Parlare di Norma, settant’anni dopo

Può stupire che siano occorsi settant’anni prima del tentativo di ricostruire compiutamente un episodio eclatante, come l’ uccisione di una donna medaglia d’oro al valor militare della Resistenza, il 23 giugno 1944 a Massa Marittima, alla vigilia della Liberazione. Ma non più di tanto, in ragione di un contesto complicato da capire e narrare, e di una lotta resistenziale tra le più aspre del territorio.

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Norma Parenti con il marito, Mario Pratelli, s.d.

Era una giovane donna di ventitre anni Norma Parenti, nata a Monterotondo Marittimo, presso Massa Marittima. Fu “prelevata” dalla trattoria di famiglia insieme alla madre, trascinata via, lei sola trattenuta e barbaramente uccisa. L’arresto fu opera di soldati tedeschi, le sevizie e l’uccisione videro con certezza la partecipazione di fascisti. Le ragioni dell’arresto e della condanna a morte: l’aiuto offerto alle bande partigiane, l’audacia, percepita come sfrontata provocazione dalle autorità della Repubblica Sociale.

Ma non è stata scritta una biografia di Norma, né quando si cominciarono a scrivere storie di Resistenza, meno che mai quando le ondate revisioniste tesero a ribaltare stereotipi, sminuirla o reinterpretarla. Il primo e a lungo unico testo pubblico in memoria di Norma è un opuscolo dell’UDI, in cui è “giovane sposa e madre”, “avviata al suo doloroso calvario”. La richiesta della medaglia d’oro al valor militare indirizzata al Ministro della guerra il 12 gennaio 1945 dalla “Commissione dell’UDI per la Guerra” e le carte allegate danno conto di un impegno forte dell’UDI, del Partito Comunista massetano e del Comune fino a quella data. C’è tra i documenti una scarna relazione del comandante della banda Camicia rossa, Mario Chirici; null’altro finora è emerso dalle carte del Comitato di Liberazione Nazionale.

Di Norma in un intenso, breve richiamo parla Wanda Parracciani, staffetta sull’Amiata, fra le fondatrici dell’UDI, alla Conferenza organizzativa del PCI a Grosseto nell’agosto del 1944. Quella di Wanda è una relazione tutta politica sul ruolo delle donne nella ricostruzione; della loro Resistenza parla per legittimarne il ruolo in tempo di pace, perché, sostiene, “la donna non intende fermarsi a quello che ha fatto in circostanze eccezionali”. Norma è definita martire, eroina e “compagna”. In realtà è il marito a comparire nei documenti “rappresentante del P.C.I. nella Commissione epurazione” di Massa Marittima.

Frammenti della vicenda e qualche tratto della personalità si leggono negli anni Settanta, nel volume Donne e Resistenza in Toscana e nello studio di Marcella Vignali Clero e Resistenza nella Provincia di Grosseto. Si devono attendere i Duemila per trovare nella letteratura locale dati, testimonianze, ma non un organico studio. È così che si arriva a un risveglio di interesse nei dintorni di un appuntamento imposto dal calendario civile: il settantesimo. Il 2014 è l’anno della pubblicazione di un volume di testimonianze inedite, della produzione di un documentario, di due spettacoli teatrali. Si racconta del fortunoso ritrovamento di una scatola di fotografie di Norma, ora in mostra nel Palazzo del Comune, fonti per gli scritti e le rappresentazioni.

Un progetto in attesa di essere realizzato dall’Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’età contemporanea e dal Comune di Massa Marittima – Norma e le altre – pone domande su questa e altre figure femminili, per scavare nel tessuto della cultura civile e politica locale. Qui la tradizione mazziniana si era radicata nell’Ottocento con esiti importanti: un forte partito repubblicano, la nascita precoce del movimento sindacale, una presenza che attraversa un secolo di quella particolarissima cultura operaia, patrimonio dei lavoratori delle miniere. Ma Massa Marittima è anche luogo di lacerazioni forti: allo scontro consumatosi tra fascismo e antifascismo si sommerà già durante la Resistenza e nel dopoguerra il conflitto tra le due anime dell’antifascismo, la repubblicana e la comunista. Le donne danno prova di una maturità politica che le inserisce nella vita dei partiti e nelle istituzioni: consigliere, assessori nel tempo della ricostruzione. Ma anche testimoni dolenti e vittime di lutti – enorme quello della strage di Niccioleta, seguito da un processo che squassò le famiglie del villaggio minerario, ma con echi profondi nella stessa vicinissima Massa Marittima. Furono condannati non gli esecutori del massacro degli 83 minatori e i responsabili tedeschi della strategia del terrore, ma i fascisti, accusati di aver sollecitato e indirizzato i carnefici. Testimonianze raccolte in tempi diversi restituiscono una narrazione toccante, che disegna il clima di quello che doveva essere il tempo del superamento delle devastazioni della guerra totale, mentre più che altrove ne conservava profonde ferite.

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Norma Parenti con il marito, Mario Pratelli, s.d.

È stata scritta la storia della strage della Niccioleta e tuttora si continua a scavare. Della Resistenza, con una certa continuità si è parlato, anche polemicamente, e si è scritto. Su Norma il tempo dei silenzi è stato più lungo delle fasi di memoria. La distanza ha accresciuto la difficoltà di raggiungere un’interpretazione. Rigida e ferma nel suo essersi schierata a fianco delle bande partigiane e contro i fascisti e i loro alleati occupanti, quanto indefinibile rispetto alle categorie delle appartenenze politiche. Cattolica fervente, moglie di un comunista, sempre presente dove c’era da aiutare, nutrire, nascondere, convincere gli indecisi a raggiungere le bande alla macchia, seppellire morti partigiani. Scrisse Marcella Vignali che Norma era attiva nel Circolo Giovanna d’Arco dell’Azione Cattolica, distribuiva volantini con la falce e il martello e dopo la Liberazione “una delle più belle e attendibili testimonianze sulla personalità di Norma” fu offerta al Teatro Mazzini dal Vescovo di Massa Marittima.

La memoria recente di una massetana, bambina all’epoca, trasmette il pensiero della madre: “era un po’ impulsiva, la sua era una scelta dettata da una vitalità estrema, non una scelta politica”. Il suo racconto dei giorni dell’uccisione, del ritrovamento del cadavere e del funerale, raccolti dalla madre e dalle altre tocca i contorni umani: la disobbedienza di Norma al divieto di dare sepoltura al corpo del partigiano Guido Radi evoca l’archetipo femminile della legge del cuore – il sacrificio di Antigone. Tuttavia quella pietas è al confine tra pubblico e privato: la trasgressione all’ordine imposto dal potere nazifascista invia un messaggio che è anche politico a chi assiste al suo gesto.

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Norma Parenti con un bambino, probabilmente il figlio Alberto, s.d.

Così, dall’incerta definizione delle ragioni dell’agire di Norma emerge uno dei nodi più difficili da sciogliere per la Resistenza, sempre, a maggior ragione per la Resistenza femminile: la scelta. Gli scatti che la ritraggono descrivono una ragazza vivace, forse trasgressiva, certo molto bella. La retorica della “sposa e madre” e di una “eroina del secondo Risorgimento” – il linguaggio delle prime celebrazioni – si confonde con un’immagine di modernità che vediamo oggi, ma in tutta evidenza era presente anche allora. Forse è stato così che, passato il momento della compassione e dell’esaltazione del sacrificio necessario per la rinascita politica del paese, non è stato facile per nessuna delle parti assumersi, dandole una appartenenza, la memoria di Norma. C’è poi l’atrocità di quell’uccisione, delle sevizie che il corpo rivelò. La domanda sulla scelta di Norma è insieme domanda sulla scelta di lei come vittima, capro espiatorio, il più adatto a imporre uno sfregio tanto profondo da essere insopportabile a una città che aveva espresso un’opposizione tenacissima al nazifascismo: una ragione in più per spiegare la difficoltà a cimentarsi con una ricostruzione storica puntuale.

Finora, è l’intuito dell’artista – la regista e attrice Irene Paoletti – quello che forse ha saputo meglio restituire il clima cupo di terrore che fu preludio dell’orribile morte di Norma e la rabbiosa e meditata offesa con cui, ormai alla vigilia della rotta, il fascismo volle imprimere un marchio duraturo sulla città. È un caso, non unico, in cui l’arte aiuta la storia.

Articolo pubblicato nel dicembre del 2014.




Fascisti repubblicani a Lucca

Nel giugno del 1944 la notizia della liberazione di Roma e la veloce avanzata degli Alleati aveva destato nella popolazione toscana un grande entusiasmo, radicando la convinzione, che si rivelerà poi errata, di una rapida fine della guerra e dell’occupazione tedesca. A Lucca, come nel resto della Toscana, crollavano senza clamori le istituzioni del fascismo repubblicano e noti esponenti del fascismo locale, preoccupati per la propria sorte, avevano provveduto a varcare l’Appenino, a nascondersi, oppure tentato un rapido cambiamento ideologico.

Pavolini, il segretario nazionale del Fascio Repubblicano, aveva intrapreso agli inizi di giugno un viaggio attraverso le città toscane per valutare personalmente l’entità della crisi serpeggiante tra le istituzioni saloine del territorio.  Conscio dell’imminente avanzata degli Alleati, aveva deciso, in accordo con Mussolini, di direzionare tutti i suoi sforzi verso una militarizzazione del partito attraverso la creazione delle Brigate Nere, considerate quale unica possibilità di salvezza per la RSI, ormai assediata sul fronte interno dalla guerriglia partigiana e su quello esterno dalle armate anglo-americane. Il partito subiva così una trasformazione, da partito di massa a partito armato, d’avanguardia, di combattenti al servizio del fascismo e fedeli a Mussolini, per contrastare i nemici interni, i “ribelli”, gli antifascisti, ma anche verso tutti coloro che non si erano schierati e aspettavano soltanto la fine della guerra.

Ѐ con queste premesse che Pavolini arriva a Lucca il 17 giugno 1944, accompagnato dal suo braccio destro, il colonnello Giovan Battista Riggio, Beniamino Fumai e da Idreno Utimpergher, fascista della prima ora, che aveva fatto carriera durante il Ventennio come segretario provinciale dei sindacati dell’Industria. Dopo la costituzione della Repubblica Sociale, nell’autunno del ’43 si era spostato a Trieste dove aveva riaperto la sede del Fascio e insieme a Beniamino Fumai, a capo della squadra del “Mai Morti”, aveva seminato il terrore in città con rapine, estorsioni e assassinii, episodi che gli erano costati la destituzione da ogni incarico e l’allontanamento da Trieste. Utimpergher si era poi spostato nei territori dell’Italia occupata con il compito di riorganizzare squadre di fascisti e proprio con questo obiettivo era arrivato a Lucca.

Pavolini assegna a Utimpergher il compito di presiedere e organizzare la prima Brigata Nera della Repubblica Sociale italiana, intitolata a Mussolini e poi contrassegnata con il numero XXXVI. Si tratta di un unicum in Italia perché in realtà il decreto che ordina la creazione delle Brigate Nere viene pubblicato alcuni giorni dopo, il 30 giugno, e la maggior parte delle Brigate nere riesce a costituirsi soltanto due mesi più tardi, nell’agosto del 1944.

manifesto BNMa chi sono gli uomini che nell’estate del ’44 scelgono di entrare nelle Brigate Nere?

Le ricerche sull’argomento hanno rivelato che a determinare l’arruolamento nel partito armato intervengono motivazioni molteplici e diverse tra loro: condivisione convinta e agguerrita dell’ideologia fascista, opportunismo, volontà di emulazione nei confronti dei tedeschi, tentativo di rivendicare l’umiliazione dell’8 settembre, volontà di vendetta verso quelli che venivano considerati “voltagabbana” e di lotta senza quartiere al movimento partigiano, assimilazione della violenza, del razzismo e dell’intolleranza agguerrita contro il nemico, disvalori di cui il fascismo italiano si era fatto interprete fin dal ventennio.

Quando Utimpergher ai primi di luglio del ’44 provvede a organizzare la Brigata Nera lucchese si rivolge ai fascisti lucchesi con un appello che fa leva proprio su questi sentimenti. Il gruppo dei brigatisti lucchesi che risponde alla richiesta di arruolamento è molto eterogeneo, sia per esperienze politiche e militari precedenti, sia per appartenenza generazionale. Troviamo giovani e giovanissimi nati durante il Ventennio, educati e assuefatti alla retorica fascista, che compiono questa scelta a volte in modo convinto, altre ingenuamente; troviamo ex squadristi, marcia su Roma, delusi dalla burocratizzazione del partito e di nuovo esaltati all’idea dell’uso della forza e delle armi; troviamo veri e propri clan familiari che si arruolano insieme all’interno della brigata.

Completato l’organico, di circa 150 unità, alla metà di luglio, la Brigata Nera “Mussolini” diventa operativa lavorando al fianco degli occupanti tedeschi di zona ma anche in modo autonomo. Tante le operazioni che la vedono protagonista, come per esempio quella del 3 agosto 1944, quando i brigatisti organizzano una rappresaglia nella frazione di S. Lorenzo a Vaccoli che porta all’incendio delle case del paese e all’arresto e successiva deportazione nei campi di lavoro di alcuni contadini. Pochi giorni dopo i brigatisti della “Mussolini” partecipano ad interrogatori eseguiti con l’uso di sevizie nei confronti di presunti fiancheggiatori dei partigiani locali, e ancora partecipano insieme ai tedeschi al rastrellamento avvenuto il 21 agosto 1944 sul Monte Faeta, durante il quale vengono fucilati sette giovani uomini appartenenti a gruppi di resistenti accampati sui Monti Pisani. Nei primi di settembre hanno inoltre un ruolo determinante di delazione nella strage della Certosa di Farneta e infine, in questa escalation di violenza, il 23 settembre, in risposta al ferimento di un brigatista nero, pianificano ed eseguono, in totale autonomia rispetto alle forze tedesche presenti in zona, la strage del Convento dei Cappuccini a Castelnuovo Garfagnana in località Merlacchiaia, durante la quale vengono uccisi, per mano dei brigatisti lucchesi, otto giovani uomini.

Alla fine di settembre 1944 con lo spostamento del fronte e l’avanzata degli Alleati la XXXVI Brigata Nera lascia la lucchesia e continua ad essere operativa prima in Emilia, nel modenese e a Piacenza, poi in Piemonte. Ciò che resta della “Mussolini” converge infine a Milano il 25 aprile 1945: da qui un piccolo gruppo di militi lucchesi ancora al comando di Utimpergher segue Mussolini nel suo ultimo disperato viaggio. Il 27 aprile 1945, in testa alla colonna dei camion tedeschi e delle automobili del duce e dei ministri, l’autoblinda della BN lucchese viene fermata a Dongo.

Il giorno successivo Utimpergher verrà fucilato sul lungolago di Como insieme a Pavolini e ai gerarchi, gli aderenti alla Brigata invece saranno processati per collaborazionismo e per la partecipazione alle rappresaglie e alle stragi sopra citate presso le Corti d’Assise straordinarie di Lucca e di Firenze. Dopo un’iniziale comminazione di pene severe i brigatisti verranno perlopiù prosciolti o amnistiati, in linea con l’allentamento della politica in materia di epurazione e punizione dei crimini fascisti che caratterizza i governi italiani a partire dal ’46.

Articolo pubblicato nel luglio 2014.




Antifascisti e perseguitati politici nel Chianti

ANTIFASCISTI_5Che cosa hanno rappresentato, per le popolazioni del Chianti, la dittatura e il regime fascista? Domanda non facile a cui la storiografia non ha ancora dato, a tutt’oggi, una risposta soddisfacente. La memoria delle violenze, delle sopraffazioni, delle tragedie provocate dalla dittatura con la suapolitica razzista, imperialista, aggressiva e guerrafondaia nel ventennio, ha sicuramente lasciato una traccia nella memoria della gente ma non ha prodotto ancora risultati significativi sul piano della conoscenza storica.

I dati che si propongono nelle tabelle seguenti sono il risultato di lunghe ricerche effettuate su documenti finora poco studiati ma di grande importanza. Si tratta dei fascicoli del Casellario politico centrale, dipendente dal Ministero degli Interni, direzione generale di pubblica sicurezza, conservate presso l’Archivio centrale dello Stato a Roma. Dallo studio e dall’analisi delle migliaia e migliaia di fascicoli intestati ad altrettanti antifascisti, sovversivi o anche semplici cittadini sottoposti alle misure poliziesche del regime fascista, emerge un universo dolorante e represso, un intreccio di storie e di peripezie che hanno caratterizzato il ventennio nel nostro paese e nella nostra regione, ma che finora raramente sono affiorate nelle ricostruzioni di uno dei periodi più drammatici della storia.

I dati che si forniscono richiederebbero una spiegazione ampia e approfondita, ma già nella loro crudezza e immediatezza offrono ampia materia di riflessione. Basti pensare che, in un territorio come il Chianti, popolato da non più di 70-80.000 persone ma con un tessuto urbano rarefatto e diffuso in un’area più ampia a forte connotazione agricola, sono oltre 200 gli schedati come antifascisti, sovversivi e perseguitati politici da tenere sotto sorveglianza e da sottoporre a misure repressive e restrittive della libertà, a provvedimenti che possono privare del lavoro e ridurre in miseria intere famiglie. Già, perché in realtà non si tratta solo di 205 individui, ma di 205 nuclei familiari, ciascuno con le sue reti di parentela e di amicizie. Sono dunque 205 storie di vita, 205 itinerari biografici che si snodano attraverso violenze subite, angherie, miserie, tragedie di vita quotidiana.

ANTIFASCISITI_628 persone saranno deferite al Tribunale Speciale per la difesa dello Stato, quel famigerato tribunale da cui sono passati i Gramsci, i Pertini e tanti altri grandi della nostra storia. Anche una donna nata a Montespertoli, Preziosa Borri, casalinga e comunista, finita sotto le grinfie degli sbirri nel 1929, quando aveva già 65 anni, veniva deferita al tribunale speciale; 19 persone finiranno al confino di polizia, costrette ad abbandonare famiglia, casa, lavoro, amicizie, abitudini, libertà; 18 emigreranno all’estero per motivi politici e finiranno iscritti nella rubrica di frontiera, con la minaccia incombente di venire arrestati non appena si fossero avvicinati a una frontiera nazionale; 14 finiranno nelle maglie della cosiddetta giustizia ordinaria, processati per reati classificati comuni, anche se di natura politica; 45 infine verranno sottoposti a diffida o ad ammonimento, che non erano provvedimenti innocui e senza conseguenze, soprattutto per quel che concerneva la conservazione del lavoro.

Venivano colpite persone delle più diverse appartenenze sociali e di livello culturale assai differenziato: si potevano trovare due possidenti accanto a 5 contadini, 14 coloni e 20 braccianti; o una dozzina di commercianti di vario livello: gestori di ristoranti, vinai, negozianti, salumieri, pizzicagnoli e perfino rappresentanti di commercio; o una settantina di artigiani, 17 calzolai, 11 falegnami, 7 meccanici, 3 fabbri, 3 parrucchieri e tanti altri come scalpellini, sarti, barrocciai, boscaioli, lattai, fornai, legatori di libri e tanti altri. Vi erano anche operai di industria, tipografi, ma anche un industriale e anche rappresentanti delle professioni, un veterinario, un geometra, un pubblicista, maestri e insegnanti e perfino un artista di varietà. Numerosi i ferrovieri, una decina e anche un carabiniere condannato, nel 1941, al confino di polizia. Naturalmente queste poche righe e questi pochi dati danno solo un’idea molto limitata e sommaria di quelle che furono le caratteristiche e le vicende dell’universo, del popolo degli antifascisti, dei perseguitati politici del regime. Ma il filone che si prospetta è particolarmente ricco e, per ognuno dei 205 nominativi è possibile andare a riscoprire e ristudiare, attraverso i fascicoli personali e con un lavoro di ricerca sulle fonti orali, attraverso le testimonianze, storie di vita vissuta e vissuta intensamente, drammaticamente.

L’articolo era stato pubblicato sulla rivista “InChianti” n. 10, 2004.

Ivano Tognarini, docente di Storia moderna all’Università di Siena, è stato Presidente dell’Istituto Storico della Resistenza in Toscana dal 2000 fino alla sua recente scomparsa il 15 marzo 2014. Questo piccolo contributo ne vuol ricordare il vasto impegno nello studio della presenza antifascista nell’Italia del Ventennio attraverso l’analisi della documentazione del Casellario politico centrale dello Stato.

Articolo pubblicato nel maggio 2014.




Prato, 1918-1922. Nascita e avvento del fascismo

Prima dell’uscita di Prato, storia di una città – l’imponente opera pubblicata dal Comune di Prato e dalla casa editrice Le Monnier, i cui due ultimi volumi (il terzo ed il quarto, usciti rispettivamente nel 1988 e nel 1997) sono dedicati alla storia della città laniera fra il 1815 ed il 1993 – la storiografia su Prato in età contemporanea non era molto ricca.
Certo, esistevano alcuni importanti contributi, tutti risalenti agli anni Sessanta-Settanta (si pensi alla Storia economica di Prato dall’Unità d’Italia ad oggi di Renzo Marchi, agli studi di Claudio Caponi sul movimento cattolico, a Le lotte sociali e le origini del fascismo a Prato di Rosangela Degl’Innocenti Mazzamuto), ai quali si affiancavano altre opere, a metà strada tra la memorialistica ed il saggio storico (come Coccodrillo verde, di Aldo Petri, sul periodo resistenziale, Prato, ieri, di Armando Meoni, sulla Prato fra Otto e Novecento, La valle rossa, di Carlo Ferri, sulla Val di Bisenzio, Fermenti popolari e classe dirigente a Prato, di Dino Fiorelli e così via), ma, in complesso, l’esigenza di fare i conti con la storia più recente della città non poteva dirsi soddisfatta.
La pubblicazione di Prato, storia di una città fu dunque un evento periodizzante, che (oltre a rappresentare il primo tentativo da parte della sinistra di far corrispondere all’egemonia politica a livello di amministrazione comunale un’analoga egemonia sul piano dell’elaborazione storiografica) costituì il preludio della successiva fioritura della storiografia su Prato in età contemporanea, concretatasi nella pubblicazione di diverse monografie dovute a Michele Di Sabato, ad Andrea Giaconi, a Giuseppe Gregori, a Federico Lucarini, a chi scrive e ad altri ancora.
Il libro di Alessandro Bicci si situa in questo contesto.
Il terreno scelto dall’Autore per il suo lavoro non può dirsi completamente vergine dal punto di vista storiografico. Altri studiosi si sono infatti occupati prima di lui dei fatti (o almeno di alcuni fatti) accaduti nel Pratese dopo la fine della grande guerra, ma il suo libro ha il merito di ricostruire, per la prima volta in maniera organica ed approfondita, i principali eventi verificatisi tra il 1918 ed il 1922, fornendoci un quadro della situazione economica, politica e sociale della Prato di allora.
Bicci ci parla dunque dei successi riportati dai lavoratori nel corso del cosiddetto “biennio rosso” (1919-1920), quando le classi dirigenti assistettero attonite all’ascesa del movimento operaio che riuscì a conquistare le otto ore, a strappare alla controparte un concordato che prevedeva un aumento del 50% della paga giornaliera dei lanieri e che, col moto del caroviveri del luglio del 1919, sembrò per un attimo padrone della situazione.
Scorrendo l’indice del volume, vediamo però che ben presto la spinta operaia si esaurì e la reazione cominciò a prendere campo, favorita dalle divisioni tra socialisti e comunisti: i primi a farne le spese furono i lavoratori edili della Direttissima, vittime di una serrata che preluse alla nascita ed allo sviluppo del movimento fascista.
Bicci ci parla quindi dei “fatti di Carmignano” (28 marzo 1921), cioè dell’uccisione dei carabinieri Pucci e Verdini, della quale vennero incolpati tre comunisti seanesi. Questo episodio, su cui non è stata mai fatta pienamente luce, è molto interessante perché potrebbe essere stato nient’altro che la cinica applicazione nel comune mediceo, da parte dei fascisti, della nota “formula Pasella-Perrone Compagni”, consistente nel colpire persone in qualche modo legate all’establishment per giustificare poi la repressione contro il movimento operaio e contadino e l’assalto alle amministrazioni democratiche liberamente elette (cosa che puntualmente accadde).
Continuiamo a scorrere l’indice del volume: le violenze fasciste si moltiplicano, il 17 aprile 1921 gli squadristi, con la protezione dei carabinieri, effettuano un sanguinoso raid su Vaiano, cuore della “Valle rossa” e roccaforte del movimento operaio, i tessili registrano una pesante sconfitta in occasione dello sciopero del settembre-novembre di quell’anno (che vide la comparsa sulla scena di un vero e proprio sindacato giallo – il Sindacato economico apolitico – creato in seno all’Associazione nazionale combattenti) e, dopo l’omicidio del ras locale Federico Guglielmo Florio, per mano del comunista Cafiero Lucchesi, i fascisti procedono senz’altro alla conquista del comune, defenestrando l’amministrazione guidata dal socialista Giocondo Papi: siamo così giunti al gennaio del 1922, quando per Prato cominciò, come è stato scritto, “la lunga notte medievale del fascismo” (Ugo Cantini).
Anche a Prato il fascismo fu senza alcun dubbio, come si ricava chiaramente dal lavoro di cui si sta parlando, il prodotto, da un lato, del nullismo massimalista (vale a dire dell’incapacità, da parte dei dirigenti del PSI, di elaborare una strategia politica in grado di dare alle aspirazioni di palingenesi sociale delle masse uno sbocco concreto, senza estenuarle in un’inutile “ginnastica rivoluzionaria” che demoralizzava gli operai ed allarmava anche più del dovuto i padroni) e, dall’altro, della volontà di riscossa del padronato, che delle squadre fasciste fu diretto e generoso finanziatore.
Ma chi erano gli squadristi? Chi erano i violenti, gli assassini, che, a Prato come altrove, si macchiarono di delitti orrendi? (e voglio qui ricordare un episodio, nel quale mi sono imbattuto nel corso della mia attività di ricerca, che mi ha particolarmete colpito: l’uccisione, avvenuta a Borgo a Buggiano nel ’21, di un lavoratore, che rispondeva al nome di Francersco Antonio Puccini, solo perché portava all’occhiello un fiore rosso, simbolo della sua fede politica e delle sue speranze).
Chi erano i fascisti, dunque. Cerchiamo di rispondere a questa domanda. Com’è noto, Antonio Gramsci seppe magistralmente cogliere, in una serie di articoli pubblicati sull’Ordine nuovo fra il 1921 ed il 1922, quelli che erano i tratti distintivi del fascismo, che è sì reazione antiproletaria (cioè una delle forme assunte nel XX secolo dalla lotta del capitalismo contro il movimento rivoluzionario dei lavoratori), ma che si differenzia da altri movimenti reazionari per il fatto di dare corpo alla “mobilitazione violenta della piccola borghesia nella lotta del capitalismo contro il proletariato” (Alfonso Leonetti).
Ebbene, il libro di Bicci ha il merito di sottoporre a verifica, sul terreno concreto dei fatti a livello locale, questa intuizione gramsciana, evidenziando che anche nel Pratese, il fascismo fece proseliti in primo luogo fra i piccoli borghesi, atterriti dalla prospettiva della proletarizzazione, e fra la massa di spostati (nelle cui file rientravano anche diversi operai) venutasi a creare in seguito alla crisi che si abbatté sull’industria laniera locale nel 1921. Gli interessanti profili biografici di alcuni esponenti del fascismo pratese stesi da Bicci (si pensi a personaggi come Tullio Tamburini e come lo stesso Florio) sono, da questo punto di vista, illuminanti. Si può quindi sostenere che la tesi di Gramsci sulla natura piccolo borghese del fascismo trova nell’accurata analisi di Bicci una puntuale conferma.
L’utilità degli studi di caso sul fascismo, di questo particolare tipo di studi di “microstoria”, consiste proprio in questo: verificando a livello locale certe tesi generali, essi permettono di capire come, nell’Italia del primo dopoguerra, poté affermarsi un movimento come quello mussoliniano, che impose al Paese vent’anni di dittatura e lo precipitò infine nell’abisso della seconda guerra mondiale: la lettura di questo libro è quindi quanto mai utile per comprendere uno degli snodi della storia recente della città.

Articolo pubblicato nel maggio 2017.




Le fonti dell’Archivio di Stato di Livorno per lo studio del primo fascismo

La nascita dell’Archivio di Stato di Livorno è dovuta al Rdl 22 dicembre 1939, n. 2006, che impose la costituzione di una sezione di Archivio di Stato in ogni capoluogo di provincia. La guerra, soprattutto quelle aerea, ritardò l’attivazione dell’archivio, che iniziò ad operare solo alcuni anni dopo la fine del conflitto nei locali del Palazzo del governo, nell’attuale via Fiume. Al nuovo archivio giunsero – più o meno ordinati – tutti i fondi precedentemente conservati dall’Archivio storico cittadino, fondato nel 1899 da Pietro Vigo. Questo comportò l’avvio di un’ingente quantità di lavori per il loro ordinamento, che si conclusero provvisoriamente solo nel 1960 con la pubblicazione del primo inventario dell’Archivio di Stato di Livorno. Ma perché ci interessa sapere questo per orientarci tra le fonti del fascismo livornese? Per il motivo che la maggioranza di questa tipologia di carte su cui oggi possiamo studiare vennero ordinate – e quindi “manipolate” per l’ultima volta – proprio durante queste operazione di prima messa a disposizione degli studiosi del patrimonio dell’Archivio di Stato di Livorno.
Immagine1Mi riferisco a due fondi in particolare: quello topico del Partito nazionale fascista e quello del Comitato provinciale di liberazione nazionale. Senza scendere troppo nel dettaglio è sufficiente sapere come, alla data del 25 luglio 1943, l’archivio della federazione si trovasse nella sede di Piazza Cavour. Sicuramente vi rimase fino alla costituzione della federazione provinciale del Partito fascista repubblicano, prima del trasferimento in via della Paluda a causa dell’interdizione delle vie centrali del capoluogo per la creazione della “Zona nera” (15 novembre 1943). Non è chiaro se tutto l’archivio venne trasportato nella nuova sede, ma comunque fu recuperato quasi intatto dal Comitato provinciale di liberazione nazionale dopo la liberazione della città da parte degli angloamericani (19 luglio 1943). L’interesse per i resistenti a “controllare” l’archivio stava nella possibilità di passarlo al setaccio per individuare responsabilità – e responsabili – del passato ventennio, rendendo più rapida la fase istruttoria per la “defascistizzazione” della provincia di Livorno. Questo ha fatto sì che tale archivio si mescolasse con quello del Comitato provinciale di liberazione nazionale, soprattutto nella sua componente “politica”. La serie di buste dell’Ufficio politico, infatti, è la più consistente del fondo (14 buste su un totale di 43, di cui altre 14 di denunce varie provenienti dai comitati periferici). Ciò che rende interessante – ed importante – questo materiale è come si tratti di fascicoli personali intestati a noti personaggi dell’epoca, corredati di documentazione proveniente dall’archivio della federazione (tessere, fascicoli personali dell’iscritto, richieste ecc.) per acclarare la loro partecipazione alla vita del ventennio precedente.
Nell’archivio della federazione, infatti, si possono tutt’ora rinvenire molti incartamenti intestati ai singoli e finalizzati al riconoscimento del proprio impegno fascista. Il fondo Partito nazionale fascista è comunque molto voluminoso e si compone di 78 buste. Le più interessanti per ricostruire le origini del partito – e coglierne la sua componente di violenza – sono sicuramente quelle relative alle “istanze” per il riconoscimento dell’attività squadrista (1939) o della partecipazione alle giornate della Marcia su Roma (1923-1941).
Ovviamente all’interno del fondo ci sono tante altre fonti per capire la composizione del partito livornese negli anni del regime, come le cartelle biografiche degli iscritti al fascio del capoluogo (bb. 17) e alla federazione (bb. 19). Su questo genere di documenti Matteo Mazzoni ha realizzato l’analisi puntuale di quattro gruppi rionali del solo fascio di Livorno (27% degli iscritti). Queste cartelle sono rilevanti in quanto all’interno si possono trovare documenti istruttori particolarmente utili per lo studio delle dinamiche locali del partito.
L’altro grande nucleo concerne le richieste di iscrizione al Pnf relativa all’ultima apertura delle iscrizioni (1940-1941), che permettono un’analisi puntuale di questa componente del fascio “dell’ultima ora” (bb. 11).
I due fondi che ho sommariamente illustrato non rientrano necessariamente nel patrimonio di ogni singolo archivio di Stato, trattandosi di documentazione non prodotta da enti periferici dello Stato ma da organizzazioni politiche. Quelli che invece per legge sono fondi che devono essere nel patrimonio di un archivio di Stato sono i fondi Prefettura, Questura e Tribunale del capoluogo di provincia.
La Prefettura, in quanto organo più importante della provincia per il sistema amministrativo italiano, è anche il fondo più consistente. Per la documentazione fascista le buste utili sono diverse, e tutte a vario modo assai rilevanti trattandosi della corrispondenza tra singoli enti (i cui archivi, magari, non sono stati conservati) e il “centro” della periferia. Mi riferisco in particolar modo alla serie “Fascismo” e ai suoi riferimenti al Pnf, Pfr e le varie organizzazioni federali (bb. 189 e 190), le case del fascio della provincia (b. 212) e l’applicazione della legislazione razziale (bb. 93, 172 e 337). Di particolare utilità, anche per indagini sui legami tra caso locale e nazionale, sono le buste relative ai rapporti tra prefetti e sindaci-podestà della provincia (bb. 157, 181, 187). Queste carte, se lette in filigrana, fanno emergere bene gli umori della federazione in provincia nell’arco del ventennio.
Per ovvie ragioni il fondo Questura è forse il più ricco di quelli che si trovano all’Archivio di Stato di Livorno che possono aiutare i ricercatori negli studi sul “fascismo-movimento” e “fascismo-regime” nella provincia labronica. Le serie più calzanti per leggere in fieri l’affermazione fascista – oltre alla b. 487 (partito fascista) della A3 “associazioni” – sono la A1 “informazioni personali” e A8 “persone pericolose per l’ordine pubblico”. L’A1 è la serie adatta per svolgere ricerche su determinate persone, trattandosi delle indagini svolte dalle forze dell’ordine su sollecitazioni della prefettura (per intervento di altri enti o per denunce anonime), ma grazie al recente strumento di corredo realizzato per muoversi anche su determinate tematiche di ricerca. La serie A8 è il cosiddetto Casellario politico provinciale, per cui conserva un gran numero di fascicoli nominativi che seguono la “vita” degli indagati. Il problema è che questo strumento di polizia rimase attivo fino alla fine degli anni ’70 (quantomeno le carte che abbiamo si fermano a quella data), per cui venne ampiamente rimaneggiato, soprattutto dopo la fine del fascismo e della Seconda guerra mondiale. Questo non impedisce di poter scorgere qualche fascicolo interessante per capire la genesi dello squadrismo, soprattutto se riferibile a determinate categorie di persone controllate dalla polizia prima e dopo la guerra.
L’ultimo fondo di quelli “istituzionali” nel quale è possibile indagare il fascismo livornese è, senza dubbio, quello del Tribunale. Come è noto le violenze squadriste, soprattutto per fatti di sangue, vennero “perseguite” (quantomeno ci fu un tentativo) prima dell’affermazione del regime fascista, lasciando ampie testimonianze istruttorie tra le carte processuali livornese. Questo aspetto si rivelò decisivo nel secondo dopoguerra, quando, con la cosiddetta legislazione per le “sanzioni contro il fascismo”, vennero riaperti alcuni casi amnistiati o chiusi nel ventennio precedente.
Vorrei chiudere questa panoramica sulle fonti del primo fascismo rinvenibili nell’Archivio di Stato di Livorno con un fondo un po’ meno conosciuto, ma fondamentale per comprendere fino in fondo le dinamiche socio-politiche che hanno sotteso alla nascita del fascismo labronico e in tutta l’area costiera. Mi riferisco all’archivio “di persona” di Salvatore Orlando. Erede dell’omonima famiglia, fu a capo del cantiere navale di Livorno dal 1877 alla sua morte nel 1926. Attraverso il suo ruolo di personaggio pubblico centrale per la vita politica livornese del mondo liberale (deputato, 1904-1920; sottosegretario di Stato ai trasporti 1918; senatore 1920-1926) lo mise al centro anche dell’affermazione fascista in città e sul territorio. Attraverso la sua corrispondenza (bb. 28), in particolar modo quella relativa all’ultima fase della sua vita (1921-1926) è possibile seguire, quasi giorno per giorno, la crescita del movimento fascista. Venire? Attraverso le numerose donazioni al fascio che egli fece a partire dalla primavera del 1921, in modo regolare, partecipando informalmente alla vita della sezione livornese e di altre sezioni all’interno del suo “feudo” elettorale.

Articolo pubblicato nel luglio 2021.