La Città Bianca in camicia nera: il decennio di Scorza

La repressione degli antifascisti sul territorio provinciale

La segreteria Scorza si distingue fin da subito per la violenta offensiva contro le amministrazioni locali guidate dalle sinistre e dai popolari: nel 1925 “cade” Borgo a Mozzano, ultimo comune antifascista [1], il cui commissariamento viene salutato sulle colonne de L’intrepido – il foglio del fascismo lucchese – come una “vittoria morale e reale dei Fasci” [2]. Ma la sola conquista del potere politico non è sufficiente: sono gli individui che debbono essere colpiti, perseguitati, schedati. Gli archivi del Casellario politico centrale – istituito per la prima volta nel 1894 sotto Francesco Crispi e adesso ufficio autonomo alle dipendenze della PS – si gonfiano letteralmente durante il fascismo; nel mirino non soltanto l’adesione a fedi politiche avverse al regime, ma anche la moralità stessa delle persone, soprattutto se donne: così l’anarchica Pia Bertini, residente in provincia di Pisa ma nata ad Altopascio, è sia una sovversiva che una “di facili costumi”[3]. Prostitute dunque, oppure pazze: come Clementina Masini di Monte San Quirico, arrestata nel 1929, le cui parole contro il duce sarebbero da attribuirsi ad un “momento di esaltazione mentale per disturbi psichici”[4].

Gli squadristi imperversano in tutta la provincia, non basta allontanarsi dalla città per essere al sicuro: il montecatinese Agenore Dolfi, già socialista e poi membro del PcdI, viene aggredito più volte tra il 1922 e il 1923 (in un’occasione la spedizione punitiva avviene addirittura all’esterno del tribunale di Lucca, dove assieme a Dolfi viene ferito anche il suo avvocato e compagno di militanza politica, Luigi Salvatori); trasferitosi infine a Viareggio, viene addirittura rapito dagli squadristi e riportato a Lucca, dove subisce l’ennesimo pestaggio. Dolfi sarà infine costretto a rifugiarsi in Argentina, dove continua a spendersi in favore del movimento antifascista: muore nel 1944 in Italia, dove era tornato per prendere parte alla Resistenza, in circostanze mai del tutto chiarite [5]. Come Dolfi, anche il socialista massarosese Giuseppe “Beppino” Cosci, nativo della frazione di Stiava, è costretto all’emigrazione in Francia per sfuggire alle persecuzioni. Verso Cosci, che in paese gode di stima e rispetto, i fascisti lasciano da parte il manganello per ricorrere a più subdole strategie, offrendogli dapprima un posto presso il locale oleificio in cambio dell’adesione al fascio, per poi impedirgli di trovare e mantenere un lavoro che gli consenta di sfamare la numerosa famiglia (arrivando a incendiare i locali della falegnameria aperta da Beppino a Viareggio)[6].

La ferita più grave all’antifascismo però Scorza l’ha già inflitta nell’estate 1925, quando i suoi uomini aggrediscono uno dei più importanti leader dello schieramento liberaldemocratico: il deputato Giovanni Amendola.

20 luglio 1925: il “Delitto Amendola”

Ostile sin dal principio al fascismo e ai suoi metodi illegali, pur partecipando nel 1922 in vesti ministeriali ai due Governi Facta (che includevano anche i fascisti), Amendola nel 1925 è ormai uno dei capi riconosciuti dell’opposizione costituzionale a Mussolini. Già a un anno dalla marcia su Roma il deputato è stato sottoposto a fermo presso la sua abitazione salernitana, per poi subire una prima aggressione nella capitale poche settimane dopo. L’azione contro Amendola viene pianificata dal segretario del PNF Farinacci d’intesa con Scorza, reputato l’uomo giusto per portare a segno il colpo senza lasciarsi dietro “pasticci” (U. Sereni) analoghi a quelli del Delitto Matteotti.

L’aggressione al rappresentante liberale avviene sulla strada tra Montecatini Terme e Pistoia la notte del 20 luglio: come ricorda il figlio Giorgio (poi deputato del PCI), che da Salerno si affretta a raggiungere il padre convalescente a Roma dove è stato trasportato, Amendola “era tutto piagato. Facevano impressione soprattutto le ferite alla testa, all’occhio e all’orecchio. Il corpo era pesto, ma allora non si sapeva che il colpo mortale era stato inflitto proprio ai polmoni” [7]. Amendola sarebbe morto nove mesi dopo in Francia a Cannes, il 7 aprile 1926, e le indagini, svogliatamente compiute dalla magistratura [8], portano a un nulla di fatto: l’aggressione viene fatta passare dal regime come genuina reazione popolare contro l’odiato antifascismo. I bastonatori di Scorza resteranno impuniti, così come il loro capo, che nel dopoguerra fugge in Argentina proprio per non affrontare la giustizia italiana e rispondere dei propri capi d’imputazione (il principale dei quali riguarda proprio i fatti di Montecatini). In suo favore intercedono le gerarchie ecclesiastiche pistoiesi, e fra tentativi di depistaggio e interventi della Cassazione, il processo si concluderà nel 1949 con la concessione dell’amnistia da parte della Corte d’assise di Perugia, scampando al gerarca la precedente condanna a trent’anni di reclusione [9].

Guerra a tutto campo dentro il Partito

Se è vero che i colpi più duri Scorza li riserva agli antifascisti, non più tenero il ras di Lucca si dimostra nei confronti delle opposizioni interne allo stesso PNF: i primi a farne le spese sono addirittura due dei principali rappresentanti del partito in città, Nino Malavasi e Anatolio Della Maggiora. Malavasi, romagnolo di formazione repubblicana e anticlericale [10], nonché tra i fondatori del fascio lucchese, viene allontanato nel marzo 1921 al termine di una campagna diffamatoria per il suo mancato allineamento alle direttive della dirigenza milanese; Della Maggiora, che ricopre il ruolo di segretario ed è inviso a Scorza per la sua alleanza con Augusto Mancini e altri esponenti democratico-borghesi e del combattentismo alla vigilia delle elezioni della primavera 1921, viene a sua volta epurato per la mancata candidatura di rappresentanti fascisti nelle liste del Blocco Nazionale, e la segreteria passa nelle mani dello stesso Scorza.

Per consolidare il proprio potere, il ras cosentano non esita a far scorrere del sangue: il 22 maggio 1921 il sangue è quello di due squadristi, Nello Degl’Innocenti e Gino Giannini, entrambi a bordo del camion partito da Borgo a Mozzano in direzione Valdottavo, colpito nel Morianese da alcuni massi caduti dal soprastante monte Elto. Immediatamente si parla di un attentato antifascista, il casellante di Saltocchio Esmeraldo Porciani – presunto testimone oculare dei preparativi dell’attentato – viene bastonato e preso a rivoltellate da un gruppo di fascisti in piena notte davanti alla propria abitazione, e muore poche ore dopo all’ospedale di Lucca. Scorza nega qualsiasi coinvolgimento fascista, e il processo-farsa contro i responsabili si conclude con l’assoluzione per tutti salvo Alfredo Menesini, datosi latitante (che rientra comunque in seguito ad amnistia e apre una ditta di costruzioni, ricevendo importanti commesse pubbliche). Ben più dura sarà la giustizia nei confronti dei tre “attentatori antifascisti” di Valdottavo (Giannarini, Della Nina e Ramacciotti), condannati su pressione di parte fascista a pene severissime che spaziano dall’ergastolo all’interdizione perpetua dai pubblici uffici [11].

Nel 1927 la fronda antiscorziana dentro il PNF prova a riorganizzarsi attorno al podestà di Lucca Mario Guidi e ai suoi alleati Oscar Galleni e Fedele Pennacchi, membri del direttorio provinciale che intendono screditare Scorza in sede congressuale portando alla luce alcune torbide faccende legate alla Banca di Lucca (disastrosamente gestita dal fratello del gerarca, Giuseppe) nelle quali era implicato anche l’ex deputato di Pescia Tullio De Benedetti [12]: il vicesegretario nazionale Renato Ricci però all’ultimo momento ritira il proprio sostegno ai tre dissidenti, che vengono costretti a dimettersi dalle rispettive cariche ed espulsi dal Partito.

1930 – 1932: Scorza dal trionfo alla caduta

Il regime scorziano a Lucca riceve la sua “consacrazione” ufficiale il 12 maggio 1930, in occasione della visita di Mussolini in città, in ricordo della quale viene aperto nel 1931 un nuovo varco nelle Mura alla presenza del segretario nazionale del PNF Giuriati, Porta della Vittoria (l’odierna Porta San Jacopo, familiarmente detta “il buco nuovo”)[13]. Pochi mesi prima lo stesso Giuriati ha chiamato al proprio fianco Scorza, nominandolo responsabile dei fasci giovanili.

Resta un solo, mal tollerato ostacolo, e proprio nel cuore del regno di Scorza: la potente famiglia Bertolli, ricca dinastia dai ramificati interessi economici, nei cui confronti il ras porta avanti una cauta “guerra fredda” (Umberto Sereni) e che intrattiene buoni rapporti con il neosegretario nazionale Starace, subentrato a Giuriati e ostile a sua volta a Scorza. Nel giro di poco tempo il gerarca di origini cosentane viene costretto a restituire i propri incarichi, e le missive inviate a Mussolini, che certo non ha digerito l’opposizione di Scorza alla sua linea di accordo con il Vaticano, restano lettera morta. La faccenda di Valdottavo viene rispolverata per l’occasione, i fedelissimi dell’autoproclamatosi “condottiero” ed erede di Castruccio Castracani vengono colpiti uno dopo l’altro [14], e il 10 dicembre 1932 viene sancita ufficialmente la decadenza di Scorza dalle pagine del Popolo Toscano [15]. Soltanto un decennio più tardi – in frangenti ben più drammatici per il regime e il paese – il fascismo avrebbe riabilitato Scorza.

Mussolini_manifattura_Lucca 1930

Mussolini in visita alla Manifattura Tabacchi durante il suo soggiorno a Lucca nel 1930 (foto di Ettore Cortopassi, 1930; Archivio Fotografico Lucchese, ECN 2329)

[1] Per maggiori approfondimenti si rimanda alla lettura del saggio di Nicola Laganà Borgo a Mozzano: l’ultima amministrazione comunale antifascista della Lucchesia (1924-1925), secondo i documenti d’archivio e le cronache dei periodici locali, in “Documenti e Studi – Rivista dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea in provincia di Lucca” n. 27/28, dicembre 2006, pp. 17-143

[2] Ibidem, p. 19

[3] Teresa Catinella, Bertini, Pia, in Gianluca FULVETTI, Andrea VENTURA (a cura di), Antifascisti lucchesi nelle carte del Casellario politico centrale. Per un dizionario biografico della provincia di Lucca, Maria Pacini Fazzi, Lucca 2018, pp. 54-55

[4] Marta Giusti, Masini, Clementina Maria Luisa, in Ibidem, pp. 138-139

[5] Andrea Ventura, Dolfi, Agenore, in Ibidem, pp. 91-93

[6] Andrea Ventura, Cosci, Giuseppe, in Ibidem, pp. 80-81; vedi anche Vanda Puccetti, Memorie su Beppino Cosci (a cura di Fabio Flego), Pezzini, Viareggio 2010

[7] Giorgio Amendola, Una scelta di vita, BUR, Milano 1979, pp. 126-127

[8] Umberto Sereni, Carlo Scorza e il fascismo stile camorra, in Paolo Giovannini, Marco Palla (a cura di), Il fascismo dalle mani sporche, Laterza, Roma-Bari 2019, pp. 190-217

[9] Mimmo Franzinelli, L’amnistia Togliatti, Feltrinelli, Milano 2016, pp. 166-167

[10] La convergenza tra settori del repubblicanesimo di matrice mazziniana e fascismo a Lucca porta anche alla nascita di un periodico di respiro nazionale, Retaggio”, pubblicato dall’agosto al dicembre del 1924. La sua breve ma significativa storia è stata ricostruita nel dettaglio da Nicola Del Chiaro nel saggio L’Edera con il littorio. “Retaggio”: un ambizioso periodico mazziniano fascista (Lucca, agosto-dicembre 1924), in “Documenti e Studi” 42/2017, pp. 41-63

[11] La vicenda è stata ricostruita approfonditamente da Nicola Laganà nel saggio L’eccidio di Valdottavo: domenica 22 maggio 1921. Un falso attentato antifascista, ordito dal fascista Carlo Scorza e realizzato dai suoi squadristi, in “Documenti e Studi” 32/2010, pp. 11-76

[12] Per maggiori approfondimenti si rimanda alla lettura del già citato saggio di Umberto Sereni Carlo Scorza e il fascismo stile camorra, in particolare pp. 201-206

[13] Marco Pomella, La storia di Lucca, Typimedia, Roma 2019, p. 129

[14] In particolare si vedano a titolo di esempio i casi di Luigi Stefanini (segretario del fascio di Altopascio) e Artidoro Nieri (subentrato a Scorza come segretario federale provinciale dopo che questi era stato eletto alla Camera dei deputati), entrambi approfonditi nel saggui di Moreno Bertolozzi Uomini e vicende del fascismo di Altopascio (1922-1932… e oltre, in “Documenti e Studi” 48/2021, pp. 17-37

[15] Umberto Sereni, Op. cit., in particolare pp. 206-217




«L’officina dei partigiani».

La montagna – ha scritto Dante Livio Bianco – fu […] la culla del partigianato, come ne fu poi la base fondamentale e l’ambiente di sviluppo e di consolidamento. […] Le montagne furono davvero la casa dei partigiani.[1]

Le montagne a cui si riferiva nelle sue memorie partigiane il futuro comandante della 1° Divisione alpina Giustizia e Libertà erano quelle del Cuneese, una delle prime e più importanti culle della Resistenza armata italiana. E tuttavia, l’annotazione del Bianco assume certamente una valenza generale e può infatti estendersi tranquillamente alla totalità della storia della Resistenza partigiana tout court.

Ogni banda partigiana, ogni esperienza resistenziale extraurbana ha avuto infatti le proprie montagne e le proprie vallate di riferimento, nelle quali è nata – spesso stentatamente – ha attecchito, si è sviluppata, talvolta persino sensibilmente radicata, prima che eventi e difficoltà generali costringessero o consigliassero alle formazioni di spostarsi altrove, magari su altri e più impervi rilievi.

Monte Morello 1

Partigiani su Monte Morello (1944). Il secondo ed il terzo da sinistra sono rispettivamente: Gino Bartolini “Bachino” Fernando Bucelli “Grillo”. La ragazza è la Partigiana fiorentina Bruna Parri “Sonia” (Fonte: ANPI Firenze- sezione Oltrarno)

Così è, tra altre, anche per la Resistenza fiorentina, la quale lega la sua storia ad una manciata di rilievi e massicci montuosi attorno ai quali le sue bande armate si sono costituite nel tempo e hanno operato, talvolta prosperando, talaltra invece migrando altrove dietro l’impeto dei rastrellamenti nemici, in direzione di vette ritenute più inaccessibili e quindi più sicure. Da Monte Morello a Monte Senario, da Monte Giovi ai rilievi appenninici del Mugello, dai monti del Chianti al Pratomagno, sino al Casentino: tutte maglie della fitta e complicata trama in cui si è dispiegata la resistenza in armi delle formazioni fiorentine tra il settembre del 1943 e la fine dell’estate del 1944.

Tra i rilievi che più di altri hanno avuto un ruolo centrale per l’esperienza partigiana fiorentina, soprattutto per quanto riguarda le sue origini e le prime fasi di impianto, un posto di rilievo lo occupa senza dubbio Monte Morello. Qui, infatti, dopo l’armistizio, cominciarono a confluire i primi resistenti del fiorentino – ribelli e non ancora propriamente partigiani – i quali costituirono alcuni dei più precoci esperimenti di bande armate della Toscana, in alcuni casi destinati a divenire gli embrioni delle future brigate partigiane fiorentine. Le ragioni per cui quella che è solitamente indicata come la montagna dei fiorentini, da sempre meta delle loro passeggiate ed escursioni domenicali, può a ragione definirsi anche come la montagna dei partigiani fiorentini, sono piuttosto chiare e immediate e hanno a che fare anzitutto con la rilevanza strategica che la sua posizione geografica e la sua specifica conformazione fisica conferirono al massiccio nel quadro degli eventi storici successivi all’8 settembre 1943.

Monte Morello si erge infatti con le sue tre “vette” (Poggio all’Aia, 934 metri s.l.m.; Poggio Casaccia, 921 metri e Poggio Cornacchiaccia, 892 metri) a pochi chilometri a nord ovest del capoluogo toscano occupando una vasta area delimitata idrogeologicamente, a ovest, dal torrente Marina e dalle propaggini orientali dei monti della Calvana e, a est, dalla val di Mugnone e dal colle di Fiesole, e amministrativamente divisa tra i comuni di Firenze, Vaglia, Sesto Fiorentino e Calenzano. Di estremo interesse ambientale-paesaggistico, con ricchi terreni boschivi frutto si secolari rimboschimenti e risorse idriche diffuse, Morello oggi come allora era lambito altresì da importanti vie di comunicazione, stradali e ferrate, tra le quali: a ovest, la direttissima appenninica che attraverso la Calvana e la Val di Bisenzio collegava dal 1934 la piana fiorentina a Bologna e, a est, la strada carreggiabile bolognese e la linea ferrata faentina che da Firenze conducevano via Vaglia sino in Mugello e da lì in Romagna.

Monte Morello 5

Monte Morello (1944). Due partigiani russi non identificati. (Fonte: ANPI Firenze – sezione Oltrarno)

Già da questi elementi si intuisce la rilevanza che Monte Morello assumerà nella lotta partigiana ai fini del controllo del territorio e delle comunicazioni nell’area. Di più, la vicinanza del rilievo alla città e ai principali centri abitati della piana fiorentina, unita alla presenza di una rete di piccoli nuclei rurali sparsi un po’ ovunque sulle sue pendici, creavano le condizioni ideali perché i gruppi di partigiani potessero assicurarsi nei mesi di attività rifornimenti, riparo e appoggio logistico. In definitiva, la vicinanza di Morello a Firenze e alla produttiva piana fiorentina è forse il primo e più importante aspetto che inizialmente ne garantì l’indiscussa importanza rispetto alla nascita delle bande, benché poi proprio questa stessa vicinanza sul lungo periodo avrebbe altresì costituito uno dei fattori di maggior pericolosità per la sopravvivenza del movimento armato.

L’essere di fatto la montagna dei fiorentini, ossia la zona impervia più vicina alla città e da essa facilmente raggiungibile, spiega come mai i primi resistenti confluissero su Morello. Bisogna a tal proposito ricordare che le prime bande che si formano in montagna dopo l’8 settembre non nascono tanto (o almeno non solo) con l’intento della lotta armata, quanto con l’obiettivo immediato della sopravvivenza. Tutta l’umana varietà di soggetti che anima le prime bande (ex soldati sbandati fuggiti dai presidi e dalle caserme, ex prigionieri di guerra alleati evasi dai campi di detenzione, renitenti, disertori, perseguitati politici scarcerati, operai e antifascisti compromessisi nei quarantacinque giorni badogliani, giovani studenti ecc.) prende infatti la strada dei monti anzitutto per sfuggire alla propria cattura. È questo un elemento trasversale dal quale non sono esenti neppure i “politici”, coloro cioè che, come quadri e aderenti alle strutture clandestine dell’antifascismo, hanno più chiare di altri le ragioni della necessità e dell’importanza di intraprendere la lotta armata. Non per nulla Gino Tagliaferri, tra gli organizzatori per il Partito comunista della lotta partigiana in provincia di Firenze, ricordando un incontro tenuto il 12 settembre 1943 con alcuni compagni di Campi Bisenzio, nel quale era stato deciso di mandare proprio su Monte Morello una prima squadra di uomini (il gruppo di Lanciotto Ballerini), avrebbe detto:

[…] chi dice (riferendosi al primo giorno o subito ai primi giorni dell’occupazione) che andava in montagna a fare il partigiano, non dice una cosa esatta. Perché ancora non si avevano idee chiare. Io non le avevo ma non le avevano neanche gli altri. Era in generale per tutti noi comunisti una ritirata prudenziale in attesa di vedere come si mettevano le cose e quindi agire di conseguenza. Volenti o nolenti bisognò prendere quella posizione; prima ci si ritirò per sottrarsi ad eventuali arresti, deportazioni, o uccisioni e rappresaglie.[2]

Monte Morello 3

Monte Morello (1944). partigiano a cavallo non identifiicato, assieme alla partigiana fiorentina Bruna Parri “Sonia” (ANPI Firenze – sezione Oltrarno)

Per chi dopo l’8 settembre e a seguito dell’occupazione tedesca della città voleva sottrarsi a un eventuale arresto e scappare da Firenze in cerca di un rifugio, Monte Morello costituiva una delle mete più immediate e più facilmente raggiungibili in grado di assicurare lungo i suoi declivi boscosi una certa prospettiva di salvezza. E in effetti, sin dopo l’armistizio, esso si popola di militari sbandati, ex-prigionieri alleati e civili in fuga che inizialmente vagano in solitaria ma che finiscono poi in alcuni casi per unirsi in aggregati spuri, destinati a divenire le prime cellule delle successive bande. Alla Cappella di Ceppeto sulle pendici orientali del monte in prossimità del valico tra il torrente Terzolle e il Mugello, nei giorni seguenti all’8 settembre va formandosi ad esempio un primo grande assembramento di ex militari, cui si uniscono ex-prigionieri e anche giovani operai antifascisti.[3] La presenza tra loro di ex prigionieri alleati (angloamericani e slavi) si spiega in particolare con l’esistenza nelle vicinanze di campi di lavoro coatto dipendenti dalle strutture d’internamento militari italiane nei quali, prima dell’8 settembre, erano impiegati come forza lavoro i prigionieri di guerra. Nella provincia fiorentina ve ne erano diversi e uno di questi in particolare era situato sulle pendici settentrionali di Morello nell’azienda agraria degli eredi Corsini al Carlone, nel comune di Vaglia.[4] Fuggiti da questo e da altri luoghi di prigionia essi avevano trovato ospitalità da parte di molte famiglie contadine della zona di Morello, come quelle dei Sarti e dei Biancalani in località Cerreto Maggio e Morlione o come quella dei Venturi a Querceto. Secondo la stima di un ex prigioniero inglese nell’autunno del 1943 in tutta l’area di Morello si trovavano alla macchia sino a 150 ex prigionieri alleati[5], alcuni dei quali si sarebbero poi uniti alle locali bande armate. Il più famoso tra questi sarebbe stato certamente Stuart Hood, prigioniero scozzese evaso dal campo di prigionia di Fontanellato che nel dicembre 1943 proprio su Monte Morello si unì col nome di battaglia di “Carlino” ai partigiani del gruppo campigiano di Lanciotto Ballerini.[6]

La varietà umana che si incontra su Morello nel settembre del 1943 rende la scena delle prime bande assai varia e composita. Accomunate da una precarietà iniziale dettata dalla difficoltà di organizzarsi, nascono diverse formazioni, alcune destinate a durare, altre costrette a vita breve. Le più note sono naturalmente il gruppo del Bruschi e quello di Lanciotto.

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Lanciotto Ballerini (1911-1944): comandante di una delle prime formazioni di Monte Morello, caduto eroicamente a Valibona il 3 gennaio 1944 (Fonte: Wikipedia)

Il primo è guidato dal sestese Giulio Bruschi “Berto”, classe 1901, un militante comunista di lungo corso condannato nel gennaio 1935 a quattro anni di reclusione per attività clandestina e poi assegnato a cinque anni di confino a Ponza e a Ventotene. Il suo gruppo partigiano, che si installa alla metà di settembre sulle pendici di Morello presso un casotto in muratura in località Cipressa vicino alle Croci di Querceto, è sostenuto dall’organizzazione antifascista di Sesto ed è composto inizialmente da altri antifascisti perseguitati tra i quali spiccano Olinto Ceccuti “Cecco”, un artigiano nativo di Casellina e Torri coetaneo di Bruschi, e Rolando Gelli “Mangia”, falegname sestese classe 1911 già schedato dalla polizia fascista e sottoposto ad ammonizione dal Tribunale Speciale.

Anche il gruppo di giovani campigiani che alla guida di Lanciotto Ballerini la sera del 15 settembre 1943 lasciano la colonica di Serafino Colzi della fattoria di Fornello per avviarsi su Monte Morello si è formato a seguito di alcune riunioni tenutesi nei giorni antecedenti tra i principali esponenti dell’antifascismo campigiano nelle quali è stato deciso l’invio sui monti di alcuni uomini. A fianco dell’erculeo Lanciotto (classe 1911, promessa del pugilato locale e con alle spalle una lunga esperienza sui fronti di guerra del fascismo che gli ha lasciato in eredità una spiccata insofferenza per le gerarchie militari e l’autoritarismo fascista) vi è Ferdinando Puzzoli “Nandino”, detto anche “Novatore”, un vecchio militante anarchico e decano degli antifascisti campigiani, che della formazione di Lanciotto diviene commissario politico. Il gruppo, che assumerà il nome di “Lupi Neri”, giunto su Morello si sistema inizialmente alla Fonte del Vecciolino per portare poi il proprio comando al Chiesino di San Michele a Cupo, sul versante più a Nord di Morello, da dove la banda opererà nell’area compresa tra Collinella e Cerreto Maggio.

Alla Cappella di Ceppeto, altri due gruppi partigiani si costituiscono alla metà di settembre. Uno è quello formato inizialmente da circa venti individui che si riuniscono attorno all’ex paracadutista Bruno Bini “Folgore” (classe 1920) e che, oltre ad altri militari sbandati come Spartaco Capestri “Stanlio” o Florio Taccetti “Ivan”, accorpa anche giovani fiorentini come Leandro Agresti “Marco” (classe 1924) figlio di un calzolaio antifascista di Barberino di Mugello e tra i primi a salire a Ceppeto la mattina del 10 settembre. L’altro gruppo è quello guidato dai fratelli Morando e Marino Cosi e formato per lo più da giovani fiorentini delle classi 1923-1925 provenienti dai quartieri a ovest della città, tra Careggi e Castello: «banda delle Panche» infatti è il nome della piccola formazione, dall’odonimo della via di residenza di molti dei suoi componenti. Dalla Cappella di Ceppeto, il gruppo dei Cosi passerà in ottobre in località Case di Maiano, tra il paese di Vaglia e il borgo di Legri, sui contrafforti a nord di Monte Morello. Un terzo gruppo di resistenti, per lo più provenienti ancora dalla zona di Sesto e di Castello, è quello promosso dai tre fratelli Alfio, Renzo e Carlo Fondi che nel pomeriggio del 9 settembre, forte di undici uomini, da Leccio di Calenzano dove si è ritrovato prende la via di Monte Morello.[7]

Come molti altri esperimenti partigiani, questi gruppi che si costituiscono sui rilievi di Morello vivono le prime settimane di vita in uno stato di precarietà e debolezza dovuto all’incertezza del contesto nel quale si trovano a operare. La loro principale attività non è ancora la lotta ai nazifascisti – i quali prima della metà di ottobre non costituiranno una tangibile minaccia per le bande di Monte Morello – quanto tutto ciò che serve alla mera sopravvivenza e alla preparazione della lotta: il che significa soprattutto approvvigionarsi di alimenti e generi di prima necessità e quindi armarsi. Quanto la montagna può offrire di tutto ciò è limitato e a volte appena sufficiente: «si è patita molta fame», avrebbe ricordato più tardi un membro di quelle prime bande:

[…] Si è mangiato di tutto: vitalbe, luppoli, cicerbite, asparagi, radicchio. Tante volte non s’aveva nemmeno l’acqua per lavarli. A volte si trovava le ciliegie o le corbezzole. Quando si trovavano erano una manna […].[8]

Ma pur se parco, Morello, come si è detto, ha il grande vantaggio di consentire un rapido e sicuro contatto con gli abitati della piana e quindi con l’organizzazione clandestina cittadina. Lo stesso Bruschi, ricordando gli esordi incerti della propria formazione, avrebbe ammesso al riguardo:

[…] agivamo un po’ spontaneamente. […] Non avevamo cognizione di quello che vuol dire una lotta di popolo, ma ci accorgemmo subito che se non ci fosse stata la popolazione di Sesto, la quale ci mandava scarpe, calzini e viveri, non avremmo potuto resistere.[9]

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Giulio Bruschi, classe 1901, comunista sestese e perseguitato politico, dopo l’8 settembre comanderà uno dei primi gruppi militari che salgono su Monte Morello (Fonte: ACS, CCP)

Tra la popolazione della piana fiorentina e quella che abita le pendici di Morello si instaura un solidale impegno assistenziale all’indirizzo delle bande partigiane. Molte delle famiglie che vivono sulla montagna danno gratuito e spontaneo aiuto ai partigiani che operano nella zona. In località Lavacchio, sulle pendici meridionali di Morello, le famiglie di Giocondo e Giuseppe Ercoli, ad esempio, ospitano spesso i ribelli della zona, con le figlie Marisa e Graziella che si offrono come staffette, trasportando materiale e avvisando i partigiani in caso di pericolo imminente. La famiglia Scarlini, originaria di Campi Bisenzio, lungo l’alveo del torrente Zambra fa giungere in montagna armi, indumenti e viveri. Ancora assistenza e riparo offrono ai partigiani la famiglia Zetti al podere Solatio, nei pressi della Torre di Carmignanello, e quella dei Gigli a Rofoli. Ma tra i tanti il nucleo familiare più attivo è sicuramente quello dei Lastrucci, i contadini che coltivano il podere della Cipressa sopra Querceto, base di reclutamento e punto d’appoggio dei partigiani, nel quale viene garantito quotidianamente riparo e continuo ristoro tanto ai comandi che al gran numero di reclute che da Sesto si avviano sulla montagna. Un impegno intenso e decisivo, quello dei Lastrucci, che costerà a questi, nella figura di Angelo, anche l’arresto e l’uccisione da parte tedesca. Ma nel piccolo abitato di Querceto non c’è di fatto un solo nucleo familiare che non sia impegnato a dare assistenza ai partigiani. Una solida tradizione antifascista e un tessuto sociale solidale uniti alla stessa ubicazione del borgo che, arroccato com’è su Morello, ne rende disagevole l’accesso ai mezzi pesanti nemici, offrono le condizioni ideali per fare di Querceto un punto logistico fondamentale per l’organizzazione partigiana locale. Concorrono in questo anche i rappresentanti del clero locale nelle figure di don Severino e don Eligio Bortolotti, parroci della chiesa di Querceto, impegnati nell’assistenza e nel supporto ai partigiani, sforzo che al secondo costerà il 6 settembre del 1944 l’arresto e l’uccisione per mano dei tedeschi.

Così come dalla montagna, anche dalla piana fiorentina le prime bande di Morello ricevono assistenza fondamentale. Rifornimenti di generi alimentari da forni e cooperative di consumo, vestiario e scarpe da negozi e da singole famiglie, forniture d’ogni tipo da botteghe e officine affluiscono così a Querceto da tutta l’area sestese e anche al di fuori di essa, grazie alle ramificate trame dell’organizzazione antifascista locale. A mezzo dei contatti stabiliti con alcuni industriali tessili di Prato giungono ad esempio partite di coperte da inviare in montagna, mentre dalla Manifattura Tabacchi di Firenze operaie coraggiose come Corinna Pratesi si adoperano sottraendo dalla produzione piccoli quantitativi di sigarette che poi, tramite i compagni di Sesto, vengono fatte giungere ai partigiani di Monte Morello.

Ancora da Sesto e dalla piana affluiscono tramite Querceto ai partigiani di Morello anche armi e munizioni. A seguito di un accordo con un ufficiale dell’Autocentro dell’esercito, già dopo l’8 settembre giunge un primo carico di dotazioni militari che, scaricato tra Querceto e Settimello, è poi portato alla Cipressa. Altre armi vengono invece recuperate attraverso due militari in servizio al polverificio industriale dei fratelli Faini su Monte Morello, mentre le cave di pietra che si trovano a monte di Querceto vengono spesso usate dai partigiani per collaudare le armi, alcune delle quali sono mandate in riparazione a meccanici di fiducia di Sesto. Il resto che ancora necessita alle bande viene da queste sottratto nel corso dei primi assalti compiuti contro depositi e presidi militari, come avviene il 22 settembre 1943 a opera di uomini della formazione del Bini che dalla caserma di via S. Caterina da Siena a Sesto asportano, oltre a vestiario e materiale vario, 150 moschetti e un fucile mitragliatore.

Monumento-a-Checcucci

La targa posta nei pressi di Ceppeto che commemora la morte di Giovanni Checcucci, il primo partigiano caduto su Monte Morello (Fonte: resistenzatoscana.org)

Grazie alla rete di assistenza che garantisce loro la popolazione locale e ai proventi dei primi colpi, le bande di Morello a partire da ottobre possono così organizzare le prime azioni militari. Si tratta più che altro di sabotaggi alle linee telefoniche e alle vie di comunicazione, di interruzioni stradali e del disarmo di pattuglie tedesche e fasciste che transitano lungo le direttrici che lambiscono o si inerpicano sui rilievi di Morello. Seguono così i primi scontri a fuoco con il nemico, nei quali si registrano anche le prime perdite. Il 14 ottobre 1943, un reparto della GNR di Firenze in rastrellamento nell’area di Ceppeto impegna in un conflitto a fuoco un gruppo di partigiani. Al termine della sparatoria rimangono a terra sul campo un milite fascista e Giovanni Checcucci, un operaio comunista della fonderia del Pignone, classe 1906, che nell’aprile del 1939 era stato condannato dal Tribunale Speciale a sei anni di reclusione e che dopo l’8 settembre era stato tra i primi a salire su Monte Morello: di fatto è il primo caduto nelle file del partigianato fiorentino.  Il 21 novembre successivo, presso la Piazzola di Baroncoli, alle propaggini meridionali di Morello che degradano verso Calenzano, due partigiani armati di moschetto si imbattono e disarmano un tenente della milizia. Il miliziano, spogliato della propria pistola d’ordinanza, estrae però una seconda arma e apre il fuoco. Rimane così ucciso uno dei due partigiani, Sirio Romanelli, un giovane fiorentino classe 1924, mentre il giovane compagno, prima di darsi alla fuga, riesce a contrattaccare, ferendo gravemente il miliziano.

Azioni come queste che si protraggono ancora tra novembre e dicembre danno la sensazione che Monte Morello sia oramai base di un gran numero di partigiani; numero che, nelle voci che si propagano incontrollate di bocca in bocca, viene distorto sino ad assumere proporzioni spropositate: «Sono in mille, su Monte Morello», annoterà il partigiano Gianfranco Benvenuti nelle sue memorie riferendo tali sensazionalismi e aggiungendo come qualcuno fosse persino disposto a scommettere che fossero in realtà «diecimila».[10] Ciò, se da un lato contribuisce a corroborare la risonanza di cui la resistenza in armi gode nei settori dell’opinione pubblica popolare e antifascista fiorentina, finisce però per amplificare i timori degli avversari, attraendo così sui partigiani di Morello l’azione repressiva delle forze nazifasciste. Già il 9 novembre, in segno di rappresaglia per l’eliminazione a Sesto di una spia fascista e di un graduato repubblichino compiuta da alcuni partigiani scesi da Monte Morello, i militi fiorentini rastrellano la popolazione di Sesto, ricercando gli oppositori noti, ferendone alcuni e uccidendo un passante. La strategia repressiva delle forze di polizia, prima ancora di imbastire vere e proprie azioni di controguerriglia lungo tutto il massiccio montuoso, si affida soprattutto al lavoro di spie e delatori che cominciano a infiltrarsi nei gruppi partigiani di Morello. Ancora in novembre, a causa della delazione di una spia – il tenente Nino Foini – il gruppo partigiano dei fratelli Fondi viene di fatto scompaginato e tre suoi componenti (Aldo e Luigi Mordini, Luigi Latini) arrestati, incarcerati e torturati.

Esposte così alla minaccia di rastrellamenti e di infiltrazioni nemiche, con l’arrivo della stagione invernale 1943-44 le bande di Morello sono costrette a riconsiderare le condizioni che le avevano spinte ad aggregarsi sul rilievo. La vicinanza alla piana fiorentina, fondamentale per garantire rifornimenti continuativi soprattutto adesso che con l’inverno le scorte si riducono e la montagna ha sempre meno da offrire, diviene sempre più un fattore di rischio a fronte del consolidarsi dell’azione repressiva nazifascista. È così che alcune delle bande superstiti decidono di avviare degli spostamenti che, a tappe successive, le porteranno a sganciarsi da Monte Morello.

Monte Morello

Partigiani su Monte Morello (1944). Il secondo il terzo e il quarto da sinistra sono rispettivamente: Aldo Melani “Gimmi” Egizio Fiorelli “Baffo”, Silio Fiorelli “Saltamacchie” (Fonte: ANPI Firenze – sezione Oltrarno)

La banda di Lanciotto, come noto, alla fine di dicembre del 1943, traversando la Val di Marina, passerà sui monti della Calvana seguendo un itinerario che l’avrebbe dovuta portare a congiungersi sull’Appennino pistoiese con le formazioni al comando di Manrico Ducceschi “Pippo”, se non fosse incappata il 3 gennaio del 1944, durante una sosta a Valibona, nell’accerchiamento dei militi repubblichini, lasciando caduti sul campo Lanciotto Ballerini e altri due componenti del gruppo. Sempre in dicembre, anche la formazione del Bruschi, assunta nel frattempo la denominazione di distaccamento Siro Romanelli in onore del giovane caduto a Baroncoli, inizierà lo spostamento nella zona di Bivigliano-Montescalari, pur lasciando su Morello una propria squadra per accogliere le nuove reclute che da Sesto e da altri comuni della piana continueranno a salire in montagna. Dopo l’esito infausto di Valibona, anche quel che rimane della formazione originaria di Lanciotto ritornerà su Monte Morello ricostituendosi in un gruppo al comando di Renzo Ballerini, fratello di Lanciotto, che manterrà come denominazione il nome di quest’ultimo. Rimangono invece nell’inverno 1943-44 su Morello i gruppi comandati da Marino Cosi e da Bruno Bini. A questi si dovranno tra gennaio e fine marzo del 1944 gli ulteriori colpi che la resistenza fiorentina riesce ancora ad assestare nell’area, non sempre per la verità con esito indolore, come in occasione dell’attacco alla stazione di Montorsoli del 4 aprile 1944 che registrerà la morte di tre componenti del gruppo del Cosi. Tuttavia, con l’avvio del grande ciclo di rastrellamenti antipartigiani dell’aprile 1944 l’organizzazione armata fiorentina riceverà un colpo durissimo proprio su rilievi di Morello dove gli uomini della Hermann Göring nel lunedì di Pasqua del 1944 si rendono protagonisti di rastrellamenti e uccisioni gratuite di civili a Cerreto Maggio, Cercina e Morlione. Anche i gruppi del Bini e del Cosi saranno così costretti a sganciarsi, prima seguendo le altre formazioni fiorentine nello spostamento verso il Falterona, poi attestandosi, il primo, sull’Appennino nei pressi di Firenzuola e, il secondo, su Monte Giovi. Faranno quindi ritorno su Morello per organizzare la fase offensiva finale della liberazione di Firenze e della piana, che affronteranno unendosi assieme e dando origine alla Brigata Garibaldi Bruno Fanciullacci.

Culla delle prime bande fiorentine, teatro di numerose  azioni e di diversi scontri tra partigiani e nazifascisti (con l’ultimo tra questi, in ordine di importanza, consumatosi il 14 luglio 1944 agli Scollini, presso la Fonte dei Seppi, dove 13 partigiani della Fanciullacci caddero combattendo con i tedeschi), Monte Morello reca ancora oggi visibili le tracce storiche della sua centralità nella storia della resistenza fiorentina, a partire dai circa 30 tra cippi e monumenti che costellano a futura memoria il suo territorio.[11] Montagna dei fiorentini per antonomasia, Morello è stata anche la montagna dei primi partigiani fiorentini ma anche – per usare l’espressione di uno di essi – «l’officina dei partigiani toscani».[12] Dalle prime bande che qui si costituirono all’indomani dell’8 settembre del 1943, sarebbero infatti nate attraverso successive dispersioni e riaggregazioni dei loro organici alcune delle principali Brigate che, come la 22° Lanciotto Ballerini, la 10° Caiani o la stessa Bruno Fanciullacci, avrebbero operato nei mesi centrali del 1944 sui monti del fiorentino e dell’Appennino toscano, rendendosi poi protagoniste in agosto della liberazione di Firenze.

[1] D. Livio Bianco, Guerra partigiana, Einaudi, Torino, 1973, pp. 9-10.

[2] AISRT, Fondo Interviste e trascrizioni, b. 1, fasc. 11 Tagliaferri Gino, II Parte della testimonianza di Gino Tagliaferri, s.d., p. 5.

[3] Giuseppe Tarchiani, La scelta di Beppe. Diario di un partigiano delle brigate Lanciotto e Caiani, Sarnus, Firenze, 2012, pp. 22-23.

[4] AUSSME, Fondo Diari Storici, b. 1243, Distaccamenti di lavoro pg. nella provincia di Firenze, l’Ufficio Prigionieri di Guerra dello Stato Maggiore dell’Esercito al Comando difesa territoriale di Firenze, 12 marzo 1943 (documento consultabile su: www.campifascisti.it)

[5] D’Arcy Mander, Mander’s March on Rome, Gloucester, Alan Sutton Publishing, 1987, p. 72.

[6] Stuart Hood, Pebbles from my skull, London, Quartet Books, 1973, poi riedito col titolo di Carlino, Manchester, Carcanet, 1985.

[7] Il gruppo costituirà poi la Compagnia “F” della 1° Divisione Giustizia e Libertà, cfr. AISRT, Fondo Resistenza armata, b. 2, Fasc. “Divisione GL, Cp. F – Sesto F.no”, relazione sull’attività svolta dalla compagnia F, 9 settembre 1944.

[8] Testimonianza di Leandro Agresti in Avevamo vent’anni, forse meno. Provavo una gioia immensa perché nello stesso momento in cui io davo la libertà agli altri la davo anche a me stesso, a cura di Riccardo Bussi, Silvia Cappelli, Francesco Fortunato, ANPI Sezioni di Brozzi, E. Rigacci e Peretola, s.d., p. 27.

[9] Testimonianza di Giulio Bruschi in Più in là, p. 99.

[10] Gianfranco Benvenuti, Ghibellina 24. Cronaca di fatti memorabili per la storia della Resistenza fiorentina, Carlo Zella Editori, Firenze, 2015, p. 35.

[11] David Irdani, Monte Morello: la cima dei partigiani di Firenze, in «Patria indipendente», n. 4, ottobre 2012, p. 24-26.

[12] Testimonianza di Leandro Agresti in Avevamo vent’anni, forse meno, cit. p. 28.




INFAUSTA COINCIDENZA

E pensare che un anno prima, nello stesso giorno, Maria Bergamas era stata chiamata a scegliere tra undici bare quella del Milite Ignoto. Una scelta, passata alla storia come “Rito di Aquileia”, che dette inizio al viaggio verso Roma – cinque giorni e 800 chilometri in treno percorsi in più tappe – per la sua traslazione al Vittoriano, dove venerdì 4 novembre 1921 fu solennemente tumulata nell’Altare della Patria.
L’anonimato di quella salma riuscì a trasformare la disperazione del singolo in lutto collettivo e da subito il Milite Ignoto assurse a simbolo dell’identità nazionale, a luogo della Memoria di un popolo, fatto di gente comune, unito nel desiderio di dimenticare la Grande Guerra e le sue tra-gedie.
Una memoria tuttavia assai labile, che vide la sospirata identità nazionale ispiratrice di un nuovo “viaggio”. Quella Marcia su Roma cui dette un fondamentale contributo lo squadrismo toscano. Una regione, la nostra, ormai “fascistissima” dove in men che non si dica, superato il “Biennio rosso”, quel “colore più cupo” era “virato al nero”. I fascisti toscani mobilitatisi per Roma furono circa 14.000, equivalenti a oltre l’85% del totale (16.500 unità): 2.200 proveniva-no dalla provincia di Firenze, 1.100 da Arezzo, 1.500 dalla Lucchesia, 1.600 dal Grossetano, 3.000 dalla sola città di Livorno, 2.450 dal Pisano, 1.500 dal Senese e 700 dall’attuale territorio di Massa-Carrara. (da Andrea GIACONI, La fascistissima. Il fascismo in Toscana dalla Marcia su Roma alla notte di San Bartolomeo, Foligno, Il Formichiere, 2019)
Anche la Val di Cecina, dove l’influente Piero Ginori Conti, a tutela dei suoi interessi, fin dall’ottobre 1920 aveva costituito il “Fascio X” (poi Fascio di Larderello), avvalendosi delle “prestazioni” di squadristi fiorentini capeggiati da Giuseppe Fanciulli, uomo di fiducia di Dino Perrone Compagni, plenipotenziario del fascio toscano, non mancò di offrire il proprio contributo.
Montecatini, paese dalle tradizioni rosse ma ormai fascistizzato grazie anche alle scorribande squadristiche, nonostante fosse retto ancora da una Amministrazione socialcomunista, sembra-va intuire l’avvicinarsi dell’ora della “rivoluzione” e si preparava così.

FESTA FASCISTA, 17 ottobre (ritardata)
Domenica (15 ottobre) furono inaugurati il Gagliardetto di questa Sezione Fascista e la Fiamma della squadra «Guido Mori». Il paese era tutto imbandierato di tricolore e adorno di festoni (con) scritte patriottiche ed inneg-gianti al fascismo.
Alle ore 9 incominciarono a giungere i primi camion di camicie nere e azzurre dai paesi vicini, ricevute dalla locale squadra fascista e dal Corpo musicale paesano.
Alle ore 10,30 agli squilli di tromba tutte le squadre, musiche ed associazioni si raccolsero in Piazza Vittorio Emanuele per avviarsi in corteo al luogo dell’inaugurazione,
Il Segretario Politico del Fascio locale sig. Mazzolli-Manzi David presentò l’oratore Tenente De Franceschini il quale pronunciò un vibrante discorso ripetutamente applaudito; lo seguì la madrina del Gagliardetto, la leggiadra signorina Mori Lorenza, che tra vivi applausi fece la consegna all’alfiere Martini Ernesto il bellissimo e ricco ga-gliardetto.
Indi parlò la signorina Borghi Fernanda madrina della Fiamma di squadra, «La Guido Mori», la quale ha pronun-ciato il suo discorso con disinvoltura, anche essa applauditissima; appena ebbe consegnata all’alfiere Ivo Lenci la «Fiamma» prende la parola il capitano Bruno Santini della Federazione Fascista provinciale e il poderoso avvin-cente discorso (fu) interrotto spesso da approvazioni e da nutriti applausi.
Terminata la cerimonia, il lunghissimo corteo fece il giro di tutto il paese al canto di «Giovinezza».
Abbiamo notato nel corteo il Fascio locale, Avanguardia e Fascio di Volterra, Fascio Femminile di Volterra e Avanguardia, Fascio e Musica di Laiatico, Nazionalisti di Saline, Fascio e Musica di Orciatico, Fascio di Saline, Fa-scio di Villamagna, Nazionalisti di Sassa, Sezione Combattenti, Società Filarmonica e Corpo Musicale locali, So-cietà Artigiana e Sindacato politico locali.
Alle ore 12 ebbe luogo un banchetto a tutte le rappresentane convenute.
Nessun incidente, il più schietto entusiasmo (da “IL CORAZZIERE”, a. XLI, n. 44, 29 ottobre 1922).

Inquadrati nella III Legione Maremmana, I Coorte, I Centuri, I Manipolo, III e IV Squadra comandate da Gherardo Maffei e Guido Dell’Aiuto, i marciatori volterrani furono 70. Nel II Manipolo, I Squadra comandata da Sisto Giannelli, erano iscritti 19 marciatori di Villamagna; nella II Squadra comandata da Cesare Becorpi, 29 salinesi, e nella III Squadra comandata da Rodolfo Bianchi, 20 montecatinesi.
– La squadra dei “marciatori” montecatinesi, appartenenti alla III Squadra del II Manipolo (de-curione, Baroncini Livio) della I Centuria (centurione, Ambrosino Magdalo) della I Coorte (se-niore, Paolo Pedani) della III Legione Maremmana (console, Piero Pelamatti), era composta da Bianchi Rodolfo, Bartolini Rodolfo, Bartolini Verdi, Berti Giuseppe, Cavicchioli Francesco, Ceppatelli Giuseppe Pietro, Colò Mario, Demi Alfredo, Francalacci Guido, Giaganini Raffaello, Giuntini Primo, Lenci Francesco, Lenci Ivo, Magozzi Secondo, Marsili Furio, Martini Ernesto, Mori Francesco, Rossi Narciso, Sarperi Ferdinando, Staccioli Tranquillo.
– Sempre nel II Manipolo, la I Squadra comprendeva 19 uomini di Villamagna: Giannelli Sisto, Baldini Igino, Bernardeschi Dario, Busdraghi Alberto, Busdraghi Paolino, Gori Ugo, Gronchi Dante, Gronchi Nello, Mannucci Gualtiero, Mazzei Maurizio, Pasquinucci Giuseppino, Pedani Giuseppe, Pedani Mario, Pitti Guglielmo, Simoncini Ernesto, Simoncini Italo, Simoncini Pietro.
– La II Squadra, vedeva arruolati 29 salinesi: Becorpi Cesare, Bardi Dante, Barlettani Ezio, Bar-lettani Raffaello, Bartolini Guido, Bigazzi Angiolino, Boni Carlo, Cappellini Leo, Cardellini Re-nato, De Vespri Arturo, Donati Pilade, Gazzarri Garibaldi, Gazzarri Valfrido, Gori Vittorio, Gotti Carlo, Guerrieri Gino, Manzi Gino, Manzi Giovanni, Meucci Pietro, Morelli Mario, Pa-squaletti Alvaro, Pasqualetti Wladimiro, Pratelli Bruno, Ricca Francesco, Simi Liberato, Tani Giulio, Trovato Orazio, Vannini Natale, Volterrani Guido.
– I volterrani facevano parte invece della III e IV Squadra del I Manipolo (decurione, Cini Gio-vanni). Erano 70: Maffei Gherardo, Dell’Aiuto Guido, Alboni Bruno, Baccerini Libero, Benas-sai Pilade, Berti Argante, Bessi Donatello, Bimbi Bruno, Brogi Esamillo, Cancelli Mario, Canti-ni Guido, Caporioni Dino, Cheli Luigi, Conte Leo, Corrieri Ubaldo, Del Rosso Giuseppe, Del Secco Egidio, Del Testa Secondo, Dello Sbarba Emilio, Duccini Faustino, Fiumi Pietro, Galga-ni Settimo, Gazzanelli Dino, Ghilli Olinto, Ghilli Silla, Ghionzoli Valente, Grossi Dino, Grossi Claudio, Guelfi Guelfo, Guerrieri Gino, Guerrieri Guido, Guidi Guido, Guidi Marcovaldo, Im-morali Giuseppe, Incontri Mario, Inghirami Ennio, Inglesi Umberto, Isolani Emilio, Landucci Lando, Leduc Alberto, Lupetti Antonio, Lupetti Giulio, Lupetti Roberto, Maffei Ascanio, Maf-fei Mario, Maffei Niccolò, Maffei Salinuccio, Maggiorelli Umberto, Mancini Doddo, Mannucci Manfredo, Mannucci Umberto, Mariani Mario, Mechini Federigo, Nerei Guido, Ormanni Or-manno, Pagnini Gino, Pagnini Iacopo, Paolini Renato, Papalini Pietro, Parenti Mentore, Pesa-galli Tersilio, Pini Giuseppe, Piras Giovanni, Raffaelli Guido, Santi Libero, Taddeini Carlo, Tamburini Primo, Tommasini Giulio, Trafeli Giulio.
A questi dobbiamo aggiungere i 20 marciatori di Lustignano (capo squadra, Musi Vincenzo) e 7 di Larderello (capo squadra, Gallori Aldo), appartenenti alla I e II Squadra del III Manipolo (decurione, Bulichelli Enrico).
– Il Fascio di Lustignano era composto da Musi Vincenzo, Baldassarri Fabrizio, Bianchi Ermin-do, Bianchi Ghino, Bianchi Severino, Bocci Boccino, Bulichelli Pietro, Gherardi Dionisio, Ghe-rardi Gherardo, Musi Guglielmo, Musi Licurgo, Musi Spinello, Nasti Gennaro, Nati Raffaello, Pineschi Ugo, Rossi Iroldo, Socci Dante, Spinetti Augusto, Spinetti Guido, Tassi Emilio.
– Mentre il Fascio di Larderello annoverava Gallori Aldo, Alocci Ettore, Chiti Amerigo, Gui-ducci Ugo, Maccanti Pietro, Matteucci Ugo, Rosselli Rodolfo.
Infine la I, II, e III Squadra del IV Manipolo (decurione, De Franceschi Umberto) comprende-vano 23 volontari di Pomarance (capo squadra, Pollina Bartolomeo), 7 di Castelnuovo V.C. (capo squadra, Antonelli Gino) e 10 di Sasso Pisano (capo squadra, Trenti Edoardo).
– Nel Fascio di Pomarance erano schierati Pollina Bartolomeo, Bacci Angiolo, Baldini Giovan-ni, Cappellini Gino, Cavatorta Pietro, Dal Canto Giuseppe, Falcini Cesare, Fignani Giuseppe, Fontanelli Fontanello, Galgani Albano, Galletti Celso, Gazzarri Cesare, Ghilli Leone, Giudici Giordano, Landi Elio, Nichesola Galesio, Pasquinucci Luigi, Pini Enrico, Ristori Pompilio, Ta-ni Ascanio, Taviani Enrico, Zani Antonio, Zoccolini Giulio.
– Il Fascio di Castelnuovo Val di Cecina poteva contare su Antonelli Gino, Menichelli Alfìero, Nardi Ofaleno, Ovidi Piramo, Pierattini Francesco, Talanti Giuseppe, Togoli Domenico.
– Mentre Trenti Edoardo, Aldrovandi Etimio, Battieri Pietro, Baroncini Giulio, Bertini Mode-sto, Casalini Antonio, Chiti Pietro, Fillini Osvaldo, Fillini Remo, Pineschi Tertulliano, Trenti Iacopo costituivano il Fascio del Sasso Pisano. (Da Renzo CASTELLI, Fascisti a Pisa, Pisa, Edi-zioni Ets, 2006)
Alla III Legione Maremmana, erano affiancate la I Legione Pisana e la II Legione “Zoccoli Ser-lupi”: tutte appartenenti alla Colonna Lamarmora.

E qui una piccola postilla per rilevare che la marcia della Legione Maremmana ebbe anche un risvolto un po’ grottesco.
Bloccati per contrattempi diversi a Civitavecchia prima e poi a Santa Marinella, i nostri, così come avvenne per le altre legioni della Colonna Lamarmora, furono in effetti gli ultimi a giungere a Roma il 31 ottobre, quando Mussolini – ricevuto il giorno prima dal re l’incarico di formare un nuovo governo – si era già insediato al potere e la città era ormai invasa dalle altre squadre fasciste.
Non solo, furono anche tra i primi a ripartire, la notte stessa del loro arrivo nella capitale, su ordine perentorio di smobilitare da parte del Duce stesso.
Fra la delusione e l’irritazione per il mancato protagonismo, la Marcia si ridusse quindi a poco più di una scampagnata, che al ritorno in alcune località – e mi si dice anche a Montecatini – fu oggetto di scherno, prontamente rintuzzato dalla retorica fascista.
Mal di poco, i nostri marciatori di quell’impresa poterono parlare con orgoglio per tutto il Ven-tennio (dopo, un po’ meno). Così come fece la Redazione de “IL CORAZZIERE”, a. XLI, n. 45. Del 5 novembre 1921:

VITTORIA FASCISTA
Il nostro giornale che ha seguito con simpatia, con fiducia, con ammirazione fervida e sincera, il fascismo, fino dal suo sorgere, ne celebra oggi la piena e assoluta vittoria con la più grande letizia e con la ferma sicurezza che esso saprà ottimamente ricostruire come efficacemente ha saputo compiere l’opera di santa demolizione.
Alle Camicie nere, al genio di Benito Mussolini – duce romanamente grande – l’Italia deve la sua salvezza e dovrà la sua rinascita e il definitivo trionfo.
I primi atti del nuovo Governo infondono un ritmo nuovo alla vita nazionale: il ritmo dei forti.
Finalmente – dopo l’avvicendarsi di governi abulici, inerti, tentennanti, deboli – L’Italia – per merito di Vittorio Emanuele III – ha oggi alla sua testa un Uomo dal pugno di ferro e dalla mente superiore, un Uomo che è espres-sione pura e genuina della nostra razza imperiale!
Salutiamo in Benito Mussolini il continuatore dell’Italia di Vittorio Veneto; diamo a Benito Mussolini adesione piena, completa, entusiastica, incondizionata; stringiamoci concordi intorno al Fascismo trionfante: questo è il dovere di quanti hanno amore e rispetto per la Patria, affetto e devozione per il Sovrano: chi non sente questo dovere è un traditore.
Il Corazziere

Della grande festa riservata a Volterra ai reduci della Marcia e degli entusiastici interventi del commissario prefettizio Filippo Cardelli, del segretario del fascio Gherardo Maffei, del commissario di zona Paolo Pedani e di altri “notabili” ne dà ampia cronaca ancora “IL CORAZZIERE” nelle pagine interne dello stesso numero.
Più modestamente Montecatini, nel suo piccolo – allora non proprio piccolo come adesso – non mancò di acclamare i suoi venti eroici marciatori e la vittoria fascista

Da Montecatini, 7 novembre 1922
FESTE PATRIOTTICHE
Questa popolazione dopo avere con entusiasmo patriottico, con esposizione del tricolore a tutte le abitazioni e cortei salutato la vittoria del Duce Mussolini, accolse e portò in trionfo ricoprendoli di fiori la squadra dei baldi fascisti al suo ritorno da Roma.
Il 4 poi ricorrenza della vittoria fu questa solennemente festeggiata […]. [da “IL CORAZZIERE”, a. XLI, n. 47 del 17 novembre 1922)

Il giorno della Marcia su Roma segnava l’avvio del Ventennio.
Sarebbero trascorsi solo pochi giorni prima che anche a Montecatini gli Amministratori socialisti si mettessero da parte.
In effetti, dopo il “Biennio rosso”, che aveva provocato reprimende e manifestazioni anche violente contro lo spettro del bolscevismo, nonché il discredito del sindaco “bolscevico” Luigi Lazzerini (con il Congresso di Livorno del 15-21 gennaio 1921 aveva aderito all’opzione comunista) e le sue conseguenti forzate dimissioni nell’aprile 1921, suggestionata dal perdurare delle accuse di antinazionalismo rivolte ai socialisti da coloro che avevano saputo farsi interpreti del-la memoria dei Caduti e del cordoglio dei familiari, la gente non trovava più punti di riferimento nella Giunta guidata da Giuseppe Rotondo. Sindaco facente funzione, che proprio nel novembre 1922 vide venir meno le condizioni per rimanere alla guida del Comune. A seguito delle dimissioni dell’intero Consiglio socialista, il Comune fu guidato per circa due mesi da Giulio Malmusi, commissario prefettizio, e nelle elezioni del gennaio successivo, a compimento della fascistizzazione del potere locale, la lista fascista e nazionalista avrebbe ottenuto la maggioranza assoluta. In pratica con la Marcia su Roma vide la fine quel dominio socialista che dal 1895 aveva caratterizzato quasi ininterrottamente la guida del Comune.
Infine una curiosità.
Su “IL CORAZZIERE”, sempre nel numero del 17 novembre 1922, nella medesima pagina dell’articolo montecatinese “Feste Patriottiche”, non può non venire all’occhio una “dichiara-zione spontanea” di certo Baroni Bramato.

[…] Trascinato dalla corrente impetuosa, per qualche mese fui semplicemente ascritto nei socialisti unitari; riconosciuto pienamente il mio errore, dichiaro pubblicamente che fin da gennaio 1921 non appartengo più ad alcun partito politico sovversivo, ma che con piacere e volontariamente tengo a far sapere ai lettori del «Corazziere» che mi sento di voler bene alla Patria e pronto a sacrificare me stesso per la salvezza e la gloria d’Italia.

Uno dei tanti ravvedimenti pubblici (ne troveremo altri sia su “Il Corazziere” sia su altri giornali dell’epoca) che caratterizzarono quel non breve periodo di transizione e che avrebbero ripreso campo in occasione del percorso inverso, ossia nel trapasso dalla dittatura fascista alla democrazia, allorché per molti fu ancor più grande la necessità di redimersi.
Ricordar quindi non nuoce. Perché non sempre, anzi raramente, le persone sono come suol dirsi tutte d’un pezzo. Interessi particolari – materiali e talvolta anche affettivi – accentuano la debolezza di noi umani, inducendo spesso all’ambiguità, all’ipocrisia, alla perdita di dignità.

Articolo edito su “La Spalletta”, a. XXXVIII, 20 novembre 2021.




L’AVVIO DEL VENTENNIO A MONTECATINI

Dopo il Biennio rosso che si era caratterizzato per scioperi, occupazioni delle fabbriche ed anche aggressioni, i due anni successivi, 1921-1922, furono contrassegnati dallo spadroneggiare dello squadrismo fascista. Squadre pisane guidate da Bruno Santini e squadre fiorentine chiamate in soccorso del Fascio X di Larderello con a capo Giuseppe Fanciulli, imperversarono nella nostra provincia causando gravi fatti di sangue oltre a devastazioni di circoli politici, camere del lavoro e cooperative sociali. Ciò poté accadere nonostante l’opera del prefetto Alfredo De Martino tesa a fermare quella violenza, anche con l’arresto di alcuni fascisti.
Ormai il fascismo, che poteva godere della connivenza sempre più diffusa nei vari ambiti politici e militari ed in certi presidii dello Stato, aveva pressoché campo libero. Di ciò dà atto anche Renzo CASTELLI nel suo Fascisti a Pisa (Pisa, Edizioni Ets, 2006):

Il 2 giugno 1921 il prefetto ricevette il segretario politico regionale del Fascio, Dino Perrone Compagni, il quale lo minacciò di trasferimento se avesse continuato con la sua azione di contrasto all’azione fascista. Per tutta risposta, De Martino fece trasferire il sottoprefetto di Volterra considerandolo troppo condiscendente nei confronti dei fascisti. Due mesi dopo il prefetto di Pisa veniva però a sua volta trasferito, sostituito con il filofascista Renato Malinverno.

In realtà a sostituire De Martino (prefetto di Pisa dal 16 aprile 1920 al 20 giugno 1921) fu Pietro Frigerio (21 giugno 1921 – 31 agosto 1921) al cui posto fu subito nominato Malinverno (1° settembre 1921-14 aprile 1924). Quel Malinverno che poi, nel novembre 1922, a seguito delle dimissioni dell’intero Consiglio comunale, inviò a Montecatini Giulio Malmusi in qualità di commissario prefettizio.
Uomo salito alle cronache pisane fin dal 1919, accostato e associato alle gesta di ras famosi quali Bruno Santini, Bruno Leoni, Tito Menichetti, Sandro Carosi, Guido Buffarini, Paolo Pedani, Gherardo Maffei, tornerà alla ribalta della cronaca anche nella Rsi. (Si veda Giorgio Alberto CHIURGO, Storia della Rivoluzione fascista, Firenze, Vallecchi, 1929; Mauro CANALI, Dissentismo fascista a Pisa e il caso Santini, Roma, Bonacci, 1983; Andrea ROSSI, Fascisti toscani nella Repubblica di Salò, Pisa, Bfs, 2006; Marco PALLA (a cura di), Storia della Resistenza in Toscana, Roma, Carocci, 2009. Un ritratto di Malmusi lo troviamo in Renzo CASTELLI – Fig. 27 dell’inserto fotografico – insieme a quelli dei capi fascisti pisani più esagitati).

Un paio di settimane dopo la Marcia su Roma, la Giunta social-comunista con l’intero Consiglio, già decimato dagli abbandoni forzati, dette le dimissioni. Eletti il 19 settembre 1920, facevano parte di quell’Assemblea Lazzerini Luigi (Sindaco, dimissionario dalla metà del 1921), Rotondo Giuseppe (Vicesindaco, reggerà il Comune fino al novembre 1922), Bruci Costantino, Bartalucci Biagio, Ricotti Cesare (Assessori), Calvani Cherubino, Guiggi Primo, Cecchi Ugo, Bellucci Faustino, Nannini Lodovico, Co-stagli Artibano, Fornaciari Giulio, Fulceri Quintilio, Tinacci Casimirro, Mannucci Giu-seppe ed i 5 consiglieri delle frazioni, Agostini Ezio, Neri Michele, Nannini Egidio, Regoli Dario, Grassi Valentino.
Fu proprio Malmusi ad accompagnare Montecatini alle elezioni del 7 gennaio 1923.

Da Montecatini. 8 Gennaio
Preparazione elettorale – La preparazione per le elezioni amministrative e provinciali avvenute il 7 corrente in questo Comune e la vittoria ottenutane si deve in tutto alla instancabile operosità di questo Commissario Prefettizio sig. Giulio Malmusi del Fascio di Pisa e dei fascisti locali sig. Ceppatelli Giuseppe Pietro e Mar-tini Ernesto che non badando ai disagi visitarono tutte le località del Comune e le lontanissime frazioni di Castello di Querceto e Sassa portandovi quel seme nuovo di redenzione, di vittoria e di pace.
Furono pubblicati numerosi manifesti (Da “IL CORAZZIERE”, a. XLII, n. 2, 14 gennaio 1923).

Sempre nel solito numero, “IL CORAZZIERE” riporta anche i risultati di quelle elezioni, che sancirono la vittoria dei «candidati nazionali», ed i nomi degli eletti nei Consigli comunale e provinciale.

Esito delle elezioni – La lista portata dalla Sezione Fascista ebbe unanime approvazione conquistando mag-gioranza e minoranza.
Al Capoluogo – inscritti n. 1.021 – votanti n. 679. Contando gli assenti e i morti si può presumere una votazione del 90 per cento.
Gli eletti a consiglieri comunali sono: Mori cav. avv. Torquato, professionista; Tonelli cav. magg. Ansel-mo, industriale; Barzi Dario, possidente; Mori Francesco, possidente; Tassi Emilio, agente agrario; Cep-patelli Giuseppe Pietro, rappresentante; Bartolini Raffaello, boscaiolo; Bartolini Rodolfo, boscaiolo; Or-zalesi Adon Noè, meccanico; Lenci Ivo, operaio; Bigazzi Terzilio, contadino (mutilato); Staccioli Tran-quillo, contadino; Burgassi Duilio, operaio; Sarperi Alberto, impiegato; Orazzini Giusto, contadino.
Alla frazione Sassa – inscritti n. 332 – votanti n. 251. I candidati Fantacci Fantaccio, Grassi Valentino, Nannini Egidio ebbero voti eguali ai votanti.
Alla frazione di Castello di Querceto – inscritti n. 211 – votanti n. 173. Salvini Vezio, fascista, voti 172; Giannelli Angiolo, nazionalista, voti 171.
Nel Capoluogo come nelle frazioni i candidati a consiglieri provinciali Mori cav. avv. Torquato, Pagani-Nefetti cav. avv. Vincenzo, e Bresciani cav. ing. Lorenzo ebbero la unanimità dei voti.
Le presenti elezioni hanno dato una rilevante percentuale di votanti su tutte le precedenti elezioni e si so-no svolte col massimo entusiasmo ed ordine. Nessun incidente.

Come risulta dai documenti d’archivio (Archivio Storico Comune Montecatini V.C., Deliberazioni Consiglio Comunale anno 1923), nell’adunanza del 21 gennaio presieduta dal consigliere anziano Orzalesi Adon Noè, i 15 consiglieri eletti a Montecatini (i 5 di Sassa e Querceto erano assenti) procedettero all’elezione del Sindaco nella persona di Anselmo Tonelli che, su 15 schede, ottenne 12 voti contro i 3 di Alberto Sarperi.
Quindi si passò alla nomina della Giunta (ogni consigliere poteva esprimere 4 preferenze): Bartolini Rodolfo ottenne 14 voti; Sarperi Alberto, 13; Burgassi Duilio, 11; Mori France-sco, 10; Bartolini Raffaello, 3; Barzi Dario, 2; Orzalesi Adon Noè, 2; Staccioli Tranquillo, 2; Mori Torquato, 1; Tassi Emilio, 1; Ceppatelli Giuseppe Pietro, 1. Risultarono eletti come assessori effettivi Rodolfo Bartolini, Alberto Sarperi, Duilio Burgassi, Francesco Mori.
Con votazione separata furono nominati i due assessori supplenti (ogni consigliere 2 pre-ferenze): Mori Torquato ottenne 9 voti; Barzi Dario, 8; Orzalesi Adon Noè, 3; Bartolini Raffaello, 3; Ceppatelli Giuseppe, 2; Lenci Ivo, 2; Tassi Emilio, 1; Bigazzi Terzilio, 1; Staccioli Tranquillo, 1. Quindi, come assessori supplenti risultarono eletti Torquato Mori e Dario Barzi.
Quindici giorni dopo (ASCM, s.D, n. 54, Carteggio anno 1923, fasc. Amministrazione, Estratto dal Verbale di Giunta dell’11 febbraio 1923) furono assegnati gli incarichi. Designati “assessori delegati” Rodolfo Bartolini (di anni 45; 1878-1960), Alberto Sarperi (di anni 43; 1880-1935), Duilio Burgassi (di anni 35; 1888-1951), Francesco Mori (di anni 28; 1895-1965), Dario Barzi (di anni 52; 1871-1947), il sindaco Anselmo Tonelli (di anni 40; 1883-1929) procedette alla distribuzione delle cariche, stabilendo che «Sarperi Alber-to, delegato per gli Atti di Stato Civile e per rappresentare il Sindaco in caso di assenza, è investito della carica per Finanze e Scuole; Bartolini Rodolfo, delegato ai Servizi di Cal-miere, Dazio, Annona, è investito della carica per Stoffe in deposito e Stabili di proprietà comunale; Barzi Dario è delegato per il Comitato delle Miniere; Mori Francesco è investi-to della carica per Farmacia, Nettezza, Nuove costruzioni, Acque pubbliche; Burgassi Duilio è investito della delega per Strade comunali». Torquato Mori (di anni 54; 1869-1936), notaio a Volterra, non fu investito di alcuna delega.
Della Lista fascista – ossia dei 15 eletti nel capoluogo – che includeva 5 reduci dall’avventurosa marcia su Roma (Rodolfo Bartolini, Francesco Mori, Ivo Lenci, Tranquillo Staccioli e Giuseppe Pietro Ceppatelli), facevano parte pure alcuni rappresentanti dell’Ani (Associazione Nazionalista Italiana; 1910-1923).
Si tiene, oggi forse più di allora, ad evidenziare questa distinzione, che tuttavia fu tale solo fino al 26 febbraio 1923, allorché fu deliberato lo scioglimento dell’Ani e l’iscrizione «in blocco d’ufficio» dei suoi associati al Pnf. Unificazione che fu celebrata il 20 aprile, vigilia del Natale di Roma (Erminio FONZO, Storia dell’Associazione Nazionalista Italiana, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2017).

Con le elezioni del 7 gennaio prese quindi avvio il Ventennio montecatinese.
Già nella riunione dell’11 febbraio, l’Amministrazione comunale deliberò di assegnare un sussidio annuo di lire 250 per «far fronte alla pigione del locale ad uso sociale dell’Associazione Nazionale Combattenti e Fascio di Combattimento» (ASCM, 14/B, De-liberazioni Giunta, 1921-1926, Del. n. 9). Nella medesima riunione (Del. n. 18) la Giunta stabilì che in seguito all’adesione alla Federazione dei Comuni fascisti, fosse «Emilio Tassi (di anni 48; 1875-1957) delegato a rappresentare il Comune alla riunione di tutti Comuni Fascisti il 17 p.v. a Pisa».
Furono questi i primi atti che caratterizzarono il 1923 come anno frenetico, intenso di provvedimenti, manifestazioni e riti instaurati per volontà del nuovo regime dei quali tratteremo, semmai, in altra occasione.

Articolo pubblicato su “La Spalletta”, a. XXXVIII, 4 dicembre 2021




Il cardinale Maffi e il fascismo

Quello tra chiesa cattolica e fascismo è un rapporto complesso, che non può essere ridotto a mera strumentalizzazione reciproca, volta al rafforzamento del consenso e alla soluzione della «questione romana». Come ha spiegato Giovanni Miccoli, si trattò di «un’alleanza e un accordo non meramente tattici ma più intimi e sostanziali», basati su «consonanze essenziali» (il culto di valori come ordine, gerarchia, disciplina, autorità, obbedienza) e «nemici comuni» (su tutti, liberalismo e comunismo). Il dato appare con particolare chiarezza nel caso pisano, caratterizzato da una serie di elementi di particolare rilievo: la violenza estrema dello squadrismo, dilaniato da faide intestine e animato da personaggi brutali come Alessandro Carosi; la forza delle sinistre e in particolare del movimento anarchico, che vantava una lunga tradizione di militanza in città; e, non in ultimo, la presenza del cardinale Pietro Maffi, protagonista della vita intra- ed extra-ecclesiale della prima metà del Novecento italiano.

Nato a Corteolona (Pavia) nel 1858, Maffi fu nominato arcivescovo di Pisa nel 1903. Divenuto cardinale nel 1907, promosse lo sviluppo del movimento cattolico e instaurò rapporti cordiali con i Savoia, approfittando della prossimità della residenza reale di San Rossore. Ciò aumentò grandemente il suo prestigio in seno all’episcopato, al punto da sfiorare l’elezione al conclave del 1914. Durante la Prima guerra mondiale Maffi divenne il simbolo dell’unione tra fede e patria nell’Italia grigioverde, esortando i pisani all’obbedienza e contribuendo a contenere il malcontento attraverso iniziative di carattere assistenziale come la ricerca di informazioni sui militari dispersi o prigionieri negli Imperi centrali.

La ripresa della conflittualità politica e sociale dopo la fine del conflitto lo indusse a lanciare un appello alla pacificazione, auspicando un ritorno alla società cristiana; ciò detto, basta sfogliare «Il Messaggero toscano» – il quotidiano da lui fondato nel 1913 – per rendersi conto che, agli occhi del cardinale, il pericolo maggiore era costituito dal socialismo ateo. Non a caso, quando furono i cattolici a subire attacchi e intimidazioni da parte delle camicie nere Maffi tenne un profilo generalmente basso, cercando di calmare gli animi e di trovare un terreno d’intesa con l’aggressore nella celebrazione della memoria “eroica” dei caduti della Prima guerra mondiale: così accadde nel novembre 1921, durante la cerimonia per il Milite ignoto, e nel maggio 1924, con l’inaugurazione del monumento ai caduti nel cortile della Sapienza. I fascisti, però, volevano restare gli unici padroni della scena pubblica e nel gennaio 1925 distrussero la tipografia che stampava i fogli cattolici distribuiti a Pisa, Lucca, Livorno, Pontremoli e La Spezia. Il danno considerevole spinse Maffi a mutare registro, indirizzando prima un telegramma di protesta al ministro dell’Interno («Vescovo ne ho pianto, italiano ne ho arrossito»), poi una lettera pastorale ai pisani. Dedicata al quinto comandamento, essa conteneva frasi durissime contro chi si era macchiato di omicidio nei recenti scontri politici: «Guai alla mano che gronda sangue! Guai ai piedi che urtano in un cadavere! Oh, la dinastia di Caino! Continua puro; ma lo senta che, dove mancano gli uomini, Dio arriva, Dio che ai colpevoli non dà tregua e incessante li persegue e sopra di loro grida e sentenzia: Maledetto, maledetto! Maledetto nel tempo! Maledetto nell’eternità! Maledictus eris!».

Pietro_Maffi_cardinaleDavanti al pericolo di perdere il sostegno di uno dei membri più illustri dell’episcopato, le cose iniziarono a mutare. Complici la fine della faida tra Bruno Santini e Filippo Morghen e l’ascesa di Guido Buffarini Guidi, l’atmosfera andò rasserenandosi e le relazioni tra Chiesa e fascismo entrarono in nuova fase. Nel maggio 1926, lo stesso Mussolini venne in città per assistere all’inaugurazione del restaurato pergamo di Giovanni Pisano nella cattedrale e si lasciò fotografare al fianco del cardinale, quasi a proclamare alla cittadinanza la ritrovata armonia tra le due autorità. L’evento fu un brutto colpo per i fascisti più ostili a Maffi, che dovettero rassegnarsi. Negli anni successivi, nessun incidente turbò i rapporti tra cattolici e camicie nere, che celebrarono insieme la memoria “eroica” del 1915-1918. Ad esempio, nel novembre 1928 il decennale della vittoria fu celebrato in duomo all’insegna della continuità tra guerra mondiale e fascismo: Buffarini lesse il bollettino della vittoria, l’ex cappellano militare Ezio Barbieri celebrò la messa e Maffi benedisse il tumulo imbandierato e circondato da soldati e fascisti; tutti intonarono infine la Marcia reale, l’Inno del Piave e Giovinezza.

Come si vede, alla vigilia della conciliazione il cardinale non esitò a legittimare il regime che si voleva erede di Vittorio Veneto; il culto dei caduti, tuttavia, fu solo l’aspetto più evidente di una convergenza profonda che, come attesta il bollettino diocesano, si manifestò nell’approvazione delle misure varate dal governo per l’incremento della natalità, del numero delle questure sul territorio e, soprattutto, della produzione cerealicola, funzionale al ritorno alla vita “devota” dei campi.

Per quanto importanti, questi elementi impallidiscono di fronte a quello che, a buon diritto, può essere considerato il sogno di una vita: la conciliazione tra Stato e Chiesa del febbraio 1929, che segnò la fine dell’annosa «questione romana» e il culmine della parabola politico-religiosa di Maffi. Pur non avendo avuto parte attiva nei negoziati, egli volle manifestare la propria soddisfazione con tre lettere di ringraziamento dirette al papa Pio XI, al re Vittorio Emanuele III e al dittatore che «con mano sicura e forte» teneva le redini del Paese. Non si trattava di sentimenti affettati: nel comunicare la notizia al clero diocesano, infatti, il presule annunciò con toni trionfali la fine della vecchia Italia dominata da «massoneria, liberalismo, scuole atee e corruzione».

Gli ultimi anni furono ricchi di soddisfazioni per Maffi, chiamato a Roma nel gennaio 1930 per celebrare il matrimonio tra il principe ereditario Umberto e Maria José del Belgio a Roma. Nella circostanza, egli fu insignito del collare dell’Annunziata, che gli dava il titolo di cugino del re.

La morte lo colse nel marzo 1931, mentre la crisi tra regime e Azione cattolica entrava nella fase più acuta. A riprova delle tensioni mai del tutto sopite, il necrologio de «L’Idea fascista» (organo del fascio pisano) precisò che, al di là dei meriti innegabili acquisiti nel corso della sua carriera, lo scomparso non aveva compreso né apprezzato fin da subito l’importanza del fascismo. I detrattori, però, dovettero mordere il freno davanti alla solennità dei funerali che, oltre alla partecipazione di undici vescovi e del maresciallo d’Italia Guglielmo Pecori Giraldi, ebbero l’adesione del re, del segretario di Stato vaticano Eugenio Pacelli e di Mussolini. Quest’ultimo plaudì in un telegramma all’«illustre cardinale Maffi che durante vita operosa seppe armonizzare religione, patria, scienza» e si fece rappresentare al rito dal sottosegretario di Stato al ministero di Giustizia e affari di culto Giuseppe Morelli. La resa dei conti, però, era solo rimandata. Ancora in ottobre, quando la tempesta sembrava ormai alle spalle, «L’Idea fascista» tornò ad accusare lo scomparso di antifascismo.

La presenza di una figura del calibro di Maffi, decisamente inusuale per una diocesi periferica e dalle dimensioni modeste come quella pisana, contribuì a dare agli eventi locali una risonanza notevole non solo nella penisola ma anche all’estero, facendo della Pisa degli anni Venti una sorta di osservatorio da cui scrutare i punti di forza e le criticità della politica ecclesiastica del fascismo. Soprattutto, la vicenda di Maffi evidenzia un dato cruciale. A dispetto di divergenze, tensioni, moniti, incidenti e intimidazioni, i responsabili ecclesiastici non smisero mai di cercare o, dopo il 1929, di difendere la conciliazione. Le leggi razziali causarono certamente un raffreddamento dei rapporti tra le due autorità, anche perché violavano le disposizioni concordatarie in materia di matrimonio; ciò detto, furono soltanto le sconfitte inanellate dall’esercito nel corso della Seconda guerra mondiale a segnare il distacco definitivo della Chiesa da un regime entrato ormai nella sua fase terminale.




La Città Bianca in camicia nera: dalla fine dell’Ottocento ai fatti di Piazza S. Michele

La Lucca prefascista: conservazione e tradizione

Regione rossa per eccellenza nell’immaginario collettivo assieme all’Emilia Romagna, la Toscana può vantare una “genealogia rivoluzionaria” che dagli studenti pisani volontari a Curtatone e Montanara arriva allo spartiacque di Livorno del 1921, passando per episodi meno noti come la feconda contaminazione reciproca tra socialismo e progressismo positivista d’ispirazione mazziniana nella Versilia a cavallo fra i due secoli [1].

In un simile panorama la città di Lucca spicca per il proprio conservatorismo, “fortemente connesso”, come evidenzia Luca Pighini, “con la difesa dei valori religiosi”; terra d’emigrazione e territorio a vocazione agricola, la Lucchesia conosce l’industrializzazione nell’ultimo ventennio dell’Ottocento, quando l’imprenditore genovese Vittorio Emanuele Balestrieri impianta uno jutificio in località Ponte a Moriano [2]. Il conflitto sociale, a fronte delle durissime condizioni di vita della classe operaia lucchese, stenta a decollare: soltanto nella primavera del 1914 si tiene il primo vero sciopero di massa, quello delle sigaraie della Manifattura Tabacchi, già protagoniste nei decenni precedenti degli unici, sporadici episodi di combattività operaia in Lucchesia [3], e che durante la Prima guerra mondiale saranno nuovamente al centro delle proteste del 1917 [4 ]. Ma le cose sono destinate a cambiare con la fine del conflitto e il doloroso lascito che questo si lascia alle spalle, a Lucca come nel resto del paese.

Dal primo dopoguerra al “biennio rosso”

“Al di là dell’entusiasmo per la vittoria e della retorica di celebrazione”, scrivono Eugenio Baronti e Leana Quilici, “la fine della grande guerra lascia in tutta Italia una tragica eredità: all’elevato numero di morti, mutilati e invalidi si aggiungono i problemi della disoccupazione, della mancanza di generi di prima necessità […]” [5]. Lucca, alle prese con la crisi della produttività agricola e salari sempre più deboli di fronte all’inflazione, non costituisce certo un’eccezione nel quadro nazionale: a denunciare la difficoltà del momento non sono soltanto le organizzazioni socialiste, ma anche una parte del mondo religioso cittadino (“Lucca, città della fame” titola il Serchio, erede di quell’Esare che sin dalla sua fondazione nel 1886 era stato la voce della Curia lucchese)[6 ]. Nel febbraio 1919 vedono la luce le prime leghe sindacali bianche grazie al contributo del parroco di San Marco don Pietro Tocchini, animato certamente da volontà concorrenziale nei confronti dei socialisti, ma anche da una genuina presa di coscienza della dura realtà quotidiana dei propri parrocchiani. Nel novembre dello stesso anno le elezioni nazionali a Lucca premiano il Partito popolare italiano, diviso però al suo interno tra un’ala di sinistra “quasi socialista” – come la definì il Giornale di Valdinievole – e un’ala destra ferocemente conservatrice e ostile a qualsiasi forma di associazionismo operaio, incluso quello cattolico [7].

L’ondata delle proteste lucchesi negli anni del dopoguerra e del “biennio rosso” culminano con il massiccio sciopero del marzo 1920 e l’occupazione della fabbrica S.M.I. a Fornaci di Barga nel settembre dello stesso anno; scarso invece il riverbero in città della rivolta viareggina del 2-5 maggio [8]. Sostanziali le conquiste ottenute, dagli aumenti salariali all’alleggerimento della disciplina di fabbrica. Gli echi delle dimostrazioni di piazza hanno appena cominciato a spegnersi quando la violenza squadrista piomba sulla città – e sulle organizzazioni del movimento operaio.

Il fascismo a Lucca: dalla fondazione all’aggressione di piazza San Michele

Poco più di un anno prima, il 23 marzo 1919, Benito Mussolini ha fondato i Fasci di combattimento, il cui avvenire non sembra roseo fino al 1920 quando – sull’onda del riflusso delle occupazioni operaie e del crescente declino del PSI – il nuovo soggetto politico si pone a capo della “reazione borghese antiproletaria” conoscendo una rapida crescita in termini di iscritti [9]. Anche a Lucca, che soltanto un paio di settimane prima ha subito gli effetti del devastante terremoto che vede il suo epicentro nella Garfagnana, nel settembre 1920 si avvia il processo volto alla fondazione di una sezione locale del fascio, per iniziativa del romagnolo Nino Malavasi, studente di veterinaria, e del farmacista ed ex ufficiale Baldo Baldi [10 ], entrambi provenienti dagli ambienti mazziniani, una cinquantina di simpatizzanti – perlopiù giovani di famiglie benestanti – al seguito [11]. Il fascismo lucchese nasce ufficialmente un mese dopo in via Guinigi, il 26 ottobre 1920, sotto la presidenza onoraria del colonnello Umberto Minuto; il 5 dicembre esce il primo numero de L’intrepido, periodico della sezione.

Il “battesimo dello squadrismo” a Lucca si tiene il 14 dicembre 1920, in piazza S. Michele, dove circa 500 persone si sono riunite nella piazza in occasione di un comizio socialista contro il carovita: l’onorevole Lorenzo Ventavoli prende la parola, ma i fascisti lo interrompono continuamente, accusandolo di vivere nell’agio grazie all’indennità parlamentare [12 ]; dalle parole si passa ben presto alle vie di fatto, agli squadristi lucchesi si uniscono gli oltre 300 camerati pisani e senesi giunti in città, e la Guardia Regia spara sulla folla mentre le camicie nere rientrano indisturbate nella propria sede di via S. Andrea. Restano a terra 19 feriti e due morti, Valente Vellutini, proprietario di una filanda, e l’ex consigliere comunale liberale Angelo Della Bidia. A nulla valgono le denunce di Ventavoli e del comunista Luigi Salvatori: gli unici arresti effettuati dalla polizia vanno a colpire i socialisti. Anche a Lucca dunque, come a Milano e Bologna un anno prima, si registra la connivenza tra apparati dello Stato e fascisti [13]. Il mattino successivo in quella stessa piazza, a fianco della chiesa, compare una scritta minacciosa a caratteri cubitali: “A Lucca comanda il fascio”[14]. E chi comanda il fascio a Lucca sarà da lì a poco Carlo Scorza.

Il Ras di Lucca

Calabrese, classe 1897, Scorza si trasferisce quindicenne a Lucca con la famiglia e alla vigilia della Prima guerra mondiale si fa notare per il suo acceso attivismo interventista; durante il conflitto si distingue durante la difesa del Piave, venendo decorato al valore militare. L’adesione ufficiale al fascismo avviene proprio in quel fatidico 14 dicembre 1920 che ha lasciato dietro di sé due morti, numerosi feriti e ben più di qualche sospetto sulla complicità tra forze dell’ordine e camicie nere. La carriera del futuro “condottiero”[15] dentro il fascio lucchese è rapidissima, tanto da arrivare a ricoprire la carica di segretario a soli quattro mesi dalla sua iscrizione, nell’aprile 1921: sotto la guida di Scorza, ha evidenziato Nicola Laganà [16], si rafforza la componente più violenta del movimento, che si scatena contro le sedi e i luoghi di ritrovo del movimento operaio. Nel dicembre dello stesso anno, dopo la trasformazione dei fasci di combattimento in partito, diviene segretario federale per Lucca; nell’ottobre 1922 partecipa alla marcia su Roma, occupando con i suoi duemila legionari lucchesi Civitavecchia. Il lungo regno del “gangster” Scorza [17] è contraddistinto dalla costante scalata ai vertici del PNF, culminata (non senza contrasti con i capi nazionali e lo stesso Mussolini) nel 1943 con la nomina a segretario nazionale del partito: una strada macchiata di sangue – quello degli antifascisti, ma anche di qualche fascista – e caratterizzata da una gestione del potere che Ugo Clerici, collaboratore di Mussolini da questi inviato a Lucca per far luce sulle “cose poco pulite” che girano sul conto di Scorza e di suo fratello Giuseppe, definirà “camorristica”[18].

1 Per un quadro generale si rimanda alla lettura del recente volume di Edoardo Parisi e Maurizio Sacchetti Dario Calderai, medico mazziniano nella Versilia del marmo di fine Ottocento (2022), edita da Ed. l’Ancora e A.M.I. – Associazione Mazziniana Italiana – sez. Versilia, circolo “Mauro Raffi”.

2 Per una lettura approfondita del fenomeno si rimanda all’esaustivo saggio di Francesco Petrini Aspetti dell’industrializzazione in Lucchesia: 1880-1901, pubblicato per la prima volta sul n. 5 di “Documenti e Studi” del dicembre 1986 ed oggi consultabile a questo link.

3 Vedi anche il saggio di Luciana Spinelli 1914: la Manifattura di Lucca e lo sciopero generale nelle manifatture dei tabacchi, in “Documenti e Studi” n. 3/1985 (pp. 3-34), consultabile a questo link.

4 Per un quadro completo delle proteste lucchesi del 1917 si rimanda al saggio di Andrea Ventura “L’inizio del conflitto sociale? Il caso della provincia di Lucca“, in Roberto Bianchi, Andrea Ventura (a cura di), Il 1917 in Toscana. Proteste e conflitti sociali, Pacini Editore, Pisa 2019, pp. 35-51; altro significativo caso di conflittualità durante e dopo la guerra è costituito dalla SMI di Fornaci di Barga, oggetto del saggio di A. Ventura Fornaci di Barga 1915-1920, in “Documenti e Studi” n. 38/2015, pp. 61-72.

5 Eugenio baronti, Leana Quilici, Lucca 1919: la vita politica e sociale della città raccontata dai giornali lucchesi, p. 7, in “Documenti e Studi” n. 1/1984, pp. 5-36.

6 Ivi, pp. 8-9

7 Vedi anche Antonella Dragonetti, Le vicende elettorali del Partito popolare lucchese nelle elezioni del 1919, in “Documenti e Studi” n. 4/1986, pp. 18-33.

8 Andrea Ventura, Italia ribelle. Sommosse popolari e rivolte militari nel 1920, Carocci, Roma 2020, p. 59.

9 Emilio Gentile, Il fascismo in tre capitoli, Laterza, Roma-Bari 2004, pp. 20-21.

10 Marco Pomella (a cura di), La storia di Lucca, Typimedia, Roma 2019, pp. 121-122.

11 Umberto Sereni, “Carlo Scorza e il fascismo in stile camorra”, p. 193, in Paolo Giovannini, Marco Palla (a cura di), Il fascismo dalle mani sporche. Dittatura, corruzione, affarismo, Laterza, Roma-Bari 2019, pp. 190-217.

12 Andrea Ventura, “Lorenzo Ventavoli”, in Gianluca Fulvetti, Andrea Ventura (a cura di), Antifascisti lucchesi nel casellario politico centrale. Per un dizionario biografico della provincia di Lucca, Maria Pacini Fazzi, Lucca 2018, pp. 183-185.

13 Per un quadro più approfondito si rimanda alla lettura del volume di Andrea Ventura Il diciannovismo fascista. Un mito che non passa, Viella, Roma 2021.

14 Luciano Luciani, Armando Sestani, Lucca e dintorni tra antifascismo, guerra e Resistenza, pp. 18-19, in Gianluca Fulvetti, Guida ai luoghi della memoria in provincia di Lucca (vol. 3), Pezzini, Viareggio 2016.

15 Titolo in origine attribuito al signore ghibellino di Lucca Castruccio Castracani degli Antelminelli (1281-1328), la cui figura sarà sfruttata in chiave propagandistica da Scorza proponendone l’identificazione con sé stesso; vedi anche Umberto Sereni, “Carlo Scorza e il fascismo stile camorra”, in Giovannini-Palla (a cura di), Op. cit.

16 Cit. in Pomella, Op. cit., p. 127

17 Secondo il ritratto che ne da il settimanale britannico Observer al momento della nomina di Scorza a nuovo segretario del PNF; in Mimmo Franzinelli, L’amnistia Togliatti, Feltrinelli, Milano 2016, p. 166

18 Cit. in Sereni, Op. cit., p. 203.




Un mito intoccabile?

Prefazione 

Strano destino quello del patrimonio culturale, ovvero di quell’insieme di beni che, per il loro valore culturale e memoriale rivestono un interesse pubblico. Definizione apparentemente netta e precisa ma in realtà contingente, suscettibile delle modifiche che tempi e sensibilità diverse possono suggerire. Chi stabilisce l’interesse pubblico dei beni che vengono poi definiti come patrimonio culturale? Chi decide che cosa è patrimonio culturale o no? Sembra, quest’ultima, una domanda banale; ma è una sensazione pronta a dissolversi in chi si ricordi del Medioevo, con il Colosseo adibito a luogo di pascolo, o chi, semplicemente, ricordi la Napoli degli anni Ottanta dove Piazza del Plebiscito era considerata un grande parcheggio. Sono solo due esempi di un elenco potenzialmente lunghissimo. Ma valgono a ricordare una cosa: che siamo noi a definire chi è e che cos’è patrimonio culturale, perché in quel bene rintracciamo i nostri valori e la nostra identità.

All’interno di questa definizione possiamo senza dubbio far rientrare la toponomastica, soprattutto quando in essa parte della popolazione rintraccia i suoi elementi identitari. Il pensiero corre dunque alla recente polemica che ha investito il Liceo Amedeo Duca di Savoia di Pistoia, balzato alle cronache di molti quotidiani in quanto il Collegio Docenti ha proposto un dibattito intorno alla possibilità di cambiarne la denominazione. Innumerevoli le sdegnate polemiche, generate dal fatto che nel nome del Liceo si intravvedeva parte dell’identità della città, e da un sentire comune che identificava in Amedeo Duca d’Aosta, Viceré d’Etiopia sotto il regime fascista, morto nel 1942 prigioniero degli inglesi, una persona non collusa con il Regime.

Dal Liceo al personaggio: il punto dell’analisi storica di Amedeo duca d’Aosta

La questione ha poi travalicato il contesto locale. Ambienti monarchici, giornali conservatori, esponenti di destra e gruppi reducistici sono intervenuti in difesa del duca, agitando lo spettro della “cancel culture” e derubricando i tentativi di problematizzare il personaggio a contraffazioni della storia. Si sono trincerati dietro a una rappresentazione apologetica di vecchia data, fondata su alcuni topoi (l’eroe dell’Amba Alagi, lo sconfitto a cui il nemico tributò gli onori, il “buon colonialista”, ecc.), che ignora quanto emerso negli studi soffermatisi, anche solo en passant, sulla figura . L’incrocio di questi testi, integrato con un affondo sulle fonti a stampa, aiuta a restituire le vicissitudini del principe sabaudo a una dimensione storica.

Il racconto consolidato vuole che Amedeo d’Aosta, nato del 1898, rimase lontano dalla scena politica, almeno fino alla metà degli anni ’30. In effetti, dopo aver partecipato come volontario al primo conflitto mondiale, nell’immediato dopoguerra alternò brevi periodi in Italia, per proseguire gli studi e la carriera militare, a lunghi viaggi in Africa, prima in Somalia, poi in Congo. La data di conclusione del secondo soggiorno è, però, dibattuta: per una versione, più diffusa, il gennaio 1923, per un’altra il settembre 1922, quando si sarebbe riunito al suo reggimento a Palermo. Una questione solo in apparenza di poco conto. Infatti, nella seconda ricostruzione – accettata al tempo, evidenzia Gianni Oliva – il principe, a fine ottobre, avrebbe raggiunto Roma per presenziare, in camicia nera, al corteo squadrista dinanzi al Quirinale. Questo implicherebbe una sua adesione al fascismo, antecedente all’instaurarsi del regime. Del resto, ciò sarebbe in linea con le posizioni assunte dal ramo cadetto della famiglia regnante, di cui era erede. Il duca Emanuele Filiberto, padre di Amedeo e celebrato generale della Grande Guerra, fu precoce sostenitore di Mussolini e, secondo voci del tempo mai confermate, fu dietro ai preparativi per la marcia su Roma, pronto persino a sostituirsi al re e cugino Vittorio Emanuele III, se questi si fosse opposto ai fascisti (A. Merlotti, Savoia Aosta, Emanuele Filiberto di, duca d’Aosta, in Dizionario Biografico degli Italiani, v. 91, 2018).

I Savoia-Aosta persero peso politico negli anni ’20, ma il regime continuò a servirsene a scopo propagandistico, specie del giovane principe. Con il suo stile di vita, incarnava il modello dell’uomo nuovo fascista: atletico, anticonformista, avventuroso, amante dei motori, appassionato dell’Africa e protagonista delle imprese coloniali. Tra il 1925 e il 1931, infatti, prese parte, per lunghi periodi, alla riconquista della Libia, una delle pagine più buie del colonialismo italiano. Tra le dune libiche, il suo mito si consolidò: la pubblicistica, che lo ribattezzò il “principe sahariano”, dedicò ampi reportage alle sue azioni alla testa dei “meharisti”, le truppe indigene montate sui dromedari, e ai suoi voli nel deserto. Dell’esperienza in Libia, un passaggio poco indagato, perdura un ritratto romanzesco, senza cenni al suo coinvolgimento nell’attività repressiva. Eppure, non ebbe incarichi secondari: fu collaboratore, tra l’altro, del generale Rodolfo Graziani e partecipò all’offensiva contro l’Oasi di Cufra (gennaio 1931), su cui l’attenzione dovrebbe concentrarsi. Stando alla memorialistica e alla stampa coeva, il principe compii bombardamenti aerei contro il centro senusso e partecipò all’inseguimento, dai cieli, dei ribelli in rotta, tra cui vi erano anche donne e bambini. Per la rivista «Time» (Italia: Valanghe; Senussi, 9 febbraio 1931), in un articolo scritto quando i rapporti italo-americani erano ancora buoni, Amedeo si distinse nel bersagliare, con bombe e mitragliatrici, i fuggiaschi.

Rientrato in Italia e divenuto capo del casato, visse a Trieste, dedicandosi al volo e presenziando a iniziative pubbliche. Il duca partecipava alla vita del regime, ma non aveva incarichi di peso. L’occasione giunse sul finire del 1937: Mussolini gli offrì la carica di Viceré d’Etiopia. Avrebbe sostituito Graziani, che, nonostante i metodi brutali, non era riuscito a reprimere la resistenza etiope. Il duce si affidava a una figura prestigiosa,ma impreparata: Amedeo si era laureato con una tesi in diritto coloniale, ma non aveva mai ricoperto cariche politiche di grande responsabilità. Così, forse, il dittatore e gli apparati di regime contavano di avere tra le mani una personalità controllabile.

Nel primo periodo del suo mandato, in effetti, il duca incontrò difficoltà ad imporre la sua politica paternalistica e di conciliazione. Il generale Ugo Cavallero, comandante delle truppe e detentore in sostanza del potere militare, gestì la “pacificazione” in continuità con la condotta di Graziani: in questa fase avvenne la strage di Zeret (9-11 aprile 1939). Sembra che il duca preferisse non ricorrere a tali metodi, perché vanificavano i suoi piani, ma accettò – o, meglio, subì – la strategia del suo sottoposto. Dopotutto, quando il duce, spronato dagli iniziali successi, diede ordine di perseverare con questo approccio, il principe assicurò che la direttiva sarebbe stata eseguita con la massima energia .

Solo dopo la rimozione del generale (primavera 1939), il Viceré ebbe più margini, ma gli ostacoli furono diversi. Le trattative con i capi ribelli diedero risultati limitati, così le azioni repressive proseguirono, pur cercando di salvaguardare i civili. I tentativi di coinvolgere i notabili indigeni nell’amministrazione si scontrarono con l’opposizione del regime a forme di “dominio indiretto”. Non discusse, poi, le misure che contraddicevano le sue politiche. Nel suo mandato trovò applicazione la legislazione razziale e segregazionista, promulgata a partire dal 1937, che, normando la subalternità dei nativi, esacerbava le divisioni tra dominatori e dominati.

Di lì a poco, la crisi internazionale rese prioritaria l’organizzazione dei piani di guerra. L’Africa orientale italiana versava in una situazione disperata, accerchiata da colonie britanniche, difficilmente rifornibile (la Royal Navy dominava i mari) e difesa da un contingente, per metà composto di coloniali, logoro e male attrezzato. I territori del Corno d’Africa erano destinati ad essere perduti. Assalito da dubbi e scettico sull’intervento, si adeguò anche a questa scelta e assunse il comando delle forze regie nella zona. Dopo l’occupazione del Somaliland nell’estate 1940, la situazione iniziò a precipitare. La ribellione prendeva vigore, supportata da Londra, e aumentavano le avvisaglie della controffensiva britannica. Gli fu proposto di chiedere un armistizio separato, ma il principe rifiutò sdegnosamente: avrebbe significato tradire il sovrano, la patria e Mussolini, perdendo l’onore per sé e il casato. Per quanto descritto come una personalità autonoma, le vicende citate restituiscono altresì lo spaccato di una figura inquadrata nel regime, a cui fu fedele nei passaggi più controversi. Il suo atteggiamento dipendeva da un coacervo di fattori (la formazione militare, l’educazione patriottica, la tradizione familiare), che forse includeva anche un’adesione tutt’altro che formale al fascismo e fondata, in buona misura sulla devozione, per il duce, come traspare dai resoconti dei colloqui privati con la moglie del sovrintendente generale britannico in Kenya, Katharine Fannin (Alessandro Pes, British Eyes on the Fascist Empire: il viaggio di Katherine Fannin nell’Africa orientale italiana, in Id. (a cura di), Mare Nostrum. Il colonialismo fascista tra realtà e rappresentazione, Cagliari, Aipsa Edizioni, 2012, p. 26).

Nei primi mesi del 1941, le truppe regie furono travolte dalla controffensiva degli anglo-indiani, a cui si unirono le formazioni irregolari etiopi: il 6 aprile Addis Abeba veniva liberata. I comandi regi si trincerarono in vari ridotti. Il duca d’Aosta, alla testa di una forza piuttosto disomogenea di 7.000 uomini, ripiegò sul massiccio dell’Amba Alagi. Lì si si consumò la battaglia che costituisce la pietra angolare del suo mito. Prima che la narrazione epica divenisse dominante, alti ufficiali criticarono la scelta. Il gruppo montuoso era solo in apparenza inespugnabile e non aveva le risorse idriche necessarie al fabbisogno di migliaia di uomini. Vi erano, poi, alternative migliori, come unirsi ai 40.000 uomini del generale Nasi, nel Gondar (dove avrebbe resistito fino a novembre. A condizionare le mosse del duca furono, forse, l’inesperienza nel comandare grandi corpi ed errori di valutazione (in cui caddero anche generali navigati), oltre che una concezione premoderna della leadership, fondata sull’ostentazione delle virtù guerriere, ma slegata dalla pianificazione e dal calcolo. La scelta ricadde sulla montagna tigrina anche per assicurarsi, nel disastro, una fine memorabile ed eroica, emulando le gesta del maggiore Pietro Toselli, che nel dicembre 1895 vi cadde assieme ai suoi soldati, entrando però nel pantheon degli eroi della nazione.

Il 17 aprile, il Viceré si ritirò sul ridotto. Dopo l’iniziale speranza di poter prolungare la resistenza, il quadro si aggravò rapidamente. Furono presi contatti con i comandi britannici, frenati dalla ritrosia del principe a capitolare: temeva di infangare il suo onore. Neppure l’autorizzazione di Mussolini lo smosse. Tempo perduto, che comportò lo spargimento di altro sangue. Il duca, alla fine, acconsentì alla resa: a persuaderlo fu, forse, il timore che l’assalto finale sarebbe stato condotto dagli irregolari etiopi, di cui si temevano le rappresaglie. Il 19 maggio, il contingente regio lasciò il ridotto, transitando davanti al picchetto d’onore anglo-indiano. Tale aspetto è stato più volte evocato, nel recente dibattito, per provare la statura del personaggio. Nondimeno, in proposito sono necessarie opportune contestualizzazioni. Gli onori militari furono una delle condizioni poste dal Viceré per arrendersi, che i comandi britannici gli accordarono (Rovighi). Dopotutto, tale prassi, seppur di grande valore simbolico, non aveva costi strategici, ma anzi consentiva di risparmiare risorse e permetteva di avere un controllo più saldo sui prigionieri nelle convulse fasi successive alla cattura. Insomma, senza negare che le truppe regie si batterono bene, l’atto dei comandi britannici non può essere reputato spontaneo e disinteressato. Oltracciò, la cerimonia dell’onore delle armi avvenuta sull’Amba Alagi non fu un unicum nella seconda guerra mondiale. Durante l’invasione della Francia, i tedeschi garantirono simili onori ad alcune guarnigioni arresesi, così i britannici, proprio nel teatro africano, omaggiarono più gli italiani sconfitti.

La propaganda fascista sfruttò tale aspetto per enfatizzare la resistenza offerta dal distaccamento e indorare la notizia della disfatta, che preannunciava l’imminente, ma si credeva temporanea, perdita dell’Impero. “L’insuccesso glorioso” dell’Amba Alagi divenne oggetto di un racconto epico, di cui il Viceré ne era l’eroe. La sconfitta andava ricordata sia per celebrare la virtù dei protagonisti sia per alimentare la revanche nazionale. Il motto “ritorneremo” campeggiava nell’immagini del duca, risuonava nelle canzoni. Di lì a breve, questa retorica avrebbe attinto nuova linfa dalla fine prematura del Viceré in prigionia, il 3 marzo 1942, a causa del tifo e della malaria. Il regime sfruttò la notizia per demonizzare i britannici e fece del duca un eroe-martire da vendicare. La sua figura fu celebrata nei pamphlet, nelle iniziative pubblica e intitolandogli strade e edifici pubblici, come lo stesso Liceo scientifico di Pistoia.

Nel secondo dopoguerra, non soltanto i settori monarchici, gli eredi del fascismo e gli ambienti militari custodirono la memoria di Amedeo d’Aosta. Le stesse istituzioni repubblicane, che non avevano del tutto rinunciato alle aspirazioni coloniali, continuarono a celebrarlo. Nell’aeroporto di Gorizia, nel 1962, il presidente della Repubblica Antonio Segni inaugurò il Monumento all’Aviatore, un complesso ospitante una statua in travertino alta 5 metri del duca sabaudo, in uniforme da pilota e con il volto simbolicamente rivolto verso l’Africa, attorniata da dieci cippi commemoranti le sue imprese militari (dal Sabotino, nella Grande Guerra, a Cufra, in Libia, fino all’Amba Alagi). La sua figura fu poi ricordata in film, documentari e reportage delle riviste patinate dedicati allo scontro sulla montagna etiope: in essi, il Viceré spiccava positivamente come emblema del “colonialista buono”, una rappresentazione che ben si accordava col mito del “bravo italiano”. Nonostante, le iniziative pubbliche per ricordarlo si siano rarefatte e le iniziative per ricordarle siano diventate sempre più esclusiva di ambienti di nicchia, la rappresentazione romantica e malinconica, dai tratti quasi agiografici, del duca sopravvive. Sotto la coltre di un mito, «nel complesso […] falso, o falsificabile», come ha scritto Nicola Labanca, vi è una vicenda tutt’altro che lineare, con passaggi oscuri e controversi, che un’indagine storica puntuale dovrebbe farsi carico di ricostruire.

Francesco Cutolo ha conseguito il dottorato di ricerca in “Culture e società dell’Europa contemporanea” presso la Scuola Normale Superiore di Pisa (novembre 2021).  Attualmente è docente a contratto presso l’Università di Pisa, per l’insegnamento Continuità e gestione della crisi, e “cultore della materia” in Storia contemporanea presso l’Università di Firenze. Dal 2015 collabora con l’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea di Pistoia, per il quale svolge attività di ricerca e divulgazione sul territorio. Fa parte delle redazioni delle riviste «Farestoria. Società e storia pubblica» e «Storia locale». La sua ricerca si concentra sulla storia sociale, culturale e militare del primo Novecento. Tra i suoi lavori si segnala: “L’influenza spagnola del 1918-19. La dimensione globale, il quadro nazionale e un caso locale” (ISRPt Editore, 2020)

Chiara Martinelli è assegnista di ricerca presso l’Università di Firenze, dove insegna “Storia dell’educazione” e “Storia ed evoluzione dei servizi per la prima infanzia”. E’ membro del direttivo dell’Istituto storico della Resistenza di Pistoia; collabora con i comitati di redazione di “Rivista di storia dell’educazione” e di “Farestoria”. La sua ricerca si concentra sulla storia delle istituzioni scolastiche in età contemporanea. Tra le sue opere, ricordiamo “Fare i lavoratori? Le scuole industriali e artistico–industriali italiane in età liberale” (Roma, 2019).

 




“In circostanze mai chiarite”

Silvano Fedi è con ogni probabilità il partigiano più noto e discusso dalla letteratura storica locale, nonché uno dei personaggi di maggiore spicco nella memoria collettiva della città di Pistoia. Il suo riconoscimento pubblico si ebbe nell’immediato dopoguerra, prima con il conferimento della medaglia d’Argento al Valor Militare, poi con l’intitolazione di un istituto scolastico, di un’associazione sportiva, infine di una piscina e di un corso centrale. Negli ultimi anni, un film (Pistoia 1944. Una storia partigiana) e uno spettacolo teatrale (Una vita per un’idea. La storia di Silvano Fedi) hanno raccontato i suoi ultimi mesi di vita e il suo impegno nella Liberazione. A poca distanza, il riconoscimento del titolo di cittadino illustre, disposto dal consiglio comunale di Pistoia nel 2020, e la recente costruzione di una tomba monumentale (2022) hanno riacceso l’interesse generale per sua persona

Allo stesso tempo, attorno a Silvano Fedi si è sedimentata una sorta di aura mitica, alla quale ha contribuito la ricostruzione storica e memoriale basata sulle circostanze «mai chiarite» della sua uccisione. Queste ultime, ad oggi, possono essere riassunte come segue: più o meno alle 14:00 del 29 luglio 1944, in località Montechiaro (tra Serravalle e Pistoia) le Squadre “Franche” comandate da Fedi furono coinvolte in uno scontro a fuoco da ingenti forze del Pionier-Bataillon 60, un reparto del Genio che dipendeva dal vicino comando del 14. Panzerkorps (localizzato nei pressi di Marliana). I tedeschi uccisero Fedi e altri due membri dello Stato maggiore delle Squadre, uno dei quali venne fatto prigioniero e giustiziato in un secondo momento. Da qui in poi hanno inizio i problemi.

Per molti tra i partigiani e i civili testimoni di quei fatti e gli studiosi che si interessarono alla vicenda nel dopoguerra, quello tra le unità di Silvano Fedi e i tedeschi non fu un incontro casuale, bensì frutto di una delazione; nacque così la teoria di un vero e proprio «agguato», congegnato ai danni della formazione partigiana e del suo comandante. L’idea di una “soffiata” ai danni di Fedi è stata, a un tempo, attribuita a un gruppo di ladri che si erano finti membri della sua formazione oppure, secondo un’altra ipotesi, a «persone che contavano, probabilmente interne alla stessa Resistenza [pistoiese]», che avevano creduto di potersi sbarazzare di «un personaggio scomodo [e] protagonista indiscusso della lotta partigiana». La letteratura storica pistoiese ha avallato ognuna di queste possibili teorie nel corso degli anni e con esse le numerose – e spesso non contestualizzate coi metodi propri della storia orale – testimonianze oculari di chi era presente il giorno in cui Fedi veniva ucciso dai tedeschi. I rapporti che egli aveva intrattenuto con una figura di grande ambiguità come Licio Gelli, il cui peso nella storia italiana successiva ha contribuito a far crescere l’alone di mistero, hanno fatto il resto. Le numerose ipotesi e la relativa sovrapproduzione di materiale secondario hanno così finito col precludere una qualsiasi ricostruzione efficace e scientificamente corretta dell’uccisione del partigiano pistoiese.

Una lacuna particolarmente sensibile in questo quadro generale è quella della documentazione tedesca, che fino a ora è stata utilizzata in modo molto scarno o approssimativo. Un modo per rimettere “in ordine” l’intera vicenda potrebbe essere proprio quello di ripensare l’attacco tedesco a Montechiaro prendendo in esame uno spettro più ampio di fonti e provando a ricostruire i fatti dall’inizio, tenendo come punti fermi genealogia e contesto degli eventi. La domanda iniziale e centrale che ci dobbiamo porre è la seguente: può una delazione essere l’unica ragione logica in grado di spiegare la presenza di un battaglione tedesco a Montechiaro il 29 luglio 1944?

Il 25 luglio la formazione di Fedi aveva iniziato lo spostamento delle Squadre Franche verso il Montalbano per compiere azioni di disturbo e sabotaggio contro le truppe che si stavano ritirando sotto la pressione alleata. Il piano era stato concordato il giorno precedente nel corso di un incontro con esponenti del CLN locale, in particolar modo del Partito comunista italiano e del Partito d’Azione. Dunque le premesse sono quelle di una operazione di guerriglia contro l’occupante, in linea con quanto stava accadendo nelle «aree vicine al fronte», dove i tedeschi avevano notato un incremento sensibile dell’attività partigiana. Questa situazione, nel corso dell’estate, aveva già spinto i comandi militari a dare il via a tre grosse operazioni «contro le bande» (nomi in codice «Wallenstein») sull’Appennino tra la Garfagnana e il Modenese e ad intensificare la pressione sulle retrovie con tutti i reparti della Wehrmacht e della polizia disponibili. La prima ipotesi che sembra logico prendere in considerazione è perciò quella di un rastrellamento preventivo, i presupposti per il quale, anche con l’utilizzo di numeri non indifferenti di uomini da parte dei Comandi superiori, ci sarebbero tutti: il fronte arretrava rapidamente e l’attività partigiana nei pressi della Linea Gotica stava aumentando; c’è poi da tenere conto del dilagare della cosiddetta «psicosi delle bande», che da sola stava mettendo in seria difficoltà i nervi delle truppe tedesche, ossessionate e convinte che «alle [loro] spalle ci fosse un esercito partigiano» e di essere costantemente «in trappola. Come a Stalingrado». A questo proposito, va però aggiunto che la lotta antipartigiana in Italia può essere solo parzialmente ricondotta a un fenomeno di isteria da parte nei confronti della Resistenza in armi. La «psicosi delle bande» è uno dei tanti fattori che possono contribuire a contestualizzare la vicenda e, nel nostro caso, non è comunque l’elemento predominante

La ricerca sulle mappe del fondo «RH 2-KART/OKH» del Bundesarchiv-Militärarchiv di Friburgo ha finora portato alla luce un solo nuovo elemento, ancorché molto significativo. A fine luglio, un’intera divisione meccanizzata tedesca (la 90. Panzer-Grenadier-Division) aveva ricevuto l’ordine di trasferirsi dal fronte alle retrovie, per l’esattezza nei pressi di Modena. L’intero reparto raggiunse la Valdinievole proprio la mattina del 29 luglio 1944, per poi attraversare il Serravalle e cominciare risalire l’Appennino nelle ore successive. Al momento non è possibile stabilire se qualche reparto della divisione abbia partecipato o meno ai combattimenti di Montechiaro, ma la sua presenza servirebbe a spiegare una maggiore attenzione dei comandi militari per le aree limitrofe.

Va poi preso in esame un altro dettaglio, forse tra i più esacerbati da parte delle ricostruzioni sull’uccisione di Fedi proposte finora. Nel dopoguerra, in molte delle testimonianze rilasciate dagli ex-partigiani pistoiesi si può riscontrare un certo accordo sul fatto che quella dei tedeschi fosse stata un’imboscata preparata in modo tale da colpire il nucleo delle Squadre. Questa osservazione però non è mai stata vagliata criticamente, sebbene ci sia tanto da dire su di essa, a partire dal fatto che chiunque venga colto di sorpresa in un conflitto a fuoco abbia quasi sempre la percezione di essere stato messo in trappola. Né si è tentato di elaborare ulteriormente uno dei bollettini dell’Armeeoberkommando 14, già noto, nel quale si legge che il 29 luglio furono le truppe tedesche a subire un attacco dai partigiani e non il contrario. Cosa non difficile da credere, se si pensa che nelle relazioni delle Squadre Franche si fa menzione di un altro conflitto a fuoco, avvenuto quella stessa mattina e che ebbe come protagonista una delle pattuglie poste da Fedi a copertura del centro della formazione. Il comandante partigiano non era stato messo a conoscenza di questa prima schermaglia, ma se assumiamo che questo scontro abbia effettivamente avuto luogo (fatto del quale ci danno conferma sia la relazione delle Squadre Franche che i documenti tedeschi), ciò potrebbe anche suggerire un’altra spiegazione ai fatti di quel giorno. In breve, l’incontro tra i pionieri e la formazione partigiana potrebbe essere avvenuto a seguito della battaglia mattutina, la quale avrebbe poi spinto le unità del Pi. Batl. 60 a indagare più a fondo nelle zone a sud di Pistoia. Un altro dettaglio a questo proposito è costituito dalle operazioni alle quali era stata originariamente destinata l’unità responsabile dell’uccisione di Fedi: il 29 luglio 1944, infatti, i pionieri del 14. Panzerkorps dovevano minare un tunnel ferroviario nei pressi di Serravalle insieme a una unità del Genio ferroviario, la Eisenbahn-Pionier-Kompanie 84. In questo documento non si parla né di rastrellare una precisa area, né tantomeno di dare la caccia a una specifica squadra partigiana, il che alimenta l’ipotesi (pur senza confermarla) di un incontro avvenuto per caso o a seguito di un attacco della pattuglia di Fedi a una delle due formazioni nemiche (se non a entrambe). 

Le testimonianze di chi era presente quel giorno a Montechiaro concordano poi su un altro dettaglio, ovvero che i tedeschi sapessero «senz’altro dove andare» e che quindi avessero puntato direttamente sul luogo dove si trovava il grosso della formazione partigiana. Tuttavia, anche questo racconto dovrebbe essere analizzato in maniera più critica alla luce di due considerazioni: la prima è che le truppe di occupazione, soprattutto i reparti del Genio, conoscevano e avevano cartografato la zona periferica di Pistoia da circa un anno (lo stesso Pionier-Bataillon 60 era già stato di stanza a Pistoia nell’autunno del 1943, alle dipendenze della 44. Infanterie-Division); in secondo luogo, non si è mai presa in esame la possibilità che la zona tra Vinacciano e Serravalle potesse avere una qualche importanza strategica per i tedeschi. A questo proposito, vale la pena ricordare la presenza della tratta ferroviaria che da Pistoia conduce ancora oggi a Montecatini e il fatto che le medesime unità della Eisenbahn-Pi. Kp. 84 avevano sondato più volte quell’area nei mesi di giugno e luglio. Quello che è certo, dunque, è che nell’estate del 1944 quella zona possedeva ancora una grande importanza per le forze armate dell’occupante. 

Alcuni appunti finali. Il giorno successivo all’uccisione di Fedi, il 30 luglio 1944, il Pionier-Bataillon 60 venne inviato a rastrellare tutto il territorio compreso tra Vinacciano e la zona a sud di Prato. Il risultato complessivo di questa azione fu di settanta uomini catturati, tra i quali «otto noti capibanda» e, nel solo Pratese, di 146 persone. Al momento non è dato sapere se questo tipo di operazione fosse o meno una risposta ai fatti di Montechiaro e, più precisamente, al rinvenimento dei famosi «documenti importanti» sul corpo di Silvano Fedi. Tuttavia, come si è avuto modo di leggere, l’utilizzo di un ventaglio più largo di fonti fa già assumere alle «circostanze mai chiarite» un significato diverso: unite alle testimonianze orali del periodo, che dovranno essere esaminate di nuovo e con criteri diversi, e alla letteratura che finora è stata prodotta su Fedi e sulle sue Squadre Franche, le carte tedesche possono apportare un contributo nuovo e determinante alla ricostruzione di un quadro storicamente corretto delle vicende del 29 luglio 1944.

Note: Sono stati consultati i seguenti fondi: Aisrpt, Fondo Relazioni, Relazione delle Squadre Franche a carattere patriottico, Gruppo “Silvano”; Aisrt, microfilm (US-NARA) T-312, Roll 491, f. 8.084.451, Armeeoberkommando 14, Pi. Tagesmeldungen 1 Jul.-30 Sep. 1944; BA-MA, RH 2/663, fo. 0128, Oberbefehlschaber Südwest, bollettini mattinali dell’Ufficio operazioni Ia e bollettini dell’Ufficio informazioni Ic, giugno 1944; BA-MA, RH 2/9693 K, Morgenmeldungen, Lagerkarte (mappa) del 29 luglio 1944; BA-MA, RH 24-14/153: Armee-Pionierführer (A.Pi.Fü.). Pionier-Tagesmeldungen, messaggi e bollettini delle truppe del Genio, 1° luglio-30 settembre 1944

Edoardo Lombardi è dottore magistrale in Scienze storiche presso l’Università degli Studi di Firenze. Dal 2018 collabora con l’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea di Pistoia (Isrpt), per il quale svolge attività di ricerca e di didattica sul territorio. Nel 2020 entra a far parte della redazione del periodico dell’istituto, «Farestoria. Società e storia pubblica». I suoi interessi di studio riguardano soprattutto la storia culturale della Germania e dell’Italia in Età contemporanea. Per conto dell’Isrpt sta attualmente svolgendo una ricerca sull’occupazione tedesca di Pistoia. Tra i suoi lavori, segnaliamo “Uno stato senza nazione. L’elaborazione del passato nella Germania comunista” (Unicopli, 2022).