati politici. È durante questo periodo che la sua abitazione fiorentina, in via Giovanni Caselli 4, nella zona del Campo di Marte, diviene uno dei punti di riferimento dell’organizzazione clandestina azionista. Per il tenace e valoroso impegno profuso nella lotta al nazifascismo, Maria Luigia Guaita sarà riconosciuta partigiano combattente, afferente alla Divisione “Giustizia e Libertà”- Servizio “I” (Informazioni).

Nei primi anni di vita della giovane Repubblica italiana, delusa dal prematuro scioglimento del Pd’A e non riconoscendosi in altri partiti, Maria Luigia Guaita decide di non occuparsi più di politica.

Maria Luigia Guaita

Tale assenza viene da lei compensata con un intenso impegno nel campo dell’imprenditoria e della cultura: attiva nel settore tessile pratese, a fine anni Cinquanta fonda, a Firenze, la Stamperia d’arte “Il Bisonte”, cui segue l’apertura di una scuola per insegnare ai giovani le tecniche tradizionali dell’incisione. Promotrice e animatrice delle Edizioni “U”, che pubblicano libri sull’arte contemporanea italiana, collaboratrice della rivista “Il Mondo” di Mario Pannunzio, Maria Luigia Guaita è anche autrice di un noto libro di memorie, La guerra finisce, la guerra continua, edito nel 1957 nei “Quaderni de Il Ponte”, diretti da Piero Calamandrei.

Nel 1981 il presidente della Repubblica Sandro Pertini le conferisce il titolo di commendatore. Maria Luigia Guaita muore a Firenze il 26 dicembre 2007. In lei l’azionista Ferruccio Parri, il comandante “Maurizio”, ha riconosciuta “una delle staffette più brave, ardite, estrose e generose” della lotta di Liberazione.

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🟧Intervista a MARIA LUIGIA GUAITA, in L. Antonelli, “Voci dalla storia. Le donne della Resistenza in Toscana tra storie di vita e percorsi di emancipazione”, Pentalinea, 2006, p. 153

Come ha fatto ad entrare nella Resistenza?
Come? Ero un’antifascista eh. La mia famiglia era antifascista, mio fratello… soltanto che io sono sempre molto…voglio sempre fare di più di quello che debbo fare e m’hanno fatto fare la steffetta partigiana. Sono stata io che ho avvertito gli americani, gli inglesi che i tedeschi se ne stavano andando di Firenze. Io andai ad avvertire che suonassero la campana del Bargello, sono stata la prima che ho passato tutto il Palazzo Vecchio.
[…]
È stata un’esperienza bella?
No, l’esperienza della Resistenza è stata un’esperienza piena di paure, ci voleva proprio tutto il mio coraggio, non era molto bello e poi sono morti anche tanti amici.




Teresa Mattei (1921-2013)

Teresa Mattei

 

Nasce in provincia di Genova nel 1921, in una numerosa famiglia borghese cattolica e di tradizione liberale. Cresce a Firenze in un clima culturalmente vivace e anticonformista; i suoi famigliari condividono una precoce attività antifascista, dal boicottaggio alla propaganda. Durante gli anni della guerra civile in Spagna a Teresa, allora sedicenne, viene affidato il compito di trasportare in Francia una colletta per i fratelli Rosselli.

Teresa Mattei

Fin dall’infanzia si mostra capace di svolgere un’analisi critica del fascismo, con un’attitudine al ribellismo verso le ingiustizie e alla disobbedienza nei confronti delle istituzioni del regime. Ne paga le conseguenze in prima persona: emblematico è l’episodio in cui si esprime con fermezza contro le leggi razziali, che le costa l’espulsione immediata dal Liceo Michelangiolo e da tutte le scuole del Regno; consegue il diploma da privatista e si iscrive a Filosofia all’Università di Firenze, laureandosi nel 1944.

La sua attività antifascista ha un crescendo con l’inizio della guerra, a cui si oppone organizzando una manifestazione, e successivamente con la propaganda antifascista e antinazista e il sabotaggio dei macchinari nelle fabbriche destinate alla produzione bellica. Nel 1942 insieme al fratello Gianfranco si iscrive al PCI e partecipa alle prime riunioni che seguono il 25 luglio 1943. Dall’8 settembre partecipa alla Resistenza col nome di battaglia “Chicchi”, entrando in clandestinità e lavorando con i Gruppi di difesa della donna, col Fronte della gioventù comunista e coi Gruppi di azione patriottica (GAP), con attività di assistenza, di organizzatrice e di staffetta; contribuisce inoltre all’organizzazione degli scioperi del marzo 1944 a Firenze e a Empoli.

È un periodo segnato da ferite profonde e perdite incolmabili, come quella del fratello Gianfranco, che, arrestato a Roma a causa di una delazione per cui era stato individuato come artificiere dei GAP, sceglie di suicidarsi nel luogo di detenzione di Via Tasso, dopo atroci torture. Nei giorni della Liberazione di Firenze è attiva come staffetta tra il fuoco incrociato e al comando della compagnia “Gianfranco Mattei” del Fronte della gioventù.

Teresa Mattei, la più giovane delle madri costituenti, nel giorno della firma della Costituzione

Nel dopoguerra è la più giovane eletta nell’Assemblea costituente e ne diviene segretaria di Presidenza. Espulsa dal PCI nel 1955 perché non condivide la linea del partito, si impegna per tutta la vita sul piano politico, sociale e culturale nell’affermare l’uguaglianza sostanziale, i diritti delle donne, delle bambine e dei bambini. La sua figura è legata all’articolo 3 della Costituzione, che contribuisce a scrivere, e alla mimosa, perché proprio lei lo propone come fiore simbolo per la festa dell’8 marzo. Negli ultimi decenni risiede vicino Lari, in provincia di Pisa, dove muore nel 2013.

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 🟥 Intervista di Bruno Enriotti e Ibio Paolucci, Dall’antifascismo attivo all’Assemblea Costituente, “Triangolo rosso”, maggio 2004, pp. 11-3.

Mio padre ha sostenuto sempre la necessità di un impegno diretto, soprattutto di noi giovani, nei confronti di un regime che – lui lo aveva capito – avrebbe portato l’Italia al disastro. Diceva che per essere antifascisti non ci si può limitare a raccontare barzellette contro il regime.
Per questo, quando avevo poco più di 16 anni, venni mandata in Costa Azzurra, per portare dei soldi ai fratelli Rosselli, capi di Giustizia e Libertà. Al ritorno venni arrestata, mentre mi trovavo a Mantova da don Primo Mazzolari. Sapevano che ero stata in Francia e quel mio incontro con un prete antifascista li insospettì, ma riuscii a cavarmela dicendo che mi occupavo di problemi religiosi. In quegli anni l’attività antifascista di tutta la nostra famiglia era notevole. In casa stampavamo in modo rudimentale dei volantini che poi con mio fratello Nino andavamo a mettere nelle buche delle lettere, all’ufficio postale o a quello dei telefoni. […]
Qualche giorno dopo il 25 luglio, credo fosse il 30, vi fu una grande riunione antifascista al Politecnico di Milano. Mio fratello Gianfranco era allora assistente di Natta, insignito in seguito del premio Nobel. Mio fratello era un chimico molto promettente, tanto è vero che dopo la Liberazione, Natta disse a mia madre che buona parte di quel premio se lo meritava Gianfranco, per le sue ricerche. Io vivevo a Firenze e Gianfranco mi avvertì di venire a Milano per partecipare a quella riunione. Cosa che feci e partecipai così ad un incontro di alto significato politico: gli intellettuali milanesi che si impegnavano a lottare contro il fascismo.
Poi tornai a Firenze, entusiasmata; e mi impegnai con gli antifascisti di quella Università dove frequentavo la Facoltà di Lettere. Ricordo Adriana Fabbri e Adriano Seroni che poi si sposarono e lei con il nome del marito divenne responsabile delle donne del Pci, ricordo Aldo Braibanti e molti altri giovani di allora. Facemmo una sorta di associazione degli studenti antifascisti e pochi giorni dopo, l’8 settembre, mentre eravamo riuniti, udimmo i carri armati tedeschi che passavano per piazza San Marco. Riunimmo le nostre forze e capimmo che dovevamo passare alla clandestinità. Con noi c’erano anche Mario Spinella ed Emanuele Rocco, ci riunivamo in casa sua. Io tenevo i collegamenti tra i diversi gruppi partigiani, ero una staffetta, ma facevo anche azioni molto più impegnative. Come quella del 3 giugno 1944. […]
Ricordo molto bene la data perché il giorno dopo mi sono laureata in modo rocambolesco.
Dunque avevamo saputo che in una galleria, i tedeschi avevano nascosto dei vagoni carichi di esplosivo, soprattutto dinamite. Io e un altro ragazzo, Dante, dovevamo farli saltare. Ci siamo inoltrati nel tunnel, io da una imboccatura lui dall’altra e siamo riusciti ad accendere una miccia, fuggendo da parti diverse prima dell’esplosione.
Quando essa avvenne io ero fuori dal tunnel; Dante, invece, era inciampato e l’esplosione lo ha travolto. È stata una cosa orribile. Sono fuggita in bicicletta e capivo che i tedeschi mi stavano inseguendo. Mi sono rifugiata nell’Università e sono entrata in una stanza dove Garin teneva una riunione di professori.1 Proprio con Garin in quei mesi stavo preparando la tesi. Gli ho detto: “professore, i tedeschi mi stanno inseguendo, dica che sono qui per discutere la tesi”. Così fecero e quando i tedeschi entrarono Garin disse: “questa ragazza sta discutendo la sua tesi, è sempre stata qui”. Con questo stratagemma non solo mi sono salvata, ma i professori hanno considerato valida la discussione della mia tesi e mi hanno laureato.

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🟩L’Italia è libera! Protagonisti della Resistenza – Nell’ambito del webdoc di RaiCultura ‘25 Aprile: il giorno della Liberazione’



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🟧 Belle storie. Donne e uomini nella Resistenza – Radio Rai3 – Michela Ponzani racconta la vita di Teresa Mattei, partigiana comunista, Firenze e Roma. Per la trasmissione di Rai Radio3 ‘Belle storie. Donne e uomini nella Resistenza’.



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🟦 Teresa Mattei raccontata da Simonetta Soldani, Puntata di Wikiradio del 08/03/2017






Anna Maria Enriques Agnoletti (1907-1944)

Anna Maria Enriques Agnoletti (©️Archivio ISRT, Fondo Leonardo Giorgi)

Anna Maria Enriques nasce a Bologna il 14 settembre 1907. Figlia del biologo Paolo Enriques, dovendone seguire gli spostamenti che la professione di docente universitario gli impone, trascorre l’infanzia in varie località della penisola. Stabilitasi a Firenze, si laurea in Lettere e filosofia e, nel 1933, ottiene il diploma in paleografia e archivistica presso la Scuola per bibliotecari ed archivisti paleografi, che dal giugno 2005 porta il suo nome.

Assunta presso l’Archivio di Stato di Firenze, nel 1936 diviene “primo archivista”, ma due anni dopo, a causa della promulgazione delle leggi razziali – il padre ha origini ebraiche – è costretta a lasciare l’impiego. Anna Maria già da tempo sta affrontando un personale, intenso percorso di fede che la porterà alla conversione al cattolicesimo, religione della madre Maria Clotilde. Il suo particolare caso, grazie all’interessamento di Giorgio La Pira e dell’arcivescovo di Firenze, il cardinale Elia Dalla Costa, giunge pertanto a conoscenza di monsignor Giovanni Battista Montini, allora sostituto alla Segreteria di Stato in Vaticano. Questi si adopera per farla assumere come paleografa presso la Biblioteca apostolica vaticana di Roma. Nella capitale, a partire dal 1939, Anna Maria frequenta gli ambienti cattolici ed entra in confidenza con Gerardo Bruni, anch’egli bibliotecario alla Apostolica, avvicinandosi al movimento cristiano-sociale.

Anna Maria Enriques Agnoletti

Dopo l’8 settembre, Anna Maria si impegna nella propaganda e nell’assistenza ai patrioti, ai prigionieri politici e agli ebrei. Rientrata a Firenze, contribuisce inoltre al mantenimento dei contatti tra il Partito d’Azione, in cui opera il fratello Enzo, e il movimento cristiano-sociale livornese, soprattutto tramite lo stretto legame con don Roberto Angeli, che per la sua attività antifascista finirà deportato a Dachau.

Nel maggio 1944 la sua identità viene scoperta. Arrestata assieme alla madre, tradotta in carcere, poi rinchiusa a Villa “Triste”, subisce atroci torture senza mai cedere e fornire informazioni che possano mettere in pericolo la vita delle compagne e dei compagni di lotta. Trasferita nel carcere femminile di Santa Verdiana, il 12 giugno 1944 viene prelevata da tedeschi e portata a Cercina, nella zona di Monte Morello; qui viene fucilata assieme ad altri cinque militari e ad un partigiano cecoslovacco.

Nel 1947 le viene conferita la Medaglia d’oro al valor militare alla memoria, quale “indimenticabile esempio di valore e di sacrificio”.

Murales dedicato ad Anna Maria Enriques Agnoletti a Sesto Fiorentino

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🟪Isabella Insolvibile racconta la vita di Anna Maria Enriques Agnoletti per la trasmissione di Rai Radio3 ‘Belle storie. Donne e uomini nella Resistenza’.



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🟦Documentario realizzato dalla Rai in occasione del ventennale della Liberazione, e diretto da Liliana Cavani. Con storie e testimonianze di e su Germana Boldrini (Bologna), Norma Barbolini (Modena), Adriana Locatelli (Bergamo), Gilda Larocca (Firenze), Tosca Bucarelli (Firenze), Marcella Monaco (Roma), Maria Giraudo, Anna Maria Enriques Agnoletti e sua madre, Suor Gaetana del carcere di Santa Verdiana (Firenze), Maria Montuoro (Milano)

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🟩 Storia di Anna Maria Enriques Agnoletti – Video a cura dell’Università di Firenze




Eleonora Benveduti Turziani, detta Noretta (1908-1993)

Eleonora Benveduti Turziani (Credits: Giaccai)

Nata a Roma il 30 marzo 1908, Eleonora “Noretta” Benveduti trascorre l’infanzia e la prima giovinezza a Gubbio, dove consegue il diploma magistrale e si dedica all’insegnamento. Nel 1938 si laurea in Pedagogia a Roma e successivamente si trasferisce a Firenze per insegnare materie letterarie negli istituti superiori; dall’ottobre 1939 al maggio 1940 prosegue la sua attività di docente presso il R. Ginnasio di Derna, in Libia. Rientrata in patria dopo l’ingresso dell’Italia nel secondo conflitto mondiale, all’insegnamento scolastico affianca i compiti di assistente alla cattedra di Storia della filosofia dell’Università di Firenze.

Donna colta ed emancipata, negli anni Trenta “Noretta” si avvicina, grazie a Joyce Lussu1, al movimento di Giustizia e Libertà. A Perugia, inoltre, ha modo di frequentare gli ambienti liberalsocialisti e di conoscere Aldo Capitini2. Nei primi anni Quaranta aderisce al neonato Partito d’Azione (Pd’A) insieme al marito Giovanni Turziani, riscuotendo la piena fiducia dei compagni. Nel settembre 1943 il Comando esecutivo azionista le affida la responsabilità della “Commissione intendenza”, che si occupa prevalentemente degli approvvigionamenti per le formazioni partigiane in montagna e per i gruppi di città, nonché di garantire protezione a fuggiaschi e perseguitati politici e razziali mediante la fornitura di documenti falsi, vestiario, viveri e medicinali. Arrestata in novembre dagli uomini di Mario Carità, capo del Reparto servizi speciali della polizia fascista, pochi mesi dopo il rilascio – rimossa dall’insegnamento per motivi politici – entra in clandestinità.

Eleonora Benveduti Turziani (Credits: labibliotecadiscandicci.wordpress.com)

Continuerà instancabilmente ad operare per il partito fino al giorno dell’insurrezione di Firenze, l’11 agosto 1944: a guerra finita le sarà riconosciuta la qualifica di partigiana combattente afferente alla III Divisione “Giustizia e Libertà”.

Dopo la Liberazione, Eleonora prosegue il proprio impegno pubblico: candidata alla Costituente senza essere però eletta, lascia il Pd’A prima della sua definitiva fine politica e si iscrive al PCI, nelle cui liste viene eletta in Consiglio comunale a Firenze (novembre 1946).

Già presidente provinciale dell’Unione donne italiane, dal 1951 al 1961 ricopre la carica di sindaco di Scandicci; successivamente viene eletta consigliere provinciale.

Abbandona il PCI nel 1965, a seguito di forti contrasti interni. Decide allora di dedicarsi principalmente allo studio e all’organizzazione di liberi corsi su temi politici, filosofici e sociali, molto apprezzati dal pubblico e frequentati anche da numerosi studenti. Ritornata nella sua Gubbio nel 1989, “Noretta” vi muore il 17 giugno 1993.

Eleonora Benveduti Turziani nel 1950 tra i fondatori dell’ISRT (Credits: labibliotecadiscandicci.wordpress.com)

NOTE:

1 Joyce Lussu (Gioconda Beatrice Salvadori Paleotti, 1912-1998) è stata una scrittrice e traduttrice, capitano nelle brigate Giustizia e Libertà, Medaglia d’argento al valor militare, moglie del politico e scrittore Emilio Lussu.

2 Aldo Capitini (1899-1968) è stato un intellettuale e politico antifascista, teorico del movimento nonviolento.

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🟥Memoria di testimoni in: Sandro Contini Bonacossi, Licia Ragghianti Collobi (a cura di), “Una lotta nel suo corso. Lettere e documenti politici e militari della Resistenza e della Liberazione“, prefazione di Ferruccio Parri, Venezia, Neri Pozza, 1954, p. 302.

La Commissione Intendenza fu affidata da principio ad Eleonora Turziani, coadiuvata da Eva Mori, Bice Paoletto, Andreina Morandi, Elena Fanfani, Flunci, Romano Ragazzini, ed altri, e Bernardo Seeber per la Commissione Prigionieri. Già il 13 settembre aveva organizzato sia i depositi, che i turni di servizio per la consegna ai gruppi armati, secondo le indicazioni del Comando Militare. Per dare un’idea della ristrettezza di mezzi, si pensi che alla commissione non poterono essere assegnate, all’inizio, che cinquemila lire mensili. Tuttavia coi doni ed anche con i colpi di mano su magazzini e caserme si riusciva a rendere cospicue le riserve di viveri, di medicinali, di vestiario, coperte ed oggetti per i partigiani. Per esempio nel novembre Giorgio Faitsman e Max Boris poterono procurare, con un colpo di mano ad un magazzino militare, 160 teli da tenda, e un ingentissimo quantitativo di coperte e vestiario militare, che furono poi preziosi d’inverno; mentre Giovanni Turziani, medico distaccato dal P. d’Az. in servizio, traeva dal magazzino dell’Ospedale militare di Villa Granduchessa altro materiale prezioso. Per dare un’altra idea delle occorrenze, si ricorda che il 22 dicembre 1943 il comando chiese alla Turziani 350 carte annonarie per i partigiani. Arrestata da Carità il 23 dicembre (e per fortuna era stato fatto sparire dalla casa un deposito compromettente di materiali, e specialmente 150 bracciali tricolori con la scritta CTLN ordinati per i patriotti), fu sostituita da Eva Mori, e poi soprattutto da Achille Belloni (Prati), che già cooperava al servizio dall’ottobre. La Turziani veniva poi rilasciata e riprendeva attività di assistenza alle famiglie dei patriotti dal febbraio 1944.




Maria Assunta Lorenzoni, detta Tina (1918-1944)

Tina Lorenzoni (©️Archivio ISRT, Fondo Tina Lorenzoni)

Figlia dell’economista e docente universitario Giovanni Lorenzoni, nasce a Macerata il 15 agosto 1918. Iscritta alla Facoltà di Magistero, con l’entrata in guerra dell’Italia lascia gli studi e presta servizio come crocerossina in soccorso ai feriti di ritorno dal fronte. Dopo l’8 settembre 1943 Maria Assunta Lorenzoni entra in contatto con il Partito d’Azione. “Tina” – questo il nome di battaglia scelto –, entra a fare parte della Brigata V, formazione partigiana inquadrata nella I Divisione “Giustizia e Libertà”. Durante l’occupazione tedesca di Firenze, che durerà undici lunghi mesi, Tina Lorenzoni si adopera in soccorso di ebrei e perseguitati politici, cercando di favorirne la fuga in Svizzera sia procurando loro documenti e carte annonarie falsi, sia accompagnandoli personalmente nel Nord Italia. Staffetta coraggiosa, assiste feriti e malati militari e civili e collabora al reperimento di medicinali e di generi di conforto. Nei giorni cruciali della battaglia di Firenze, Tina attraversa più volte la linea del fronte, mantenendo i collegamenti tra le forze partigiane a nord della città e il Comando d’Oltrarno. Durante una di queste azioni, viene catturata da una pattuglia tedesca e condotta a Villa La Cisterna, sede del comando nazista, per essere interrogata.

Francobollo commemorativo

Il 21 agosto 1944, nel tentativo di sfuggire ai suoi aguzzini, viene freddata da una raffica di mitra: ha soltanto 25 anni. Lo stesso giorno il padre Giovanni, appresa la notizia della cattura di Tina, ma inconsapevole della sua tragica fine, attraversa la città insorta e raggiunge un avamposto alleato per avere notizie della figlia: resta ucciso probabilmente dallo scoppio di una granata tedesca, anche se altre fonti fanno riferimento ad un colpo mortale sparato da un franco tiratore repubblichino.

Maria Assunta Lorenzoni sarà insignita della Medaglia d’oro al valor militare alla memoria. Nel documento per la richiesta della medaglia, il comandante della Brigata Vittorio Sorani presenta la proposta di decorazione usando un linguaggio che, oltre ad essere dettato dalla vicinanza emotiva agli eventi, è modellato sulle celebrazioni delle eroine del Risorgimento. Se il numero di 200 ebrei salvati non si riferisce alla sola attività di Tina, ma a una più ampia rete di soccorso, il testo ripercorre invece fedelmente i suoi ambiti di intervento e offre interessanti indicazioni sulla sua personalità.

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