L’VIII Armata britannica nel Chianti

Per l’VIII Armata di Sua Britannica Maestà, la traversata del Chianti venne subito dopo il ciclo di combattimento culminato con l’ingresso tra le rovine di Arezzo il 16 luglio 1944, e subito prima dell’altro ciclo, che portò alla liberazione di Firenze, iniziatosi il 13 agosto.

Nei cimiteri militari britannici di Arezzo e di Firenze sono sepolti – rispettivamente – 1.266 e 1.632 caduti: totale quasi 3.000 cadaveri di ragazzi biondicci di capelli e con la pelle chiara degli Inglesi e dei Neozelandesi, oppure con la pelle color oliva scuro e gli occhi nerissimi degli Indù e a volte anche con il barbone nero e il turbante dei Sikh. Si calcolava che i feriti fossero, in genere, tre volte più dei morti. In paragone, quel mesetto che durò l’avanzata da Arezzo a Firenze attraverso il Chianti fu come un respiro, relativamente ai giorni di bufera che l’avevano preceduto e l’avrebbero seguito. Anche se fu un respiro pagato con qualcosa come 10.000 “casualties”: il termine tecnico inglese per indicare il complesso dei morti accertati, degli scomparsi e dei feriti.

Neanche l’avanzata nel Chianti, però, fu una piacevole escursione. A parte qualche sparatoria nei boschi ogni tanto con le retroguardie nemiche, c’era l’incubo delle mine, che i tedeschi avevano seminato dappertutto: magari dietro l’uscio di una casa perché chi vi entrava saltasse in aria oppure, con lugubre umorismo teutonico, sotto un cadavere perché chi lo voleva seppellire, lo andasse a raggiungere nell’altro mondo. E ogni tanto le belle sventole delle granate, perché un osservatore nascosto chissà diavolo dove, aveva scorto col cannocchiale la polvere sollevata da una nostra colonna di automezzi.

Un’estate toscana è sempre bruciata dal sole e molto calda. Ma quella del 1944 fu ancora più rovente del solito: per quei poveri ragazzi biondicci e con la pelle chiara, in battle-dress khaki e con l’elmetto a bacinella degli inglesi, doveva essere un supplizio farsi arrostire da quel sole feroce.

Chi scrive era allora uno scalcinato 2nd Leutenent I.F. (sottotenente delle Forze Italiane) e gironzolava in jeep sul fronte, col suo diretto superiore: un capitano inglese di cittadinanza, ma ebreo egiziano di stirpe, e quindi scaltro come solo un ebreo levantino può esserlo. L’uomo giusto al posto giusto, insomma, visto che lui ed io appartenevamo a un’unità di Intelligence Service, camuffata col nome fasullo di Psychological Warfare Branch (forse per buttare un po’ di polvere negli occhi ai “servizi” dei cugini americani?). L’ordine per noi era di tallonare, con la nostra jeep, la prima avanguardia di carri armati per il caso che ci fosse da scoprire “a caldo” qualcosa di interessante abbandonato dai nemici nella fretta di ritirarsi. I cingoli dei carri armati sollevavano veri “geyser” di polverone e lo gettavano sulla faccia, ridotta a un mascherone di sudore e sudiciume. E quelle sventole maledette delle granate arrivavano sempre più fitte e vicine, a mano a mano che si andava avanti. Infine, come Dio volle, arrivammo a una cittadina, che assomigliava a Pompei, tanto era ridotta in rovine dai bombardamenti aerei e di artiglieria e tanto era spopolata di abitanti: San Casciano in Val di Pesa.

Acquattata dentro le rovine di un ristorante, che ancora oggi esiste, c’era una compagnia di neozelandesi, che aspettava buio per scendere a dare un assalto verso il Ponte dei Falciani. Il relativo respiro che avevamo avuto durante la traversata del Chianti era finito. Eravamo daccapo in ballo. E bisognava ballarlo, sperando nel buon Dio perché ci facesse arrivare alla fine della danza senza buchi nella pelle.

L’articolo, scritto nel 2005 dal prof. Giorgio Speni per la rivista “inChianti” n. 2 di quell’anno, è stato gentilmente concesso da Gabriella Congedo.

Articolo pubblicato nel giugno del 2015.




All’alba della Costituzione italiana

Il 2 giugno 1946, all’indomani del ventennio fascista ed a poco più di un anno dalla Liberazione e dalla conclusione del conflitto sul nostro suolo, il popolo italiano fu chiamato a scegliere tramite referendum tra la monarchia e la repubblica e contemporaneamente ad eleggere i deputati all’Assemblea Costituente.

Le cronache dell’epoca raccontano che gli italiani sfidando la calura di una domenica di fine primavera – inizio estate, in modo composto, disciplinato e tradendo emozione attendono pazientemente all’esterno dei seggi il loro turno.

L’affluenza alle urne sarà vicina al 90% e ciò testimonia la grande voglia di partecipazione e di esprimere il proprio voto in modo libero.

Il referendum fu favorevole all’istituto repubblicano che conseguì il 54% dei consensi contro il 46% raggiunto dalla monarchia. A sua volta le consultazioni per l’Assemblea Costituente si caratterizzarono per il successo dei cosiddetti “partiti di massa” (DC, PCI, PSIUP) che ottennero ben 426 seggi su 556 a disposizione, cioè i ¾ del totale.

Tra coloro che furono eletti in Assemblea ci furono anche Calogero Di Gloria, Palmiro Foresi, Abdon Maltagliati e Attilio Piccioni, tutti candidati nella circoscrizione elettorale Firenze – Pistoia la quale annoverò anche Sandro Pertini e Teresa Mattei.

Ma chi erano i costituenti eletti. Di che cosa si occuparono in Assemblea?

Di GloriaCalogero Di Gloria nasce a La Spezia nel 1917, uomo di raffinata cultura, professore di storia e materie letterarie nei principali istituti cittadini, autore di poesie e padre fondatore della “Brigata del Leoncino”, associazione culturale cittadina organizzatrice di eventi, manifestazioni, momenti di approfondimento su tutte le forme dell’arte e delle scienze. Con le elezioni del 2 giugno 1946 sarà eletto nelle liste del PSIUP nella circoscrizione elettorale Firenze – Pistoia

In sede assembleare intervenne in materia di rapporti civili, sull’ordinamento di Regioni, Province e Comuni ed infine sull’architettura istituzionale del futuro Stato repubblicano.

Rispetto all’ordinamento degli enti locali insisteva sulla necessità di rafforzare le province attraverso l’assegnazione di maggiori risorse economico – finanziarie ed espandendo i loro poteri di intervento, solo in questo modo avrebbero potuto rispondere efficacemente ai bisogni dei rispettivi territori.  In relazione all’architettura istituzionale evidenziava l’opportunità della creazione di un sistema bicamerale e la necessità di dare luogo ad un Senato elettivo, inoltre si dichiarava a favore dell’elezione diretta del Presidente della Repubblica mentre l’esecutivo avrebbe dovuto distinguersi per efficacia, efficienza e la capacità di rispondere agli interessi del Paese. Il 10 agosto 1997 terminerà di vivere.

Pistoia 3Palmiro Foresi nasce a Livorno nel 1900 da padre di simpatie repubblicane mentre la madre morirà prima che lo stesso raggiungesse i due anni di vita. Si dedica agli studi liceali e universitari, conseguendo la laurea in fisica e giurisprudenza, insegnando matematica presso l’istituto privato “Giuseppe Guerrieri” con sede nella città labronica, assumendo successivamente l’incarico di assistente di diritto ecclesiastico presso l’università di Pisa.

In politica è ricordato tra l’altro per essere stato uno dei fondatori del PPI Livorno, mentre nell’ottobre 1944 è eletto segretario provinciale della DC pistoiese.  L’incarico di maggior prestigio sarà l’elezione alla Costituente con le consultazioni del 2 giugno 1946 con quasi 7000 preferenze. Nella medesima fece parte della Commissione per l’esame dei disegni di legge che vide la partecipazione di autorevoli personalità quali Piero Calamandrei e Nilde Jotti. Tra i suoi interventi e contributi si ricorda in particolare quello relativo alla stesura dell’articolo 45 che recita così: «La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. La legge ne promuove e favorisce l’incremento con i mezzi più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità. La legge provvede alla tutela e allo sviluppo dell’artigianato».  Con esso si intendeva disciplinare l’impresa cooperativa e l’impresa artigiana cercando di tutelare la cooperazione con finalità di mutualità.

Foresi sarà poi rieletto anche nelle prime due legislature del Parlamento repubblicano e svolgerà anche un ruolo importante relativamente a vicende locali quali quella che vide contrapposte la Lazzi e la SACA, aziende di trasporto pubblico della provincia di Pistoia, inoltre sarà determinante per la risoluzione del contrasto tra imprenditori agricoli e lavoratori delle aziende ortovivaistiche e che si concluse con la firma del “Lodo Foresi” nel dicembre 1954. In seguito sarà Presidente dell’Ente Nazionale Previdenza ed Assistenza Statali, consigliere al comune di Roma e capogruppo della DC. Si spegnerà nel dicembre 1980.

Abdon Maltagliati nasce a Vellano (Pescia) il 7 novembre 1894 da famiglia di contadini poveri, condannato a 22 anni di carcere per i fatti di Empoli (ingiustamente accusato) e dal quale vi uscì nel 1932. Si rifugia inizialmente in Francia e successivamente in Unione Sovietica dove svolse il ruolo di direttore della Radio Italiana di Mosca, per poi rientrare nel novembre 1945 a Pistoia, dopo aver effettuato un esperienza anche nell’esercito sovietico. Segretario della Camera del Lavoro di Pescia, il 2 giugno 1946 sarà eletto nelle liste del PCI deputato alla Costituente dove si occupò principalmente dei temi del lavoro e dei lavoratori e pur non contribuendo a scrivere materialmente gli articoli riconducibili al principio lavorista cioè a quel principio che considera il lavoro come strumento di realizzazione della personalità di ciascun individuo. Il suo impegno e la sua attività saranno alquanto importanti nell’affermazione di quei principi precedentemente elencati. Cesserà di vivere il 10 novembre 1957.

Pistoia 4Attilio Piccioni nasce a Poggio Bustone in provincia di Rieti il 14 giugno 1892. Di professione avvocato sarà eletto per la lista della D.C. alle elezioni del 2 giugno 1946. Farà parte della Commissione dei 75 cioè quella che contribuirà alla stesura materiale del dettato costituzionale. Egli interverrà sul tema delle autonomie locali e in particolare sull’istituzione dell’ente Regione per il quale dichiara di essere a favore della sua creazione giudicata dallo stesso come baluardo per le libertà dei cittadini e per le libertà democratiche del Paese, affidando loro anche una potestà legislativa rispettosa comunque dell’ordinamento statale. Oltre al tema illustrato interverrà anche sulla formazione e la composizione della seconda Camera cioè del Senato, auspicando che questi sia su base regionale.

Sarà poi ricordato per aver svolto il ruolo di Ministro degli Esteri dal quale si dimetterà nel settembre 1954 a seguito del coinvolgimento del figlio Piero nello scandalo “Montesi”.  In seguito sarà rieletto al Parlamento ininterrottamente fino alla legislatura che si conclude anticipatamente nel 1976, anno in cui viene a mancare.

Filippo Mazzoni nasce a Pistoia nel 1972. E’ laureato in Storia e Scienze Politiche. Collabora con l’Istituto Storico della Resistenza e dell’età contemporanea in provincia di Pistoia di cui fa parte anche del Consiglio Direttivo. É autore della pubblicazione “La federazione comunista pistoiese dalla Liberazione al <<terribile>> 1956 (2003), ha collaborato assieme ad altri ricercatori alla stesura del volume “Pistoia fra guerra e pace” (2005) ed ha curato con P. L. Guastini e G. F. Marcucci “All’alba della costituzione italiana. I quattro costituenti pistoiesi (2008). É inoltre autore della pubblicazione “Una storia da non dimenticare. Ricostruzione storica dell’eccidio del 31 marzo 1944 alla Fortezza S. Barbara (2008 e ristampa 2015). Infine per conto della casa editrice Ibiskos ha pubblicato “Il terribile quindicennio (1969 – 1984). La storia delle stragi raccontate ai ragazzi” (2014). Con Stefano Bartolini ha curato il recupero dell’Archivio “Andrea Devoto” conservato presso il Polo delle Scienze Sociali dell’Università di Firenze, inoltra collabora con la rivista “QF – Quaderni di Farestoria” edita dall’Istituto.

Articolo pubblicato nel giugno del 2015.




Firenze davanti alla guerra

Dal 2 agosto 1914 al 24 maggio 1915 le manifestazioni a favore e contro la guerra si distinsero a Firenze per tre elementi: un progressivo intensificarsi della violenza, un continuo ripetersi e una larga diffusione nel tessuto cittadino.

Il fronte interventista era ben radicato tra la borghesia, una parte dell’aristocrazia e una folta schiera di intellettuali e personalità pubbliche. A dicembre il gruppo nazionalista rinunciò addirittura alla campagna elettorale delle elezioni comunali per dedicarsi esclusivamente alla propaganda interventista «per agitare e tener desto con comizi, conferenze, dimostrazioni lo spirito pubblico contro i neutralisti di ogni colore. […]”». Sul fronte opposto il neutralismo si radicò profondamente nelle zone popolari ad alta concentrazione operaia, come San Frediano, Porta alla Croce, S. Lorenzo, S. Spirito.

I loggiati di piazza Vittorio Emanuele (oggi piazza della Repubblica) divennero, secondo “Il Nuovo Giornale”, «la palestra più comoda per le diatribe fra neutralisti e interventisti».

1. Equilibrio_europeo_1914Nonostante l’imposizione salandrina di tenere comizi “privati” con invito in modo da evitare manifestazioni in luoghi pubblici e, dunque, disordini, questi scoppiavano lo stesso all’uscita di  tali ritrovi. Così accadde dopo una conferenza del professor Della Torre sul poeta e pubblicista dalmata Arturo Colautti. I partecipanti, in maggioranza studenti, si recarono in piazza Duomo cantando l’inno di Mameli e inneggiando alla guerra. L’urto con i socialisti «si tradusse in una vera e propria battaglia a colpi di bastone, pugni e calci». Dopo ripetute cariche, disposti i cordoni di truppa, e eseguiti alcuni arresti la situazione tornò lentamente alla normalità [ACS, MI, DGPS, DAGR, A5G, b. 94, f. 212 (Firenze), sf. 1, rapporto del Prefetto Cioja, 1-12-1914].

Talora furono i giornali oggetto di violenze popolari. All’uscita della conferenza dell’ex podestà di Fiume Icilio Baccich nel salone dell’Unione liberale a cui avevano partecipato circa 400 uditori, tra cui molte personalità pubbliche cittadine, alcuni di questi si recarono sotto «La Nazione», la cui redazione fu circondata e presa d’assalto, quasi in un improvviso chiarivari.  L’urto con la polizia e «plotoni di guardie e di carabinieri» si consumò in piazza Vittorio Emanuele, con numerose cariche delle forze dell’ordine e arresti di massa, tra cui quello di Francesco Giunta e Ezio Maria Gray, future personalità di spicco fasciste, e del giornalista del «Nuovo Giornale», Orazio Pedrazzi, che descrisse l’esperienza drammatica dell’arresto e della camera di sicurezza. Alla vista dei fermi, una signora plaudì all’azione della polizia provocando la reazione dell’avvocato Eugenio Coselschi – futuro creatore dei CAUR fascisti – che la accusò di essere tedesca, mentre la folla invase la birreria «Mucke» al suono dell’inno di Mameli causando altre colluttazioni e altri arresti fino a mezzanotte.

A partire dalla primavera gli scontri si fecero sempre più frequenti, spontanei e gravi (anche per la diffusa detenzione delle armi) e si allargarono ad altre parti della città. La commemorazione della partenza dei Mille fu un nuovo pretesto per altri disordini: il 6 maggio gli studenti dell’istituto tecnico Galileo Galilei imposero l’esposizione della bandiera e la sospensione delle lezioni prima nel loro istituto poi in altri.

3. cpc terzaghiIl 17 maggio «La Nazione» scriveva»: «[…] le dimostrazioni patriottiche non si contano più. Ad ogni momento echeggiano in piazza Vittorio Emanuele, che è affollatissima, applausi e grida entusiastiche. Vengono lanciati palloncini con appese bandierine tricolori». In quei giorni il ministro delle Colonie, Martini, annotava sul suo diario: «se non ci sarà la guerra esterna ci sarà la guerra civile» e la stampa si chiedeva: «si va dunque alla guerra contro lo straniero o alla guerra civile?».

Anche gli atti vandalici o offensivi nei confronti di cittadini tedeschi (o presunti tali) o contro tutto ciò che era riconducibile alla Germania e all’Austria vanno letti alla luce di un dissenso verso la guerra, anche trasversale ai due opposti schieramenti: fu danneggiata una farmacia di proprietà di tale Hans Klatzsch (o Klotzsch) [ACS, MI, DGPS, Ufficio riservato 1911-1915 C. 2, b. 83A, consultato in copia presso ISRT, Nota della prefettura di Firenze, 22-8-1914]; alla stazione alcune famiglie di tedeschi furono prese di mira da studenti che fecero una dimostrazione patriottica creando tafferugli bloccati dalle forze dell’ordine; il signor Carlo Strauss fu oggetto di un incidente e tacciato di essere una spia; il console tedesco Oswald fu inseguito da un gruppo di interventisti al grido «Va fuori d’Italia, va fuori straniero!»; alcuni studenti ruppero il vetro dell’ufficio Loyd germanico che esponeva nelle vetrine telegrammi provenienti da Berlino e fotografie di soldati tedeschi [ACS, MI, DGPS, DAGR, A5G, b. 96, f. 212 (Firenze), sf. 10, ins. 1, rapporto del prefetto Cioja, 21-3-1915].

Le autorità pubbliche controllarono in modo ferreo Firenze e la sua provincia, soprattutto i gruppi di socialisti (per esempio Michele Terzaghi o il giornale socialista «La Difesa») e gli anarchici (soprattutto a Empoli e Montelupo), ma la miccia era ormai innescata.

5. gambrinusIl musicista Castelnuovo-Tedesco, cui era stato dato l’incarico di scrivere il canto patriottico Fuori i barbari!, in un suo libro di memorie avrebbe ricordato la sera della vigilia così: «Quando lo suonai quella sera in casa Corcos, suscitò l’entusiasmo generale; Ugo e i Rotigliano mi trascinarono fuori, mi portarono in piazza Vittorio Emanuele; al Caffè Gambrinus, dove ogni sera si adunavano i dimostranti, cacciarono l’innocua orchestrina del caffè che stava suonando, e mi misero lì, sopra un palco, al pianoforte, ad insegnare il canto alla folla! Era il 23 maggio 1915, proprio alla vigilia della dichiarazione di guerra: il giorno dopo l’Italia entrava in guerra a fianco degli Alleati, e poche settimane dopo i soldati cantavano il mio inno marciando verso le trincee».

Camilla Poesio ha conseguito il dottorato di ricerca nel 2009 presso l’Università Ca’ Foscari Venezia. Ha ricevuto due premi per la tesi di dottorato e una segnalazione per il suo secondo libro. È attualmente ricercatrice post dottorato presso l’Università Ca’ Foscari Venezia in cooperazione con la Fritz Thyssen Stiftung fino al 2016. Ha svolto attività di ricerca presso enti di ricerca pubblici e privati sia in Italia sia all’estero (Università Ca’ Foscari, Universität Bielefeld, Frei Universität Berlin, Fondazione Salvatorelli, Deutsches Historisches Institut in Rom). I suoi ambiti di ricerca sono la storia dell’Italia e della Germania del XX secolo in prospettiva comparata e transnazionale, i rapporti fra fascismo italiano e nazismo, i diritti umani, l’uso della violenza, la memoria pubblica e privata. Ha scritto il capitolo su Firenze e Provincia nel volume curato da Fulvio Cammarano, Abbasso la guerra! Neutralisti in piazza alla vigilia della Prima guerra mondiale in Italia, Le Monnier, Firenze, 2015.

Articolo pubblicato nel maggio del 2015.




L’esame di maturità in tempo di guerra

Primavera-estate 1944. Una fanciulla sta preparando gli esami di maturità. Si chiama Maria Mazzei e non ha ancora diciott’anni. Appartiene a un’antica famiglia fiorentina, una famiglia di intellettuali e di studiosi. Maria invece non ha molta voglia di studiare, è vivace, romantica e sognatrice. E come tante ragazze della sua età si confida a un diario, dove il suo stato d’animo oscilla fra lo sgomento per quanto sta accadendo e un’incontenibile gioia di vivere. In sottofondo, sempre, la preoccupazione per l’esame che incombe.
Mentre lei si affanna sui libri il mondo sta andando a ferro e fuoco. La guerra travolge uomini e cose e Maria si rende conto che il suo tempo di bambina è finito.

14 aprile ‘44 Fonterutoli [Il borgo e la villa di Fonterutoli, antica proprietà della famiglia Mazzei, sono situati 5 km a sud di Castellina in Chianti.]
Sono tornata ora da Firenze in macchina perché ieri hanno fatto scendere i passeggeri dalla Sita per i mitragliamenti. Ho finito la scuola. Mi hanno interrogata, sono passata e ora mi accingo a provare a fare l’esame di III liceo.

23 aprile ‘44
Ieri c’è stato un gran passaggio di apparecchi per due ore. Ero in giardino, mamma era in terrazza con la Viola che le insegnava a filare la lana. Ho guardato in su, dal giardino verso casa, in terrazza una vecchina ricurva alzava le braccia “segnando” il cielo con una croce, era la Viola che “contraddiceva gli aeroplani”.

25 aprile ‘44
Mio fratello Lapo, andato a Firenze ieri sera, è stato rispedito da papà a tutto razzo. Ieri alle 5 ½ di mattina hanno perquisito tutta la casa, si sono confusi visto la conformazione di casa nostra e non sono andati né in dispensa né in camera della nonna. Cercavano le armi. Dunque naturalmente niente esame a Firenze, è pericoloso, non rimane che dare gli esami a Siena ma dicono che i professori sono pestiferi. La leggenda racconta che il prof. di Storia fa dire “tutti i Papi all’indietrina” da oggi al Medio Evo.

2 maggio ‘44
Hanno bombardato Firenze. È stato tremendo, il villino Passerini raso al suolo. Patrizia Passerini e la nonna sono morte, Giovannella ferita alle gambe. Il Teatro Comunale è in fiamme, tutta un’epoca della nostra vita felice che è passata. Tutto questo non finirà mai. Ogni giorno ce n’è una nuova! Devo studiare. Potessi passare ora, così alla scuola non ci penserei più!

4 maggio ‘44
Sto studiando Rousseau, devo leggere l’Émile. Fra una settimana a quest’ora avrò già fatto gli esami. Non so proprio come farò, non so niente, possibile in così pochi giorni!

21 maggio ‘44
Sono tornata ieri dal primo gruppo di esami. Greco e latino malissimo. Italiano e storia dell’arte molto bene. Ho dormito alla pensione Ravizza con Nanda Russo. Non ho punta voglia di studiare ancora fino a martedì.

27 maggio ‘44
C’è stato un mitragliamento al Trogolo [Fonte dell’acqua potabile]. Ero in giardino con la signora Foà che mi da ripetizioni di matematica. Eravamo sotto il pergolato alle scalette quando abbiamo visto degli aeroplani arrivare da dietro la Monsanese, in quel momento passavano due camion. “Vai, questi sono fritti” abbiamo detto la signora Foà ed io. Gli aerei giravano e uno è venuto proprio in linea diretta sul Trogolo. Ci siamo schiacciate per terra tra i due muriccioli, si sentiva “ta ta ta” fortissimo e secco secco. Appena finita la prima scarica siamo andate nella “stanza dei fiori”, poi c’è stata un’altra raffica.
I camion erano pieni di sfollati che hanno fatto in tempo a buttarsi giù nei cespugli. Nessun ferito. Pensare che c’erano due donne a prendere l’acqua, diversi bambini e gli uomini a lavorare nei campi. La gente urlava. Io ero piuttosto calma, poi vedendo la signora Foà agitata mi sono agitata anch’io.

4 giugno ‘44
Roma è stata liberata. Dopo Roma ci siamo noi. Allora, o è la tragedia, o la libertà!
Cosa succederà? Cos’è questa vita? Un susseguirsi di avvenimenti vuoti. Gente che si muove, che si accanisce per un capriccio, per egoismo. E io rimango qui muta a sognare. Oddio, sono partita per il fantastico paese dei castelli di Spagna! Anche col più grande temporale questi castelli non cadono, si affievoliscono forse, ma c’è un luogo della nostra mente dove, tra le nuvole, si erigono sempre guglie e torri altissime.

Congedo16 giugno ‘44
Gli alleati sono sbarcati in Francia ma non accenna per niente a finire. Non finirà mai e si sente una grande tristezza e stanchezza. É il tocco, a mezzanotte circa hanno mitragliato, qui alla strada di sopra. E due! Speriamo di passare la notte liscia.

8 giugno ‘44
Siamo tutti molto agitati. Non sappiamo se andare a Firenze o stare qui. Prepariamo bauli e bagagli. Mi sembra la partenza dei Rostov da Mosca [Il riferimento è al romanzo “Guerra e pace” di Lev Tolstoj]. I tedeschi requisiscono tutto. Tutti hanno un viso lungo e sconcertato. Noi tre meno. Io mi diverto, mi pare di leggere un libro di cui non posso leggere l’ultima pagina!

11 giugno ‘44
Siamo sfollati a Monteporcini con tutta Fonterutoli. Non si può uscire. Nei boschi ci sono prigionieri inglesi scappati e ronde tedesche.

13 giugno ‘44
Lapo è andato a Castellina a cavallo, a Malafrasca è stato fermato, gli hanno detto di tornare indietro perché i tedeschi facevano le retate, è tornato a tutto galoppo.

14 giugno ‘44
Sono tornata da Siena dove sono andata per gli esami. Storia e filosofia male, mi hanno chiesto tutto indietro! A matematica, fisica e chimica mi sono ritirata perché non ero abbastanza preparata, specialmente in meccanica e chimica.
Stamani sono andata in giardino come sempre quando lo studio è lontano mille miglia. Ho tagliato i fiori secchi e fatto i vasi in tavola. Dopo essere stata a contatto con la città, coi professori, con i fascisti, si apprezza cento volte di più una bella rosa e un bel cavallo sotto un cielo azzurro.
La cavalla nuova è realmente molto bella, si chiama Maila. Mi sento molto abbacchiata, come un senso di giovinezza che sfugge. Che stupida! Ho una gran voglia di rose, musica, primavera, cavalli. Tutto questo è molto romantico, ma chi è il giovane che non è romantico?

26 giugno ‘44 – Siena
Siamo sfollate la nonna, mamma, Fioretta e io, in casa Piccolomini in via del Capitano.

Congedo23 luglio ‘44
Stamani alle sette sono arrivati i “liberatori”. Eravamo a letto e abbiamo sentito un gran battimano, ci siamo affacciati alle finestre, abbiamo visto quattro carri armati con gli americani, poi i partigiani in borghese con una fascia tricolore al braccio. I senesi hanno tirato fuori le bandiere del Palio. Stanotte si era sentita una gran sparatoria di cannoni e proiettili che fischiavano sulla testa. È passato anche il famoso aeroplano che chiamano la Vedova, che ha ispezionato vicino al Duomo. Le truppe sono quasi tutte francesi e marocchine.

4 luglio ‘44
Le truppe aumentano, ce ne sono di tutti i colori, col turbante bianco, marocchini, negri.

16 luglio ‘44
Ieri finalmente sono venuti da Fonterutoli papà e Lapo. La casa è in buona parte distrutta. Non rimangono che il salotto verde e la cucina. La facciata è cascata e le camere sprofondate. Dall’ingresso si vede il cielo. La chiesa ha subito più o meno la stessa sorte, così la fattoria e le case intorno. Tutto il paese sfollato a Monteporcini è stato nel rifugio per 14 giorni con cannoneggiamento continuo. Ma il tremendo è che tutto è minato, non si può fare un passo. Il Bruni, marito della Leontina, alla Fonte vicino all’orto è uscito un attimo fuori strada e una mina gli ha portato via una gamba. Tullio, Nello e altri uomini sono stati portati via dai tedeschi. La cavalla Maila è stata portata via e Stellino è morto di fame. Lapo voleva cercarlo ma un ufficiale francese gliel’ha impedito per via delle mine.
La linea di resistenza era tra Fonterutoli – Vagliagli – Brolio. È tremenda l’idea di tornare lassù e dover ricostruire. Poter andare lontano, in un paese dove la guerra non esiste, dove tutto è calma e tranquillità. Dimenticare tutto, addormentarsi, svegliarsi e ritrovare tutto come prima.

18 luglio ‘44
Ieri sono venute a trovarmi la Lucia ed Enzina raccontandomi tutte le storie di Fonterutoli.
Ormai questa è una vita che bisogna prendere con coraggio, conservare la propria dignità mantenendosi nelle disgrazie allegri, calmi e sereni in barba a tutti. Solo così si riprendono energie. “Non bisogna rimanere dei pulcini quando ci vogliono delle aquile” (Padre Crawley).

28 luglio ‘44
Sono ancora a Siena in casa Piccolomini. Gira la voce che sia stato trovato vicino a Livorno il corpo di Franco Stucchi. Non è possibile che Franco sia morto, era così poco maturo per la morte! Prima o poi lo vedremo tornate in via Santa Monaca o a Fonterutoli. L’ultima volta che è venuto a Fonte ha detto, riguardo a non so cosa: “Ché, ho scampato anche questa, sono troppo pelle dura!”.
Con questo è finita la vita di bambina beata dalla testa ricciuta, tempo felice e spensierato!

1 agosto ‘44 – Petraglia
Sono qui da Carlo e Giulia, c’è tranquillità per… studiare. Ma naturalmente ne ho pochissima voglia.
11 agosto ’44
È passato Francesco Griccioli – partigiano. Ci ha detto che Giovannella Passerini è morta di setticemia per le ferite del bombardamento.

28 agosto ’44
Lapo è venuto a prendermi. Stasera torno a Fonterutoli. Non ho proprio voglia di studiare. Mercoledì devo andare a Siena per la lezione.

24 settembre ’44 – Fonterutoli
Ieri è tornato Lapo da Firenze. C’è una gran fame, non si trova niente.
Si comincia ad avere notizie degli amici. Anche Diamante deve dare gli esami. Come vorrei che questi giorni fossero passati, ancora due settimane, è un’agonia sempre più lenta ma poi farò zompi fino al soffitto se sarò passata.

9 ottobre ‘44
Stamani ho fatto l’esame. Filosofia benino. Scienze male, il prof. ha scritto col lapis 4, poi lo ha cancellato e ha detto: vedremo. Matematica appena appena la sufficienza. Giovedì ci sarà greco.
Abbiamo avuto finalmente notizie degli zii e cugini. Tutti salvi.

14 ottobre ‘44
Ieri ho finito i miei esami. Fossi passata! Chissà… Ho qualche speranza. Oggi comincio la mia vita di libertà!

18 ottobre ‘44
Ripenso alle persone care che questa guerra si è portata via. Hanno trovato il corpo di Franco fucilato vicino a Volterra [Franco Stucchi Prinetti, partigiano, è stato fucilato dai tedeschi a Castelnuovo Val di Cecina il 14 giugno 1944 insieme al cugino Gianluca Spinola e ai due ex soldati Vittorio Vargiu e Francesco Piredda]. Anche Sandra Settepassi, mia compagna di banco al ginnasio, è morta “proditoriamente uccisa dai tedeschi con altre donne e bambini per una rappresaglia” [Sandra Settepassi è una delle 174 vittime dell’eccidio del Padule di Fucecchio (23 agosto 1944)], così era scritto sul giornale. Giovannella Passerini quando era a Fonterutoli diceva sempre che aveva paura dei bombardamenti e scherzando diceva che se moriva sarebbe venuta a farci visita come fantasma, la sera. Mio cugino Franco Fabbricotti è morto pochi mesi dopo il ritorno dalla prigionia in Germania, per meningite tubercolare.

19 ottobre ‘44
Sono passata, sono matura! Io, non andare più a scuola. Compio diciotto anni tra due mesi. Sono libera! Sono qualcuno! Ma tutto questo si perde nel nulla, nel tran tran dell’universo.

Articolo pubblicato nel maggio del 2015.




L’incendio di Brolio

Roma liberata e la collaborazione con il Governo Militare alleato nel racconto di Bettino Ricasoli.

Nella tarda primavera del ‘44 Roma è ancora occupata dai nazisti mentre il fronte è bloccato a Cassino.
Dopo l’Armistizio Bettino Ricasoli, non volendo aderire all’esercito di Salò, si è arruolato nella Guardia palatina del Vaticano. In questo modo è al sicuro dai rastrellamenti. Da molto tempo ha perso i contatti con i familiari, non sa più nulla di loro né riesce a far avere sue notizie. Ma una notte accade qualcosa…

“Finalmente cominciò la ritirata tedesca da Roma. Io mi trovai proprio sugli spalti di un terrapieno, che fa parte della Casa Generalizia dei Gesuiti, la notte fra il 3 e il 4 giugno del ‘44. Si vedevano i Tedeschi che venivano via con tutti i mezzi possibili e immaginabili su carretti, in bicicletta, in motocicletta, sulle automobili sequestrate, sui carri armati. Passavano lungo il Tevere e andavano verso nord. Per tutta la notte c’è stata una colonna disordinata di fuggitivi e poi, a un certo momento, è finito tutto. Dopo un’ora sono arrivati gli Alleati con le camionette. Faceva impressione vedere tutti questi mezzi, i carri armati. Ma il passaggio è stato completamente pacifico. Non credo che i tedeschi abbiano opposto, anche in altre parti di Roma, nessuna resistenza. Anzi, dopo tutto il rumore delle truppe in ritirata, prima dell’arrivo degli Americani c’è stato un periodo di assoluto silenzio. Capimmo che era la fine dell’esercito tedesco e che fra poco sarebbero arrivati gli Alleati. Infatti dopo un’ora cominciarono ad arrivare le prime truppe. Era mattina, il passaggio dei tedeschi era durato tutta la notte”.

Roma è finalmente libera. Ricasoli vorrebbe tornare subito a casa, è in ansia per la sorte dei familiari ma, con il fronte in rapido movimento, è impossibile trovare mezzi di trasporto. Per fortuna parla un ottimo inglese. Fa conoscenza con un certo colonnello Kennedy, destinato a essere il responsabile dell’agricoltura nel futuro Governo Militare alleato della Toscana. La persona giusta al momento giusto.

“Gli avevo detto che mi interessavo di agricoltura nell’azienda della mia famiglia e che ero studente di Agraria all’università di Firenze. Allora il colonnello mi chiese: “Se vieni con me, mi puoi aiutare e darmi dei consigli, perché io di agraria non me ne intendo”. Io accettai volentieri, e allora si combinò che lui mi portava con sé sulla sua jeep, e con questa, via via che il fronte avanzava, ci spostavamo in su lungo la costa. Stemmo a Santa Marinella per qualche tempo, poi andammo fino a Civitavecchia e poi su fino a Grosseto. Era la prima provincia della Toscana, il colonnello già si sentiva un po’ investito, anche se nelle province toscane il responsabile dell’agricoltura, che era lui per tutta la regione Toscana, non aveva un proprio corrispondente, un proprio ufficio per l’agricoltura, per cui doveva affidarsi agli uffici dell’alimentazione. Mi disse “Qui non ho nessuno a cui io possa dare delle istruzioni. Senti, se vuoi rimanere in una delle province toscane rimani, anzi, se hai qualche altro amico disposto a fare come te, io lo manderei in altre province. Io starò a Firenze e terrò i contatti attraverso voi”. Io accettai e scelsi Siena. Pensavo che i miei fossero ancora a Brolio, ma eravamo rimasti interrotti dalla guerra, non sapevo cos’era successo”.

Nella città di Siena appena liberata Bettino Ricasoli collabora con il Governo Militare Alleato. Ha il suo ufficio in Prefettura, alloggia con gli ufficiali, pur essendo un civile – il passaggio nelle Guardie Palatine comportava il licenziamento dall’esercito – e viene trattato come uno di loro.
In provincia invece si combatte ancora, i cannoni alleati piazzati sotto le mura sparano verso nord. Un giorno si sparge la voce che il castello di Brolio sta andando a fuoco…

“Sentii la gente che si era radunata nella piazza del Duomo che diceva: “A Brolio c’è stato un combattimento, è andato tutto distrutto”. Impressionato, andai subito sulle mura di Siena, a San Francesco, da dove si vede benissimo Brolio. La giornata era bellissima, chiara, e vidi effettivamente il castello in una nuvola di fumo rosso. Pensai “sta bruciando”. Proprio sotto Siena c’erano delle batterie di cannoni che sparavano in quella direzione. Ero molto preoccupato per la sorte dei miei. Immaginavo che fossero lì, ma avrebbero anche potuto essere andati via, non potevo saperlo. Dopo qualche giorno l’avanzata alleata proseguì abbastanza rapidamente e anche Brolio venne liberato. Alcuni ufficiali inglesi mi dissero: “Adesso si può andare, ti portiamo a vedere cos’è successo”.
Trovai il posto ridotto male, ma tutti i miei, i genitori, le mie quattro sorelle e il mio fratello minore, erano lì e stavano bene. Mi resi conto che quel fumo rosso che si vedeva da Siena era la polvere dei mattoni della facciata. Le cannonate, esplodendo sul mattone, davano una polvere rossa che tingeva le nuvole di fumo. Era quella la causa del rosso, non c’era stato nessun incendio”.

Ironia della sorte. Il castello è stato scelto come rifugio dalla famiglia Ricasoli e, per un certo periodo, anche da una cinquantina di contadini. Si rivela invece il luogo più pericoloso, l’unico edificio della zona ad essere preso di mira dalle cannonate. Per via della sua posizione elevata, i Tedeschi vi hanno stabilito un posto d’osservazione e da lì dirigono il fuoco delle artiglierie contro gli Alleati che, in risposta, cannoneggiano il castello per diverse ore al giorno.

“I tedeschi lì erano pochissimi, una pattuglia, pochi soldati che non avevano altro scopo che di dirigere il fuoco sulle colonne alleate che da lì potevano vedere. Volevano far credere che lì ci fosse una forza militare di una certa importanza. Stavano nelle cantine, e anche i miei familiari vi si erano rifugiati. Anzi, prima che gli alleati si avvicinassero, le mie sorelle avevano fatto amicizia con uno o due di questi ufficiali tedeschi e loro con i binocoli gli facevano vedere i movimenti dei carri armati alleati intorno a Siena. Le mie sorelle si divertivano, “si vede la guerra!” dicevano. A un certo momento sentirono il fischio di un obice che passava sopra le loro teste, allora i tedeschi dissero loro di mettersi al sicuro in cantina perché il gioco si faceva più pericoloso.
Il cannoneggiamento contro il castello durò parecchio, diverse ore tutti i giorni. Quando io arrivai a Siena era in pieno svolgimento. La liberazione del castello avvenne quattro-cinque giorni dopo”.

I primi ad entrare a Gaiole e nel castello come liberatori sono i Sudafricani. Gente civilissima e ottimi soldati, così li ricorda il barone. Dopo il passaggio del fronte, tutto intorno spuntano gli accampamenti. Brolio diventa zona di riposo per le truppe che hanno combattuto in prima linea e che periodicamente si alternano con quelle delle retrovie.
Il castello è danneggiato, ma le mura hanno resistito egregiamente alle cannonate. Qui come altrove ci si mette subito a riparare, a ricostruire.
Bettino Ricasoli continuerà a collaborare con il Governo Militare alleato per alcuni mesi. Il suo ufficio deve organizzare tutto il settore agricolo nella provincia di Siena. Lascia l’incarico a fine ottobre del ‘44 per riprendere gli studi di agraria che aveva dovuto interrompere.
La guerra non è finita, nel nord si combatte ancora. Ma nelle zone liberate si ricomincia a vivere.

(Seconda parte della testimonianza di Bettino Ricasoli, raccolta il 5 marzo 2004)

la prima parte dell’intervista in: L’8 settembre di Bettino Ricasoli

Articolo pubblicato nel maggio del 2015.




L’8 settembre di Bettino Ricasoli

L’Armistizio, la dissoluzione dell’esercito, Roma occupata dai nazisti nel racconto di Bettino Ricasoli.

La tragedia dell’8 settembre 1943 ha segnato un’intera generazione di Italiani.
Dopo l’annuncio dell’Armistizio centinaia di migliaia tra soldati e ufficiali, sparsi sui vari fronti di guerra, si trovarono di colpo privi di ordini, senza saper che fare né dove andare, abbandonati alla mercé dei Tedeschi, non più alleati ma nemici.
Qualcuno riuscì a tornare a casa con mezzi di fortuna. Chi cercò di resistere, come i nostri soldati a Cefalonia e Corfù, venne massacrato senza pietà. Oltre 630.000 militari italiani, rastrellati o catturati con l’inganno, furono deportati in Germania.
Bettino Ricasoli aveva allora 21 anni. Richiamato alle armi nel gennaio del ‘43, alla fine di luglio era a Terracina per un periodo di addestramento prima di essere inviato al fronte. Qui lo colse l’8 settembre, quando non aveva ancora combattuto né sparato un solo colpo.
Il barone ha accettato di raccontare la sua personale avventura. Lucidità e chiarezza della narrazione, insieme all’eccezionalità delle circostanze di cui è stato testimone, rendono preziosa la sua testimonianza.

“C’era già stato lo sbarco a Salerno, Terracina e la ferrovia Roma-Napoli venivano spesso bombardate dall’aviazione alleata. Noi dovevamo sorvegliare la costa e agire se ci fossero stati degli sbarchi nel tratto fra il monte Circeo e Terracina. Lì ci prese l’8 settembre. Rimanemmo ai nostri posti, non sapendo esattamente cosa fare, tutte le comunicazioni con i comandi erano interrotte. Con i nostri ufficiali decidemmo di togliere gli otturatori ai cannoni per renderli inservibili, nel caso che i tedeschi si impossessassero di queste zone, e di andare a Sabaudia, dov’era il comando della divisione da cui dipendevamo. Vi arrivammo andando a piedi attraverso i campi durante la notte per non farci vedere. Eravamo convinti che i Tedeschi avrebbero opposto resistenza”.

Li attendono due sorprese. La prima è che a Sabaudia il comando di divisione non c’è più, dissolto come neve al sole. Increduli e confusi, i soldati decidono di tornare indietro e rioccupare le posizioni, per non rischiare di passare da traditori. Precauzione inutile, perché la postazione è deserta e dei comandanti non c’è traccia.
La seconda sorpresa è che i Tedeschi fuggono in maniera disordinata, con tutti i mezzi che riescono a trovare.

“Scappavano lungo la costa con chiatte, barche, barconi, soprattutto di notte. Andavano verso il nord. Vicino a noi c’era una postazione antiaerea tedesca. Una mattina un gruppo di soldati tedeschi che erano al servizio di questa postazione, armati fino ai denti, con collane di proiettili, vennero a dirci: “La guerra è finita, noi ci arrendiamo a voi”, proprio così. Noi non sapevamo cosa fare nemmeno di noi stessi, non avevamo più rifornimenti di cibo, non sapevamo più niente, eravamo abbandonati lì. Gli dicemmo: “Se volete restare con noi rimanete, ma non abbiamo nemmeno da darvi da mangiare”. Allora andarono via”.

Nei primi giorni dopo l’armistizio i Tedeschi che si trovano a sud di Roma attraversano una fase di smarrimento, con l’esercito alleato che incalza. Scappano verso il nord più velocemente che possono senza incontrare, purtroppo, nessuna resistenza. Ben presto si riorganizzano e riprendono il controllo della situazione.

“Per un certo numero di giorni anche i Tedeschi non sapevano cosa fare e si ritiravano. Secondo quello che potevamo giudicare noi dal nostro punto di vista, se a Roma ci fosse stata una volontà di combattere, se ci fosse stato un esercito organizzato e comandato in modo efficace, sarebbe stato possibile bloccarli. Dopo qualche giorno, a una settimana circa dall’armistizio, è arrivato nella nostra zona, fra il monte Circeo e Terracina, un ufficiale tedesco. Hanno emesso un proclama in cui si stabiliva che tutti i giovani in età militare dovevano consegnarsi alle autorità tedesche. A quel punto decidemmo di andar via”.

Rientrato in Toscana Bettino Ricasoli si ricongiunge ai familiari, che da Firenze si sono trasferiti nel loro castello a Brolio, presso Gaiole in Chianti. Dovrebbe essere una sistemazione abbastanza sicura, lontana dalle principali vie di comunicazione. Ma non è affatto sicura per il giovane, che a Gaiole è un personaggio molto in vista. Non avendo nessuna intenzione di arruolarsi nell’esercito di Salò, non gli rimane che nascondersi. Sceglie Roma, dove ha dei parenti che possono aiutarlo ed è più facile far perdere le proprie tracce.
Nella capitale occupata dai nazisti l’atmosfera è cupa. Repubblichini e tedeschi danno la caccia ai renitenti, gli scantinati sono pieni di sfollati, manca il cibo. Il Vaticano ricorre a un espediente per salvare un certo numero di giovani dai rastrellamenti: li arruola nella Guardia Palatina. Tra di loro c’è anche Bettino Ricasoli.

“A un certo momento il Vaticano ha voluto mettere più al sicuro molti di quei giovani che erano a Roma nelle mie condizioni e ottenne dal comando tedesco di aumentare l’arruolamento delle proprie guardie palatine, per proteggere gli immobili extraterritoriali, che appartengono allo stato del Vaticano ma sono nella città di Roma.
In quell’occasione anch’io riuscii a entrare al servizio della Città del Vaticano, con l’obbligo di fare un turno di guardia ogni 10 giorni. Fui assegnato alla Casa Generalizia dell’ordine dei Gesuiti, che è dietro il colonnato di San Pietro e domina la collina che guarda il Tevere. Ci sono ancora le vecchie mura di Roma, il servizio consisteva nel passeggiare avanti e indietro su queste mura. Facevo il turno di guardia e mi occupavo di assistenza. Roma si riempì di sfollati dalle campagne che venivano su, spinti dall’avanzare del fronte. Venivano dal napoletano, da Cassino. Stavano accampati in questi tunnel, erano state organizzate delle mense che ottenevano dal Vaticano piselli secchi che venivano cotti e distribuiti. Me ne alimentavo anch’io. Giravo per Roma con una tessera che avrebbe dovuto proteggermi se fossi incappato in quelle che chiamavano le retate: i repubblichini chiudevano un gruppo di strade e passavano al setaccio tutti quelli che erano dentro; se trovavano qualcuno in età da militare veniva preso e portato via su al nord, si diceva nei campi di concentramento in Germania. Ma con la carta del Vaticano si era quasi sicuri”.

Nonostante la fame e il clima di oppressione Ricasoli è convinto, come tutti, che gli Alleati non tarderanno ad arrivare. Nell’autunno del ‘43 nessuno immagina che il fronte rimarrà bloccato a Cassino per sei lunghi mesi. E l’occupazione nazista della Capitale si trasforma in un incubo che sembra non aver mai fine.

(Prima parte della testimonianza di Bettino Ricasoli raccolta il 4 marzo 2004)

La seconda parte dell’intervista in “L’incendio di Brolio”.

Articolo pubblicato nel maggio del 2015.




Dopo la Liberazione.

“Ancora non ci siamo totalmente ritrovati! Siamo tutt’ora smarriti, siamo come un malato in convalescenza che non trova la via di rimettersi, perché lotta fra la miseria, la sfiducia e la fiducia”. Scrivendo nel settembre 1944 al cardinale Elia Dalla Costa, don Girolamo Barzagli, parroco di S. Andrea a Fabbrica (comune di San Casciano Val di Pesa), descriveva con queste parole lo stato d’animo prevalente tra i suoi fedeli a poche settimane di distanza dalla liberazione. Fiducia per quanto rinasceva dopo il fronte ma al contempo disorientamento per un futuro ancora incerto si fondevano assieme, orientando il giudizio complessivo di coloro che avevano vissuto la guerra e la liberazione nei comuni di Barberino Val d’Elsa, Tavarnelle e San Casciano Val di Pesa; piccole comunità rurali della provincia fiorentina, chiuse nel loro mite microcosmo agricolo, sulle quali la guerra e il passaggio del fronte avevano pesato in modo particolare.

Divenuti alla fine del luglio 1944 terreno di battaglia aspramente conteso tra tedeschi e alleati in vista della liberazione di Firenze, questi tre comuni a cavallo tra Val d’Elsa e Val di Pesa avevano infatti pagato a caro prezzo questa loro rilevante posizione strategica, tanto che, il grosso delle perdite umane e materiali subite si era concentrato proprio nei giorni del passaggio del fronte, grossomodo tra il 20 e il 27 luglio. Una serie di stragi e stillicidi compiuti dagli uomini della IV FallschirmjDiffuse e capillari devastazioni prodotte in ritirata dai guastatori tedeschi nonché dai combattimenti stessi avevano al contempo straziato le campagne, distrutto strade, ponti e ridotto in macerie i principali abitati, nonché sensibilmente colpito il patrimonio agricolo e zootecnico di queste comunità. Per questo, la liberazione dei tre comuni lasciò in eredità agli amministrazioni post-bellici un’ emergenza che fu anzitutto umanitaria e demografica. Nel comune di Tavarnelle Val di Pesa, dopo la liberazione del 23 luglio, in circa 500 avevano avuto la casa completamente distrutta e 1.400 gravemente sinistrata. A San Casciano, 863 erano le persone che avevano perso la propria abitazione, 1.046 quelle con la casa gravemente danneggiata, mentre 684 ancora nel novembre 1944 vivevano in rifugi temporanei. A questa massa di sinistrati si aggiungeva inoltre un ingente numero di sfollati provenienti da altri comuni: alla fine del 1944 se ne contavano 265 a Tavarnelle, 1.412 a San Casciano e 850 a Barberino. Già prima del fronte molti di questi sfollati erano riparati in luoghi e locali di fortuna, quali cantine e tinaie, e persino in cave e miniere, come era avvenuto ad esempio nella miniera di lignite di Tignano, dove si erano sistemate 6-700 persone. Dopo il fronte, provvedere al rientro di questa popolazione negli abitati, dando un tetto a chi ne era rimasto senza, fu uno dei compiti che tentarono di portare a termine le giunte provvisorie dei tre comuni, col concorso dei locali Comitati di liberazione nazionale (Cln) e sotto la supervisione del governo militare alleato.

All’indomani della liberazione, riattivata la macchina amministrativa, le giunte provvisorie di Barberino, Tavarnelle e San Casciano danno così inizio alle prime riparazioni. In mancanza di materiale edile e di fronte ad un mercato che si caratterizza subito per l’eccessivo aumento dei prezzi, si ordina lo smantellamento delle strutture agricole superflue, come concimaie e magazzini, e il reimpiego dei materiali per consentire le riparazioni più urgenti entro gli abitati distrutti. Parallelamente, si fa affidamento su coloro che hanno avuta salva la propria abitazione, che adesso vengono richiesti di mettere a disposizione anche di altre famiglie di sinistrati. È una corsa contro il tempo quella con la quale si tenta, prima del sopraggiungere del primo inverno di liberazione, di mettere al riparo i senza tetto. Ma i principali abitati sono un groviglio di edifici semidistrutti e macerie sotto alle quali si trovano ancora ordigni inesplosi. Nella totale impossibilità di fare affidamento sull’intervento delle autorità provinciali, in ciascuno dei tre comuni si decide pertanto di iniziare autonomamente l’opera di prima ricostruzione, talvolta adottando, “il sistema di indipendenza dagli uffici burocratici” col quale cioè si pone mano alle riparazioni senza attendere il naturale decorso delle autorizzazioni necessarie  e facendo affidamento su maestranze e manodopera locale. Con questo sistema, nell’agosto 1945 a San Casciano “dei sette ponti completamente demoliti nella rete stradale interna” ben cinque erano già stati ricostruiti, grazie anche all’aiuto prestato “da parte di proprietari e coloni, i quali si sono volontariamente quotati ad offrire trasporti e mano d’opera a titolo gratuito”. D’altra parte, sin dopo la liberazione, tutta la popolazione maschile in età adulta (fatta eccezione dei mezzadri) è stata chiamata al lavoro per gli interventi più necessari, secondo una mobilitazione obbligatoria da cui dipende tra l’altro la possibilità delle famiglie di accedere alla distribuzione dei generi alimentari. Oltre alle macerie, infatti, la fame.

Con l’interruzione della campagna granaria a causa del passaggio della guerra, la devastazione delle coltivazioni e la perdita del patrimonio bovino (diminuito del 16% a Barberino, del 27% a Tavarnelle e del 43% a San Casciano sui valori anteguerra), il sostentamento delle popolazioni locali viene a dipendere principalmente dalle distribuzioni alleate e da quanto si riesce ancora a reperire in zona. In alcune aree, si è costretti a nutrirsi prevalentemente della frutta dei campi mentre, come notano le autorità alleate, “la popolazione vive spesso procurandosi erbe selvatiche”. Le distribuzioni alleate registrano col passare dei mesi ritardi e rallentamenti, dando spesso adito a proteste popolari, come accade a San Casciano quando, alla fine del 1944, le donne del paese scendono in piazza per manifestare di fronte al palazzo municipale. Tocca dunque agli uffici comunali all’assistenza, spesso con quanto messo generosamente a disposizioni da fattorie e mezzadri della zona, organizzare i primi soccorsi, distribuendo cibo, indumenti e masserizie. È una gestione dell’emergenza, questa diretta dalle amministrazioni comunali, che sovente si scontra però con le esigenze delle autorità provinciali, le qual,i spesso con troppa leggerezza, distolgono le residue risorse locali allo scopo di soddisfare la piazza di Firenze. Allo stesso tempo, si tenta urgentemente di ripristinare i servizi medici basilari, a fronte di una situazione che a causa della malnutrizione e della contaminazione delle acque conseguente alla distruzione degli acquedotti e della rete fognaria diviene sempre più urgente. Numerosi casi di febbre tifoide, alcuni letali, si diffondono nelle settimane seguenti al passaggio del fronte, costringendo le amministrazioni a reimpiegare d’urgenza il personale medico disperso a seguito del fronte.

Ma è dirigendo la macchina governativa dei sussidi giornalieri che le amministrazioni provvisorie, tramite il reimpiego degli Enti di assistenza comunali e la costituzione di appositi comitati all’assistenza, tentano di risollevare la popolazione dalla condizione miserevole in cui l’ha spinta la guerra. Sussidi giornalieri di importo variabile sono infatti rilasciati a vantaggio delle categorie più colpite, quali i sinistrati, gli sfollati, i profughi, i reduci dalla prigionia e soprattutto i familiari delle vittime nazifasciste ed i congiunti dei partigiani caduti. Una macchina dell’assistenza che sul piano nazionale, soprattutto sotto il governo guidato da Ferruccio Parri, si adegua ad un ambizioso progetto politico volto a rifondare il paese non solo su nuovi principi politici (l’antifascismo) ma anche su nuove basi materiali di esistenza. Rispondere ai bisogni materiali di cui i superstiti della guerra chiedono soddisfazione alle autorità costituite – come ad esempio fanno le vedove della strage di Pratale in un’accorata petizione inoltrata al comune nel maggio 1945 – equivale a riconoscere ed accogliere il loro diritto materiale “di ritorno alla vita”. Una sensibilità e un indirizzo effettivo che con estrema difficoltà si tenta di soddisfare anche nei tre comuni.

Ponte Argenna - S. Donato

San Donato in Poggio (Tavarnelle Val di Pesa) 1945. Il ponte sull’Argenna in fase di ricostruzione dopo la guerra (Archivio Forconi)

Benché il processo di uscita dalla guerra e di ricostruzione si rivelerà un percorso lungo e difficile destinato a protrarsi negli anni seguenti, sono però i primi mesi successivi alla liberazione che costituiscono per queste comunità e i loro amministratori il momento determinante col quale tentare di risollevare dai disagi della guerra le popolazioni locali. Spesso, si cerca di far ciò attraverso provvedimenti e processi autonomi che mettono in luce, seppur con tutti i limiti del contesto, il protagonismo, la dedizione e l’impegno delle giunte provvisorie. Queste ultime puntano a fare della loro attività di assistenza e ricostruzione un’occasione attraverso la quale sperimentare un rapporto più aperto e partecipativo con le proprie cittadinanze, all’insegna del nuovo clima democratico che si apre dopo il fronte. La volontà della giunta di Tavarnelle di sottomettere la decisione di acquistare un alternatore che consenta il ripristino della fornitura elettrica ad un referendum popolare, che in effetti si svolge nel dicembre 1944 con la partecipazione di circa 200 cittadini, è un esempio significativo (oltreché curioso) di questo nuovo spirito di rinascita democratica.

Anche la ripresa della vita sociale e politica dopo il fronte si indirizza nei tre comuni lungo un percorso pervasivo, benché non sempre lineare, di rinascita democratica. Nelle giunte provvisorie, così come all’interno dei Cln, tra i diversi partiti antifascisti maturano momenti di tensione su questioni di natura politica e amministrativa. In particolare, la capacità di condurre a termine l’epurazione degli elementi collusi col fascismo, se è avvertita dai comitati come spia della genuinità della democrazia che si sta ricreando in Italia, d’altra parte viene però interpretata dai partiti antifascisti con diverso grado di radicalità. Così, mentre nel settembre del 1945 il Cln di Tavarnelle è costretto a rassegnare in tronco le sue dimissioni, perché incapace di operare a fondo quell’epurazione che la popolazione nel frattempo gli richiede, a San Casciano nel giugno 1945, proprio a riguardo di un provvedimento di epurazione, matura una rottura (seppur temporanea) ai vertici del governo locale tra il sindaco comunista Aldo Giacometti e il vicesindaco democristiano Primo Calamandrei; rottura che porta alle dimissioni di quest’ultimo e alla fuoriuscita dal Cln di tutti i rappresentanti della Dc. Tensioni queste – certo sintomo di un fermento democratico dirompente -, che si riflettono inoltre sugli assetti amministrativi esistenti tra il centro e la periferia municipale: dopo il fronte, ad esempio, si registrano infatti da parte di alcune frazioni di comune richieste e istanze a rendersi municipalità autonome, come ad esempio si tenta di fare a San Donato in Poggio e a Mercatale Val di Pesa. Tentativi di trasformazione contro i quali le autorità superiori alleate e italiane intervengono a difesa dei tradizionali equilibri territoriali e amministrativi, al pari di quanto fanno nel frattempo anche sul piano degli assetti politici. In questo campo, alleati e autorità prefettizia sembrano seguire con circospezione e preoccupazione il protagonismo che alcuni esponenti del partito comunista esercitano entro i Cln e i governi locali. Simili indirizzi sono rintracciabili ad esempio in occasione dell’interessamento alleato dimostrato per Ottavio Gimignani, membro comunista del Cln di S. Donato in Poggio, indicato come un “ardente comunista” e ritenuto addirittura pericoloso per la stessa comunità; oppure, in modo simile, orientano l’intervento dell’autorità prefettizia che alla fine del 1944 suggerisce un rimpasto della giunta comunale di Barberino con nomina di rappresentanti democristiani in sostituzione di quelli comunisti. Conflittualità, queste che interessano comunisti e democristiani, destinate poi a infittirsi in prossimità della campagna elettorale per le triplici elezioni del 1946, benché poi gli assetti usciti dalle urne non siano tali da minare ancora l‘unità antifascista esitente tra i due partiti; non almeno a San Casciano, dove  comunisti e democristiani si scambiano pubblicamente reciproche congratulazioni per i piazzamenti riportati all’indomani delle amministrative del 1946. Benché il lungo dopoguerra sia formalmente iniziato, l’ombra del conflitto che si è da poco lasciato alle spalle continua a popolare l’orizzonte comune di queste tre piccole comunità della provincia fiorentina, le cui forze politiche proprio in occasione delle prime elezioni amministrative libere del 1946 danno conto nei loro programmi elettorali di quanto fatto e di quanto ancora resta da fare per un completo ritorno – materiale, morale, sociale e politico – alla normalità.

Manifestazione CGIL San Casciano

Manifestazione della CGIL unitaria a San Casciano nell’immediato dopoguerra (Archivio La Porticciola)

Articolo pubblicato nel maggio del 2015.




La Firenze industriale di primo ‘900

All’inizio del Novecento, sull’onda del decollo economico dell’età giolittiana, anche la struttura industriale fiorentina conobbe un forte sviluppo. Quali caratteristiche assunse lo sviluppo industriale di una città a lungo dominata dagli interessi del notabilato agrario-finanziario?

Un buon punto di partenza per ricostruire il tessuto produttivo della Firenze dell’epoca sono le fonti statistiche ufficiali (censimenti, annuari, statistiche industriali), messe a confronto e integrate con i dati nominativi delle aziende censite nel 1904 dall’ Indicatore generale della città di Firenze. Riportando su una pianta della città la lunga lista di indirizzi di industrie reperiti su queste fonti è possibile farsi un’idea della localizzazione delle imprese cittadine tra fine ’800 e primo ’900.

È evidente, a colpo d’occhio, la notevole consistenza dei settori metallurgico-meccanico e tipografico-editoriale, che si impongono come i più rappresentativi della realtà economica dell’epoca, sia per il numero degli stabilimenti sia per la consistenza degli addetti. Inoltre, è interessante notare come la loro localizzazione contribuisca a disegnare nel contesto urbano una sorta di geografia industriale separata e distinta. Le fonderie e le officine meccaniche erano ubicate perlopiù nelle aree periferiche lontane dal centro storico, mentre gli stabilimenti tipografici e le case editrici erano concentrate nelle vie centrali di Firenze, dando forma a una geografia industriale che, in un certo senso, incarnava e perpetuava due identità della città: da un lato, l’industria nelle sua accezione più moderna, dall’altra le attività legate alla produzione di beni culturali della Firenze città d’arte e “Atene d’Italia”, spesso con intere strade dedicate a particolari lavorazioni o commerci (si vedano gli orafi intorno al Ponte Vecchio o la lavorazione del legno in via Maggio).

Il panorama che ne emerge, inoltre, è caratterizzato dalla prevalenza della piccola e piccolissima unità aziendale, con un numero notevole di imprese gestite dal solo proprietario, e da settori largamente incentrati sul lavoro a domicilio. Dalla confezione di abiti alla preparazione di accessori in pelle, dalla lavorazione della paglia al ricamo, dal mosaico al mobile, il lavoro a domicilio risulta in effetti una componente essenziale del modo di “fare industria” della produzione manifatturiera fiorentina.

Nonostante la presenza di ditte ragguardevoli per la realtà dell’epoca – come la Società anonima Fonderia del Pignone, l’Officina Galileo, le Officine Ferroviarie, le Manifatture Tabacchi -, il tessuto industriale della città appare insomma frantumato e disperso in una miriade di situazioni produttive spesso molto differenti, fra le quali non è facile tracciare una precisa linea di demarcazione. Lo stabilimento come la piccola officina e il laboratorio, lo studio come la bottega dell’artigiano e la casa dell’operaio rappresentavano i diversi e molteplici luoghi della produzione, in una serie di interazioni e compenetrazioni che rinviavano a un universo composito e dinamico, non assimilabile alla fabbrica moderna, ma ugualmente figlio dei meccanismi innescati dalla rivoluzione industriale.

Ing. Pietro Veraci

Ing. Pietro Veraci

Accanto a questo tessuto fatto di micro-aziende, crescevano e si rafforzavano industrie più moderne. Proprio nei primi anni del secolo, alcune imprese cittadine si erano trasformate in società anonime, a conferma dell’esistenza anche a Firenze di importanti fenomeni di concentrazione produttiva e finanziaria. La fonderia dell’ing. Pietro Veraci, per esempio, nel marzo del 1905 si era costituita in società anonima con un capitale sociale di 800.000 lire e si stava dotando di nuovi reparti; la Fabbrica di automobili Florentia, divenuta società anonima nel 1903, aumentò il suo capitale per ben due volte tra l’aprile del 1905 e il marzo 1906 e conobbe un notevole potenziamento occupazionale, passando dai 55 addetti del 1904 ai 195 del 1907. Tuttavia, anche nel comparto metalmeccanico – settore che in quegli anni aveva assunto un ruolo trainante nel processo di industrializzazione nazionale – la realtà fiorentina si caratterizzava per la prevalenza di una meccanica di tipo leggero, ancorata a produzioni che non richiedevano grandi investimenti di capitale fisso. Nella varietà delle tipologie produttive figuravano però anche realizzazioni ad alto contenuto tecnologico quali, ad esempio, gli strumenti ottici prodotti dalla Galileo per la Marina militare. La storia stessa delle maggiori industrie metalmeccaniche fiorentine (Pignone, Galileo…) mostra, al contempo, l’esistenza di un processo di crescita e di rinnovamento dell’apparato industriale locale e il persistere di difficoltà ad adottare forme di organizzazione del lavoro più razionali e moderne. Pertanto, almeno nel primo quinquennio del ’900, l’industria metalmeccanica fiorentina non sembra conoscere quella radicale svolta nell’organizzazione del lavoro che era in atto già dall’ultimo ventennio dell’Ottocento in alcune grandi aziende metalmeccaniche dell’Italia del Nord. Ancora all’inizio del ‘900, l’industria fiorentina cresceva soprattutto grazie alla moltiplicazione di piccole unità aziendali scarsamente meccanizzate.

Questo fenomeno si riscontra anche in altri settori importanti nella realtà industriale cittadina. È il caso del variegato universo produttivo censito sotto la voce “industrie diverse”, di cui il settore tipografico-editoriale era di gran lunga il più rappresentativo. Accanto ad iniziative come quella avviata nel 1897 dal tedesco Leo Samuel Olschki, legato al mercato antiquario e agli ambienti culturali e accademici (italiani e stranieri), o ad alcuni stabilimenti più grandi – come quello di Antonio Civelli –, troviamo un fitto tessuto di piccole e piccolissime tipografie orientate a una produzione più propriamente commerciale volta a soddisfare la domanda proveniente da un turismo che, se non era ancora di massa, vedeva muoversi sulla scena cittadina flussi consistenti di persone, perlopiù straniere, interessate ad acquistare cartoline illustrate, carte decorate e incise in oro e colori, lavori artistici in carta e cartonaggi, incisioni, litografie di paesaggi e architetture della Toscana.

Antonio Civelli (Milano 1850- Firenze 1930). Editore, presidente della Camera di Commercio di Firenze 1891-93

Antonio Civelli (Milano 1850- Firenze 1930). Editore, presidente della Camera di Commercio di Firenze 1891-93

Al fine di valutare le caratteristiche della crescita dell’industria fiorentina di inizio secolo occorre guardare anche a tutte quelle lavorazioni che facevano ancora ampio ricorso al lavoro a domicilio. Stando a un’indagine della Camera di Commercio del 1904, nella confezionatura di biancheria – una manifattura che aveva un certo rilievo in una città che da qualche decennio aveva visto crollare le ultime vestigia di una attività tessile degna di nota – erano occupate a Firenze circa 500 «operaie cucitrici adibite da sole o in piccoli laboratori a questa fabbricazione». L’impiego di manodopera a domicilio era largamente diffuso e sottostimato, a causa della difficoltà di censire l’effettiva entità del fenomeno, anche in altre attività del settore come, per esempio, nella cucitura di divise militari.

Un altro aspetto che contraddistingueva la struttura produttiva fiorentina era la vivacità delle lavorazioni censite sotto la voce di Arti decorative ed industriali (1904). Ad accomunare queste produzioni non era la materia prima utilizzata o l’adozione di determinati procedimenti trasformativi, bensì l’attenzione riservata alle “qualità artistiche” del prodotto. La notevole varietà dei materiali adoperati – dal ferro al legno, dal vetro al merletto, dal marmo alla porcellana -, dei prodotti e la notevole eterogeneità delle figure coinvolte – dall’apprendista al piccolo imprenditore – dimostrano come la risorsa principale del settore fosse costituita dal patrimonio di mestieri recuperati dalla lunga tradizione artigianale fiorentina. Questo settore era caratterizzato da un fitto e variegato tessuto produttivo: la produzione artistica di più alto livello conviveva con l’attività di copiatura di opere d’arte – una vera e propria “industria della replica” – molto diffusa a Firenze in quegli anni, che traeva alimento dalla presenza di radicate colonie di stranieri e da un turismo d’élite particolarmente sensibile ai richiami del “prodotto artistico”. Accanto a questo lavoro di riproduzione e di imitazione di oggetti d’arte mutuati dalla tradizione tardo-rinascimentale – come per esempio le fedeli riproduzioni dei Della Robbia della Ditta Cantagalli o le pregiate terrecotte artistiche della Manifattura di Signa – si era notevolmente sviluppata la produzione di beni di consumo e di componenti per l’arredo (domestico e urbano) in stretta connessione ai progetti di ristrutturazione urbana degli anni Ottanta dell’Ottocento.[foto 6]

Dunque, la Firenze di primo ‘900 descritta da queste fonti si caratterizza per un impasto originale di specializzazione artigianale e di ammodernamento industriale. Funzionale all’idea di Firenze “città d’arte e di cultura”, tanto cara al ceto dirigente moderato toscano, questa struttura produttiva era il frutto di una trasformazione, di un adattamento della tradizione corporativa e artigiana alle esigenze della competizione industriale e ai cambiamenti del mercato. Accanto agli stabilimenti più grandi, che impiegavano macchine e motori, cresceva un fitto tessuto di piccole aziende a carattere familiare organizzate con criteri semi-artigianali. Era varia la tipologia dei luoghi adibiti alla produzione: dalla piccola officina, dove ritmi e cadenze del lavoro artigianale si alternavano a forme produttive più moderne – seriali ma di qualità – ai ricoveri per poveri; dalle scuole professionali, dove il motivo dell’apprendistato si saldava con quello della produzione, alla casa-laboratorio dell’operaio. Tra questi mondi c’erano contatti e interazioni reciproche, ma parallelamente si andavano sviluppando forme di associazionismo e di rappresentanza differenziate e articolate per categorie e classi, a cui il decollo industriale e la crisi del blocco di potere moderato avrebbero dato nuova visibilità nella Firenze degli anni giolittiani.

Articolo pubblicato nell’aprile 2015.