La seconda guerra mondiale a Lamporecchio

Nessun paese toscano rimase intatto dall’orda nazifascista scatenata in Italia dopo la pubblicazione dell’Armistizio, l’8 settembre 1943. L’esercito tedesco occupò gran parte della penisola e vi stabilì le basi per imporre la propria volontà; la piana pistoiese fu coinvolta nel conflitto per circa un anno, fino ai primi giorni del settembre 1944, quando i partigiani occuparono i paesi abbandonati dai tedeschi prima dell’arrivo delle forze angloamericane.
In quei giorni, nel caos generale, furono molti i soldati alleati che scapparono e trovarono rifugio presso famiglie italiane, aiutati dai cosiddetti “helpers” che dettero loro protezione assicurando vitto e vestiti, alloggio in casa o nei fienili. Nel pistoiese le zone interessate da questi eventi furono principalmente quelle pedemontane; tuttavia a Porciano quattro ex-prigionieri inglesi furono catturati il 22 ottobre 1944, dopo che avevano ricevuto aiuto a Cantagrillo.
Il ruolo di commissario prefettizio, responsabile della gestione dell’intero comune, fu ricoperto da Afrisio Vannacci fino al 2 novembre 1943, quando venne sostituito dal geometra Bindo Martelli, coadiuvato dal sub-commissario Cesare Benelli.
Uno dei fatti più gravi verificatosi nella cittadina fu l’arresto di quattro uomini di origine ebraica portato a termine da fascisti italiani: Enrico Menasci, Ildebrando Trevi, Aldo Moscati, Giorgio Moscati. I primi due vennero detenuti a Firenze, internati nel campo di Fossoli in Emilia Romagna e deportati nel campo di sterminio di Auschwitz dove morirono il giorno dell’arrivo, il 26 febbraio 1944.
I fratelli Aldo e Giorgio Moscati, sfollati in paese con la famiglia, furono condotti nel carcere di Pistoia. In seguito vennero trasferiti alle “Murate” di Firenze e internati a Fossoli. Il 22 febbraio 1944 furono deportati ad Auschwitz. Arrivati in Polonia, i due furono separati con la forza al momento delle selezioni: fu quella l’ultima volta che si videro. Giorgio perse la vita appena arrivato, probabilmente nelle camere a gas appena arrivato. Aldo invece lavorò per circa un anno nel comando trasporti e cavi, poi fu assunto come aiuto-infermiere nell’ospedale. Durante gli incontri serali, a lavoro finito, Fu là che nacque l’amicizia, mantenuta anche nel dopoguerra, con alcuni italiani deportati e con Primo Levi, durante gli incontri serali a lavoro finito. Aldo Moscati negli anni ’70 raccontò:

Un rancore contro chi a suo tempo mi aveva denunciato, non ce l’ho. All’inizio ho avuto anch’io sentimenti di vendetta, ma li ho subito respinti: la vendetta non ha senso. D’altronde con chi avrei potuto prendermela, col marescialletto che mi ha arrestato?

Con l’arrivo dell’estate 1944 la situazione si fece sempre più difficile a causa dell’avanzata alleata e della ritirata tedesca verso la linea gotica. In molti comuni della zona, intorno ai primi di luglio, le autorità e i dipendenti comunali fascisti lasciarono il posto di lavoro, cercando un luogo sicuro o scappando a nord insieme ai tedeschi per paura di ritorsioni in prospettiva della liberazione.
Un’esperienza unica avvenne a Lamporecchio dopo la partenza del commissario prefettizio repubblichino. Il 2 luglio 1944, in piena occupazione nazista, 42 persone in rappresentanza di tutte le categorie sociali si radunarono nella sede comunale con lo scopo “di dare al comune un’amministrazione che provveda alla continuità dei servizi”. Ogni categoria elesse i propri rappresentanti e il comune fu così gestito per due mesi, fino alla liberazione, da un Comitato di Assistenza Pubblica (foto 1) che non aveva funzioni politiche, ma operava per il reperimento dei generi alimentari e sanitari. Gli eletti furono: Corrado Ancillotti, Sergio Tarabusi e Giovanni Meozzi per gli esercenti industriali; Giulio Minghetti, Pierantonio Cosci e Guido Catolfi per i proprietari terrieri; Mario Pancani, Giuseppe Fanti e Guido Ferradini per i conduttori diretti; Eugenio Ciattini, Primo Trinci, Giulio Bettarini e Pietro Morosi per gli operai artigiani; Giuseppe Desideri, Guido Fagni e Quintilio Postorri per i coloni mezzadri.
I rappresentanti deliberarono l’elezione come presidente di Luigi Giampalma, una scelta lungimirante poiché si trattava di un uomo non compromesso col regime fascista. Nato a Campli (vicino TeramoTE), lavorava come impiegato e sottufficiale della pubblica sicurezza. Nel post-liberazione fu un esponente di rilievo della Democrazia Cristiana e rilasciò questa breve dichiarazione scritta:

Sono sempre stato antifascista e per tale ragione non ebbi fortuna nella carriera. Dovetti aderire nell’agosto 1932 ed iscrivermi nel Partito fascista per non essere mandato via dall’Amministrazione. Dopo il 15 giugno 1944, avvenuta la fuga dei dirigenti fascisti del Comune di Lamporecchio, presi la direzione della cosa pubblica del Comune, come capo del Comitato della salute pubblica e come Commissario prefettizio.

Durante la stagione estiva diversi lamporecchiani persero la vita a causa delle violenze tedesche, dello scoppio di mine, delle cannonate e delle bombe alleate. Ricordiamo il caso di Maria Assunta Pierattoni, assassinata dopo numerose peripezie nel novembre 1944 ad Arni (Stazzema) e del ventenne Foscarino Spinelli impiccato a Montecatini insieme a Bruno Baronti con l’accusa di essere partigiano.

riconoscimento-qualifica-partigiano-fredianiNell’ambito della lotta partigiana, la formazione di Lamporecchio fu la comunista “Squadra di Azione Patriottica” (S.A.P.), guidata da Giovanni Calugi. Aveva sede presso la Cisterna di Montefiori e, oltre agli scontri a fuoco, si occupò di raccolta armi, di servizio informazioni, di sabotaggi, di aiuto nei confronti di fuggiaschi e della popolazione.

Il paese fu liberato il 2 settembre 1944. Il giorno dopo, sciolto il precedente Comitato di Assistenza Pubblica, il CLN locale si riunì nell’ufficio comunale del paese e i componenti progettarono un piano di attività basato sulla collaborazione di tutti e destinato esclusivamente al bene della collettività; vennero anche salutate le truppe di liberazione dell’esercito alleato che, per mezzo di cinque rappresentanti, assistettero all’assemblea.

Il 6 settembre 1944 fu eletto sindaco Foscolo Maccioni e fu nominata la giunta comunale: Luigi Morelli, Reuccio Torrigiani, Paolo Ancillotti, Vannozzo Biondi, Raffaello Morelli e Francesco Fanti.

I problemi principali dopo la liberazione riguardavano l’approvvigionamento e l’alimentazione: furono effettuati accordi con i maggiori produttori agricoli e con gli altri comuni della zona. Furono utilizzati anche gli strumenti abbandonati dai tedeschi, come, ad esempio, due baracche in legno recuperate a Spicchio.
La giunta comunale dispose la revisione della toponomastica cittadina al fine di cancellare ogni riferimento al passato regime e con l’intenzione di ricordare le vittime della violenza nazifascista: viale Balbo divenne viale Antonio Gramsci, via Roma divenne via Giacomo Matteotti e via Rospigliosi divenne via Martiri del Padule. Nel dicembre 1944 furono fondate le Case del Popolo di Lamporecchio, Porciano-Fornello, San Baronto, Papone, Cerbaia.

Dopo anni di dittatura, finalmente gli italiani poterono esprimere la propria opinione attraverso libere elezioni.
Il 2 giugno 1946, per la votazione sull’assemblea costituente, con una partecipazione del 95,54%, il PCI ottenne la maggioranza assoluta e il comune fu inserito tra i più comunisti d’Italia, andamento confermato anche nei decenni successivi. Nel referendum vinse nettamente il fronte repubblicano con l’82,3%, la percentuale più alta di tutta la provincia.
In seguito, il 6 ottobre 1946, alle elezioni amministrative s’imposero i Socialcomunisti e il ventinovenne Gettulio Cenci, proprietario di una ferramenta, fu eletto sindaco, carica ricoperta per tre legislature.

Matteo Grasso, laureato in storia, svolge attività di ricerca archivistica, orale e bibliografica finalizzata all’approfondimento locale e nazionale di particolari momenti della storia contemporanea. Collabora sia con l’Istituto Storico della Resistenza di Pistoia (ISRPt), di cui è il Direttore dal giugno del 2016, sia con l’Associazione Culturale Orizzonti di Lamporecchio che diffonde il mensile Orizzonti. Ha pubblicato alcuni saggi riguardanti il periodo della seconda guerra mondiale sui Quaderni di Farestoria, periodico quadrimestrale dell’ISRPt.

Articolo pubblicato nell’ottobre del 2016.




Casa Giubileo sul Montemaggio

Sulla traversa Monteriggioni-Casole d’Elsa, in direzione di quest’ultima, all’altezza di Abbadia Isola, si apre una strada bianca che si inerpica tra le pendici boscose del Montemaggio lambendo di quando in quando dei casolari. Soltanto di recente è stata apposta una segnaletica a ricodare che quel tracciato conduce ad uno dei luoghi simbolo della Seconda Guerra Mondiale sul territorio senese, ossia Casa Giubileo.

Presso questo casolare, il 28 marzo 1944, un contingente di oltre trecento militari fascisti repubblicani ingaggiò battaglia contro un gruppo di combattenti per la libertà, che avevano con loro dei prigionieri, un capitano della forestale e un tenente tedesco. Alcuni partigiani riuscirono a darsi alla fuga durante le concitate fasi dello scontro a fuoco, uno rimase ucciso quasi subito, un altro rimasto a terra, dopo che gli assediati si furono arresi, venne trascinato dietro un muretto e finito a colpi di pistola.

Rimasero nelle mani dei fascisti diciotto ragazzi, tutti di età intorno ai vent’anni, e qui avvenne l’eccidio più famigerato che i militi della Guardia Repubblicana di Mussolini abbiano perpetrato sul territorio senese. In un primo momento i superstiti vennero portati presso un altro podere, Campo ai Meli, distante circa un chilometro dal luogo dello scontro. Le intenzioni dei fascisti furono immediatamente chiare ad una vecchia contadina del posto, Maria Barbato, che con il proprio energico e coraggioso intervento (Son mamma anch’io! Andate a farli da un’altra parte queste lavori! Le parole pronunciate dalla donna) convinse i militi a ripartire per un’altra destinazione.

img_1260aIl luogo prescelto, questa volta, fu la Porcareccia, uno spiazzo posto esattamente a metà tra Abbadia Isola e Casa Giubileo. Qui i partigiani vennero fatti schierare contro un muretto ed iniziò il triste rituale dei preparativi per l’esecuzione. Uno dei prigionieri, Vittorio Meoni (oggi Presidente dell’Istituto Storico della resistenza Senese e dell’età Contemporanea) con la forza della disperazione, riuscì a slanciarsi in un sentiero nella boscaglia, venne gravemente ferito ma riuscì a trascinarsi per un chilometro fino ad una casa di contadini che gli salvarono la vita. Per i suoi diciassette compagni non ci fu scampo. Vennero massacrati e abbandonati sul posto dell’esecuzione. Soltanto molte ore più tardi i corpi vennero raccolti, riconosciuti dai familiari e inumati provvisoriamente nel piccolo camposanto di Abbadia Isola.

Nel dopoguerra i comuni di provenienza dei caduti traslarono le salme nei loro cimiteri, tuttavia la Porcareccia, dov’era avvenuto l’eccidio, divenne un luogo di ricordo e commemorazione, dove venne apposta un’epigrafe con i nomi dei caduti ed un monumento realizzato dallo scultore Nelson Salvestrini.

A tutt’oggi, Il 28 marzo, anniversario dell’eccidio, i rappresentanti delle Amministrazioni Comunali della Valdelsa e non solo, insieme a centinaia di semplici cittadini, salgono a piedi alla Porcareccia ed a Casa Giubileo per ricordare chi morì combattendo per la Libertà e la Democrazia. Da alcuni anni la stessa Casa Giubileo è stata trasformata in centro didattico e documentaristico gestito dall’A.N.P.I. Valdelsa, dall’U.I.S.P. E dall’Istituto Storico della Resistenza Senese e dell’Età Contemporanea.

Articolo pubblicato nel settembre del 2016.




“Non uscire prima dell’alba e non rincasare dopo l’Ave Maria”

Veduta di Colle alta

Solo a partire dagli anni ’80 una storiografia più attenta e consapevole ha iniziato ad occuparsi in maniera approfondita dell’internamento attuato dalla dittatura fascista nei confronti dei cittadini di stati nemici e di oppositori interni, sia compiendo finalmente un’analisi della sua specificità (ovvero non più solo in relazione al sistema concentrazionario nazista), sia inserendolo nella politica di repressione del regime. Oggi non mancano studi sui campi di internamento (che furono circa 50 in Italia, di cui 3 in Toscana), mentre meno analizzate sono le località (circa 600 in Italia e circa 50 in Toscana) dell’internamento: esso rimane comunque un fenomeno misconosciuto all’interno del complesso apparato repressivo del fascismo e stenta ad entrare nella memoria collettiva.

La ricerca effettuata presso l’archivio del Comune di Colle di Val d’Elsa, conservato presso la Biblioteca comunale, ha consentito di ricostruire le vicende dell’internamento – tra settembre 1941 e giugno 1943 – di 3 uomini e 7 donne: “sudditi di paesi nemici” (Betsy Margaret Armstrong, Gladys Violet Archbutt, Kathleen Campbell, Hilda Chapman, Joan Annie Rennie, Giorgio Bellotto), ebrei stranieri (Emil Ullmann, Ottilie Feder, Edzia Stecher), e italiani (Renzo Cabib).

Il primo adempimento cui, al loro arrivo, gli internati dovettero ottemperare fu la sottoscrizione del “Verbale delle prescrizioni”, contenente, tra gli altri, i seguenti obblighi e divieti: non tenere presso di sé documenti di identificazione, denaro oltre le cento lire, gioielli; non occuparsi di politica; non allontanarsi dall’abitato; non uscire prima dell’alba e non rincasare la sera dopo le 18; presentarsi tre volte al giorno presso il Comune o la caserma dei carabinieri; non avvicinare nessuno senza autorizzazione. Dall’analisi dei documenti si rimane colpiti dalla ripetitività e macchinosità di tutte le procedure amministrative che li riguardarono, anche di quelle concernenti problemi di ben scarso rilievo, che dovettero seguire la catena burocratica: Ministero dell’Interno (talvolta) → Questura o Prefettura → Comune → internato, catena che ovviamente valeva anche, alla rovescia, per le loro richieste.

Il primo e più traumatico aspetto dell’internamento fu il forzato sradicamento dal proprio ambiente familiare e dalla realtà di provenienza, la separazione da parenti e amici, cui si aggiunsero il soggiorno in un luogo fino ad allora sconosciuto, dove fu proibito ogni contatto con gli abitanti, la possibilità di lasciare l’abitazione solo di giorno, il rito della presentazione alla stazione dei carabinieri più volte al giorno e a determinati orari, la censura sulla corrispondenza, recapitata al Podestà, che gliela consegnò solo dopo averla controllata. La trafila amministrativa sopra ricordata fu valida per tutto: richieste di trasferimento, ricongiungimenti familiari, sussidio (una volta accertato lo stato di indigenza), ricoveri in ospedale, visite e cure mediche, prelievi di somme dal deposito presso il Comune. Le richieste di uscire dal territorio comunale dovettero essere sottoposte a specifica autorizzazione: una volta ottenuta, fu consegnato il foglio di via obbligatorio e si dovettero presentare alla Questura o al comando dei carabinieri della località di destinazione. Al loro rientro a Colle di Val d’Elsa il Comune ne dette assicurazione alla Questura.

Gli internati ricevettero per il loro mantenimento un sussidio giornaliero, pari, nel 1940, a 6,50 lire per gli uomini e le donne senza famiglia, ma per il nucleo familiare alla moglie spettarono solo 1,10 lire e a ciascun figlio 0,55 lire; si aggiunse un contributo per le spese di affitto di lire 50 mensili: a una famiglia con figli la cifra non bastava neppure a vivere di solo pane. Le condizioni materiali della vita divennero il problema più importante da affrontare quotidianamente per gli internati privi di altre fonti di reddito o di un aiuto dalle autorità dei loro paesi di origine, per cui chi ebbe il sussidio avanzò anche la richiesta di poter svolgere un lavoro, non sempre accolta.

Le modalità dell’allontanamento da Colle di Val d’Elsa degli internati furono diverse. Archbutt fu trasferita a Siena nel gennaio 1942 e Campbell a San Casciano dei Bagni nell’aprile 1942; Stecher ebbe nel maggio 1942 il permesso di recarsi a Roma per delle cure e non rientrò più nella cittadina valdelsana; Armstrong, Chapman, Rennie furono autorizzate ad espatriare nel gennaio 1943; Bellotto, Cabib, Ullman, Feder furono trasferiti a San Giovanni d’Asso nel giugno 1943.

La copiosa documentazione presente nell’archivio insomma ci restituisce uno spaccato della quotidianità di queste persone, delle loro “vite di carta”, per riprendere il titolo del volume di Anna Pizzuti (Vite di carta. Storie di ebrei internati dal fascismo, Roma, Donzelli, 2010): anche per gli internati di Colle di Val d’Elsa può valere la riflessione dell’autrice: “non è tutta la loro storia, è la storia che i documenti ci presentano”.

* Il presente articolo è un’estrema sintesi di quello dal titolo Non avvicinare alcuno senza particolare autorizzazione. Le “vite di carta” degli internati civili a Colle di Val d’Elsa (1941-1943), apparso sulla “Miscellanea Storica della Valdelsa” (2015, fasc. 1-2, pp. 113-182). Si ringrazia il prof. Fabio Dei, Presidente della Società Storica della Valdelsa, per averne autorizzato la pubblicazione. 

Articolo pubblicato nel settembre del 2016.




Gli Internati Militari Italiani di Cinigiano. La storia di una scelta

Un’altra Resistenza venne combattuta da oltre seicentomila Italiani. Fu quella amara e difficile degli Internati Militari Italiani. Fu una Resistenza senza gloria, dimenticata, lontana, nella Germania dei lager, combattuta tra freddo, fame, stenti, malattie. Li hanno definiti “Schiavi di Hitler” perché lavoravano nelle fabbriche della guerra senza salario, senza cibo a sufficienza, lavoravano nelle officine, nelle campagne e a sera tornavano nei campi di concentramento per dormire. A guerra finita ebbero un lungo e difficile ritorno. Non raccontarono allora, perché preferirono costruirsi una vita, nella consapevolezza che nessuno forse avrebbe creduto e capito. Perché la loro era stata una scelta, una scelta in piena regola.

Ma chi erano gli schiavi di Hitler? Erano giovani italiani, che dopo l’armistizio dell’8 settembre del ’43 si trovarono con una divisa addosso e che nella dissoluzione dell’esercito vennero inghiottiti dagli ingranaggi dalla follia nazista e fatti prigionieri.

Allora erano ragazzi Pasquale Cherubini, Zeno Aluigi e Aladino Dari, i testimoni che hanno accettato di ricordare quei momenti drammatici della loro vita. È per salvare questo tesoro di memorie, infatti, che l’Amministrazione comunale di Cinigiano ha voluto finanziare un’iniziativa importantissima di raccolta e conservazione delle testimonianze orali, commissionando all’Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’Età contemporanea una serie di videointerviste ai protagonisti della seconda guerra mondiale presenti sul territorio. Così, è stato realizzato un lavoro di ricognizione dei testimoni cinigianesi, scaturito dall’esigenza di consegnare al futuro tutto un patrimonio di esperienze individuali e di vissuti che si sono legati alle sorti della grande storia europea.

ultimato_1589I testimoni hanno raccontato le storie di giovani di campagna, forti lavoratori leali ai valori della tradizione, della terra, della famiglia e della comunità, che si trovarono scaraventati in un panorama agghiacciante di guerra, persecuzioni, distruzioni, deportazioni, nel cuore della Germania nazista.

Furono privati dei loro diritti, furono umiliati e sfruttati come schiavi nelle fabbriche di armi, nell’agricoltura e nei servizi tedeschi, sotto la minaccia dei continui bombardamenti alleati, ma non vennero mai meno alla loro dignità di uomini, non si piegarono alla follia e alla barbarie, affermando con coraggio un chiaro e forte “no” alla guerra. Si tratta di tre vivaci signori che hanno acconsentito a mettere i loro ricordi a disposizione di tutti: sia di chi tenta una difficile ricostruzione della storia, che tenga conto dell’incrocio delle fonti orali e documentarie, sia di chi non sa niente e che vuole sapere, come le giovani generazioni, sempre sensibili alle voci calde e dirette di chi narra cose vissute e sofferte, più che alle pagine stampate un po’ lontane e difficili dei libri di storia.

La Storia, poi, quella ufficiale, non ha reso giustizia agli Internati Militari Italiani. Non tutti si ricordano degli 800mila catturati dopo l’8 settembre del 1943, di cui 650mila rifiutarono la fedeltà ad un’alleanza scellerata ed autodistruttiva (mentre 186mila per motivazioni diverse che vanno dall’ideologia alla sopravvivenza si arruolarono nella milizia della Repubblica sociale o nelle SS): ufficiali e soldati furono rinchiusi nei campi di concentramento, ed i soldati semplici trasformati in lavoratori coatti. Non si rispettò per gli italiani la convenzione di Ginevra del 1929 perché considerati traditori, disprezzati e umiliati, non ultimi solo ai russi, e indegni di essere trattati da prigionieri di guerra. Gli italiani erano piuttosto da considerarsi un “bottino”, utili per mandare avanti le fabbriche o per curare campi e bestiame. Così da metà dicembre del ‘43 furono messi a lavorare duramente e nel rigore dell’inverno nordico; malvestiti e peggio nutriti, molti morirono di freddo e di epidemie. Era martellante la propaganda fascista: se si fossero arruolati ed avessero continuato la guerra per la Repubblica sociale o per i nazisti, avrebbero rivisto la patria, avrebbero avuto vesti adeguate e cibo, ma la maggior parte di loro disse no, non cedette.

Ce lo conferma Pasquale Cherubini che ci ha parlato delle continue richieste di arruolamento nei reparti tedeschi:

Un soldato vestito da alpino ci domandava se eravamo fascisti dicendo “l’Italia è stata invasa dalle truppe a colori, sono molto pericolose per le nostre donne” ..ma nessuno si mosse, “allora, da questo momento, siete considerati come prigionieri” allora fecero le squadre, cinquanta per cinquanta ci mandarono a lavoro

 E Zeno Aluigi motiva il suo rifiuto a quei tedeschi che con un interprete italiano, gli chiedevano di arruolarsi:

…devo andà a ammazzà i miei paesani e gli italiani, io, dissi, non ci vengo. Loro insistevano“siete stati sempre legati a noi, perché non ci volete ritornare?” Saremo stati tre o quattrocento: non ce ne fu uno che avesse firmato per andare con loro… e allora ci tartassavano.

 Hanno descritto la durezza della vita da prigionieri, in Germania le braccia da lavoro servivano: la guerra aveva più bisogno di schiavi che di un improbabile esercito. L’unica cosa concreta che riuscì a fare a quel punto la Repubblica sociale italiana fu promuovere la trasformazione degli Internati Militari Italiani in lavoratori civili, nell’estate del ‘44. Ma non sembra che la situazione cambiasse molto per i nostri testimoni.

Aladino Dari ha raccontato:

So’ stato 17 mesi senza sapere niente dei mieisi portava il carbone alle famiglie, ho lavorato così  per 19 mesierano balle da 50 chili di carbone e si portavano nelle case anche al 4° e 5° piano: si rimediava la vita per andare avanti. Poi bisognava sta’ zitti e non parla’ mai perché avevano paura si parlasse male di loro… Io ero 47 chili… In capannoni lunghi 50 per 15 si stava in 50 persone.

 E ancora racconta di continui bombardamenti tutte le notti, addirittura 280, e dove era, ha visto moltissimi prigionieri con la divisa a strisce, gli ebrei.

Anche Zeno Aluigi ha parlato della sua vita nelle baracche di legno “coi castelli uno sotto e uno sopra”, riscaldate da “una stufettina…” e della fatica:

…si faceva 13 ore di lavoro dalla mattina avanti giorno alla sera… venivano 2 guardie ci prendevano e ci portavano a lavoro nelle fabbriche

Pasquale, Zeno e Aladino raccontano episodi drammatici, scene di vita vissuta, affetti, amicizie e poi di un ritorno reso difficile dalla complessità degli accordi tra i liberatori, dalla mancanza di mezzi di trasporto. Ritorno in una terra tutta da ricostruire con la salute minata dagli stenti e dalle fatiche.

Sono stati tre incontri pieni di verità che per il loro intrinseco valore hanno contribuito a ricostruire una parte del grande affresco della storia del rapporto tra la seconda guerra mondiale e il territorio, che ha potuto confluire in un documentario, Fu la loro scelta, fruibile da chiunque sia interessato a non dimenticare.

Articolo pubblicato nell’agosto del 2016.




Contro ebrei, barbari, traditori e rinnegati!

All’indomani della proclamazione dell’armistizio, l’8 settembre 1943, in un Paese già duramente provato dal conflitto ed adesso diviso fra contrapposti eserciti stranieri e in gran parte occupato dalle truppe nazisti, i fascisti, facendosi forti proprio della presenza di questi ultimi, tornano ad assumere il governo dei territori e intendono riaffermare il proprio dominio e controllo sugli italiani sotto la guida del proprio Duce. Ex squadristi emarginati nel Ventennio ed in cerca di riscatto, giovani forgiati dalla retorica del regime, funzionari dello Stato, militari e civili, uomini spinti da interessi, condizionati da paure, mossi da passioni e ideali formano le leve del partito fascista repubblicano e del nuovo stato: la Repubblica sociale italiana (RSI).
Uno degli obiettivi immediati diviene la conquista del consenso degli italiani e la stampa e gli altri strumenti di propaganda affidati al Ministero della Cultura popolare ne sono lo strumento principali, dimostrando che la RSI rappresenta l’unica possibilità di salvezza per l’Italia, di riscatto dell’onore perduto con il “tradimento” dell’armistizio, di vittoria della guerra a fianco dei nazisti. Si tratta di una propaganda di guerra tesa a contrastare quella degli Alleati e degli antifascisti, che si esprime in una vera e propria guerra di parole dai toni sempre più duri e truci. Una sfida difficile per gli eredi del regime che aveva portato il Paese alla sconfitta, resa di fatto impossibile, con il passare dei mesi, dall’andamento della guerra. Anche in Toscana, già culla del fascismo delle origini, così come in tutto il territorio della repubblica, si assiste ad una fioritura di testate: quotidiani, periodici, numeri unici che danno voce a tutte le anime della RSI, da quelle nazionaliste a quelle più radicali, espresse dai “fogli” delle federazioni del partito (come “Repubblica” di Firenze, “L’Artiglio” di Lucca, “Il Ferruccio” di Pistoia, “Giovinezza repubblicana”), tutte comunque circoscritte nell’identità del fascismo repubblicano e nell’alleanza con il nazismo.

Per cercare di acquisire i consensi degli italiani, uno dei temi essenziali trattai e usati dalla propaganda repubblichina è la rappresentazione dei nemici. Per i fascisti la descrizione degli avversari è funzionale, per contrasto, a delineare e chiarire la propria identità di “puri” ed eroici combattenti e per mobilitare attorno alla repubblica tutti coloro che intendano difendere la Patria. La propaganda deve quindi recuperare stereotipi e slogan del regime, suscitare dubbi e paure, motivare rabbia e risentimento, toccare interessi ed emozioni.

WP_20160705_09_45_27_ProL’idea centrale è che i fascisti, unici veri italiani, siano contrastai da una vera e propria congiura che unendo nemici diversi sotto la regia degli ebrei, quali nemico n. 1, come scrive “Repubblica” il 18 novembre ’43, da contrastare con ogni mezzo, definiti “razza nemica” nel Manifesto di Verona del Partito, carta di identità del fascismo repubblicano. Per “La Nazione” le potenze straniere troverebbero il loro comun denominatore proprio “nel giudaismo unico e vero despota delle cosidette democrazie liberali e di quel regime barbaro e mostruoso che si chiama Unione delle Repubbliche sovietiche” [Inghilterra, bolscevismo e imperialismo americano, “la Nazione”, 3 novembre 1943]; Inghilterra, USA e URSS sarebbero così al servizio dell’oro giudaico. Questa denuncia serve da un lato a sottolineare l’esistenza di una “razza italiana” minacciata da quella ebraica, che tutti devono mobilitarsi per difendere, dall’altra a promuovere e giustificare qualsiasi forma di violenza contro un nemico tanto pericoloso che viene definito “malattia ereditaria dell’umanità” su “la Nazione” del 20-21 febbraio, microbo maligno sul periodico fiorentino “italia e civiltà” e “tumore maligno” da eliminare su “Repubblica”.

Ma il nemico reale con cui fare i conti sono certamente gli eserciti Alleati. Consapevoli della loro forza e dell’appeal che hanno fra la popolazione italiana, la propaganda di Salò cerca di rovesciarne l’immagine da quella di “liberatori” a quella di “oppressori”. Così li descrive il periodico fiorentino “Rinascita”: i “liberatori sarebbero quei barbari volanti che distruggono le nostre città e i nostri villaggi, quei mercenari che depredano le nostre popolazioni dell’Italia meridionale, quei negri che violentano le nostre donne” [27 novembre 1943], recuperando tutti gli stereotipi propri del razzismo coloniale. Tanto che per “Repubblica” i “negri non sono esseri civili” [22 gennaio 1944]. Allo stesso tempo si denuncia che gli angloamericani avrebbero consegnato l’Italia a Stalin in caso di vittoria e per rafforzare questa ipotesi viene diffusa la falsa notizia della partenza dai porti del Mezzogiorno di navi cariche di bambini strappati alle proprie famiglie per essere condotti in Russia e trasformati in perfetti comunisti, automi nelle mani del dittatore bolscevico che li avrebbe poi rimandati in Italia controllare il Paese. Si usa lo spettro del comunismo per mobilitare attorno alla RSI tutti coloro si riconoscono nei valori tradizionali della patria, della religione e della famiglia. Abile nello sfruttare fatti reali (dai bombardamenti alle violenze sulle donne delle truppe coloniali, alle difficili condizioni di vita nell’Italia meridionale “occupata” dagli angloamericani) e nell’alimentare paure ataviche e diffuse, questa propaganda si scontra tuttavia da un lato con il reale andamento del conflitto, dall’altro con la presenza opprimente dei nazisti. L’aspirazione per la fine del conflitto e l’ostilità nei confronti del nazismo pare prevalere su ogni altra considerazione fra la popolazione.

Tuttavia sono i “traditori” i nemici contro cui la propaganda fascista si scaglia con maggiore ferocia. In primo luogo i fascisti che non hanno seguito il nuovo corso, simboleggiati da Galeazzo Ciano e dagli altri gerarchi che avevano votato contro Mussolini nella riunione del Gran Consiglio del 25 luglio. Quindi il re Vittorio Emanuele III e il generale Badoglio che avrebbero venduto l’Italia al nemico con l’armistizio. Infine i partigiani: i “rinnegati” che combattono contro la propria Patria. Figure private di qualsiasi dignità e qualificate infatti come criminali, assassini, vigliacchi, sicari. Ma incredibilmente agli occhi dei repubblichini ottengono consenso e sostegno da parte della popolazione.
E così la categoria dei traditori tende ad estendersi coinvolgendo categorie diverse di persone, considerati prima come sostenitori “naturali” o potenziali, ma poi guardate con sempre maggiore diffidenza e quindi con rabbia, per esser infine identificati come “nemici” particolarmente odiosi proprio perché inattesi. Infatti, come scrive “Repubblica” il 26 febbraio 1944: “oltre i sabotatori, i sobillatori, i sicari prezzolati del nemico attenta alla vita della nazione, anche chi in questo momento, non assolve in modo preciso e concreto il compito assegnatoli”, come i giovani che non rispondono alla chiamata di leva, e i loro genitori e parenti che li nascondono, come i disertori e coloro che proteggono gli ebrei, i soldati “alleati”, i partigiani. Particolarmente dure sono le condanne degli intellettuali che si sono ritirati nel silenzio e non sostengono la Rsi, del clero che non segue le direttive della repubblica ed anzi svolge “attività antinazionali”, delle donne che sono invitate ad andare “al di là del Volturno a sollazzare le ore meditative del filosofo Croce o le fatiche guerresche delle truppe angloamericane” [Repubblica, 18 dicembre 1943].

Ma proprio la denuncia di questa crescita esponenziale del numero e della varietà dei nemici rivela emblematicamente l’isolamento dei fascisti di Salò e il fallimento della loro stessa propaganda sconfitta inesorabilmente dalla realtà nella sua disperata guerra di parole condotta con tenacia dalle testate toscane fino al giugno-luglio del ’44 nell’imminenza dell’avanzata nemica e nel dilagare delle azioni partigiane in una regione provata dalla durezza dell’occupazione, della guerra ai civili e del passaggio del fronte, che attende con impazienza i giorni della Liberazione.

Matteo Mazzoni, dal settembre 2014 direttore dell’Istituto Storico della Resistenza in Toscana, è dottore di ricerca in Studi storici dell’età moderna e contemporanea. Ideatore e coordinatore di progetti didattici e culturali per la divulgazione scientifica della storia. Consigliere dell’Istituto Gramsci Toscano. Membro della Redazione del Portale di Storia di Firenze, oltre che Responsabile di redazione di ToscanaNovecento. Autore di pubblicazioni e volumi fra cui si ricordano: Livorno all’ombra del fascio, Olschki 2009, vincitore del Premio ANCI-Sissco 2010 e Il passaggio del fronte tra Val di Pesa e Val d’Elsa, Polistampa 2014.

Articolo pubblicato nel luglio del 2016.




“Una indifferenza in politica non è concepibile”

Con le riconquistate libertà il popolo torna infine ad avere il diritto di esprimersi, di denunciare le vere cause delle proprie sofferenze e di suggerire quei rimedi tendenti a migliorare una situazione oltremodo grave”. Come sottolineano queste parole scritte su “La Martinella” del 10 settembre 1944, numero unico dei socialisti senesi, che nel titolo si richiamano al loro periodico pubblicato fra il 1896 e il 1915, la ripresa e la diffusione legale, di una stampa libera e democratica è uno dei segni dell’avvento di una nuova fase nella storia del paese, ancora segnato dalle rovine lasciate dalla guerra e dal regime fascista, ma pronto ad aprirsi alle speranze connesse alla liberazione.

Il biennio 1944-’46 costituisce una fase cruciale negli snodi delle vicende nazionali, un momento di peculiare impegno e sfida per le forze politiche e per le rinate istituzioni per ricostruire non solo materialmente il Paese, ma anche moralmente e civilmente stabilendo i principi democratici su cui fondare la convivenza civile, una rinnovata concezione di cittadinanza.
Proprio i giornali sono così una fonte significativa per cogliere il difficile processo con cui le diverse forze politiche cercano di comunicare e diffondere regole e principi di una convivenza civile, provano a operare i primi passi di una “rieducazione” alla democrazia degli italiani. Si tratta di un processo dialettico complesso e dagli esiti incerti, tra questa volontà e le strategie con cui ogni singolo partito cerca di affermare se stesso nel consenso popolare. Tuttavia, pur di fronte alle rovine lasciate dal fascismo e dalla guerra, in un contesto di nuove emergenze, aggravate da un clima di diffusa abitudine alla violenza e all’illegalità e dalle alle tragiche eredità e consuetudini del “fare politica” sotto il fascismo, le forze antifasciste seppero esprimere un linguaggio comune, un medesimo impegno per educare gli italiani alla democrazia, fondato sul valore della partecipazione attiva dei cittadini alla vita politica, la sottolineatura dell’importanza del voto, il rifiuto della violenza, l’invito al rispetto della legalità, il riconoscimento del valore identitario della Resistenza.

La Toscana mostra in questi anni un tessuto particolarmente favorevole alla costruzione di una nuova identità democratica e nazionale che trova espressione nell’opera del Comitato Toscano di Liberazione nazionale (CTLN) che aveva guidato la Resistenza e la Liberazione di Firenze, delle tante giunte dei CLN locali, nei partiti, nelle nascenti strutture del sindacato e dell’associazionismo, come emerge dalla lettura di una stampa particolarmente ricca e varia che, dopo la fine della guerra nella primavera del ’45, pur nella pluralità delle linee espresse, mostra sulle proprie pagine un’attenzione costante all’educazione democratica dei cittadini.
Su periodico azionista “Non mollare” del 2 novembre del ’45, Tristano Codignola scrive infatti: serve “un metodo di educazione di lento travaglio, di ripensamento e rifacimento di molti dei nostri istituti e caratteri fondamentali di popolo, di ricostruzione degli spiriti e delle cose. […] Questa strada è quella, come dicevo dianzi, della rivoluzione democratica, della ricostruzione, anzi della costruzione degli istituti della democrazia in un paese – e per questo è una rivoluzione – che democratico non fu mai”. Il fiorentino “L’azione comunista” dichiara: “i comunisti vogliono oggi che si realizzino le condizioni elementari della democrazia italiana e vorranno domani lavorare per il progresso costante di questa democrazia” (28 ottobre 1945). Il periodico della DC fiorentina “Il popolo libero” indica come compito principale “educare il nostro popolo a pensare ed acquisire con ciò consapevolezza dei propri doveri e diritti” (16 novembre ’45). Nel “dovere della partecipazione politica e dell’interesse alla cosa pubblica”, dietro cui coglie l’antica lezione mazziniana, “La Voce del Popolo” periodico della sezione del Pri fiorentino individua l’unico strumento per migliorare le coscienze individuali ed affrontare e risolvere la miseria e le distruzioni che attanagliano il paese (10 marzo 1946).

La legittimazione della prassi elettorale è una componente essenziale del processo di concreta educazione alla democrazia che questi periodici portano avanti, un punto comune, e non scontato, in cui tutti si riconoscono. Si legge sul giornale della DC fiorentina “Il popolo libero”: “Quello che urge quindi è proprio questa rieducazione del popolo, questo interessarlo ai problemi politici, questa preparazione alla sua partecipazione elettorale. Bisogna convincerlo che il voto non è da considerarsi come un diritto più o meno rinunciabile ma come un dovere. […] Perché una indifferenza in politica non è concepibile” (5 ottobre 1945); “La Difesa”, periodico socialista, sottolinea le difficoltà dopo il Ventennio fascista: “da oltre un ventennio in Italia non si facevano più le libere consultazioni popolari, qualche generazione d’Italiani non conosce neppure i vari sistemi elettorali ed alcuni ignorano perfino l’importanza e l’alto significato che in questo momento assume da parte del cittadino l’esercizio del voto. Questa pratica di uno dei più importanti diritti che competono ai cittadini della democrazia era stata nel ventennio fascista, non solo soppressa, ma addirittura resa impopolare.” (6 febbraio 1946). Anche la stampa liberale esalta il ritorno al voto: “torna il giorno in cui potremo tornare alle urne, rivestiti dalla nostra dignità, ed introdurre una scheda che sarà soltanto l’espressione delle nostre libere convinzioni” (“L’Ombrone“, 24 gennaio’46). Per i comunisti il momento elettorale segna il compimento del processo iniziato con la lotta di liberazione dal nazifascismo: “Il popolo italiano ingaggiò la lotta contro il fascismo non solo per distruggere tutte quelle brutture che aveva generato e per cancellare l’onta della schiavitù, ma per risorgere a nuova vita, […e] duramente combattendo, ha vinto la prima fase della lotta – quella armata- ma non ha ancora vinto quella legale.” (“L’azione comunista” 6 aprile 1946). In numerosi articoli, i periodici di tutti i partiti dal liberale “La provincia”, al “Popolo libero” democristiano, a quelli socialisti, si dilungano in accurate spiegazioni delle modalità del voto, descrivendo con certosina precisione tutti i passaggi che l’elettore deve fare dall’ingresso nel seggio elettorale all’inserimento delle schede nelle urne, con la riconsegna delle matite copiative, certo in primo luogo per evitare errori che possano compromettere il voto alle proprie liste (“Popolo libero”, 6 febbraio ’46), ma allo stesso tempo diffondendo e consolidando fra la popolazione le prassi e i riti del meccanismo elettorale dopo ventennale assenza.

Quest’opera di educazione alla convivenza e di definizione di una nuova cittadinanza fondata sui principi democratici è importante perché non si limita al solo momento elettorale, ma è parte di un impegno a consolidare le basi delle nuove istituzioni e della convivenza ristabilita mostrando l’importanza dei partiti e l’opera delle amministrazioni locali per il processo della ricostruzione e per la vita della comunità, così si sottolinea che “Funzione dei partiti è quella di destare i dormienti, di chiamarli alla lotta politica, interessarli ai problemi sociali, è quella di dar loro coscienza e volontà di cittadini” (“La Nazione del Popolo” suppl. a cura PSIUP del 1 luglio ’45).
Infine, in questa fase, nel contesto toscano non si può non notare che, pur con accenti diversi da parte dei vari partiti, la Resistenza è l’elemento di comune legittimazione, tanto che, per esempio, il periodico fiorentino della DC dichiara che “i CLN hanno scritto nella storia d’Italia una pagina che non dovrà essere rinnegata” (“Il popolo libero” 5 ottobre ’45) tanto da divenire fattore costitutivo dell’identità regionale, nonostante la durezza della contrapposizione politica ed ideologica che si innesta rapidamente con l’incipiente “guerra fredda” e l’azione di delegittimazione svolta dalle forze qualunquiste già nella seconda metà del ’45, e il riferimento ideale che conferisce senso e prospettiva allo stesso processo di educazione alla democrazia, quale sistema di valori su cui fondare la ricostruzione del Paese.

Articolo pubblicato nel maggio del 2016.




Israele “Lele” Bemporad

I Bemporad erano una famiglia di ebrei toscani assai numerosa. Il ramo guidato da Riccardo si trasferì da Firenze a Pistoia a cavallo tra l’800 e il ‘900. Riccardo era il quarto di un gruppo di 6 tra fratelli e sorelle, e il nome di sua sorella minore, Italia, nata nel 1888, testimonia di per sé l’afflato patriottico e il grado di integrazione che la famiglia aveva raggiunto nel Paese. Benestanti, dediti al commercio dei tessuti e proprietari di una residenza di campagna con un attiguo appezzamento di terra dato a mezzadria nei pressi di Serravalle Pistoiese, fu per iniziativa del capofamiglia che venne eretta in quell’epoca, ancorché in stile medievale come suggerivano certi gusti del tempo, la Torre Bemporad, un edificio ben noto ai pistoiesi e che ancora oggi fa mostra di sé in pieno centro storico, all’ingresso di via del Can Bianco.

famiglia bemporad inizi 900_israele e il quinto da destra in altoRiccardo Bemporad e sua moglie Ines Franco ebbero a loro volta 7 figli e figlie, di cui Israele era il sesto. Il motivo della scelta del nome resta a tutt’oggi ignoto, mancando anche nella memoria familiare informazioni che ci possano far comprendere se tale scelta fu dovuta a motivi prettamente religiosi o in omaggio al movimento sionista, anche se questa eventualità appare più remota dato che nessun discendente della famiglia è mai diventato un attivo sionista e nessuno ha scelto di compiere l’Aliyah, ovvero di trasferirsi a vivere in Israele. Tuttavia la scelta dei nomi di Riccardo e Ines rivela il permanere di un’identificazione patriottica – la terza figlia fu chiamata Margherita, come la regina – nonché l’apprezzamento per i nomi antichi o legati al medioriente, dato che le due primogenite furono chiamate rispettivamente Cesarina ed Egizia.

Nato il 27 giugno 1914, Israele condusse una tranquilla infanzia in città e fu poi avviato agli studi classici, dapprima presso il Liceo Forteguerri di Pistoia, per poi conseguire il diploma nel 1936 presso il Liceo Galilei di Pisa, dove si era trasferito presso Aldo Dello Strologo, che aveva sposato sua sorella Egizia. Nello stesso anno si iscrisse alla Facoltà di Giurisprudenza di Pisa, dove comunicò, come era obbligatorio fare, la propria presenza ai Gruppi Universitari Fascisti (GUF) ed alla coorte autonoma universitaria della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (MVSN). A Pisa Israele sostenne due esami di diritto romano e uno di diritto privato, per poi inoltrare domanda di trasferimento a Firenze nel novembre del 1937.
Ricominciando a frequentare Pistoia, nella primavera-estate del 1938 conobbe quella che sarebbe diventata la sua compagna per la vita, Dina Fontana, una ragazza di umilissime origini, figlia di emigrati provenienti dall’Emilia e di religione cattolica. Il fidanzamento tra i due giovani fu osteggiato dai genitori di Israele. Giocavano tanto la differenza religiosa che la marcata diversità di estrazione sociale.

Ma problemi ben più gravi erano in agguato.
Nello stesso periodo, infatti, il Fascismo si lanciava nella campagna antisemita, con la pubblicazione il 14 luglio del ’38 del Manifesto della razza, a cui seguirono nel settembre le Leggi razziali. La famiglia Bemporad veniva regolarmente censita con le altre 62 famiglie di ebrei della provincia di Pistoia. Nonostante le leggi proibissero le unioni “miste” tra gli italiani e gli “appartenenti alla razza ebraica”, ed introducessero gravi restrizioni nel campo dell’istruzione, fino all’espulsione, Israele perseverò tanto nel suo legame con Dina quanto nel suo impegno universitario. Il 3 novembre del 1938 fece formale domanda per essere iscritto al terzo anno della Facoltà di legge, costretto a dichiarare, in calce alla richiesta, che «Il sottoscritto è di razza ebraica e professa la religione ebraica, lui e la famiglia». Da quel momento sui verbali degli esami sostenuti, per i quali doveva fare richiesta di ammissione al Rettore, iniziò ad apparire la dizione di «studente di razza ebraica». Frattanto le maglie intorno agli ebrei si stringevano.
israele bemporad e dina fontanaNel febbraio del 1939 fu cancellato dalle liste di leva e sul certificato anagrafico appariva, di nuovo, il timbro con la dizione «di razza ebraica», mentre la famiglia iniziava a sfaldarsi, con suo fratello minore Roberto che riusciva a emigrare a New York, approdando ad Ellis Island. La carriera universitaria di Israele diventava sempre più precaria, fino al suo epilogo, sulle cui motivazioni la scheda nominativa della facoltà di Giurisprudenza non lascia dubbi, «Troncati gli studi perché di razza ebraica». Il legame con Dina invece reggeva, e diventava sempre più saldo. Un grande coraggio animava anche questa donna, che giovanissima – era nata nel 1919, aveva appena venti anni – continuò caparbiamente a coltivare il suo amore per Israele, nonostante il Fascismo, le discriminazioni, le persecuzioni, le differenze religiose e sociali, l’ostilità familiare.

Costretti a vivere in sordina, silenziosamente, gli ebrei pistoiesi condussero una vita appartata e impaurita, di cui sappiamo ben poco, fino all’8 settembre del 1943. Con l’occupazione nazista e la nascita della Repubblica Sociale Italiana i membri della famiglia si frammentarono ulteriormente per la Toscana, e si nascosero. I Bemporad pistoiesi trovarono riparo in montagna, nell’area di Cireglio, anche con l’aiuto dell’avvocato pistoiese Bianchi. I rapporti tra Israele e Dina entrarono in clandestinità, mentre la caccia agli ebrei era aperta. Nel pistoiese ne vennero arrestati 88, quasi tutti sfollati da altre zone o di passaggio, mentre il fratello di Riccardo, e zio di Israele, Amedeo, veniva inghiottito dalla Shoah. Arrestato e deportato da Firenze, non fece mai ritorno.

Lele_primo da sinistra_in via abbi pazienza a Pistoia il girono della LiberazioneÉ in questo clima che Israele matura la scelta resistenziale, a cui partecipa anche suo nipote, Giancarlo Piperno, che diventerà un medico di fama mondiale. Stanco di nascondersi, e determinato a costruirsi la propria via d’uscita, il 17 giugno del 1944 entra a far parte delle brigate Garibaldi nella formazione Ubaldo Fantacci. Dina aiuta come può, portando viveri con la propria bicicletta. L’attività partigiana di “Lele”, il nomignolo con cui tutti l’avevano sempre chiamato e che adesso diventa il suo nome di battaglia da partigiano, si racchiude nell’arco dell’estate del 1944, ma è intensa. Matura un orientamento socialista e a quanto sembra cura dei contatti con Radio Londra. Alla fine parteciperà attivamente alla Liberazione di Pistoia l’8 settembre del 1944, immortalato anche nelle storiche foto della Liberazione in alcune vie a due passi da quella che diventerà poi la sua casa, insieme alle sorelle Cecchi, e si guadagna in questi mesi la qualifica di partigiano combattente.

Dopo la Liberazione “Lele” riprese le fila spezzate della sua vita, che nel frattempo si erano arricchite. Nel 1945 nasceva la sua prima figlia, Miriam, fuori dal matrimonio perché le leggi razziali ancora in vigore lo impedivano – lui e Dina riusciranno a sposarsi solo nel 1947 –, una circostanza malvista nell’Italia del tempo. Nello stesso anno chiese di essere riammesso a Giurisprudenza, ma dovrà presto abbandonare gli studi per i sopraggiunti nuovi impegni familiari. Nel 1948 nasceva Sara, seguita poi da Laura. Sempre in questo periodo si impegnava nel partito socialista, per un periodo, e poi nell’ANPI, a cui rimarrà sempre iscritto, e nel sostegno ai lavoratori della cooperativa di trasporti SACA. “Lele” resterà sempre a vivere a Pistoia con la propria famiglia, dapprima fa il negoziante, poi apre il “bar dello studente”, punto di ritrovo per generazioni di giovani pistoiesi, senza clamori, ma con la grande dignità di chi si è ripreso tanto la città che la cittadinanza.

Stefano Bartolini è ricercatore presso l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia e coordina le attività di ricerca storica, archivistiche e bibliotecarie della Fondazione Valore Lavoro. Ha partecipato al recupero dell’archivio Andrea Devoto ed attualmente si occupa di storia sociale, del lavoro e del sindacato. Tra le sue pubblicazioni: Fascismo antislavo. Il tentativo di bonifica etnica al confine nord orientale; Una passione violenta. Storia dello squadrismo fascista a Pistoia 1919-1923; Vivere nel call center, in La lotta perfetta. 102 giorni all’Answers.

Articolo pubblicato nell’aprile del 2016.




Una diocesi sfollata. La Chiesa di Livorno nel biennio 1943-1944

Tra il maggio e il novembre 1943 la guerra cambiò radicalmente il volto di Livorno. Col suo porto e le sue grandi industrie, la città pagò a caro prezzo la centralità logistico-strategica che aveva assunto nello scacchiere bellico del Mediterraneo divenendo un obiettivo militare d’eccellenza. Prima le tre grandi incursioni aeree angloamericane (28 maggio, 28 giugno, 25 luglio) che, bombardando a tappeto la città, distrussero buona parte del patrimonio urbanistico, poi il forzato sgombero del centro cittadino imposto dal Comando tedesco tra l’ottobre e il novembre generarono un esodo di massa che per intensità e modalità di attuazione non ebbe eguali in Toscana. Secondo alcune fonti alleate solo 20.000 dei circa 130.000 abitanti dell’anteguerra, si trovavano in città al momento dell’arrivo delle truppe liberatrici il 19 luglio 1944; mentre, stando alle cifre dell’Ufficio tecnico del Comune, degli edifici del centro, poco più dell’8% rimase illeso. In tale contesto anche la Chiesa di Livorno fu, con grande evidenza, colpita nei suoi gangli vitali. Il 17 dicembre 1944, a quasi venti mesi dall’ultima volta e a cinque dalla liberazione della città, il vescovo di Livorno, Giovanni Piccioni, (a capo della diocesi dal 1921 al 1959) tornava in questo modo ad aggiornare il suo diario personale.

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Una foto del vescovo Piccioni negli anni Venti. (Archivio Centro Studi Roberto Angeli)

“Il 28 maggio 1943 ebbe luogo il primo gravissimo bombardamento aereo di Livorno, che fu poi seguito da uno ancora più grave il 28 giugno, e poi da moltissimi altri. Fin dal primo bombardamento furono distrutte e lesionate parecchie Chiese e case religiose. Il Seminario e l’Episcopio furono dichiarati inabitabili. Io mi recai a Villa Maria che era piena di sfollati e vi abitati fino al 30 Settembre. Dall’Ottobre in poi fui ospitato nel Monastero di Montenero e in quel tempo il Santuario servì come Cattedrale. Altri Sacerdoti – Parroci e Canonici – abitarono anch’essi a Montenero, non essendo abitabili le loro canoniche o case di Livorno. Del resto dai primi di Novembre in poi i quattro quinti della città furono coattivamente sgombrati per ordine dei tedeschi, i quali soli vi rimasero e si valsero di ciò per rapine e depredazioni nelle abitazioni, per la distruzione dei mobili, che non credettero asportare – mentre i migliori furono spediti da loro in Germania insieme al macchinario delle industrie ecc. e anche approfittarono di tale periodo per collocare un numero ingente di mine, per distruggere alcune fabbriche e palazzi. In questo periodo di tempo non ho tenuto al corrente il Diario; né credo di poterlo completare ora. La venuta degli alleati ha recato un po’ di sollievo. Non è ancora compiuta però (e scrivo il 17 dicembre 1944) la rimozione delle macerie e delle mine; cosicché vi è ancora a Livorno sebbene ridotta, la cosiddetta zona nera nella quale non è permesso l’ingresso”.

La gran parte della popolazione livornese visse dunque i grandi rivolgimenti politici e bellici seguiti al 25 luglio e all’8 settembre, le drammatiche conseguenze dell’occupazione nazista e l’avanzata degli alleati in un contesto di pressoché totale sradicamento. Per questo l’eccezionalità del contesto livornese fece assumere al capo della Chiesa livornese non tanto, o non solo, il ruolo di defensor civitatis, sul modello di papa Pacelli che rimase a presidiare Roma nella fuga generale delle altre autorità seguita all’8 settembre, ma lo costrinse, più che in altre zone, ad una rimodulazione del suo servizio episcopale in funzione di un popolo disperso. Il presule – oltre a presidiare la città scegliendo di risiedere a Montenero – dette vita ad un nuovo ministero itinerante, ideando una sorta di “pastorale per gli sfollati” che adattava a un contesto inedito le prospettive di restaurazione cristiana indicate da Pio XII. Un modus operandi che gran parte del suo clero fece proprio spontaneamente già nelle ore immediatamente successive alla prima rovinosa incursione alleata, ma che l’anziano pastore auspicò – e talvolta, pretese – che venisse perseguito: in questo quadro assunsero centralità realtà prima marginali come le parrocchie dei vicariati suburbani, e si trovarono sbalzate al centro della scena figure, come i parroci di campagna e le suore, tradizionalmente votati ad un ministero poco appariscente.

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La mappa della “Zona Nera” a Livorno

Dopo la prima incursione alleata del maggio 1943, il percorso d’azione fu rimodulato nei suoi tratti essenziali attraverso una circolare che il vescovo fece pervenire ai parroci di campagna: notando come «la quasi totalità della popolazione di Livorno» si fosse dispersa nelle campagne, egli esortava «ad esercitare l’ospitalità con quel sentimento cristiano che ci fa vedere Gesù stesso in chiunque abbia bisogno del nostro aiuto». Raccomandava dunque di «provvedere al servizio religioso degli sfollati»; di avere una speciale cura per i bambini che proprio in quel periodo stavano preparando le Cresime e le prime Comunioni; «di usare uno speciale riguardo verso i vecchi e gli infermi». Con questa circolare Piccioni si accordava alla delibera del 6 maggio 1943 della Conferenza Episcopale Toscana nella quale i presuli erano intervenuti sull’assistenza spirituale agli sfollati, suggerendo «che – oltre alla cura pastorale degli sfollati, come le pecorelle più bisognose del proprio gregge – ogni parroco dove gli sfollati sono accolti avesse un libro di stato d’anime a parte per essi».

Questa capillare rete dell’accoglienza ecclesiastica di cui i livornesi beneficiarono a piene mani (anche attraverso percorsi non sempre lineari) suppliva per certi versi alle carenze della macchina assistenziale pubblica, sfaldatasi insieme al default istituzionale dell’estate 1943. Se già alla fine del 1942 il prefetto di Livorno aveva predisposto piani molto articolati relativi al previsto sfollamento della città, nei mesi della grande emergenza le autorità livornesi provarono a imbastire dettagliati progetti, puntualmente disattesi. Con l’occupazione tedesca della città qualsiasi piano d’intervento pubblico in aiuto agli sfollati venne poi ovviamente abbandonato e i livornesi dovettero fare da sé, aggrappandosi alle reti assistenziali di supplenza. In questo quadro certamente Piccioni rappresentò un punto di riferimento rilevante, perché si accordò lui stesso – pur essendo già piuttosto anziano e provato da più di vent’anni di ministero episcopale – a quelle linee pastorali molto esigenti che volle fossero osservate dal suo clero. Il fatto che nello sgretolarsi delle istituzioni, la figura del vescovo si caricasse di inediti significati è testimoniato anche dalle numerose lettere di sfollati che pervennero alla Curia nei mesi dell’esodo. Non solo perché, in linea con le disposizione della Santa Sede, l’istituzione diocesana divenne un importante centro d’informazione in raccordo con la Segreteria di Stato per avere notizie su prigionieri, dispersi e caduti. Ma anche perché, agli occhi dei fedeli, il pastore della diocesi raffigurava una sorta di simbolo di continuità a cui ancorarsi in mezzo alla centrifuga di cambiamenti che accompagnavano gli eventi di quei mesi.

Nella testimonianza di don Giovanni Balzini – l’economo delle cattedrale che con lui visse a Montenero negli anni di guerra – si ricordava che Piccioni, spesso servendosi del passaggio di camion militari, visitava gli sfollati «nei diversi paesi della diocesi, e nei paesi extradiocesi dove più numerosi erano i livornesi». Solo dal maggio al luglio 1943 Piccioni si recò a trovare gli sfollati a Castelnuovo della Misericordia, Gabbro, Quercianella, S. Martino in Parrana, Castell’Anselmo, Nugola, Guasticce per poi arrischiarsi nei mesi successivi anche fuori dal territorio diocesano. In occasione dei suoi avventurosi viaggi Piccioni non mancava di organizzare particolari celebrazioni: ne dà testimonianza l’allestimento della «Giornata degli sfollati» che il presule volle fosse celebrata nei comuni di Castelfranco di Sotto e S. Romano (Pisa), in diocesi di San Miniato, in occasione della sua visita del 5-6 settembre 1943.

Monsignor Giovanni Piccioni e don Angeli (Archivio Centro Studi R. Angeli)

Monsignor Giovanni Piccioni e don Angeli (Archivio Centro Studi R. Angeli)

Oltre a impegnarsi in questo ministero itinerante il vescovo fece in modo poi che la sua Chiesa restasse comunque visibilmente vicina ai pochi livornesi che decisero di sfidare i bombardamenti e le angustie dell’occupazione tedesca rimanendo in città. Da un lato Piccioni, come scrisse sul suo diario, fece in modo di essere sempre vicino alla popolazione nei momenti più tragici con visite agli ospedali e periodiche incursioni nelle parrocchie dei vicariati suburbani, ma pretese anche che le poche chiese rimaste illese al di là della zona nera continuassero a restare aperte e a garantire, per quanto possibile, i normali servizi liturgici e religiosi. Questo orientamento fu deciso in un’adunanza del clero che il vescovo convocò il 6 novembre 1943 a Montenero, a pochi giorni dall’ordine di sgombero completo del centro cittadino: in quell’occasione fu deliberato di assicurare la continuità del servizio nelle due grandi chiese di S. Maria del Soccorso in piazza della Vittoria e del Sacro Cuore (la parrocchia dei salesiani vicina alla stazione) e nella piccola chiesetta di N. S. del Rosario, allora in via delle Siepi.

È da notare poi che l’intervento pastorale di Piccioni tra gli sfollati si puntellava su precisi fondamenti dottrinali. In linea con l’atteggiamento generale dell’episcopato, i temi e il linguaggio del vescovo si incardinavano sul topos classico della guerra intesa come «castigo divino»: il conflitto presente, dicevano a una voce i presuli italiani, non era altro che una punizione, di dimensioni bibliche, che il Signore aveva consentito data la dilagante immoralità e il crescente distacco dell’umanità dalle leggi iscritte nella natura stessa dell’uomo. Parallelamente si faceva così sempre più spesso appello alla sobrietà dei costumi e alla penitenza con denunce dai toni accorati e anche esagerati contro la moda e gli spettacoli immorali. Anche la circolare che il vescovo Piccioni scriveva Agli sfollati nell’estate del 1943 è esemplare al riguardo. Dopo il breve preambolo nel quale prometteva di andare a trovare i livornesi nei luoghi dove erano più numerosi, il presule si soffermava lungamente nell’invitare gli sfollati alla penitenza, connettendo evidentemente i disagi provocati dalla guerra anche alla condotta immorale degli uomini. «So e conosco – scriveva il Vescovo – i disagi materiali, le vostre ansie, i vostri dolori – scriveva il vescovo – e anche le difficoltà morali e i pericoli che un improvviso cambiamento di vita produce. Ma non sia questa una nuova occasione di peccato; sia invece un motivo per tutti di fuggire il male, per molti di proporsi e d’incominciare una vita meno frivola, più seria, più utile al prossimo».

*Gianluca della Maggiore è dottore di ricerca in Storia. Collabora con l’Università degli studi di Milano nell’ambito del PRIN “I cattolici e il cinema in Italia tra gli anni ’40 e gli anni ’70”. E’ membro del coordinamento di redazione di ToscanaNovecento e collabora con l’Istoreco di Livorno. Autore di studi sul mondo cattolico, si occupa di cinema, Resistenza e movimenti politici. Tra i suoi ultimi saggi Una diocesi sfollata. La Chiesa di Livorno tra innovazioni pastorali e reti di assistenza (1943-1944), in Spaesamenti. Antifascismo, deportazione e clero in provincia di Livorno, a cura dell’Istoreco Livorno, Ets, Pisa 2015, di cui questo articolo rappresenta un breve stralcio.

Articolo pubblicato nel febbraio del 2016.