La Fonderia del Pignone nel primo sciopero generale di Firenze

Tra il giugno del 1901 e il settembre del 1902 Firenze fu teatro di una serie di scioperi che culminarono nel primo sciopero generale cittadino deliberato dalla locale Camera del Lavoro il 28 agosto a seguito della votazione della sezione metallurgici del giorno precedente («Fieramosca», 29.8.1902). «Da città gentile fu battezzata dai giornali esteri città turbolenta» – commentava il «Commercio fiorentino» (25.9.1902), preoccupato delle conseguenze sui visitatori stranieri della paralisi dei trasporti, del buio, della sporcizia, della penuria di pane occorse in quel concitato frangente nella «culla della rinascenza italica». Nello stesso periodo si registrò un aumento della sindacalizzazione e della mobilitazione popolare anche in altre parti della Toscana. Furono diverse le categorie di lavoratori e di lavoratrici coinvolte (ferrovieri, metalmeccanici, sigaraie, edili…) e per la prima volta la protesta assunse proporzioni allarmanti anche nelle campagne: nella primavera del 1902 Chiusi, Sarteano e Seano, in provincia di Siena, furono gli epicentri del più grande sciopero mezzadrile della regione.

Ritratto Pietro Benini (1867-1913)

Ritratto Pietro Benini (1867-1913)

Dopo gli scioperi generali di Genova (dicembre 1900) e di Torino (febbraio 1902), il caso di Firenze e, in particolare, il rifiuto di Pietro jr. Benini, direttore della S.A. della Fonderia del Pignone, di riconoscere e trattare con i rappresentanti delle organizzazioni operaie ebbero vasta eco sulla stampa nazionale, segnando l’ingresso della Firenze industriale nel “secolo del Lavoro”. Lo sciopero fiorentino fu visto come un banco di prova delle politiche governative e la “resistenza” di Pietro jr. Benini fu variamente commentata dalla stampa di parte socialista e liberale.

Con la crisi del governo Saracco e il discorso di Giolitti, ministro dell’Interno del governo Zanardelli (1901-1903), a favore di una svolta antiautoritaria nei rapporti tra governo e forze sociali si aprì una nuova stagione nella storia delle relazioni industriali. A caratterizzarla furono lo sviluppo di forme di organizzazione sindacale a livello nazionale – nel 1901 si costituì la Federazione italiana operai metallurgici – e un aumento della conflittualità sociale: nel 1901 si registrarono 1042 scioperi industriali e 629 scioperi agricoli contro i complessivi 388 dell’anno precedente. L’emergere di nuove istanze di rappresentanza da parte dei lavoratori dell’industria non si legava tanto a un peggioramento delle condizioni generali di vita quanto a un cambiamento nella percezione della loro irreversibilità e agli effetti sul lavoro (orari, cottimi, licenziamenti, sanzioni disciplinari) di processi di trasformazione della produzione.

Quello che accadde a Firenze sull’onda delle rivendicazioni degli operai della Pignone, dove era in atto dal 1898 una ristrutturazione dell’assetto finanziario e organizzativo della fabbrica attorno alla nuova produzione di compressori di agenti frigoriferi, rifletteva lo sfaldamento del potere di coesione sociale del fronte moderato – indebolito dall’esito delle elezioni politiche del giugno del 1900 – e il nuovo protagonismo del movimento operaio e sindacale; la crisi del sistema ottocentesco di gestione paternalistica dei rapporti di lavoro e insieme la difficoltà ad affermare su scala locale e nazionale una regolamentazione istituzionalizzata del conflitto che unisse alla piena legittimazione delle organizzazioni sindacali la rinuncia a un uso repressivo della forza pubblica. Anche per questo, il primo sciopero generale nazionale, indetto dalla Camera del lavoro di Milano nel settembre del 1904, prese di mira le contraddizioni del governo giolittiano sempre più discrezionale nell’attuazione della politica della neutralità dello Stato nei conflitti tra capitale e lavoro, denunciando gli eccidi proletari perpetrati tra 1902 e 1904 nelle campagne meridionali e nelle isole.

ProScioperantiGli scioperi del 1901-1902 misero per la prima volta in discussione all’interno della Fonderia e officina meccanica del Pignone, attiva nel panorama industriale fiorentino dagli anni Quaranta dell’Ottocento, la fedeltà e la subordinazione degli operai alla direzione. Il primo sciopero, nato come manifestazione di solidarietà verso i fonditori scioperanti del Cantiere Orlando di Livorno, coinvolse direttamente solo i fonditori del Pignone (68 adulti e 15 ragazzi su un totale di 264 dipendenti). Organizzati in una lega di mestiere, i fonditori erano stati i più colpiti dal calo della produzione e del reddito subito dalla sezione fonderia alla fine del secolo (1898-1901). Rifiutandosi di eseguire i modelli commissionati alla Fonderia del Pignone dal Cantiere Orlando, la loro solidarietà di categoria si estese a un fronte più ampio di richieste che andava dal riconoscimento delle Leghe alla modifica dei sistemi di retribuzione; tanto che su quella base nell’aprile del 1902 una commissione composta da operai e da rappresentanti sindacali sottopose al C.d.A. della Pignone una piattaforma di richieste articolata in 6 punti. La vertenza si protrasse per 56 giorni (dal 21 dicembre 1901 al 16 febbraio 1902) e si concluse grazie alla mediazione dei sindaci sollecitati a intervenire, a Firenze come a Livorno, dalle organizzazioni operaie. Il lodo arbitrale del pro-sindaco di Firenze cav. Antonio Artimini seguì di pochi giorni quello del sindaco radicale livornese Cesare Pacchiani. Entrambi sancirono la sconfitta sindacale dei fonditori, ma il lodo Artimini fu considerato più aperto nella misura in cui riconosceva «il valore morale dell’atto di solidarietà operaia» e sottolineava la neutralità dell’autorità comunale nel conflitto, attirandosi le critiche della stampa conservatrice («Il Fanfulla», 16.2.1902).

Fonderia_ArticoloIn un clima di crescente tensione, il licenziamento alla fine di luglio del 1902 di 22 operai (di cui 9 fonditori) per «scarsità di lavoro» e il rifiuto della direzione della Pignone di prendere in considerazione proposte di turni e riduzione d’orario sfociarono il 1° agosto nella proclamazione di uno sciopero di solidarietà a base aziendale. Redatto un nuovo regolamento interno, la direzione notificò il licenziamento di tutti gli operai scioperanti e respinse le richieste di mediazione avanzate dalla commissione operaia tramite l’autorità comunale. Questa intransigenza indebolì la posizione dei rappresentanti sindacali, ma accrebbe la solidarietà spontanea di diverse categorie di lavoratori alla vertenza della Pignone, facendola sfociare nel primo sciopero generale cittadino. Dalla mattina del 29 agosto si unirono ai metallurgici, le sigaraie, i lavoranti del legno e del marmo, i vetrai e gli operai delle industrie chimiche. Due giorni dopo, quasi la metà delle sezioni della Camera del lavoro di Firenze, che contava circa 12 mila iscritti, aderì allo sciopero («La Tribuna», 30.8.1902; «Corriere della Sera», 31.8.1902). A questo stato di agitazione che minacciava di contagiare i comuni limitrofi si reagì con un rafforzamento delle misure preventive e repressive concertate tra il prefetto e il ministro dell’Interno che rese sempre più critica la posizione degli scioperanti: l’ex convento del Carmine, dove avevano avuto luogo le prime riunioni dei 12-18.000 scioperanti, dal 1° settembre fu adibito a caserma degli squadroni di cavalleria giunti da fuori a presidiare la città, e fu circondato da 300 guardie armate («Giornale d’Italia», 1.9.1902). Rotte le trattative e deliberata la cessazione dello sciopero generale dall’assemblea dei metallurgici e poi dalla Camera del Lavoro, furono riammessi alla Fonderia del Pignone solo 70 degli operai licenziati e alle condizioni del nuovo regolamento di fabbrica, in vigore dall’agosto 1902.

Le conseguenze del fallimento dello sciopero generale furono pesanti fuori e dentro la fabbrica: nel settembre del 1904 gli operai della Pignone non aderirono allo sciopero generale nazionale, mentre nel novembre dello stesso anno Pietro Benini salutò la sconfitta di Giuseppe Pescetti alle elezioni politiche come un successo personale. Per oltre un decennio la fabbrica non fu più al centro di azioni rivendicative; solo la mobilitazione industriale del periodo bellico avrebbe provocato nuove laceranti fratture.

Articolo pubblicato nel gennaio 2015.




Un secolo ed un architetto: Giovanni Michelucci

Il 7 aprile 2014 siamo giunti alla terza presentazione del documentario, sottotitolato in inglese, Giovanni Michelucci. Elementi di vita e di città, regia di Cristiano Coppi, al Cinema Odeon di Firenze realizzato con la Provincia di Pistoia la Fondazione Giovanni Michelucci di Fiesole con il contributo della Regione Toscana e in quest’occasione con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia in collaborazione con l’Università di Firenze, Dipartimento di Architettura DIDA/Festival Internazionale di Architettura in video MEDIARC.

Le precedenti presentazioni erano state al cinema Globo di Pistoia nel dicembre 2012 e al Museo MAXXI di Roma nel maggio 2012.

Il documentario racconta i cento anni vissuti da Giovanni Michelucci e i momenti che hanno segnato la sua vita di uomo e di architetto. Attraverso filmati dell’epoca, riprese delle sue opere più importanti e interviste, il documentario vuole descrivere la complessità ed il fascino di un personaggio di cui tanto si è scritto ma che ancora oggi conserva molti aspetti da esplorare. Collaboratori, architetti e storici dell’architettura, come Claudia Conforti, Paolo Portoghesi, Corrado Marcetti, Mauro Innocenti, Marco Dezzi Bardeschi, Francesco Dal Co, solo per fare qualche nome, hanno raccontato le molteplici sfumature di uomo che ha attraversato un secolo, il secolo breve cogliendone i mutamenti. La puntuale regia di Cristiano Coppi si è avvalsa di un comitato scientifico composto da Andrea Giraldi, Matilde Montalti e Alice Vannucchi.

Nato il 31 dicembre 1890 a Pistoia in una famiglia proprietaria di un’officina per la lavorazione artigianale e artistica del ferro, si diploma all’istituto Superiore di Architettura dell’Accademia di Belle Arti, nel 1914 ottiene la licenza di professore di disegno architettonico; insegnerà presso l’istituto superiore di architettura di Firenze e sarà eletto Preside della Facoltà di Architettura nel 1944.
Durante la grande guerra Michelucci realizza una cappella sul fronte orientale vicino a Caporetto: più volte sarà costretto a confrontarsi con gli effetti della catastrofe (la ricostruzione del centro di Firenze dopo la seconda guerra mondiale, la risistemazione del quartiere popolare di S. Croce dopo l’alluvione, la chiesa a Longarone dopo la tragedia del Vajont). Dopo la guerra lascia le “Officine Michelucci”. All’ambiente artistico pistoiese, in cui svolge un ruolo importante di riferimento intellettuale, appartiene anche Eloisa Pacini, raffinata pittrice, che sposa nel 1928 conosciuta frequentando politici, intellettuali, pittori e musicisti mondanità di Roma dove vive dal 1925.
La sua adesione al regime fascista e oculate frequentazioni lo portano nel 1933 ad essere coordinatore del gruppo toscano e alla vittoria nel concorso per la Stazione di S. Maria Novella a Firenze con un’opera di valore internazionale per le qualità funzionali e per l’inserimento nel contesto storico e urbano.
3Dopo la guerra, che osserva da lontano isolandosi  nella sua casa alla Cugna, immersa nella natura della montagna pistoiese e che sarà nuova fonte di ispirazione,  crea la rivista “La Nuova Città”, espressione di un nuovo atteggiamento verso la società, dialogante e partecipativo, propone per la ricostruzione della zona attorno a Ponte Vecchio ipotesi innovatrici che s’infrangono di fronte alla tendenza conservatrice della città. Nel 1948 Michelucci lascia la presidenza della Facoltà di Architettura di Firenze passando alla facoltà d’ingegneria di Bologna; continua la ricerca di un nuovo linguaggio dell’architettura: la concezione dello spazio percorribile, la città variabile, un nuovo rapporto antico-moderno che si esprime anche nell’uso congiunto della pietra e del mattone con il cemento armato, l’acciaio e i nuovi materiali, così le idee prendono forma come  per la Chiesa di San Giovanni Battista sull’Autostrada del Sole, a Campi Bisenzio, conclusa nel 1964, trait d’union di un paese in pieno miracolo economico, nella quale Michelucci anticipa i temi di una Chiesa in mutamento come sarà sancito dal concilio Vaticano II, o con la Chiesa di Borgo Maggiore, nella Repubblica di S. Marino.

6Nel 1967 progettò con Mauro Innocenti l’ospedale di Sarzana affrontando così il tema della degenza, ma la costruzione, avviata nel 1974 si protrasse per decenni e non poté vederla ultimata.

Nel 1972 nel saggio Brunelleschi mago,pubblicato con l’editore  ed amico pistoiese Tellini, con la postfazione di Mario Aldo Toscano. Bruno Zevi scrive su “L’Espresso” dei colloqui informali e antiaccademici di Michelucci con Brunelleschi. Il titolo è suggerito da un passo di Kafka “Perché mago? Non so, ma è capace di provocare un vivo sentimento di libertà…”. Wanda Lattes in un  intervista a Michelucci presso la sua casa al Roseto a Fiesole descrive il libro come un “volumetto elegante, raffinato senza illustrazioni, spoglio di banali concessioni alla civetteria consumistica” con chiaro intendimento pedagogico e civico, nato non ambizione filologica ma come proseguimento di quelle lezioni impartite per anni in cattedra. Mario Toscano l’ha ascoltato per anni, poi ha iniziato a registrare i suoi discorsi spontanei; uno scritto che nasce quindi come discorso socratico tra un docente e tanti non individuati discenti.

michelucciNel 1974 muore la moglie Eloisa ed inizia un nuovo decennio creativo e progettuale. Nel 1982 Giovanni Michelucci costituisce con la Regione Toscana ed i comuni di Fiesole e Pistoia la “Fondazione Michelucci”, mentre una donazione di disegni al Comune di Pistoia costituisce il “Centro di documentazione Giovanni Michelucci” di Pistoia.

Le pagine de La Nuova Città,  riflettono su temi come Carcere e città, Scuola e periferia, Città e follia, e portano all’ideazione del Giardino degli incontri nel carcere fiorentino di Sollicciano, un progetto sviluppato dal 1986 con i detenuti per creare un luogo di incontro  con i familiari, ultimato nel 2007. Il 31 dicembre 1990 muore a Fiesole.

Alice Vannucchi  è ricercatrice presso l’Istituto storico della Resistenza e della società Contemporanea di Pistoia,  è membro della redazione della rivista “Quaderni di Farestoria”, è docente nella scuola primaria dal 2007. Fra le sue pubblicazioni: Il rientro in città: il problema degli alloggi, in Pistoia fra guerra e pace a cura di M.Francini, I.S. R.Pt. Editore, 2005. Teorie di democrazia in Italia e Francia nel dopoguerra in “Quaderni di Farestoria”,anno VIII-n2 maggio –agosto 2006,pag.61-69. Le scuole di partito nel PCI di Togliatti.Il caso toscano (1945-1953) in “Quaderni di Farestoria”,anno XII-n 2- maggio –agosto 2010,pagg.33-45. Ha curato la mostra e il numero monografico Cupe Vampe: la guerra aerea a Pistoia e la memoria dei bombardamenti, ISRPt. Attualmente si occupa di storia sociale e storia dell’editoria.

Articolo pubblicato nel dicembre 2014.




Quando i piatti erano vuoti

La minestra di castagne secche che unisce alle ben note virtù nutritive anche un effetto emolliente delle vie respiratorie; una pasta asciutta condita con ricotta fresca a cui amalgamare l’acciuga e qualche cucchiaino d’acqua calda; le patate in crema rossa senza condimento o il «super brodo di guerra» – tale per l’abbondanza di ortaggi a lungo bolliti e generosamente insaporiti – consigliato per convalescenze e speciali stati di indebolimento grazie al suo straordinario potere nutritivo, tanto da renderlo degno sostituto del suo omologo a base di carne. Sono solo alcune delle ricette che un corposo volumetto, edito a Firenze dalla Salani nel 1942, La cucina del tempo di guerra, invitava a sperimentare. L’autrice, Lunella De Seta, spiegava alle massaie come ingegnarsi per rendere meno mesta e spoglia la tavola; il tutto tenendo fede alla morale patriottica del «nulla vada perduto!».

Del decennio 1940-‘50 nel nostro Paese si ricordano le bombe, la fine del fascismo, la difficile ricostruzione e, soprattutto, la fame. La lunga autarchia imposta dal regime aveva da subito messo alla prova gli Italiani, ma le avvisaglie di una penuria, presto tramutatasi in miseria, erano state evidenti fin dalla vigilia della guerra. L’Italia non era ancora entrata nel conflitto e già, nel 1939, veniva diffuso il primo provvedimento che limitava la somministrazione del caffè, assenza a cui si era cercato di supplire con l’uso di orzo, insaporito da ceci tostati o dalla soia; anche il , di importazione inglese, era stato bandito e i negozi lo avevano sostituito con karkadè, un infuso amarognolo che aveva il merito di giungere direttamente dalle nostre colonie; e ancora, nel settembre dello stesso anno era stato emanato il divieto di vendere carni per due giorni a settimana.

A guerra in corso, poi, le restrizioni e privazioni erano aumentate progressivamente. Alla fine del 1940, il pane iniziava a essere miscelato con farina di granoturco e la pasta erogata per un massimo di due chili al mese a persona (quantità che in Toscana era stata ridotta presto a un solo chilo). A Pasqua era stato fatto divieto di distribuzione di dolci e con l’autunno il pane era finito tra i prodotti “tesserati” e fornito in una quantità di 200 grammi a testa al giorno (divenuti poco dopo 150). Sempre più introvabili carne, burro, olio e zucchero, mentre per il latte era necessario iscriversi al “registro del lattaio”. L’unica alternativa, per supplire alla penuria alimentare, era ben presto diventata quella di acquistare al “mercato nero”, a prezzi spesso insostenibili.

 In fatto di alimentazione la Toscana parve, inizialmente, cavarsela meglio di altre regioni. In particolare, la Provincia di Firenze, autosufficiente in tempi di libertà economica solo rispetto a pochi prodotti come l’olio e il vino, la frutta e la verdura ma, al contrario, importatrice di farina, pasta, carne, latte, formaggi, legumi e zucchero, aveva comunque continuato a ricevere rifornimenti anche dopo l’instaurazione del sistema controllato degli scambi commerciali, fino a quando l’intensificarsi delle incursioni aeree (la costa toscana fu colpita dai bombardamenti fin dalla primavera 1943, mentre su Firenze le bombe caddero per la prima volta contro la stazione di Campo di Marte il 25 settembre dello stesso anno) e l’interruzione di alcuni tratti delle linee ferroviarie avevano rallentato il flusso dei prodotti provenienti dall’Emilia e dalla Lombardia, impedendo la formazione di depositi alimentari.

La situazione aveva iniziato a peggiorare progressivamente con l’avanzata degli Alleati e le pagine dei quotidiani erano presto diventate il mezzo più comune per diffondere avvertimenti e consigli ai cittadini al fine di aiutarli a sopportare le penurie del momento. Così, il 7 luglio 1944, su «La Nazione», comparivano suggerimenti su come conservare il pane affinché durasse più a lungo; qualche giorno più tardi vi si leggevano indicazioni per «trasformare un comune fornello in cucina economica»; e ancora, si invitava la popolazione a tenere provviste di acqua in casa. In quei mesi, poi, l’annona distribuiva in abbondanza piselli secchi, farina vegetale, riso, concentrato di pomodoro, fagioli, tutti prodotti a lunga conservazione. Segno che l’attesa sarebbe stata lunga.

Migliore la condizione alimentare nelle campagne che, soprattutto dopo l’armistizio, avevano accolto sfollati, ebrei, renitenti, disertori e prigionieri alleati, offrendo loro cibo e riparo, talvolta in modo solidale e gratuito, altre scambiando l’ospitalità con beni “urbani” quali denaro e informazioni.

Nonostante la produzione agricola si fosse ridotta notevolmente a causa della scarsa disponibilità di fertilizzanti, macchinari e manodopera maschile (in assenza degli uomini erano le donne e i ragazzi non in età adulta a occuparsi dei campi) e fossero costanti razzie e distruzioni, le periferie rurali avevano di certo beneficiato di quell’antica capacità di saper fare e produrre tutto “in casa”. Tra le pareti domestiche, infatti, si abbrustoliva l’orzo per il caffè, si pigiava l’uva per ricavarne il vino, si spaccavano i semi di ricino per realizzare il sapone, si producevano pane e pasta, si raccoglievano e cucinavano i prodotti dell’orto e del maiale «non si buttava via nulla». Un’autosufficienza che in quegli anni aveva posto il mondo rurale, ambiente tradizionalmente povero ed umile, in una posizione di superiorità rispetto a quello cittadino, ancor più fiaccato e immiserito dagli eventi bellici.

A fine luglio ‘44, come testimoniava una relazione presentata dal Comitato Alimentare al Ctln [Comitato Toscano di Liberazione Nazionale], la situazione alimentare sembrava essere, nella provincia di Firenze, sempre peggiore. Il problema più grave era rappresentato dalla scarsezza delle scorte: totalmente assenti quelle di grano, pane e pasta. Conigli, polli e animali da cortile erano praticamente scomparsi. Se buono si profilava il raccolto del granturco e discreto quello dei fagioli, perduto era quello di patate e piselli. Non vi erano scorte di olio, dal momento che 2.000 quintali erano stati consegnati ai tedeschi. «Un quadro realistico della situazione che si riassumeva in una parola: fame». E non stupisce che, qualche mese più tardi, alla vigilia dell’ennesimo Natale in guerra, l’intervista su «La Nazione del Popolo» a “un macellaio onesto” – tale perché disposto ad ammettere con franchezza di praticare il mercato nero e pronto a spiegarne i meccanismi – aveva ben presto acquisito i toni di una nostalgica chiacchierata a due sui bei tempi andati, quelli in cui era facile e possibile l’acquisto di bestiame, bistecche e altra roba ancora «che, qui, in un Natale magro come questo non è il caso di rievocare».

Articolo pubblicato nel dicembre del 2014.




“Oggi e domani”

“Pace”, “lotta al fascismo”, “democrazia” e “socialismo”: intorno a queste  parole si è sviluppato il lungo percorso umano e politico di Enzo Enriques Agnoletti che attraversa il cuore del Novecento.

Cresciuto in una famiglia della borghesia intellettuale e laureatosi in Legge con Piero Calamandrei, a cui restò sempre legato dalla frequentazione della La Nuova Italia, casa editrice animata da giovani intellettuali antifascisti, fino all’impegno dell’immediato dopoguerra ne “Il Ponte” prima come redattore fino alla direzione della rivista dopo 1956 per circa un trentennio succedendo proprio al suo maestro.

Il percorso di formazione e attività politica e intellettuale di Enzo Enriques Agnoletti è sicuramente legato al ruolo di primo piano svolto nel corso della Resistenza fiorentina e toscana nelle file del Partito d’Azione, il partito della “rivoluzione democratica” che tanta parte ebbe nell’opposizione e nella lotta al fascismo e di cui fu anche rappresentante all’interno del Comitato Toscano di Liberazione Nazionale (CTLN) oltre che estensore di manifesti e documenti di tale organismo. Tra questi l’ordine del giorno del 3 gennaio 1944 in cui chiede che il Ctln si costituisca come “governo provvisorio di Firenze e provincia” e quello dell’11 agosto dello stesso anno in cui si invita la popolazione all’insurrezione contro il nazifascismo.

La stampa clandestina azionista a partire dal periodico “Oggi e domani” a “La Libertà” lo vide tra i principali animatori e redattore assai attivo mentre la sua militanza antifascista lo porterà al carcere e al confino. Insieme a Carlo Ludovico Ragghianti e soprattutto Ernesto Codignola proprio nella stampa azionista tratteggia già durante la clandestinità i lineamenti di una concezione di stato democratico e federalista in netta rottura non solo ovviamente con il ventennio mussoliniano ma anche con lo stato liberale e monarchico.

Il nesso Resistenza-Costituzione-Repubblica democratica a partire dall’insegnamento di Calamandrei è da lui declinato con particolare attenzione anche ai diritti sociali oltre che civili e con una forte accentuazione di una prospettiva di trasformazione in senso socialista. A dieci anni dalla liberazione lo stesso Calamandrei aveva notato come “…per compensare le forze di sinistra di una rivoluzione mancata, le forze di destra non si opposero ad accogliere nella Costituzione una rivoluzione promessa” ovvero quello che veniva individuato come il carattere “programmatico” della carta costituzionale (pieno diritto al lavoro, decentramento, ampio riconoscimento dei diritti civili e sociali ecc.). Nella sua lunga militanza Agnoletti, insieme all’amico e collaboratore Ernesto Codignola e al gruppo fiorentino di matrice azionista, cercò di essere costantemente attento a questa dimensione senza dimenticare, aspetto legato anche alla sua conoscenza della lingua inglese come traduttore per alcuni anni della casa editrice La Nuova Italia, la dimensione internazionale dei problemi geopolitici che la giovane Repubblica democratica. Da qui anche l’impegno per un’Europa federale ed autonoma dai blocchi politico-militari guidati delle superpotenze della Nato (Usa) e del Patto di Varsavia (Urss).

Ma l’attività di Agnoletti non si limitò a quella strettamente culturale incarnando da subito una figura di intellettuale-militante, tipica dell’antifascismo europeo novecentesco, oggi del tutto scomparsa e che lo spingerà dopo aver condiviso con Ernesto Codignola le esperienze della diaspora azionista (e la stagione di Unità popolare, a fianco di Ferruccio Parri, nata per contrastare la cosiddetta “legge-truffa” maggioritaria del 1953) alla militanza nel Partito socialista fino all’espulsione nel 1981 insieme all’amico Codignola in netto contrasto con il nuovo corso del partito inaugurato dalla segreteria di Bettino Craxi.

Vicesindaco nella giunta del centrosinistra fiorentino guidata da Giorgio la Pira dal 1961 al 1964 il suo nome resta anche legato alla stagione che vede Firenze come uno dei principali centri della distensione internazionale, della “diplomazia dei popoli”, oltre all’elaborazione del piano regolatore, lo sforzo per fare della città un modello di dialogo tra il mondo cattolico e le forze laiche e socialiste. E  in questo senso la nettezza delle sue posizioni a favore del  Divorzio e contro il Concordato tra Stato e Chiesa cattolica non si tradurranno mai in atteggiamenti di pregiudiziale chiusura verso l’universo religioso ma resteranno rivolti sempre a forte critica verso scelte e posizioni ben precise della Chiesa cattolica (e della Democrazia cristiana) non impedendogli rapporti di stima e amicizia con una figura centrale del cattolicesimo democratico fiorentino e nazionale come Giorgio La Pira.

Negli anni sessanta e settante molte delle sue energie verranno incanalate nelle solidarietà con il Vietnam e contro la guerra in Indocina ad opera degli Usa. Sono gli anni, soprattutto la seconda metà degli anni sessanta e la prima dei settanta del novecento, di intensi scambi e qualificate collaborazioni con associazioni, fondazioni e organismi internazionali, a partire dal Tribunale Russell, che lo vedono impegnato intensamente, in prima persona spesso a proprie spese.

Eletto nel 1983 nelle liste della Sinistra indipendente al Senato (di cui ricoprirà anche la carica di vicepresidente) l’anno dopo sarà tra i più convinti oppositori dell’istallazione dei missili a Comiso.

Presidente della Fiap (Federazione italiana associazioni partigiane) dal 1976 al 1986 non ha mai interrotto il suo impegno per la valorizzazione del patrimonio dell’antifascismo e della Resistenza, italiana ed europea, soprattutto delle sue correnti socialiste, Agnoletti è sempre stato vicino all’Istituto storico della Resistenza in Toscana, presso cui sono depositate anche parte delle sue carte relative all’attività di resistente mentre l’archivio personale ha trovato posto presso l’Istituto universitario europeo.

Lo sdegno morale per le ingiustizie e le atrocità di cui quasi ogni mattina abbiamo notizia leggendo i giornali” da Agnoletti attribuito ad Olaf Palme, leader socialdemocratico svedese a lui vicino, è in realtà la stessa molla etica e politica che ha guidato la sua lunga e ricca esistenza dall’impegno partigiano a quello internazionalista, dalle sponde dell’Arno a quelle del Mekong del martoriato Vietnam trasformando l’indignazione “in scelta politica concreta, che deve naturalmente tenere conto delle circostanze”.

Bibliografia essenziale

Giuseppe Sircana Ad vocem, Treccani.it

Enzo Enriques Agnoletti. L’utopia incompiuta del socialismo, a cura di Andrea Becherucci e Paolo Mencarelli, “Il Ponte”,LXX, nn.1-2 (gennaio-febbraio 2014)

Articolo pubblicato nel dicembre 2014.




La Resistenza continua…

Angiolo Gracci nacque a Livorno il primo agosto 1920, da una famiglia con radici contadine. Fu condotto presto dalla Toscana alla Sicilia a causa del mestiere del padre, ferroviere che diresse in successione le stazioni di Sciara Aliminusa e Castellammare del Golfo tra il 1926 e il 1929.

La permanenza nei centri palermitani, dove il piccolo venne inquadrato nelle strutture educative fasciste, lo colpì profondamente e lo rese poi sensibile alla questione del divario socioeconomico Nord-Sud e al disagio materiale di larga parte della popolazione meridionale. Nei suoi racconti agli studenti, durante gli ultimi decenni di vita, affiorava spesso il ricordo di esser stato l’unico ad indossare le scarpe in quella stalla riadattata che era l’aula della scuola elementare frequentata in Sicilia.

 Al termine del  liceo classico Galilei di Pisa, il giovane Gracci si spostò a Roma per frequentare l’Accademia e Scuola di applicazione della Regia Guardia di Finanza e ottenere così l’arruolamento nel Corpo il 23 ottobre 1939. Nominato sottotenente il primo settembre 1941, venne inviato in Albania nel gennaio seguente tra le truppe d’occupazione italiane, con le quali partecipò alle operazioni di guerra.

Rientrato in Italia, il 9 settembre 1943 fu assegnato al Comando della Legione di Firenze della Guardia di Finanza. Assistendo così all’invasione nazista dell’Italia, Angiolo fondò con altri studenti della sinistra del Gruppo Universitario Fascista fiorentino il Movimento giovani italiani repubblicani. Conclusa questa breve esperienza, la maggioranza degli aderenti al gruppo si schierò con la Repubblica Sociale Italiana. Gracci, preso contatto col futuro Commissario Politico della Divisione Arno Danilo Dolfi – del suo stesso quartiere – scelse invece la via della montagna.

Gracci – in alto a destra – con altri partigiani della Brigata Sinigaglia a Monte Scalari, estate 1944

Gracci – in alto a destra – con altri partigiani della Brigata Sinigaglia a Monte Scalari, estate 1944

All’inizio del giugno 1944 Angiolo, che diventava così il partigiano “Gracco”, raggiunse la Brigata Sinigaglia presso Poggio alla Croce, con l’incarico di Capo di Stato maggiore conferitogli dal Corpo volontario della libertà. Un mese più tardi, su designazione del Comando di divisone e dietro conferma dei partigiani, assunse il comando della formazione stessa, riorganizzandola dopo le gravissime perdite subite nella battaglia di Pian d’Albero del 20 giugno 1944.

Compromessa l’importanza strategica di Monte Scalari per i nazifascisti, contribuì a sottrarre all’accerchiamento e alla distruzione la Brigata raggiungendo Poggio Firenze e Fonte Santa. Dopo ulteriori combattimenti, passando alla testa delle avanguardie dell’VIIIª Armata britannica, la Sinigaglia riuscì ad entrare a Firenze il 4 agosto 1944. Soltanto grazie ad una tenace opposizione all’iniziale ordine alleato di disarmare, le formazioni partigiane garibaldine ottennero di partecipare alla liberazione cittadina. “Gracco” condusse allora il rastrellamento dei quartieri di Santo Spirito e San Frediano, che furono liberati dai franchi tiratori nazifascisti. Guidando poi una pattuglia di esplorazione sui piazzali ferroviari di San Iacopino, rimase ferito in combattimento il 13 agosto ma riprese poi il comando della Brigata fino alla smobilitazione.

Nell’aprile 1945 venne pubblicato il suo Brigata Sinigaglia, primo libro edito in Italia sulla Resistenza partigiana, a cura del Ministero dell’Italia occupata. Gracci avrebbe poi ricevuto la medaglia d’argento al valor militare nel 1954.

 Intanto, conclusa l’esperienza partigiana, Angiolo riprese servizio attivo nella Guardia di Finanza il 7 settembre 1944, al Comando della Legione di Firenze. Nell’agosto 1948 gli venne conferito per anzianità il grado di Capitano, ma la sua permanenza in Finanza si fece sempre più travagliata. Non tanto per i gravi e recidivi problemi di salute che determinarono una lunga aspettativa, quanto piuttosto per le difficoltà relazionali all’interno del Corpo.

Gracci infatti, che sin dal 1944 aveva aderito al PCI ed era stato tra i membri costituenti del Comitato provinciale dell’ANPI fiorentino, non aveva mancato di manifestare pubblicamente il suo orientamento in varie circostanze. Si procurò così diverse sanzioni e richiami per inosservanza al «criterio assoluto di apoliticità» richiesto ai membri delle forze dell’Ordine, per «scarso senso di disciplina», «tendenza alla polemica», «particolare animosità», «presunzione». È quanto riferiscono le note caratteristiche sul suo conto compilate annualmente dai superiori, che pure gli riconoscevano notevoli capacità e competenze.

Angiolo, sposatosi nel frattempo con Margherita Aiolli, fu seguito dalla famiglia negli spostamenti che gli vennero pertanto disposti tra il 1950 e il 1956, alla volta di Palermo, Bologna ed Udine. Viste le reiterate destinazioni ad incarichi amministrativi e a seguito di un ulteriore ordine di trasferimento a Bari nel dicembre 1956, Gracci scelse di far domanda di pensionamento e congedarsi dal Corpo. Idea coltivata da oltre un anno, per il sempre più problematico permanere nell’Arma e per l’intuibile preclusione riguardo a possibili avanzamenti di carriera.

Cessato il suo servizio nella Guardia di Finanza alla fine del 1957, l’anno successivo ottenne un impiego a Roma come consulente legale alla Lega nazionale delle cooperative, con i cui responsabili aveva già avviato da tempo i contatti. Poté mettere così a frutto la laurea in giurisprudenza conseguita nel 1949, impiegata poi per riorganizzare il servizio di assistenza legale alla Camera del Lavoro di Firenze e per svolgere un’intensa attività professionale di difesa dei lavoratori e dei militanti della sinistra rivoluzionaria nel corso degli anni Sessanta.

Gracci – sulla destra – accanto a Vincenzo Misefari di Reggio Calabria e Salvatore Puglisi di Spezzano Albanese durante una manifestazione a Livorno in occasione della fondazione del Pcd’I (m-l), 16 ottobre 1966.

Gracci – sulla destra – accanto a Vincenzo Misefari di Reggio Calabria e Salvatore Puglisi di Spezzano Albanese durante una manifestazione a Livorno in occasione della fondazione del Pcd’I (m-l), 16 ottobre 1966.

Si tratta di una fase di svolta nella posizione politica di “Gracco”, come continuò ad esser chiamato per tutta la vita. Nel 1966 si dimise infatti dal PCI e fu tra i fondatori del Partito comunista d’Italia (marxista-leninista), che si poneva quale alternativa al primo, reo insieme al PCUS di aver «tradito» la «vera» politica rivoluzionaria di classe. Quella politica che il nuovo organismo, grazie anche alla dedizione assoluta richiesta agli adepti, si proponeva di perseguire per realizzare la dittatura del proletariato, la sola forma di governo in grado di instaurare il socialismo.

Nell’agosto 1968 seguì l’espulsione di Gracci dall’ANPI, con l’accusa di imporre metodi di lotta e di azione politica antidemocratici e non unitari, esclusivamente in linea con il  proprio partito. Decisione che secondo Angiolo era invece motivata dalla propria battaglia «per lo sviluppo di una lotta di massa per cacciare dal paese le basi e i comandi degli imperialisti Usa».

 Lo stesso antimperialismo si rivelò poi una componente essenziale del movimento antimperialista-antifascista La Resistenza continua (RC), che nacque nel 1974 a Milano come associazione partigiana esterna ed alternativa all’ANPI e lo vide nuovamente tra i promotori, accanto ad altri ex partigiani, giovani studenti ed operai. La responsabilità dell’organizzazione fu affidata al Comitato direttivo della rivista, che “Gracco” guidò fino agli ultimi anni di vita, a riprova del suo intenso e prolungato impegno redazionale per varie testate di area marxista-leninista. Si ritrovò così a ricoprire una posizione di primo piano nel movimento, accanto ai veterani, «compagni» marxisti-leninisti ed amici Guido Campanelli e Alberto Sartori.

Resistenza, antimperialismo e meridionalismo rappresentavano per RC componenti inscindibili di un unico programma, che faceva della prima un simbolo guida. La stessa Resistenza che, animata da un avanzato progetto politico, economico e sociale, era stata «bloccata» e «tradita» dalle forze imperialiste anglo-americane, dal «capitalismo monopolistico italiano», dal Vaticano e dall’«ala revisionista-socialriformista» del movimento operaio. Non si poteva pensare all’antifascismo senza l’antimperialismo, essendo il fascismo subordinato all’imperialismo. Antimperialismo – secondo il manifesto-programma del movimento – significava anche lotta contro la soggezione di tipo coloniale e razzista di cui era vittima il Meridione da oltre un secolo. Una subordinazione aggravata dall’imperialismo statunitense ed europeo, instaurato con l’annientamento del movimento spontaneo di Resistenza del popolo meridionale nell’immediato dopoguerra.

Gracci con l’amico Matteo Visconti, altri militanti marxisti-leninisti e alcuni operai durante l’occupazione della fabbrica Berga Sud di Salerno, luglio 1974.

Gracci con l’amico Matteo Visconti, altri militanti marxisti-leninisti e alcuni operai durante l’occupazione della fabbrica Berga Sud di Salerno, luglio 1974.

In virtù di questa rivoluzione «negata», delle ingiustizie e dell’oppressione subite dalle «masse supersfruttate del Meridione», Gracci svolse un’intensa attività di mobilitazione politica e sociale nel Sud, dove erano presenti diverse cellule del Pcd’I (m-l) Linea rossa, il primo degli innumerevoli gruppi in cui si frantumò il Pcd’I (m-l) dal 1968 in avanti e del quale Angiolo rappresentava uno dei principali esponenti. Come testimoniano le stesse immagini della sezione fotografica del fondo archivistico a lui intitolato – recentemente riordinata ed inventariata dallo scrivente – non c’era praticamente anno in cui Angiolo non si spostasse dalla sua casa fiorentina verso località meridionali, di cui abitualmente ritraeva realtà marginali e disagiate. Non mancavano trasferte in Basilicata, Molise, Sardegna, Puglia e Sicilia, ma centri calabresi e campani figuravano tra le sue principali mete. In questi luoghi Gracci sviluppò non solo legami politici, ma anche rapporti amicali e affettivi che avrebbe mantenuto per tutto il corso della sua vita. Emblematiche le relazioni con i militanti marxisti-leninisti Rosario Migale di Cutro e Matteo Visconti di Salerno.

Gracci con Rosario Migale e altri «compagni» a Roma per il I Congresso nazionale di Democrazia proletaria, aprile 1978

Gracci con Rosario Migale e altri «compagni» a Roma per il I Congresso nazionale di Democrazia proletaria, aprile 1978

Oltre che come attivista di La Resistenza continua, Angiolo continuò il suo impegno meridionalista anche in veste di promotore del Movimento leghe lavoratori italiani e quale membro di Democrazia proletaria, in cui la Linea rossa confluì nel 1978. “Gracco” proseguì poi incessantemente la difesa e l’assistenza legale dei militanti, che culminarono con il maxiprocesso alle BR del 1989. Nel 1991 aderì al nuovo Movimento della Rifondazione comunista, che alla fine dello steso anno si costituì in Partito, accogliendo tra gli altri la maggioranza dei dirigenti di Democrazia proletaria.

In questi anni seguitò costante la sua attività antimperialista. Al diretto coinvolgimento in diverse iniziative e manifestazioni pubbliche contro le basi USA e NATO in Italia – come mostrano le stesse foto del suo archivio – e alla collaborazione con varie associazioni, quali la Lega per il disarmo unilaterale e la Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli, si aggiunse il sostegno alla causa di Silvia Baraldini. Nella costituzione del Comitato per il rimpatrio di Silvia Baraldini di Firenze del 1991 e del Coordinamento nazionale dei comitati per il rimpatrio di Silvia Baraldini del 1994 Gracci si rivelò ancora una volta tra i principali animatori.

Gli stessi anni Novanta, nel corso dei quali “Gracco” si prodigò anche per la diffusione dei valori della Resistenza e della Costituzione repubblicana tra i giovani, videro poi il suo ritorno nel Comitato provinciale dell’ANPI fiorentino. Il rapporto restò comunque travagliato: è del 25 giugno 2000 un provvedimento disciplinare a suo carico, adottato dai dirigenti provinciali dell’ANPI per l’intervento contro gli USA e la NATO durante la celebrazione del 56° anniversario della battaglia di Pian d’Albero presso Figline Valdarno. Tuttavia Angiolo proseguì fino alla fine la sua militanza nell’organizzazione, rimanendo sempre coerente con le proprie posizioni. Dopo una grave malattia, è venuto a mancare a Firenze il 9 marzo 2004.

Articolo pubblicato nel dicembre del 2014.




Guidare la diplomazia in tempo di guerra

Il 5 novembre del 1914, a poco più di tre mesi dalla dichiarazione di guerra dell’Austria-Ungheria alla Serbia, Sidney Sonnino (Pisa, 11 marzo 1847-Roma, 24 novembre 1922) prestava giuramento come nuovo Ministro degli Esteri nel secondo governo presieduto da Antonio Salandra. Il politico toscano, chiamato alla guida della politica estera italiana nel pieno della conflagrazione mondiale, vi sarebbe rimasto fino al giugno del 1919, divenendo pertanto il quarto ministro degli esteri dell’Italia liberale per durata di incarico, dopo Visconti Venosta, Tommaso Tittoni e Antonino di San Giuliano. In questi quattro anni e mezzo Sonnino svolse un ruolo centrale nell’entrata in guerra dell’Italia a fianco delle potenze dell‘Intesa e rappresentò nel 1919 assieme a Orlando gli interessi italiani alla Conferenza di Pace di Parigi.

Con Sonnino, Salandra, oltreché un amico personale e un antico alleato, aveva voluto chiamare alla guida della politica estera uno dei leader dell’Italia liberale di maggior esperienza che proprio con quella nomina coronava una lunga carriera pubblica iniziata giovanissimo nella diplomazia italiana quando, poco dopo la laurea conseguita a Pisa in giurisprudenza, aveva servito come volontario tra il 1867 e il 1871 presso le Legazioni italiane di Madrid, Vienna e Berlino.

Ritratto di Sidney Sonnino (gentile concessione dell'Archivio Sidney Sonnino Montespertoli)

Ritratto di Sidney Sonnino (gentile concessione dell’Archivio Sidney Sonnino Montespertoli)

Precoce studioso, secondo la migliore lezione di Pasquale Villari, della questione sociale e contadina nonché della rappresentanza parlamentare, Sonnino elaborò sin dalla gioventù un proprio pensiero politico che a un progetto di consolidamento delle istituzioni interne legava la necessità di condurre sul piano internazionale una politica estera che consentisse il raggiungimento di una completa sicurezza dei confini nazionali e al contempo permettesse il rilancio di un ruolo attivo dell’Italia nel contesto mediterraneo e del Vicino Oriente, anche tramite la ricerca di una politica di espansione coloniale considerata come mezzo utile al miglioramento delle condizioni dell’emigrazione italiana.
Convinto che molti di questi obiettivi si potessero conseguire sul piano diplomatico, Sonnino giudicò positivamente l’ingresso dell’Italia nel 1882 nella Triplice Alleanza con Austria-Ungheria e Germania, un blocco di potenze ritenuto in grado di assecondare gli interessi di espansione e sicurezza del governo di Roma, nonché fornire una soluzione pacifica al completamento dell’unificazione nazionale. In particolare, l’eventuale applicazione dell’articolo VII del trattato di alleanza, che prevedeva in caso di una espansione asburgica nei Balcani la concessione di ipotetici compensi territoriali all’Italia, poteva costituire, secondo Sonnino, lo strumento col quale ottenere pacificamente i territori irredenti del Trentino e della Venezia Giulia. Questa lettura pratico-strategica della alleanza basata più su un calcolo degli obiettivi esteri nazionali che su ragioni ideologiche (tanto che Sonnino la intese come «un connubio che non esclude il divorzio») assieme al principio di nazionalità guidarono tra Otto e Novecento le sue convinzioni sulla politica estera.

Chiamato nel novembre 1914 da Salandra al Ministero degli Esteri in seguito alla morte improvvisa di San Giuliano, Sonnino agì in continuità con la politica di quest’ultimo, sostituendo però un atteggiamento più dinamico all’incertezza e all’attendismo del San Giuliano. Anziché attendere dall’andamento della guerra il profilarsi di un vincitore per porvisi vicino, Sonnino, persuaso anche di una rapida vittoria austro-tedesca si convinse che, per evitare i pericoli di un isolamento internazionale del paese, fosse necessario rompere la neutralità dichiarata dal governo italiano il 2 agosto e scendere in guerra a fianco di Vienna verosimilmente entro la primavera del 1915, non prima però di aver concordato con quest’ultima, anche in cambio dell’intervento italiano, la natura delle compensazioni territoriali che in base all’art. VII sarebbero spettate all’Italia a seguito delle nuove conquiste balcaniche compiute dall’esercito asburgico.
Contrariamente a quanto spesso sostenuto, Sonnino rimase fino all’ultimo sostenitore della fedeltà alla Triplice e fu in realtà solo l’intransigenza del governo austroungarico nell’ignorare le precise richieste italiane di compensazione territoriale che spinsero il governo Salandra-Sonnino a troncare le trattative con Vienna e negoziare in segreto con le potenze dell’Intesa (Gran Bretagna, Francia e Russia) il Patto di Londra. L’accordo, firmato il 26 aprile 1915 e mantenuto segreto, fu un grande successo diplomatico di Sonnino perché dava soddisfazione agli obiettivi della politica estera italiana ricercati nei decenni precedenti. Oltre a garantire un equilibrio nel Mediterraneo centro-orientale e prevedere qualche allargamento delle colonie italiane, il patto stabiliva che in cambio dell’intervento l’Italia avrebbe così ottenuto, oltre al Trentino e al Sud Tirolo (con confine sul Brennero), il controllo della Venezia Giulia e dell’Istria (ad eccezione di Fiume), della Dalmazia settentrionale e della gran parte delle isole, di Valona e del suo retroterra.

Firmato segretamente l’accordo e denunciata la Triplice solo il 3 maggio, il 20 Sonnino presentò al Parlamento una raccolta di atti diplomatici che documentavano le fallite trattative tra Roma e Vienna e illustravano le ragioni della guerra (il cosiddetto Libro Verde). L’Italia dichiarò guerra all’Austria-Ungheria il 23 maggio 1915 mentre l’adesione all’Intesa fu resa pubblica solo il 30 novembre. Sonnino il 1° dicembre, in un discorso tenuto alla riapertura delle Camere, poté presentare le ragioni e gli obiettivi della guerra a fianco dell’Intesa. Il rapporto diplomatico con gli alleati si rilevò però subito complicato per via dell’atteggiamento sospettoso degli anglo-francesi che ritenevano l’Italia poco affidabile, imputandole di condurre una sorta di guerra separata con Vienna sulla base dei soli interessi nazionali (in effetti la dichiarazione di guerra alla Germania, richiesta all’Italia dal Patto di Londra, sarebbe giunta solo il 28 agosto 1916). Fu soprattutto Sonnino che con lento lavoro diplomatico poté ricucire in parte i rapporti, assicurare il rispetto dei patti da parte dell’Italia e divenire l‘uomo forte dell’Intesa a Roma: egli «è il solo che ha l’autorità all’interno ed inspira vera fiducia all’estero», scriveva nel 1916 sul suo diario Guglielmo Imperiali ambasciatore italiano a Londra. Tuttavia, l’andamento complessivo delle operazioni belliche sfuggito oramai a ogni previsione, il successivo intervento statunitense a fianco dell’Intesa nell’aprile del 1917 e lo scoppio della rivoluzione bolscevica in Russia, mutarono non solo la situazione politica interna ma soprattutto gli equilibri politici e diplomatici. La pubblicazione inattesa da parte della stampa sovietica dei contenuti del Patto di Londra costrinse Sonnino nel dicembre 1917 a difendere in parlamento le ragioni del segreto diplomatico e a respingere le richieste di dimissioni presentate dall’opposizione. Sul piano internazionale, negli ultimi anni del conflitto Sonnino continuò a lavorare soprattutto per creare il terreno favorevole affinché al futuro tavolo della pace potessero essere mantenuti gli accordi sanciti nel Patto di Londra.

Sonnino alla Camera nella seduta del 18 dicembre 1916 spiega le ragioni dell'inopportunità di una pace separata con Vienna (La Domenica del Corriere)

Sonnino alla Camera nella seduta del 18 dicembre 1916 spiega le ragioni dell’inopportunità di una pace separata con Vienna (La Domenica del Corriere)

Il suo rifiuto, tra la fine del 1916 e gli inizi del 1917, di accettare le offerte di parte tedesca per fa siglare all’Italia una pace separata con Vienna era motivato proprio dal timore che con questa sarebbero andate in frantumi le acquisizioni promesse all’Italia col Patto. Tuttavia, al pari di molti altri leader europei, Sonnino non colse probabilmente fino in fondo che l’intervento statunitense in Europa e soprattutto la politica di pacificazione del Presidente Wilson avrebbero imposto una netta presa di distanza dalle logiche di potenza e dalle dinamiche della diplomazia segreta che in passato avevano retto le relazioni tra gli stati europei e che alcuni ritenevano di poter riproporre ancora dopo il 1918. Le future condizioni di pace indicate da Wilson nei celebri 14 punti smentivano queste aspettative e in particolare respingevano la legittimità delle rivendicazioni italiane riconosciute nel Patto di Londra, bollandole come imperialiste. Sonnino stesso, ricercando sempre con gli alleati un’applicazione integrale dei termini del Patto di Londra si dimostrò forse troppo intransigente, trascurando l’eventualità di adeguare la sua posizione ai nuovi equilibri internazionali mutati a seguito dell’ingresso in guerra degli Stati Uniti.

 Queste premesse, assieme all’allineamento franco-britannico sulle posizioni statunitensi, al termine della guerra avrebbero fortemente condizionato i lavori della Conferenza di Pace tenutasi a Parigi tra il 18 gennaio 1919 e il 21 gennaio 1920. La classe dirigente liberale italiana, nonostante avesse incassato il successo politico di Vittorio Veneto e della conseguente conquista italiana dei territori irredenti, vi si presentò delegittimata da una crisi di rappresentanza parlamentare e incalzata dall’opposizione socialista e cattolica. Sonnino, la cui presa sulla politica estera italiana era ora subordinata al protagonismo del nuovo presidente del consiglio Vittorio Emanuele Orlando, rappresentò meglio di altri il simbolo di questa fragilità nazionale. Ormai settantunenne e dopo circa quattro anni «di estrema tensione nervosa, senza un giorno di riposo», come ebbe a scrivere lui stesso, Sonnino non riuscì a far valere le sue doti diplomatiche né a sfruttare la sua profonda conoscenza delle lingue per avvantaggiare la posizione italiana: alla conferenza «Sonnino tace in tutte le lingue che sa ed Orlando parla in tutte le lingue che non sa» recitava un motto molto diffuso al tempo. Sonnino, dovette peraltro allinearsi alla impostazione diplomatica data da Orlando che anziché chiedere la semplice applicazione del Patto di Londra, come da lui suggerito, puntava anche a ottenere l’annessione di Fiume. L’opposizione statunitense alle rivendicazioni dell’Italia sulla Dalmazia (dopo che le erano stati invece riconosciuti i diritti sul Trentino e l’Istria occidentale) e la proposta di Wilson di fare di Fiume una città libera impedirono di raggiungere in sede di trattative un accordo e furono alla base nell’aprile 1919 dell’abbandono dalla conferenza della delegazione italiana e poi delle dimissioni del governo Orlando-Sonnino il 23 giugno successivo.

Lo statista toscano, da quel momento e negli anni seguenti fu spesso additato come il responsabile del fallimento della diplomazia italiana e della vittoria mutilata. Il giornale della federazione socialista fiorentina, “La Difesa”, nell’agosto 1919 lo chiamò ad esempio «l’inetto bocciato di Parigi», «unico e vero responsabile della rovina d’Italia per averla coinvolta e trascinata, contro volontà, nell’inumana carneficina». Per Giovanni Amendola, il metodo diplomatico di Sonnino tenuto a Parigi fu causa «di tutte le cecità e di tutte le rovine», mentre più tardi Togliatti vi avrebbe rintracciato «il vero responsabile del fallimento della diplomazia italiana». In realtà, se è vero che a Parigi la stella di Sonnino apparve assai opaca, va però detto che la macchina diplomatica da lui diretta nel corso della guerra si era rivelata efficiente e la sua politica estera coerente con il raggiungimento degli interessi nazionali.

Se per alcuni dei suoi detrattori la sua visione degli interessi italiani nell’Adriatico fu ritenuta troppo moderata o accondiscendente alle rivendicazioni degli altri Stati balcanici questo lo si dovette in parte al fatto che la sua politica estera non fu mai di tipo imperialista ma tenne anzi conto delle altre nazionalità oltre che della propria. La decisione pur dolorosa assunta all’inizio del 1915 assieme a Salandra di non includere tra i territori richiesti dall’Italia nel Patto di Londra la città di Fiume, fu presa anche perché si ritenne giusto che in caso di dissoluzione dell’Impero asburgico l’Ungheria o, in caso di indipendenza da questa, la Croazia potessero avere uno sbocco sul mare per le esigenze commerciali delle loro popolazioni. Più in generale, la defaillance della politica estera italiana al termine dei negoziati di Parigi, anziché addossarsi solo a Sonnino dipese più che altro dalla profondità della crisi interna alla classe dirigente liberale, dalle contraddizioni di un paese affetto da evidente arretratezza economica e sociale, nonché in sede diplomatica dall’intransigenza statunitense e dall’atteggiamento ostile di Francia e Gran Bretagna, oltreché dall’effettivo difetto negoziale della delegazione italiana. Il giudizio severo che toccò allo statista toscano fu perciò in buona parte esagerato. Guglielmo Imperiali, che pure dalla politica estera del toscano aveva spesso dissentito, scrisse sul suo diario dopo l’abbandono di Sonnino della conferenza di Pace: «non posso però non inchinarmi dinanzi all’onestà, rettitudine ed altissimo sentimento patriottico dell’uomo, di cui gli sforzi e l’importanza dei risultati comunque già ottenuti meritavano miglior sorte».

Articolo pubblicato nel novembre 2014.




La “città satellite della grande città madre”

Il 6 novembre 1954 la città di Firenze si ingrandiva con la creazione di un nuova zona residenziale situata a sud-ovest del centro storico, lungo il fiume Arno, di fronte al Parco delle Cascine. Quel 6 novembre per inaugurare il villaggio denominato Isolotto fu organizzata una grande cerimonia ufficiale.

A presiederla fu il cattolico Giorgio La Pira: esponente di spicco dell’ala dossettiana della democrazia cristiana, eletto sindaco di Firenze nel 1951. Parteciparono alla cerimonia coloro che si erano impegnati nella progettazione e creazione della nuova area abitativa, i professionisti, architetti e ingegneri,  gli assessori comunali e anche il rettore dell’Università insieme al prefetto. Furono invitati alcuni esponenti politici e ministri in carica come dimostrano le lettere che La Pira rivolse a Fanfani, segretario della democrazia cristiana, a Gronchi, presidente della Camera dei deputati, a Vigorelli, Ministro del Lavoro e della Previdenza sociale, a Medici, Ministro dell’Agricoltura.

Nazione Isolotto 2La cerimonia ebbe luogo nella piazza centrale dell’Isolotto, iniziò alle tre del pomeriggio e proseguì con i discorsi ufficiali tenuti dal cardinale Elia Dalla Costa, dal sindaco e dall’ingegnere Filiberto Guala.

I veri protagonisti di quella cerimonia furono senz’altro i nuovi abitanti del quartiere vestiti con l’abito delle grandi occasioni. Dopo aver ascoltato gli interventi suddetti, accompagnati dalla banda musicale dei vigili urbani, seguirono con trepidazione il responsabile di condominio, ‘colui che aveva in mano il sacchetto pieno di chiavi’. Le cronache locali raccontano che queste persone, prese dall’emozione di ricevere finalmente una nuova casa dove vivere degnamente, aprirono le case “con le mani che tremavano” .

La realizzazione dell’Isolotto, allo stesso modo di altri quartieri residenziali edificati in varie città d’Italia dopo la seconda guerra mondiale, fu possibile grazie alla legge n. 43 approvata il 28 febbraio 1949, il titolo della legge recitava ‘Progetto per incrementare l’occupazione operaia, agevolando la costruzione di case per lavoratori’. La legge n. 43/49, che creò anche un ente apposito l’Ina-Casa per vigilare sulla costruzione degli appartamenti da destinare in locazione o a riscatto, fu denominata dall’opinione pubblica ‘legge o piano Fanfani’ proprio perché il Ministro del Lavoro, Amintore Fanfani, ne fu uno dei massimi promotori insieme al suo sottosegretario La Pira durante il V governo De Gasperi.

Il Piano-Fanfani fu la principale testimonianza dell’impegno dei politici democristiani verso una ‘modernizzazione’ del Paese “accompagnata da elementi solidaristici volti a mitigare l’impatto disgregante” dell’economia neocapitalista. Secondo La Pira esso “costituiva un esempio del tipo di azione che il partito cattolico era chiamato a svolgere per la costruzione di una società solidale”.

Il Piano dell’Ina-Casa del 1950 per l’Isolotto prevedeva: una superficie di circa 500.000 mq, 9.000 abitanti, edifici dai due ai quattro piani, plurifamiliari o unifamiliari e inoltre “(…) due scuole elementari, due scuole per l’infanzia, una casa torre per uffici e servizi, una chiesa ed opere parrocchiali; un mercato con negozi; un cinema-teatro; edifici culturali e ricreativi; installazioni per sport leggero. Nel 1954 vennero consegnati 774 alloggi, 1005 risultarono pronti nel 1955, il completamento del quartiere si sarebbe avuto solo nel 1963.”

Il 6 novembre 1954 alla cerimonia di inaugurazione dell’Isolotto, il sindaco pronunciò un discorso ispirato al principio cristiano della comunità, inteso come “promozione di un ideale sociale fondato su lavoro, famiglia e proprietà.”. Egli definì il nuovo quartiere come una “organica, armoniosa, vasta, umana, città satellite di Firenze, (…) la prima, si può dire, autentica città satellite della grande città madre”; dotata di misura, volto e bellezza tali da renderla “figlia in tutto proporzionata alla città madre”. In questa nuova città, realizzazione terrena di una ideale città divina, i nuovi abitanti avrebbero sviluppato a pieno le loro vite in un clima di solidarietà, fraternità e amicizia.

L'Unità Isolotto senza servizi 23_1Ma se questi furono gli intenti dei costruttori in realtà il nuovo centro abitativo non si presentava nel 1954 come un luogo accogliente dove poter vivere in armonia e serenamente. Sorse privo di infrastrutture e servizi  necessari: mancavano collegamenti con il centro storico, non era ancora pronta una linea Ataf che collegasse la zona residenziale col centro storico. E l’unico modo per raggiungere il parco delle Cascine era attraversare una passerella in legno a pagamento o farsi traghettare fino all’altra sponda dell’Arno. La passerella sull’Arno in cemento, già prevista nel progetto del 1951, sarà realizzata solo nel 1962. Le strade non erano state pavimentate, mancava l’illuminazione e le due piazze principali erano da completare. Non c’erano negozi, né una scuola per i numerosi bambini che per un primo periodo dovettero accontentarsi di frequentare degli edifici di legno fatiscenti, le cosiddette “baracche verdi” prive di acqua e servizi igienici. Alcuni progetti come quelli per la realizzazione di un cinema-teatro o la costruzione di edifici ricreativi e culturali non saranno mai realizzati.

Isolotto festa alberi 1954_NOVMancava anche il verde tra le nuove case, nonostante l’architetto Tiezzi le avesse progettate prendendo a modello le città giardino inglesi. Fu così che l’amministrazione comunale, su proposta di alcuni cittadini, organizzò il 20 novembre all’Isolotto la festa degli alberi. Alla presenza dall’assessore alla pubblica istruzione e alle belle arti il Professor Bargellini, i bambini del nuovo quartiere vennero chiamati a piantare il loro albero vicino alla porta di casa; alberi di cui sarebbero diventati simbolicamente i custodi.

Chi erano i primi abitanti della nuova città satellite? Da un’indagine condotta dalla ricercatrice Marina Tartara, tra il giugno 1958 e il febbraio dell’anno successivo, apprendiamo che la maggior parte era originaria della Toscana e aveva alle spalle un’esperienza di inurbamento dai centri minori iniziata già negli anni Trenta e proseguita all’indomani del 1945. Il 70% dei capifamiglia proveniva dalla Toscana ma solo il 22% era nato a Firenze, gli altri nei comuni limitrofi alla città come Fiesole, Sesto fiorentino, Scandicci, Bagno a Ripoli e Galluzzo. Oltre l’80% dei capifamiglia toscani viveva a Firenze già prima della seconda guerra mondiale.

Solo un terzo delle famiglie proveniva da altre regioni d’Italia: centro-nord, sud e Isole, in proporzione quasi uguali. Una minoranza veniva dall’estero: 105 famiglie di profughi da quei territori perduti nel corso della seconda guerra mondiale, soprattutto dall’Istria, e rimpatriate dalla Grecia, dall’Albania e dall’Africa orientale.

Firenze nel dopoguerra aveva visto la sua popolazione aumentare sensibilmente e molti di questi futuri abitanti dell’Isolotto, che provenivano dalle vicine campagne o dai quartieri fiorentini di Santa Croce, San Frediano, Santo Spirito, si erano trovati a vivere in una condizione di forte disagio abitativo: o in coabitazione, o sfrattati o sfollati.

Archivio Locchi 1954_2Una popolazione molto giovane, composta per la maggior parte da operai attivi nelle fabbriche della città, Galileo, Pignone, Stice, Manifattura Tabacchi, ma vi era anche un nucleo consistente di dipendenti delle Ferrovie, Vigili del Fuoco, Finanza, Forze Armate e impiegati delle amministrazioni pubbliche. Le donne erano per lo più operaie, in particolare dipendenti della Manifattura Tabacchi, oppure lavoratrici domestiche a domicilio, poche di loro erano impiegate.

La ricercatrice Tartara nella sua analisi si era soffermata a lungo sulle differenze tra coloro che avevano ricevuto la casa a riscatto e coloro che l’avevano avuta in locazione. Alla fine faceva confluire le differenze in un’unica distinzione: “gli assegnatari a riscatto godono di migliori condizioni economiche e sono professionalmente e culturalmente ad un livello più elevato”.

Al di là delle considerazioni della ricercatrice, questa umanità così eterogenea per cultura, stili di vita, appartenenza sociale, lingua, idee politiche, credo religioso, si trovò a vivere insieme nello stesso luogo.

Il Piano Ina-Casa prevedeva oltre alla costruzione di case anche la realizzazione di spazi sociali per favorire la nascita di una comunità. Il Centro sociale dell’Ina-Casa aveva il compito di “guidare dall’alto la costruzione di un’identità comunitaria”, favoriva l’inserimento delle famiglie attraverso l’aiuto di assistenti sociali. Dato che il Piano Ina-casa delegava l’amministrazione degli immobili (spazi abitativi e giardini) direttamente ai condomini, i nuovi abitanti furono chiamati a confrontarsi per arrivare a stabilire delle regole condivise. Negli spazi del Centro sociale dell’Ina-Casa gli assegnatari si riunivano per discutere dei vari problemi del nuovo quartiere e qui organizzarono alcuni servizi quali:  la biblioteca, l’ asilo,  il teatro-palestra.

Nel 1955 per volontà della Chiesa fu aperto un altro centro-sociale, guidato da Enzo Mazzi il parroco del villaggio Isolotto; qui si offriva un’assistenza di tipo morale e  un sostegno concreto fatto di aiuti monetari e materiali come la distribuzione dei pacchi forniti dalla Opera Pontificia di Assistenza. Inoltre fu attivo fin dal 1956, in una rimessa lungo l’Arno, un circolo con una sala adibita alle riunioni della sezione del PCI e uno spazio ricreativo con la televisione e il bar.

I nuovi abitanti, nonostante le diversità, si trovarono ben presto uniti e solidali nelle lotte che sorsero spontanee per rivendicare presso l’amministrazione comunale ciò che mancava nel quartiere. La prime lotte interessarono vari ambiti come la casa e i servizi. La prima battaglia importante fu quella per la scuola nel 1959. La sezione socialista dell’Isolotto, guidata da Silvano Miniati, allora componente della segreteria provinciale della FIOM-CGIL, promosse un’assemblea pubblica che scelse di costituire un comitato di lotta e proclamare una giornata di astensione dalla scuola da parte degli alunni. Tale protesta, che vide anche l’adesione dei cattolici con Enzo Mazzi, fu un successo: nessun bambino si presentò in classe e una delegazione venne ricevuta a Palazzo Vecchio dall’assessore Nicola Pistelli. Poco tempo dopo iniziarono alla Montagnola i lavori di costruzione di un edificio scolastico in muratura che venne ultimato soltanto nel 1963.

Questo solidarietà degli abitanti nel conflitto sociale, superando le contrapposizioni ideologiche tipiche dell’epoca, portò il quartiere ad essere negli anni successivi uno dei centri di dissenso più attivi in Italia: ne sono un esempio sia la mobilitazione di comunisti e cattolici dell’Isolotto in sostegno agli operai delle Officine Galileo minacciati di licenziamento nel 1959, sia la vicenda della comunità cristiana guidata da Enzo Mazzi che si trovò in profondo disaccordo con la chiesa ufficiale nel 1968.

Articolo pubblicato nel novembre 2014.




Il treno per Vallombrosa

La stazione di Sant’Ellero, in un edificio di uno stile che, per la nostra zona, risulta così originalmente alpino, fu costruita nel 1893, lungo il percorso verso Roma, come interscambio della linea per Vallombrosa. Adesso questa linea non esiste più; è stata chiusa nel 1924 e smantellata definitivamente nel 1937. Oggi ne sono rimaste pochissime tracce. Eppure quella ferrovia restò in esercizio per oltre trent’anni alimentando una realtà turistica di grande importanza per il periodo.

Per la medicina ottocentesca sembrava non esistesse malattia che un cambiamento d’aria non potesse guarire o lenire. Così, soprattutto se i pazienti erano facoltosi, un soggiorno in una località di villeggiatura poteva essere il rimedio per ogni male, dalla semplice spossatezza a malattie ben più gravi. Si iniziò con le località termali, poi marinare, infine acquistò credito anche la villeggiatura in montagna. Nacquero così le “stazioni climatiche” o “estive” come si diceva allora. E alberghi e strutture apposite sorsero ovunque sulle montagne svizzere e austriache.

Doveva essere per prendersi un periodo di riposo che Giuseppe Telfener decise di soggiornare nell’estate del 1890 a Vallombrosa. La località gli era stata consigliata come “amena, saluberrima e fresca”. Inoltre era perfetta perché gli consentiva di non allontanarsi troppo dai suoi impegni di lavoro a Roma.
Telfener era infatti un imprenditore, aveva un gran senso degli affari e nella sua vita ne aveva dato ampia prova. Era nato a Foggia nel 1843 da una famiglia abbiente. Emigrato in Argentina nei primi anni ’70  fonda un’impresa di costruzioni ferroviarie e nel 1874 riesce a vincere l’appalto per la costruzione di quella che diventerà la più lunga linea ferroviaria dell’America meridionale, La Córdoba-Tucumán. L’Argentina attraversa un periodo di profonda crisi finanziaria e il governo si vede costretto a rifiutare i finanziamenti promessi per le opere pubbliche. Eppure Telfener manda avanti lo stesso la sua opera. Contatta numerose banche e riesce ad ottenere i finanziamenti per concludere i lavori nel 1876. Per questa linea ferroviaria, fonte di lustro per tutta l’ingegneria italiana, Telfener riceve il titolo di conte dal re d’Italia Vittorio Emanuele II. Ma non finisce qui. Dopo aver sposato la figlia di un ricco finanziere americano, Telfener si lancia nella sua seconda impresa ferroviaria. È il 1881 ed inizia la costruzione di una linea di 560 km fra Richmond e Brownsville nel Texas. La costruzione che durerà 5 anni ha anche un tratto bizzarro. Non sappiamo bene perché ma Telfener oltre alla manodopera locale fa arrivare 1200 operai dall’Italia. I giornali locali ribattezzano la linea ferroviaria Macaroni line.

Quando Telfener soggiorna a Vallombrosa nel 1890 è rientrato da poco in Italia, precisamente a Roma. Ha passato gli ultimi tempi ad occuparsi delle sue proprietà e di altre attività finanziarie e forse, possiamo solo immaginare, a congetturare su quale potesse essere la sua prossima impresa. Vallombrosa folgora Telfener. Rimane colpito dalle “ignorate bellezze del luogo […] era un vero peccato anzi delitto non utilizzare nella più larga e più utile misura quella inesauribile miniera di ricchezze della provvida natura”. Quando Telfener scriveva queste parole Vallombrosa infatti aveva iniziato a rivevere visitatori solo negli ultimi anni. Erano stati costruiti due piccoli alberghi ed era stata aperta una strada rotabile fino a Tosi che permetteva di raggiungere in carrozza Firenze in 4 ore e mezzo. Ma Vallombrosa restava ancora una meta ricercata con pochi turisti a disturbare la quiete secolare della famosa abbazia e del più recente Regio Istituto Forestale. Telfener si fa venire in mente un’idea: costruire una ferrovia per raggiungere Vallombrosa e costruirvi un grande albergo adatto ad ospitare un flusso di turisti come quello delle stazioni climatiche alpine.
Ma questa volta non è come in passato: devono essere reperiti tutti i finanziamenti, e va trovato l’avallo governativo per il progetto. Non è semplice ma Telfener ci riesce, illustra il suo progetto al ministro dell’agricoltura Bruno Chimirri e trova in lui un convinto sostenitore. Arriva la promessa di finanziamenti: dal comune di Firenze, da quello di Reggello e poi dal Governo. Telfener si dà da fare, illustra i benefici economici per la zona e per l’Italia, acquista dei terreni e vi fa edificare chalet importati dalla Norvegia. Presenta un progetto che prevede una nuova stazione di interscambio in località S.Ellero sulla linea Firenze-Roma e una stazione di arrivo in località Saltino per non disturbare troppo la quiete di Vallombrosa. Davanti alla stazione del Saltino ci sarà anche un nuovo moderno albergo dotato di 100 camere, l’Hotel Stazione, oggi Grand Hotel Vallombrosa. Il progetto viene approvato definitivamente a livello governativo il 21 maggio 1892. Può iniziare la costruzione.

I lavori vengono completati nel tempo record di quattro mesi, a fine settembre 1892. La linea ha una lunghezza di 8 km e in 57 minuti porta i passeggeri al Saltino coprendo un dislivello di 854 metri. Ci sono due fermate intermedie lungo il tragitto: Donnini e Filiberti e oltre alla salita dei passeggeri permettono il rifornimento di acqua e carbone. Non è ancora pronta la stazione passeggeri a S.Ellero. Verrà costruita l’anno successivo. Al viaggio inaugurale la stampa rimane colpita dalle locomotive a vapore dalla forma inclinata che spingono le carrozze passeggeri. Ancora di più impressionavano le pendenze, fino al 27%, che si riuscivano a superare grazie alla ferrovia a cremagliera. All’hotel viene offerto un grandioso pranzo di benvenuto a cui vengono invitate le autorità da tutta Italia. Parte una grande campagna pubblicitaria che parla di Vallombrosa come della “Svizzera italiana [a] 1000 metri sul mare, [con] secolari foreste di abeti, clima balsamico [e] splendido panorama”. La risposta di pubblico è entusiasta. L’albergo stenta a soddisfare la richiesta turistica. Negli anni successivi Vallombrosa avrà ospiti illustri fra i quali Milton che a Vallombrosa dedicò alcuni versi del suo Paradise Lost, oppure Gabriele D’Annunzio che nel 1898 descriveva il paesaggio ammirandolo da un balcone panoramico al Saltino: “Tutta la valle ondulata nella sua corona di monti cerulei ha un’apparenza magica, ha il carattere d’una visione mistica. Un vapore tenue vi si diffonde e le ombre delle nubi vi divengono indicibilmente molli. Le case bianche, le città lontane, le strade tortuose formano una specie di sogno luminoso. Il ciglio del poggio più vicino è reale, esistente, nettamente disegnato; ma tutto il resto, a contrasto, è irreale, inesistente, magico”.

I problemi però sono dietro l’angolo. La costruzione della ferrovia ha avuto costi molto superiori al previsto. La società fondata da Telfener è costretta a ricorrere a continui prestiti e si indebita fortemente con le banche. E per quanto l’afflusso turistico sia molto buono è limitato ai soli mesi estivi. I debiti rischiano di strozzare la società e si fa fatica a pagare gli stipendi. Ci sono più agitazioni e scioperi fra il personale. In questo periodo così difficile Telfener viene meno nel 1897. La società viene rilevata da Francesco Benedetto Rognetta. La situazione sembra inizi a migliorare e il passivo finanziario a dileguarsi. Ma è in agguato un nuovo colpo per le finanze e l’immagine della società ferroviaria: il Grand Hotel Vallombrosa viene quasi completamente distrutto da un incendio nel 1902. Comunque grazie ai rimborsi delle assicurazioni l’albergo viene velocemente ricostruito. Gli anni della Belle epòque sono i più floridi e la società ritorna in attivo fino a quando nel 1914 non esplode la prima guerra mondiale e nel 1915 l’Italia scende in campo accanto alle truppe dell’Intesa.

Con la Grande Guerra il flusso di turisti è destinato a calare vertiginosamente e il prezzo del carbone a raggiungere vette proibitive. Si prova con la lignite estratta a S. Barbara, ma non ha la stessa resa e inoltre la combustione provoca continue scintille che rischiano di raggiungere le carrozze passeggeri. Le corse del treno per Vallombrosa vengono fermate e potranno riprendere solo nel 1919.
Ma questo punto quello che non avevano potuto la sfortuna prima e gli eventi bellici poi riuscirà all’evoluzione dei costumi, della società e soprattutto della tecnologia. La neocostituita SITA, Società Italiana Trasporti Automobilistici già prima della guerra aveva inaugurato dei trasporti di prova per Vallombrosa con partenza da Firenze e più tappe intermedie. Il servizio viene ora potenziato e si dimostra velocemente più rapido e più economico di quello ferroviario. La società ferroviaria tenta tutti i mezzi per sopravvivere, compreso un servizio di pullman alternativo a quello della SITA. Ma tutto invano. L’unica speranza potrebbe venire dall’elettrificazione della linea, ma non ci sono le disponibilità finanziarie per farlo. Le corse del treno vennero definitivamente fermate nel 1924. La linea venne smantellata nel 1937 e il ferro dei binari riciclato da una società milanese.

Ad oggi rimane pochissimo: la stazione di Sant’Ellero con i suoi tetti spioventi e le panchine in ghisa con inciso R.A, Rete Adriatica, la stazione di Filiberti che adesso è un rudere in stato di completo abbandono, un sentiero CAI lungo il tratto dove erano posati i binari, la stazione di Saltino adesso abitazione privata denominata Villa Rognetta e il vecchio Grand Hotel Vallombrosa, ancora oggi attivo durante la stagione estiva.

Articolo pubblicato nel novembre 2014.