La battaglia di Piombino

Sono passati 80 anni da quel lontano 10 settembre 1943, quando gli abitanti di Piombino, sostenuti ob torto collo anche dalle forze armate presenti in città (soprattutto dalla Marina di stanza nel territorio della cittadina e lungo le coste del promontorio), si ribellarono alla presenza tedesca e diedero vita ad una vera e propria battaglia caratterizzata sin da subito da un amalgama difficilmente distinguibile di spontaneità e di organizzazione.

Attorno all’episodio, entrato immediatamente – perlomeno alla fine del conflitto – nella narrazione anche retorica costruita attorno alla Resistenza, si sono accumulate intenzioni estranee agli avvenimenti stessi, rendendo la battaglia piombinese un topos obbligato nella rievocazione delle azioni partigiane. Resta comunque il fatto incontrovertibile che essa fu il primo episodio di resistenza nei confronti dei tedeschi, a soli due giorni dall’annuncio dell’armistizio Badoglio dell’8 settembre 1943. A conclusione della guerra, la sua eccezionalità attirò l’attenzione non solo di politici (soprattutto comunisti e socialisti), ma anche di storici che si confrontarono più o meno dettagliatamente sulla vicenda.

Il primo fu il saggio di Ugo Spadoni, pubblicato nel 1955 (in occasione del decennale della Liberazione) su la «Rivista di Livorno», che portava un titolo significativo: Per una storia della battaglia di Piombino. Un paio di anni prima, invero, ne aveva fatto cenno anche Roberto Battaglia nella sua Storia della resistenza italiana, basandosi sulla testimonianza di Edo Azzolini pubblicata su «Vie Nuove» nel 1952.

Come desumibile l’episodio aveva attirato l’interesse di studiosi e di militanti per le sue caratteristiche di spontaneità e organizzazione, perché era il risultato, in parte perlomeno, di una città operaia e sovversiva dove l’odio per i tedeschi ed i fascisti aveva trovato l’occasione ed i mezzi per esprimersi, prefigurando in qualche modo la potenzialità di una sognata ed idealizzata presa del potere da parte delle classi subalterne che riuscivano a piegare ai loro fini anche le squadre del regio esercito. Con il passare degli anni si sono aggiunte altri ricerche: da quella di Ivan Tognarini (al quale si unì poi la voce di un non professionista della materia come Rocco Pompeo, che nel 1965 vi dedicò la tesi di laurea, successivamente pubblicata) fino ai più recenti ed accurati confronti con le carte d’archivio sulle quali ha lavorato Stefano Gallo, studioso sensibile alla tematica senza però mai farsi prendere la mano da un eccessivo entusiasmo come è invece accaduto per altri ricercatori. La stessa narrazione proposta da Ivan Tognarini risultava in qualche modo piegata alla necessità del riconoscimento della medaglia d’oro. Quella d’argento che era stata conferita nel 1973 apparve a tutta la cittadinanza e alla sua classe dirigente, saldamente in mano al Partito comunista, un riconoscimento non solo tardivo ma anche sminuente.

La vicenda, che si colloca due giorni dopo l’annuncio dell’armistizio, ricorrenza della quale quest’anno ricordiamo l’80° anniversario, si realizzò e si consumò nell’arco di circa 48 ore.

Occorre ricordare che nella città c’erano già state manifestazioni di entusiasmo per le strade in occasione del 25 luglio e che probabilmente già da quella data era andato costituendosi un Comitato di concentrazione antifascista presieduto da Ulisse Ducci, figura piuttosto ambigua nel panorama dei resistenti. Arrivato a Piombino dopo una condanna al confino perché implicato in un tentativo di uccisione di Mussolini, divenne abbastanza presto confidente dell’Ovra e giocò in tutto il periodo della sua presenza nella cittadina toscana un ruolo opaco. Tuttavia, fu anche capace di tessere relazioni con l’ambiente antifascista più genuino espresso dalla città, che vedeva in lui un eroe senza macchia[1]. Al suo fianco troviamo nel Comitato di concentrazione antifascista alcuni sicuri oppositori al regime come Giorgio Millul, Federigo Tognarini, Pio Lucarelli, Adriano Vanni, Renato Ghignoli ed altri. Quanto poi ciò che avvenne fosse tutto frutto della direzione del Comitato e quanto invece fosse il risultato di una volontà spontanea di parte della popolazione, è arduo da stabilire. Probabilmente giocò qui, come da altre parti, una mescolanza di entrambi gli atteggiamenti. In ogni caso furono tali spinte che in primis si rivolsero verso i soldati, in particolare i marinai presenti in città, affinché si facessero carico di uno scontro diretto con le truppe tedesche che, all’inizio della giornata del 10 settembre, erano presenti con forze esigue.

Al comando dei militari dislocati sul promontorio c’erano due personalità ben diverse: da una parte il capitano di corvetta Giorgio Bacherini; dall’altra il capitano di fregata Amedeo Capuano. Come ha sottolineato Bardotti nella sua prolusione alla cerimonia per il 10 settembre 2022, l’apparato di difesa militare che faceva capo all’esercito italiano per Piombino era significativo. Tutta la zona dipendeva dalla 215° divisione costiera agli ordini di Cesare Maria De Vecchi che aveva come comandante il generale Fortunato Perni, il quale, tra l’altro, poteva contare su due efficaci batterie a guardia del porto. Agli ordini del capitano Amedeo Capuano faceva capo una terza batteria, in buona efficienza affidata a Giorgio Bacherini. Il dispositivo era ulteriormente rafforzato dal XIX battaglione carri m42 (in tutto 38 mezzi), dislocato presso la pineta di Torrenuova e posto al comando del tenente colonnello Angelo Falconi. In tutto le difese potevano contare su circa 800 militari, oltre ai soldati in attesa d’imbarco per l’Elba, la Corsica e la Sardegna.

Le forze militari tedesche presenti in campo erano invece assolutamente trascurabili: un piccolo contingente tedesco composto da 7-8 militari dislocati presso una stazione radio, nonché dieci unità germaniche di naviglio leggero, erano ancorate in porto. Prendendo le mosse da queste ultime, un gruppo di trenta soldati tedeschi era sceso a terra poco dopo la proclamazione dell’armistizio per impadronirsi delle banchine portuali. Gli aggressori arrestarono alcune sentinelle a guardia dei moli e tentarono di occupare una postazione di mitragliatrici ma il capitano Bacherini, informato di questi movimenti, ordinò di difendere il porto e intimò l’arresto dei tedeschi presso la stazione radio. La batteria della Marina aprì il fuoco e cinque unità del Reich, di cui quattro in porto e una nel canale, vennero affondate mentre alcuni tedeschi vennero fatti prigionieri. Su questa prima reazione pesò sicuramente la volontà dei soldati italiani che fecero la “scelta”, pur senza ordini dall’alto, di resistere e combattere – sicuramente – sostenuti e incoraggiati dalla popolazione civile.

Questa risposta non era stata messa in conto da parte tedesca neppure come ipotesi: quest’ultima aveva pertanto agito sopravvalutando la propria capacità e la disponibilità alla sottomissione dell’ex alleato italiano.

Prima di procedere ulteriormente nella rievocazione della battaglia, che non risulterà lineare, credo sia utile fare alcune precisazioni, alcune di natura geografico-morfologica sulla collocazione di Piombino ed una di ordine sociale. La prima considerazione riguarda la possibilità di chiudere il capoluogo urbano con una relativa facilità. Vi si accedeva con una sola strada d’ingresso e il promontorio roccioso si prolungava verso il canale di fronte all’Elba. La considerazione di ordine sociale ed economico che probabilmente era il vero oggetto dell’interesse dei tedeschi per prendersi la città, era data dalla presenza di due grandi fabbriche siderurgiche: l’Ilva e la Magona, presenza questa che significava automaticamente una potenzialità di materiale bellico per il contingente tedesco, ma significava altresì anche la presenza di masse operaie che erano state sì sottomesse dal regime ma che non avevano mai coltivato verso di esso nessuna particolare inclinazione. Una composizione di classe fortemente politicizzata e sovversiva come scrivevano i tutori dell’ordine, con una forte e radicata tradizione anarchica, socialista e comunista. Vale la pena ricordare perlomeno due episodi, come fa Rocco Pompeo, della resistenza antifascista e dei lutti che questa dovette sopportare: quello di Lando Landi e quello di Amaddio Lucarelli ed Attilio

Landi. Lando Landi (da tutti conosciuto come “Landino”) era un anarchico per temperamento e per educazione che si era lanciato con tutto l’entusiasmo della sua età giovanile nella mischia sociale. Rappresentante di una resistenza individuale non organizzata, fu ucciso dal piombo di un sicario fascista in via Carlo Pisacane nel giugno del 1922. L’altro episodio della prima resistenza piombinese vide coinvolti Amaddio Lucarelli ed Attilio Landi, ambedue militanti comunisti, e fu di poco successivo al primo. Il 9 luglio 1922, in località “campo alle fave” (Fiorentina), i due giovani comunisti si trovavano sul terreno di campagna del loro vicino: Roberto Cantini. Mentre leggevano e commentavano il giornale, quattro fascisti arrivarono armati di rivoltella. Subito dopo ne giunsero altri sette o otto, ed uno di essi, probabilmente il capo della spedizione, si meravigliò di trovare ancora vivi Lucarelli e Landi, ai quali intimò di alzarsi. Estratta poi la rivoltella, aprì il fuoco: Lucarelli cadde ucciso, mentre Landi, ferito, fu soccorso dalle due sorelle Alfea e Maria, che avevano assistito alla scena[2].

Questi episodi vanno collocati ancora prima della presa del potere da parte delle camicie nere. Ricordiamo che tra gli assalitori di campo alle fave, una zona di campagna alle porte di Piombino, c’era anche il direttore dell’Ilva, Garbaglia. [3] Durante il ventennio le manifestazioni non si spensero mai del tutto anche se in sordina, soprattutto all’interno degli stabilimenti. In particolare, negli ultimi mesi del ’42, quando, per una serie di agitazioni operaie, per la pubblicazione insistente di stampa clandestina e la sua distribuzione nelle fabbriche, per le frequentissime scritte sui muri inneggianti ad un mutamento del regime, per l’ascolto di radio Mosca e radio Londra, centinaia di operai furono attesi all’uscita delle fabbriche e bastonati. Molti antifascisti vennero “mandati a letto” con minacce, purtroppo non vane. Il tutto in un clima nel quale il carattere peculiare del fascismo periferico andava rivelandosi più intollerante e spavaldo di quello centrale.

Ricordiamo anche il volantino diffuso il 30 luglio 1943 dal Comitato di Concentrazione Antifascista che incitava i cittadini piombinesi a stare allertati e a tenersi pronti ma vigili senza approfittare del momento, ciascuno al proprio posto di lavoro e all’ordine dell’esercito italiano. Il volantino finiva con: “Viva l’Italia libera!” [4]

Ma ritorniamo ai giorni della battaglia. Occorre ricordare che una delle otto divisioni tedesche che si trovava tra il Lazio e la Toscana, la 3° Panzer Grenadier, era giunta con il compito di collaborare alla difesa con una decisione unilaterale tedesca, perché Hitler personalmente “temeva molto uno sbarco anglo-americano a Livorno“. Di non minore importanza è il fatto che un’altra divisione germanica (la 90° di fanteria, già Sardinien) occupava nel frattempo la Sardegna e la Corsica.

Però occorre anche precisare che il territorio piombinese era stato munito di piani di difesa dallo Stato maggiore dell’esercito, che considerava poco probabile, ma non impossibile, che l’avversario attaccasse le coste del Tirreno toscano. A questo scopo erano state dislocate una serie di batterie lungo la costa, sul litorale, nei punti chiave per la difesa; altre forze militari dell’esercito nell’immediato retroterra; Rifugi Antiaerei erano stati approntati per la popolazione.

La batteria che si incontrava per prima, venendo da est, era quella della località “il Falcone”. Era una batteria navale da 194 mm, ed aveva il compito di contrastare, o di ritardare il più possibile, un attacco sferrato alla zona est del golfo di Salivoli.

Ad una distanza di circa cinquecento metri, spostandosi verso il centro di Salivoli, era piazzata una batteria con un radar da 88 mm; subito dopo nella località Podere Mazzano c’era una terza batteria da 191 mm. Tutta la zona centrale non vedeva nessuna difesa specifica anche perché in ogni strada, in ogni piazza, in ogni costruzione che dominava il territorio, erano collocate piccole unità che controllavano la zona ed avevano il compito di provvedere alla salvaguardia dei civili.

Tutti questi gruppi erano alle dipendenze dirette del Comando Marina, che si trovava sul “Castello”. Sullo stesso castello vi erano collocate due mitragliere R 76 mm. Così come un dispiegamento di forze era stato programmato per la zona del litorale sino al “Semaforo” dove si incontrava una batteria n. 190 da 120 mm alla quale ne seguiva un’altra, all’altezza del viale Regina Margherita. Era chiamato il gruppo mitragliere sud, per distinguerlo da quello nord, disposto alla sinistra di Corso Italia. Il gruppo nord di Casa Parrini doveva essere il corno sinistro della morsa che si sarebbe stretta intorno a chi fosse entrato dal porto per portarsi al centro della città. Il corno destro era dato dal gruppo complementare sud.

Nel retroterra erano dislocate altre tre batterie: una in direzione di “Ponte d’oro”, l’altra in direzione di “Monte Castelli”, la terza in direzione di Populonia: avevano l’ordine di contrastare un eventuale attacco dal lato nord. Erano rispettivamente: una batteria con radar; una batteria da 207 mm; una batteria antiaerea.[5] L’episodio dal quale tutto probabilmente si generò e precipitò è legato all’iniziativa militare di un gruppo di navigli leggeri tedeschi che, per impadronirsi delle banchine portuali, decise di sbarcare con circa trenta soldati poco dopo la proclamazione dell’armistizio. In seguito allo scontro tra i militari tedeschi e i marinai di Bacherini, questi ultimi ebbero la meglio. La catena di comando italiana ebbe a questo punto la sua prima crisi. Il generale Perni ordinò di liberare i prigionieri e di restituire loro le armi. Il capitano Capuano protestò energicamente contro l’ordine e intimò ai tedeschi di lasciare il porto prima delle 12:00 del giorno successivo.

Alle 4:30 un convoglio tedesco, comandato da Karl Wolf Albrand, formato da due cacciatorpediniere, un piroscafo e 10 unità minori, chiese di entrare in porto per approvvigionarsi di acqua e carbone e poi di ripartirsene. Quest’ultimo venne autorizzato ma, una volta attraccato, sarebbe dovuti ripartire immediatamente. Invece sbarcò velocemente, ma i soldi disarmarono le sentinelle e occuparono il punto di osservazione del semaforo. Fu a questo punto che l’azione, limitata fino a quel momento ai militari, passò nelle mani della popolazione, o perlomeno di una parte di essa. Furono gli operai del turno di notte dell’Ilva i primi a diffondere la notizia e a scendere per le strade e manifestare, chiedendo che la città venisse difesa, ma il generale Perni si limitò a schierare le sue truppe per il solo mantenimento dell’ordine pubblico.

Ricordiamo che le batterie aeree e navali erano in mano ai marinai (eccezion fatta per quelle di Salivoli e di Bocca di Cornia, nelle mani di militari del corpo di Artiglieria); un battaglione era dislocato nella pineta di Terranova. Nei pressi della stazione ferroviaria si trovava un centro di smistamento per la Sardegna, la Corsica, e l’Elba che ospitava in quel momento alcune centinaia di militari ed ufficiali. Sicuramente con queste forze in campo era possibile resistere anche se non possiamo sapere per quanto e con quale finalità.

Sul piano sociale e politico, la città a partire dal 25 luglio era stata attraversata da manifestazioni che chiedevano la pace e il ritorno a casa degli uomini partiti per la guerra e la pressione era stata tale che il Comune di Piombino prese una delibera, in data 3 settembre, solo 5 giorni prima dell’annuncio dell’armistizio, con la quale decideva di mutare nome a tutte le strade e località che ricordassero persone o avvenimenti del caduto regime per sostituirli con nomi che ricordassero cittadini e avvenimenti della lotta antifascista piombinese.

Tutto sembrava concorrere per uno scontro aperto. La situazione cominciò a muoversi più velocemente dopo il primo attacco da parte tedesca del 9 settembre, che, vista l’esiguità delle forze in campo poteva risultare, come poi risultò, avventato. Ma probabilmente la presa del porto di Piombino, vicino com’era all’isola d’Elba e alla Corsica costituiva un obiettivo certamente prioritario per le forze germaniche che queste non avrebbero assolutamente potuto mollare. All’inizio i tedeschi ebbero la peggio e corsero verso le loro imbarcazioni dopo una colluttazione con i marinai italiani che costò sicuramente dei feriti da ambo le parti.

Il passa parola su quello che stava avvenendo riempì le strade della città di popolazione e dei membri del Comitato di concentrazione antifascista che chiedevano ai soldati di respingere i tedeschi. I membri del comitato decisero quindi di rimanere in riunione permanente e chiesero alla Tenenza dei Carabinieri di frenare lo sfascio delle forze militari.

Nel frattempo i tedeschi non erano rimasti inermi e la mattina seguente entrarono in porto con 21 mezzi da sbarco (chiattoni armati con numerose artiglierie a bordo), 2 cacciatorpediniere, 1 corvetta, varie motolance ed un grande piroscafo da carico. Una volta sbarcati, occuparono militarmente il porto e, secondo parecchi testimoni, anche la capitaneria, disarmarono i marinai, i finanzieri e i soldati; incoraggiati dalla mancanza assoluta di ogni opposizione alcune pattuglie si diressero verso il semaforo, occupandolo senza alcuna resistenza.

La mattina verso le cinque – racconta l’operaio Amulio Tognarini – in fabbrica (Ilva) si sparse la voce: … i tedeschi stanno sbarcando… bisogna uscire… andiamo a vedere… bisogna difendersi. Poche ore dopo usciamo in massa dagli stabilimenti ed andiamo in piazza dove c’erano altri operai e molta folla:…cosa vogliono i tedeschi?…Perché i comandi li fanno entrare nel porto?…Ai comandi, andiamo a sentire cosa dicono i comandi… Perché i comandi non mettono in atto gli ordini di Badoglio? … Vogliamo combattere anche noi! Vogliamo le armi!

Ad un tratto comparvero i carabinieri gridando l’ordine di circolare e di sgombrare. Noi si rimaneva fermi e si cercava di parlare anche con i carabinieri. Ad un certo punto i militari stavano per aprire il fuoco. Ma non ebbero il tempo; ci si strinse intorno alla macchina urlando. Il maresciallo Ripoldi invitava alla calma e cercava di far comprendere la gravità della situazione. La folla spingeva…[6]

In questi scontri tra la popolazione ed i carabinieri Ermete Cappelli, un testimone e militante antifascista, ricorda che fu estremamente prezioso il deciso atteggiamento delle donne. “Furono loro … che si buttarono addosso ai carabinieri, li abbracciarono, ed impedirono che si facesse fuoco sulla folla. Si evitò così un inutile spargimento di sangue”.[7]

Le forze tedesche, consapevoli del pericolo che correvano, provarono a tergiversare promettendo che sarebbero tornati sulle loro imbarcazioni dopo essersi riforniti di acqua senza colpo ferire. Intanto i militari italiani presenti avevano cominciato a dileguarsi nel caos della situazione e senza ordini superiori chiari si verificò il fenomeno già ampiamente documentato sia dalla storiografia, che dalla memorialistica, che dal cinema di “Tutti a casa”.[8]

In città si formarono commissioni incaricate di fare opera di persuasione presso i soldati italiani che avevano abbandonato le loro posizioni, così come le fortificazioni preposte alla difesa della costa. Alcuni gruppi di cittadini andarono in camion fino a Campiglia per convincere soldati e marinai a tornare alle batterie. Anche il comandante della postazione del Semaforo era scappato con abiti civili e fu riportato indietro e rimesso a difesa della città.

Il generale Perni, visto che la battaglia era inevitabile, chiamò in rinforzo una colonna di carri armati dal senese che giunse verso sera. Da parte del Comitato di Concentrazione fu inviato un messaggio al Comando Marina dell’isola d’Elba per chiedere l’invio di alcuni caccia che si trovavano a Portoferraio.

Vennero decise le ultime misure difensive: squadre di cittadini controllavano alcune zone di accesso al porto, con l’ordine di “aprire il fuoco al minimo segno di ostilità da parte tedesca”. Altre squadre furono incaricate di procedere alla sorveglianza sulle spiagge che potevano diventare vie di accesso per imbarcazioni ed evitare così attacchi di sorpresa. Tali squadre, inoltre, avevano il compito di fermare tutti i soldati ed i marinai che affluivano dalle varie parti, e dalle città dove l’occupazione tedesca era già in atto, per obbligarli a riprendere le armi sotto il comando di zona.

La popolazione fu invitata con segnalazioni acustiche (macchine che giravano per le strade fornite di altoparlanti) a rifugiarsi nei ricoveri antiaerei prima delle ore 19.

Verso le 18, 00 arrivarono i rinforzi chiesti dal generale Perni, che si concretizzarono con l’arrivo del XIX° Battaglione Carri M/42 che, accampato alla pineta di Terranova (Venturina) a disposizione del comando del settore costiero di Piombino, si portò lungo la via piombinese nel tratto Osteria Fiorentina – Strada Statale, poi a Piombino nel pomeriggio del 10 settembre. Comandato dal tenente colonnello Angelo Falconi, disponeva di 20 carri armati e di 18 semoventi: a mezzo di ufficiali e di commissioni cittadine, tale battaglione fu disposto nei punti strategici ed in ordine di combattimento. Falconi poi scrisse:

Sotto l’imperversare del noto bombardamento scatenato improvvisamente dalle armi a bordo dei mezzi navali tedeschi, nella notte sull’11 settembre 1943, completai lo spiegamento delle forze schierate tra il semaforo e gli stabilimenti Ilva, e coordinai e diressi l’azione…[9]

La battaglia era sicuramente già cominciata alle 21.00 del 10 e si era aperto un forte scontro militare con la partecipazione della popolazione (perlomeno quella maschile e più organizzata) di rinforzo alla Marina e all’esercito italiano presenti. Sul luogo e l’inizio della battaglia i testimoni però non sono concordi. Di sicuro, quando lo scontro terminò, i tedeschi fatti prigionieri provenivano sia del Lazio che della Toscana, così come dalla Sardegna e dalla Corsica. Non si trattò solo di uno scontro tra truppe militari ma di una battaglia che vide la partecipazione attiva dei cittadini soprattutto nella difesa che partiva dalle batterie.

Verso la mezzanotte si udì un grande boato: la santa barbara del piroscafo da carico attraccato al lato destro del pontile dell’Ilva era saltata. Tutti, nelle ore della notte del 10 settembre 1943, ebbero da fare. All’ospedale fu assicurato un servizio completo ed interrotto per tutta la notte. Cosa normale in tempi normali, ma quando si osserva che a prestare servizio per tutta la notte fu don Ivo Micheletti ci si rende conto sia di come tutti contribuirono a dare un decisivo contributo alla battaglia, sia di come dalla vicenda emergesse una situazione di caos diffuso.

A trovare la morte per le ferite riportate nella battaglia di Piombino fu Giovanni Lerario, forse la prima vittima della Resistenza italiana. (Il Comune poi gli ha intitolato una via). Alle 3 del mattino dell’11 settembre i tedeschi si ritirarono. Coloro che invece si erano nascosti furono successivamente rastrellati e portati prigionieri al comando italiano. Sul numero dei morti tedeschi non c’è mai stata unanimità; c’è chi parla di 300 vittime e chi di 400. Certo è invece il numero dei prigionieri: 300.

Il disastro dei mezzi da sbarco tedeschi invece fu assai consistente: un caccia saltato in aria; un altro gravemente danneggiato; un piroscafo di medio tonnellaggio ed uno più piccolo, carichi di armi, viveri e munizioni, affondati; varie motolance e varie chiatte da sbarco danneggiate o affondate. Da parte italiana alcuni danni allo stabilimento dell’Ilva, due morti, e solo pochi feriti tra i militari.

Nonostante tutto, nonostante l’esultanza della popolazione, nonostante quella di alcuni militari coinvolti, ci fu un epilogo tragico, forse quasi scontato. Il gen. e fascista Cesare Maria De Vecchi, che da Massa Marittima comandava la divisione costiera della zona, venuto a conoscenza di tutto l’accaduto, impartì l’ordine di liberare i prigionieri.

I prigionieri, che erano stati condotti al castello ove aveva sede il Comando Dicat, furono così prelevati e fatti imbarcare su motozattere tedesche. Fu il comandante Bacherini a consegnarli ad un ufficiale dell’esercito che li aveva chiesti con un ordine del gen. Perni. Lo stesso ufficiale scortò i prigionieri fino al porto e sorvegliò le operazioni di imbarco.

Una sola trasgressione fu presa contro l’ordine di De Vecchi. Mentre quest’ultimo aveva ordinato il rilascio dei tedeschi armati liberi in città, il generale Perni non se la sentì di fare quello che sicuramente sarebbe stato visto e considerato dalla popolazione come una provocazione persino gratuita. Gli ufficiali, i soldati e i marinai abbandonarono i loro posti dove erano tornati per volere della popolazione. Alcuni di loro tentarono di opporsi a tale ordine, ma non poterono nulla per fermare la dispersione dei militari.

Al controllo del Presidio era rimasto un solo piantone: il comandante ed il vice avevano abbandonato la città, dopo aver dato ordine a tutti i reparti di abbandonare le proprie posizioni. Solo il Comando Marina, che già nei giorni precedenti la battaglia aveva fatto sua la volontà popolare, esitò prima di abbandonare la popolazione in mano al nemico.

La sera dell’undici, anche il comandante generale della piazza lasciava la città. Intanto tutti i militari avevano provveduto a rendere inservibili i carri lasciati sparsi per le strade. I pezzi delle batterie erano stati messi fuori uso e le armi e le munizioni fatte sparire. Alcuni vogliono che queste, poi, siano state consegnate ai gruppi di partigiani; altri affermano il contrario.

Le notizie provenienti dalle zone vicine fecero dilagare la sfiducia che si impadronì piano piano di tutti. Le poche novità che giungevano erano infatti sconcertanti e tragiche: solo Piombino, in tutta la Toscana, era insorta contro gli invasori. La città di Livorno era in mano tedesca; a Cecina un generale italiano ed un ufficiale tedesco si erano presentati al comando del Presidio per accordarsi sulla consegna del materiale bellico. A Grosseto l’aeroporto era caduto in mano tedesca.

L’isola d’Elba, su cui si era scatenato un bombardamento infernale da parte dei tedeschi, era caduta, dopo un’eroica resistenza, sotto il dominio germanico, e non aveva potuto inviare le due torpediniere richieste dai piombinesi durante la battaglia. Incombeva inoltre su Piombino la minaccia di un bombardamento, nel caso che i cittadini avessero deciso di continuare a combattere.

In parecchi a Piombino si erano compromessi e decisero di partire, di abbandonare la città prima che finisse in mano tedesca e di sicuro, tra questi, i più coinvolti nel Comitato di concentrazione antifascista. Bacherini ebbe l’ingrato compito di rendere inservibili le armi delle batterie ed i cannoni, e di distruggere tutti i documenti segreti. Fornì inoltre di una licenza-premio i suoi uomini che velocemente si dileguarono.

Dopo una notte insonne arrivarono i primi tedeschi. Nelle prime ore del 12 settembre 1943 erano di nuovo all’ attacco. Ma stavolta, a differenza di due giorni prima, solo le loro armi facevano fuoco. Nessuna reazione da parte italiana; la difesa, le batterie costiere, tacquero come cose morte.

Preceduti da fitte raffiche di mitraglia e da un ben nutrito fuoco di armi di bordo crivellarono di colpi alcune abitazioni di Piombino nei pressi del porto e iniziarono l’occupazione della città, completata da gruppi provenienti da Venturina. Alcuni pensarono addirittura che l’occupazione della città stesse arrivando via terra.

Si concluse così la “battaglia di Piombino”. Con una sconfitta cocente, ma con il ricordo per coloro che vi avevano partecipato di aver provato a difendere la propria dignità e ad uscire vittoriosi dentro una cornice sicuramente ostile.

*Tutto il testo che segue non è il frutto di una ricerca originale ma si appoggia in particolare al volume di Rocco Pompeo La battaglia di Piombino, Lumiéres Internationales, Lugano 2015, prendendo in considerazione anche il testo della prolusione di Riccardo Bardotti (Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea d Siena) pronunciata per la celebrazione del 2022 a Piombino e l’Introduzione al volume di Pompeo di Stefano Gallo, direttore della Biblioteca Serantini di Pisa e ricercatore presso il Cnr di Napoli. A Bardotti e a Gallo va il mio più sentito ringraziamento; per Pompeo rivolgo il mio ringraziamento ai suoi eredi. Le ricerche di Ivan Tognarini sono state ampiamente utilizzate da entrambi e quindi sono entrate in questo pezzo senza difficoltà.

[1] Come aveva sottolineato Pietro Bianconi in La resistenza libertaria. L’insurrezione popolare a Piombino nel settembre ’43, Tracce, Piombino 1983, p. X, poi ripreso da Stefano Gallo nella sua Introduzione al volume di Rocco Pompeo, la polizia aveva ben chiare le caratteristiche della figura di Ducci. Scriveva Bianconi: «Fin dal primo giorno del rovescio del regime fascista, in Piombino, si è messo in evidenza il noto Ducci Ulisse fu Bartolomeo allo scopo evidente di prepararsi una via per una eventuale carica politica. A dire il vero, costui, che ha un ascendente sulle masse operaie, si è affiancato alle autorità e si è tenuto in continuo contatto con i direttori dei locali stabilimenti, con le associazioni dei Mutilati ed invalidi di guerra allo scopo di fare ritornare la calma e perché tale calma continuasse. Nel pomeriggio del 2 andante è stato qui sequestrato l’unito foglio volante – dalle indagini esperite è risultato che autore è stato proprio il Ducci il quale lo ha confessato. Il contenuto di tale foglietto dà la riprova di quanto ho detto e che cioè il Ducci voglia collaborare con le autorità per il mantenimento dell’ordine pubblico. Ciò nonostante d’intesa col locale Comando Militare e con l’Arma dei CC.RR., il Ducci viene sorvegliato attentamente allo scopo di seguirne le mosse ed i precisi suoi scopi».

[2] Rocco Pompeo, La battaglia di Piombino, Lumiéres Internationales, Lugano 2015, p. 3.
[3] www.wuinewsnet, Il delitto di Campo alle fave, ultima consultazione 29 agosto 2023. Nel sito si parla di «direttore del personale e di Garabaglia».
[4] Il testo è riportato in R. Pompeo, La battaglia, cit., p.13.
[5] Tutte le informazioni sulla difesa militare provengono dal volume di Rocco Pompeo.
[6] R. Pompeo, La battaglia, cit., p.19.
[7] Ivi, pp. 19-20.
[8] Titolo assai azzeccato del film di Luigi Comencini del 1960 (con Alberto Sordi) in cui si racconta lo sfaldamento dell’esercito italiano dopo l’armistizio Badoglio.
[9] R. Pompeo, La battaglia, cit., p.23.




La svastica sul Giglio.

La mattina dell’11 settembre 1943 le truppe naziste entrano a Firenze. La città viene occupata senza colpo ferire. Il generale Chiappi Armellini, responsabile della sua difesa, si arrende mentre le truppe dell’ex alleato circondano e occupano le caserme fiorentine, arrestando i militari. Rapido e tragico epilogo delle ore convulse successive alla diffusione del messaggio del capo del governo, generale Badoglio, la sera dell’8 settembre. Appena avuto notizia dell’armistizio il Comitato interpartito delle forze antifasciste aveva richiesto al generale Chiappi Armellini di distribuire le armi alle forze antifasciste, ma questi si era rifiutato, ligio alle direttive militari, assicurando al tempo stesso la difesa della città. Ma i deboli tentativi di resistenza si erano immediatamente spenti, sia al passo dell’Abetone dove era stata inviata una batteria priva di armamenti adeguati, sia al passo della Futa dove si verifica l’unico scontro fra militari italiani e tedeschi in provincia di Firenze e dove era presente il capitano Carlo Nannoni che avrebbe poi assunto il comando della terza Brigata Rosselli e sarebbe morto combattendo per la liberazione di Firenze. Subito dopo la resa il Comando militare italiano, mentre i nazisti prendono possesso del Comando di Corpo d’Armata in piazza San Marco dove stabiliranno il proprio comando, ordina a ufficiali e soldati di restare o presentarsi alle rispettive caserme; ma molti erano già riusciti a fuggire, sottraendosi alla cattura, potendo contare sul sostegno della popolazione civile che li nasconde e protegge, realizzando così la prima forma di resistenza civile contro l’occupazione. Particolarmente facilitati sono i militari presenti nella caserma della Zecca sul lungarno grazie a un condotto sotterraneo che consente a molti di scappare sul greto del fiume. Oltre alle caserme sono immediatamente occupati due importanti realtà militari quali l’Istituto farmaceutico militare a Castello e l’Istituto geografico militare. Secondo i rapporti tedeschi sono circa 20.0008 settembre 1943: il disarmo e la deportazione degli Internati militari italiani.

La rapida occupazione di Firenze a parte delle forze germaniche si inserisce all’interno della più ampia strategia con cui assumono queste il controllo di tutta la regione all’indomani dell’8 settembre, all’interno delle strategie generali delle forze del Reich e in relazione alla peculiare rilevanza del nostro territorio. La Toscana ha infatti una specifica importanza nello schieramento delle forze naziste come snodo strategico nei collegamenti infrastrutturali fra le regioni del nord e Roma con tutta l’area centro-meridionale; ruolo che manterrà fino all’estate del 1944. Inoltre, dal settembre del ’43, la costa tirrenica assume una centralità assoluta dopo la perdita da parte dei nazisti delle principali grandi isole (Corsica e Sardegna), a fronte dei rischi di sbarchi e attacchi nemici. Una rilevanza che, peraltro, spiega l’intensa successione di attacchi aerei da parte anglo-americana sulle province toscane, in particolare sui sistemi stradali, ferroviari, oltre che sui principali nuclei industriali, accentuando le dinamiche che già avevano interessato in particolare Livorno nei mesi precedenti.
La presenza tedesca si struttura quindi, nelle settimane successive, parallelamente al costituirsi del governo della Repubblica sociale da parte dei fascisti nei vari territori, in due gruppi amministrativi: la Militarkommandantur 1003 con sede a Firenze – che interessa le province di Firenze, Siena, Arezzo e Forlì – e la 1015 di stanza a Lucca – comprendente le province di Lucca, Pistoia, Apuania, Pisa e Livorno – città quest’ultima presidiata dalla Wehrmacht e fatta evacuare fin dal mese di ottobre per la sua rilevanza strategica – (le cui relazioni sono fonti essenziali per lo studio di quei mesi); mentre la provincia di Grosseto viene posta sotto il controllo della M. di Viterbo.

Fin dalle prime settimane successive all’armistizio, le autorità naziste si pongono come la nuova autorità, riempiendo il palese vuoto di potere, come attestato dalle numerose direttive che sono emanate immediatamente e promosse dalla stampa, tutte legittimate da Le leggi di guerra germaniche in vigore nel territorio italiano emanate il 14 settembre. Il 17 il comando supremo nazista emana pene severissime, sino alla morte, per chi ruba o distrugge armi o strumenti bellici, così come per chi presta aiuto ai prigionieri di guerra anglo-americani fuggiti dagli ex campi di prigionia fascisti a seguito dell’8 settembre (minaccia che non limita un’azione solidale portata avanti dalla popolazione e che spesso si manifesta proprio come una delle prime forme di resistenza civile). Il 19 e 20 settembre lo stesso Comando nazista impone la presentazione di tutti gli appartenenti al disciolto regio esercito pena il trasferimento ai tribunali militari di guerra nazisti. Fra fine settembre e inizio ottobre le aree costiere sono segnate dalle ordinanze di evacuazione della popolazione civile, con conseguenze gravose per le vite delle persone, dalla costa grossetana (23 settembre) a Viareggio e Livorno (24 settembre), alla Versilia (ottobre). Centrale (e progressivamente crescente nel tempo) è poi la volontà di sfruttare le risorse economiche del territorio attraverso una diffusa politica di requisizioni di beni che troverà il suo culmine nella cattura degli uomini per il trasferimento coatto della manodopera nei territori del Reich, sancita anche dall’assegnazione a Firenze degli ufici dei comandi economici della Militarverwaltung dal novembre del ’43.
Come attestato dalla storiografia, anche nei mesi successivi e a dispetto delle volontà dei fascisti, questo dominio non verrà mai meno, rendendo evidente la subalternità della Repubblica sociale italiana nei confronti dell'”alleato occupante” secondo la nota e puntuale definizione coniata da Lutz Klinkhammer. Un rapporto ineguale che non elimina un ruolo politico esercitato da parte fascista (sia pure con pochi risultati, a partire dalla questione della leva militare), né l’insostituibile azione di governo amministrativo del territorio che viene affidato alla RSI, ma che certo non favorisce l’accreditamento e la legittimazione della repubblica fra una popolazione sempre più stanca e insofferente.

 




È bene che si vada via, ma però che si torni in Italia.

La Barbiera che vien di Francia è un canto tradizionale, di origine piemontese, conosciuto con alcune varianti più o meno in tutto il centro-nord d’Italia. La versione attestata sull’Appennino toscano parla di una donna che accetta di fare la barba ad un viandante, nel quale riconosce il marito rientrato dalla Francia solo dopo averlo rasato. La diffusione di questo motivo nell’Appennino toscano è provata dal fatto che gli alunni della scuola elementare di Piteglio (PT) la trascrissero, su dettato delle nonne, in un quaderno illustrativo realizzato per un progetto scolastico. Questi quaderni, oggi conservati alla Biblioteca Forteguerriana di Pistoia, rappresentano una fonte popolare di straordinaria originalità, che mostra quanto la migrazione rientrasse negli orizzonti tradizionali degli abitanti dell’entroterra toscano.

All’inizio del Novecento, la Francia rappresentava la mèta europea più frequentata dai migranti italiani, e per alcune regioni la prima destinazione in assoluto. Nel caso della Toscana (come del Piemonte e della Liguria), questa migrazione di massa si era innestata sulle rotte migratorie risalenti all’età moderna, percorse da stagionali e ambulanti, che sino all’Unità d’Italia avevano rappresentato i principali esempi di presenza italiana oltralpe. Dei 21.971 toscani partiti nel 1900, ben 10.571 erano diretti in Francia. L’attrattività di questo paese aumentò dopo la Prima guerra mondiale: nel 1921 il 78% degli emigranti toscani si dirigeva in Francia e tale percentuale giunse al 92% nel 1925, dopo la chiusura delle rotte transatlantiche.
La guerra aveva arrestato le partenze per qualche anno, ma anche posto le basi per una massiccia ripresa: in Francia, la mancanza di crescita demografica e la costante carenza di manodopera erano state aggravante dalle ingenti perdite umane sul fronte occidentale, mentre l’industrializzazione ormai avviata rendeva necessario un costante afflusso di lavoratori stranieri. La storiografia ha evidenziato recentemente il ruolo della Grande guerra come incentivo per una regolamentazione dei movimenti di lavoratori tramite canali diplomatici. Il Commissariato generale dell’emigrazione (CGE) era stato fondato nel 1901 e aveva esteso via via le proprie funzioni; nel 1915 fu incaricato di approvare le richieste di reclutamenti di manodopera dall’estero e di rilasciare nullaosta per le richieste di espatrio, divenendo di fatto «organismo competente» per il disciplinamento dei reclutamenti. Dopo la guerra, il Trattato di lavoro Italia-Francia del 30 settembre 1919, equiparava i lavoratori italiani ai francesi in merito all’accesso alle tutele sociali e previdenziali; a livello pratico, era previsto che il Servizio manodopera straniera presso il Ministère du Travail raccogliesse le richieste e le relative proposte contrattuali e le trasmettesse al CGE, il quale, valutatane la liceità, attivava i canali di reclutamento locali.

Il caso di Piteglio dimostra che questo canale di reclutamento fu talvolta utilizzato da alcuni migranti giunti individualmente nel bacino minerario del Nord della Francia, che riuscirono a servirsene per richiamare amici e parenti.
Il comune di Piteglio si trova sull’Appennino pistoiese, a nord della Val di Nievole, a pochi chilometri dalla provincia di Lucca e a quasi 700 metri sul livello del mare, mal collegato con la pianura e dunque troppo distante dall’agglomerato industriale in via di sviluppo sull’asse Firenze-Prato-Pistoia. L’abitato sparso tipico dell’Appennino comportava l’inclusione nell’ente comunale, oltre al borgo di Piteglio, di diverse località, come Popiglio, Calamecca, La Lima e Prataccio, per una popolazione totale di 4.761 abitanti secondo il censimento del 1921, il primo a registrare un calo demografico che non si sarebbe più arrestato. Ad eccezione della Società Metallurgica Italiana a Campotizzoro, il comparto industriale era praticamente inesistente e la scarsità di entrate provenienti dalle professioni tradizionali, legate allo sfruttamento del bosco e alla raccolta delle castagne, esponevano da tempo l’Appennino pistoiese alla migrazione stagionale.
Il quaderno realizzato dagli alunni della scuola elementare di Piteglio fu prodotto nel 1929 insieme ad altri 362, provenienti dalle scuole del circondario, nell’ambito del progetto La scuola in mostra, lanciato in occasione dell’istituzione della provincia di Pistoia. Con qualche differenza, i quaderni rispondono tutti allo stesso schema dettato dall’insegnante: la storia del paese, le sue caratteristiche geografiche, la piazza, la chiesa, la popolazione e il folklore.
L’emigrazione è una costante nella descrizione dei borghi della montagna, mentre è spesso assente nei quaderni dedicati a comuni di pianura, ad esempio Quarrata; la sua presenza fra gli orizzonti culturali della comunità appenninica è provata anche dalle filastrocche, come era appunto La barbiera che vien di Francia, o Il carbonaio, il cui mestiere «Venire e andare è tutto un via vai». Qualcuno aveva spiegato ai bambini che le risorse della montagna «non basta[no] al mantenimento di tutti, perciò c’è bisogno dell’emigrazione. Senza contar quelli che fanno ogni anno la migrazione nella Maremma, molti àn sic trovato lavoro nelle miniere della Francia del Nord o alle macchie dell’alta Marna. […] Anche quelli che vanno nell’America del Nord son minatori, mentre quelli che vanno nel Brasile sono boscaioli».

L’influenza delle politiche del regime in materia migratoria è presente anche in una fonte così periferica: i piccoli cittadini di Piteglio scrivevano che «è bene che vanno a guadagnare. Arricchisce la famiglia e quei soldi vanno spesi in Italia. È bene che si vada via ma però che si ritorni in Italia». Nei quaderni non mancano i grafici recanti dati demografici sui nati, i morti e le partenze: il 1921 risulta l’anno in cui l’emigrazione toccò picchi particolarmente alti, sono indicate 254 partenze dal solo borgo capoluogo, a dispetto di 90 nel 1920 e 72 nel 1922; 42 dalla frazione di Prataccio, contro le 15 nell’anno precedente e le 12 nel successivo. Nel censimento del 1931 il comune di Piteglio aveva perso il 20% della popolazione rispetto al censimento di dieci anni prima e 1.273 pitegliesi risultavano stabilmente residenti all’estero.
Ritroviamo buona parte dei pitegliesi espatriati nel comune di Fenain, nel Nord della Francia: la ragione di questo trasferimento potrebbe sembrare una richiesta di manodopera al sindaco del comune proveniente dalla Compagnia delle miniere di Aniche, attiva nello sfruttamento dei pozzi di estrazione del bacino carbonifero del Nord-Pas-de-Calais.
L’Archivio storico comunale conserva la corrispondenza in merito tra il sindaco e il sottoprefetto. Un incrocio con i dati contenuti nello Stato civile dimostra che quando le miniere di Aniche si rivolsero al sindaco avevano già alle proprie dipendenze alcuni pitegliesi, arrivati prima della guerra e interessati a farsi raggiungere da amici e parenti. I documenti reperiti ci dicono ad esempio che Giovanni Picchiarini giunse a Fenain con la moglie nel 1911 e che i fratelli Giuseppe ed Eugenio Ferrari lavoravano per la compagnia già nel 1912. Dopo la guerra, tra il 1919 e il 1920 migrarono nel Nord anche i fratelli di Picchiarini e i cognati, Luigi e Orlando Pacini, fratelli della moglie.
La richiesta di manodopera giunse al sindaco alla metà del 1921, momento dell’aumento delle partenze dal borgo appenninico registrato dai piccoli pitegliesi. Non ci è possibile stabilire precisamente il numero di espatri dal comune alla regione mineraria francese, tuttavia negli anni Trenta le fonti di polizia individuano circa una cinquantina di minatori, stabiliti in Francia con le proprie famiglie da diversi anni. Lo Stato civile del comune permette di dire con certezza che una decina di famiglie espatriarono in diversi momenti tra il 1922 e 1929, secondo una prassi ben nota alle dinamiche migratorie: prima gli uomini, in un secondo momento i fratelli minori, le mogli e i figli. Ad esempio, a Pietro e Bruno Orsucci si unirono prima il fratello Renato, poi Duilio e nel 1928 il padre Silvio, con l’omonimo nipotino, rimasto orfano.
È verosimile supporre che l’attivazione del canale di reclutamento ufficiale nel 1921 volesse regolarizzare una filiera migratoria spontanea. Alcuni pitegliesi giunsero nella corona mineraria Douai-Valenciennes per motivi contingenti e vi restarono, verosimilmente in considerazione del fatto che il carbone rientrava fra i propri orizzonti professionali. Una riconversione, dalla produzione di carbone dai boschi all’estrazione di tipo industriale, si rese senz’altro necessaria, ma la familiarità con il carbone appare la base per l’inserimento di questa comunità nella produzione industriale su scala europea. Il fatto poi che la richiesta di manodopera salti i canali ufficiali – Ministère du Travail e CGE – e giunga direttamente al sindaco, unita alla presenza pregressa di pitegliesi nel comune di Fenain, avvalla l’ipotesi che la richiesta di reclutamento sia stata mossa dai compaesani già stabiliti.
Le ragioni essenzialmente economiche alla base di questa migrazione si intrecciano e si sovrappongono a casi in cui è possibile evidenziare anche ragioni politiche, ovvero a militanti, nella gran parte dei casi socialisti, che preferirono trasferirsi per fuggire al montare dello squadrismo in Italia: la prefettura di Pistoia riferiva nel 1930 che tal Ardelio Cecchini fu «in passato un ardente comunista propagandista […] col sorgere del fascismo, per tema di rappresaglie, emigrò all’estero»; Federico Coppi «durante il periodo bolscevico fu accanito comunista e segretario della sezione del partito a Mammiano»; Egidio Seghi «prima del suo espatrio, malgrado la giovine età, professò apertamente sentimenti comunisti dimostrando palesemente la sua ostilità al regime».
Insomma, nella migrazione da Piteglio al Nord della Francia dei primi anni Venti, vi sono percorsi individuali per cui le ragioni puramente economiche sono completate dal pesante clima che si respirava nella penisola: l’inflazione, la crisi occupazionale, ma anche l’instabilità degli ultimi governi liberali, le agitazioni sociali e il vorticoso sviluppo del movimento fascista.
Una rapida analisi della migrazione da Piteglio all’indomani della prima guerra mondiale ha dunque offerto Spunti di riflessione in tre direzioni: il trasmutarsi dei mestieri e delle rotte migratorie risalenti all’età moderna in movimenti inquadrati nell’ambito degli Stati nazionali e del sistema di produzione industriale; la presenza di reti comunitarie, indispensabili al concepimento della mobilità, che negoziano con la normativa vigente per permettere gli espatri e i ricongiungimenti familiari; infine, il fatto che le rotte della migrazione economica siano servite anche per l’espatrio di militanti comuni che si sentivano minacciati dal fascismo, tematica di grande interesse che meriterebbe una maggiore attenzione storiografica

RIFERIMENTI ARCHIVISTICI

Biblioteca Forteguerriana, La scuola in mostra, quad. 106 Piteglio
Archivio storico comunale di Piteglio, Corrispondenza 1921, titolo XIII Esteri
Archives Departementales du Nord, Carte d’identités étrangers, 321 W 115579
Archivio centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Casellario politico centrale, b. 1221, 1463, 4732




“come se una nuova vita si spalancasse davanti a loro…”

Tutto era ormai compiuto. Nella notte fra il 24 e il 25 luglio il Gran Consiglio del fascismo aveva votato, Mussolini, presentatosi al cospetto del Re credendo di riceverne il sostegno, che mai era mancato, era stato invece arrestato; il generale Badoglio aveva costituito il nuovo governo. Eppure l’annunzio viene trasmesso solo a tarda sera, alle ore 22.48, con due proclami del Re e di Badoglio. Chiusa in casa la popolazione resta quasi attonita prima di sprigionare pianti e risa di gioia che si intrecciano negli incontri per le scale dei condomini, mentre la voce si sparge anche nelle famiglie che non hanno la radio.
Ma è soprattutto dalla mattina del 26 luglio che anche a Firenze, come in molte città italiane esplode la gioia della popolazione in numerose manifestazioni spontanee caratterizzate dall’esposizione dei tricolori nazionali. Mentre viene annunciato il passaggio dei poteri dalle autorità civili a quelle militari con la proclamazione del coprifuoco e dello stato d’assedio.
La “caduta” di Mussolini era immediatamente identificata con il concretizzarsi della fine della guerra e di una svolta positiva nelle proprie vite a fronte delle paure e dei disagi causati dal conflitto, aggravatisi con il passare dei mesi, che avevano suscitato una crescente insofferenza e quindi un progressivo distacco dal regime. Nessuno presta fede alle parole del maresciallo Badoglio. “. . la guerra continua..“. Ecco perché, quando pochi giorni dopo, la mattina del 28 luglio, si diffonde la voce incontrollata che sarebbe stato firmato l’armistizio dal nuovo governo, le fonti di polizia avvertono il capo della Polizia Senise che i fiorentini si sono subito abbandonati a manifestazioni di gioia nel centro della città. Nonostante venga subito fatta sgombrare ogni manifestazione e sia chiarità la falsità della notizia, nella popolazione “traspare un vivo, immenso desiderio di pace e di tranquillità” (da Relazione Commissario Capo PS Ingrassia a capo della polizia Senise, 28 luglio 1943).,”I cittadini che s’incontravano per le strade e negli uffici si abbracciavano con effusione, come se una nuova vita si spalancasse davanti a loro, come se la possibilità di esprimere quanto covava nel loro animo da tempo creasse un nuovo rapporto sociale e desse un significato dimenticato alle parole patria e nazione.” [C. Francovich, La Resistenza a Firenze, La Nuova Italia editrice, 1961, p. 16]
Si formano cortei esultanti, pur senza parole d’ordine. Convergono in piazza Vittorio Emanuele) ora piazza della Repubblica) e quindi in piazza del Duomo cantando i vecchi inni del Risorgimento. Si sventolano i tricolori, si inneggia al Re e al Badoglio, forse sperando che avessero davvero la ricetta per portare l’Italia fuori della terribile situazione nella quale era stata condotta dal Regime. Una speranza che certo non temeva conto di complicità e responsabilità passate che invischiavano tutta la classe dirigente del Paese, ben oltre il Duce e la sua stretta più ristretta, ma soprattutto delle dinamiche internazionali e in particolare dell’interesse militare strategico che il controllo della penisola aveva per l’alleato germanico. Eppure, una speranza comprensibile, nella sua stessa ingenuità, come sollievo temporaneo dopo mesi di timori, lutti, miserie. Una speranza che responsabilizza ed evita in quelle ore scontri o assalti ai luoghi fascisti, stupendo lo stesso servizio d’ordine immediatamente attivato dalla Questura che temeva disordini “sovversivi”. Ma una speranza destinata a infrangersi presto. Un’altra manifestazione è animata in piazza San Marco, sede del rettorato, da parte degli studenti universitari e delle scuole medie: sventolano i tricolori e gridano “viva la pace” anche se carabinieri e forze dell’ordine intervengono e li disperdono.
Tuttavia in quelle prime ore, è la gioia la nota dominante. La popolazione festeggia gli stessi presidi dei militari schierati per mantenere l’ordine pubblico. I fascisti quasi paiono svanire nel prendere atto di un mutamente generale ed inarrestabile. Pochissimi incidenti: qualche percossa e qualche giacca strappata a fronte di quei fascisti che avevano deciso di mantenere comunque il distintivo del partito all’occhiello. Ma nessuna violenza grave viene registrata; solo scontri con qualche sparatoria sul ponte alla Carraia. Anche le voci sul presunto omicidio del ras di San Frediano, Gambacciani, che sarebbe stato gettato in Arno come lui aveva fatto nel 1938 con un giovane antifascista è del tutto falsa, visto che il fascista riapparirà vivo e vegeto dopo l’8 settembre. Tra il 26 e il 27 secondo la Nazione solo 30 persone si presentano ai vari ospedali cittadini per ferite da percosse (di cui solo uno grave). Certo sono indici di violenza comunque praticate, ma comunque minime se si considera ciò che avrebbe potuto accadere dopo tanti anni di soperchierie, angosce, brutalità praticate dai fascisti, dopo le sofferenze di quei mesi di guerra e nel contesto di violenza radicale di quel conflitto. La rabbia si scatena contro i quadri e i busti del Duce, le targhe di strade e piazze intitolate a esponenti o simboli del regime.
Intanto le forze antifasciste iniziano a muoversi. Accanto allo spontaneismo delle prime manifestazioni operano i gruppi antifascisti, almeno i più organizzati. In particolare i comunisti si ritrovano già la mattina del 26 luglio nella casa di Fosco Frizzi (dirigente del movimento giovanile comunista, arrestato e condannato al carcere durante il ventennio) e stampano in ciclostilato un primo appello alla popolazione. Uno degli obiettivi che viene posto per le manifestazioni dei giorni successivi è la liberazione dei prigionieri politici dal carcere delle Murate. Vengono mobilitate le cellule clandestine del partito, in particolare quelle presenti negli stabilimenti industriali come la Galileo, presidiati dai carabinieri.
Ma è l’insieme delle forze antifasciste a muoversi, riunite nel Comitato interpartitico, composto da Marino Mari e Aldobrando Medici Tornaquinci per i liberali, Enzo Enriquez Agnoletti e Carlo Furno per gli azionisti, Arturo Bruni, Alfredo Bruzzichelli e Diego Giurati per i socialisti, Mario Augusto Martini e Adone Zoli per il partito dei cattolici: la Democrazia cristiana; Giulio Montelatici per i comunisti. Il Comitato interpartitico si reca in Prefettura per chiedere lo scioglimento del fascio, provvedimenti contro i fascisti, la liberazione dei detenuti politici. Il prefetto si limita a trasmettere al Ministero le richieste. Grande prudenza anche da parte delle autorità militari, con il Comando del Corpo d’Armata che tiene i soldati consegnati nelle caserme, evitando incontri con la popolazione. Il 30 agosto all’Università è nominato rettore Piero Calamandrei.
Nel mondo del lavoro si cerca di coinvolgere gli operai con l’Appello dell’Unione proletaria di Firenze, pubblicato sulla Nazione del 28 luglio, edizione sequestrata:
In questo momento critico, in cui i nostri animi si aprono alla speranza siamo ancora esposti alle insidie dei nostri nemici. Per venti anni avete ascoltato gli ordini di chi vi ha sempre ingannato, promettendovi molto e non concedendovi nulla.
L’Unione proletaria è il fronte di tutte le organizzazioni che durante l’oppressione fascista non hanno cessato di combattere per i nostri diritti. Oggi l’unione proletaria è l’unico organo in grado di dirigervi e di mettervi in guardia contro gli agenti della reazione. […]
Operai! Attenti a non ripetere gli errori del ’20 che cadrebbero a nostro danno. Attenti agli atti inconsulti! Vigilate sui macchinari delle fabbriche che sono la garanzia della nostra vita! Operai imparate a conoscervi! I soldati sono vostri fratelli. Non diffidate di voi stessi. Unitevi! Viva la libertà! Viva l’Italia!“.
Nelle industrie sono costituite le “commissioni di fabbrica” che iniziano ad avanzare richieste riguardanti i salari e l’alimentazione. L’Unione dei commercianti intanto indice un referendum fra i soci per eleggere le proprie cariche.
Nelle settimane successive i partiti antifascisti cercano di organizzarsi, uscendo dalla clandestinità. Il 22 agosto i socialisti costituiscono la sezione del Partito in casa del vecchio Gaetano Pieraccini, fra i fondatori del PSI nel 1892. Il Partito d’Azione tiene la propria assemblea regionale nella sede di “la scena illustrata” in lungarno Guicciardini e dal 5 al 7 settembre terranno proprio a Firenze, in casa di Carlo Furno e Enriquez Agnoletti il primo congresso nazionale. Sempre il 5 settembre i liberali si riorganizzano nel movimento “Ricostruzione liberale”; nasce anche un raggruppamento della Democrazia del Lavoro. Il partito comunista , che la sera del 20 agosto aveva ricostituito il comitato provinciale, si rafforza con l’arrivo di dirigenti di grande spessore politico e organizzativo come Giuseppe Rossi, Mario Fabiani, Guido Mazzoni, Mario Garuglieri e all’Università viene costituito il Fronte della Gioventù. Fra i dirigenti comunisti molti affermano con sicurezza che i tedeschi occuperanno presto il Paese, soprattutto se il Governo Badoglio non farà appello al popolo e non farà consegnare le armi dall’esercito. A favore della richiesta di una mobilitazione popolare per la pace e contro la presenza nazista convergono anche socialisti e azionisti nel corso di una riunione tenuta con i comunisti il 3 settembre. Escono I primi periodici antifascisti: il partito d’Azione pubblica “oggi e domani”, i socialisti “Socialismo”, La Pira pubblica due numeri del bollettino “San Marco” che illustra il suo programma cristiano-sociale; i comunisti distribuiscono 2L’Unità” che arriva da Milano e diffondono manifestini vari.
Ma la Storia segue un corso diverso. Queste timide tendenze saranno presto bloccate da un nuovo proclama nella notte. E per gli uomini e le donne, le forze sociali e politiche si aprirà una stagione terribile, a fronte del prolungarsi della guerra totale, del manifestarsi dell’occupazione nazista e del governo fascista collaborazionista di Salò. E tutti si troveranno di fronte alla sfida decisiva per cambiare il futuro di se stessi, della città e del Paese.




Tombolo: storia e memoria di un mito politico

«E Tombolo diviene l’inferno del dopoguerra italiano»[1]. L’immagine che il giornalista livornese Aldo Santini restituisce nel capitolo di apertura di un suo libro di successo, edito nel 1990 da Rizzoli, viene da lontano ma rispecchia anche, in modo esemplare, una precisa stagione della memoria. Come insegna Maurice Halbwachs, la memoria collettiva adatta il passato ai bisogni, alle visioni e alle motivazioni ideali del presente. Il volume di Santini non sfugge a questa regola. Il suo anno di pubblicazione è di per sé significativo. La fine degli anni Ottanta, con la crisi della narrazione egemonica antifascista, portava infatti a riscoprire, al di sotto della celebrazione della guerra di liberazione contro il nazifascismo, la dimensione della “guerra civile” e della “guerra ai civili” (due concetti che, di lì a poco, avrebbero dominato la critica e la divulgazione storica). Da qui la fascinazione per gli aspetti più antieroici del conflitto totale, nel suo configurarsi come scontro crudele da entrambe le parti, crimini angloamericani inclusi. [1]
Fin dal 1946-47 la pineta di Tombolo – una striscia di litorale tirrenico tra Pisa e Livorno, che ospitò accampamenti e depositi militari alleati – è stata oggetto di un processo mitografico che ha fagocitato e banalizzato i fenomeni della prostituzione bellica e del mercato del sesso rivolto all’esercito occupante, a sua volta sincretizzati in una delle più fortunate icone dell’anti-italianità: La Segnorina[2]. La storia delle donne che si prostituirono clandestinamente con gli alleati ha suscitato la morbosa attenzione dell’opinione pubblica e degli attori della cultura di massa, perfino a livello internazionale. Visitata dalla cronaca nera, dalla pubblicistica e dal cinema dell’immediato dopoguerra, essa ha assunto lo status di luogo della memoria; a distanza di decenni ha acquisito una rinnovata visibilità, coerentemente col clima di revisione anti-antifascista e post-antifascista che si è imposto nel dibattito mediatico e nell’industria culturale. All’uscita del libro di Santini, i lettori del quotidiano più venduto nel Paese poterono essere istruiti sui peggiori cliché di una «torbida leggenda»: Tombolo come «centro di turpitudini, noto in tutto il mondo, [che] contraddistinse l’epoca non ancora dimenticata della degenerazione umana, del delitto, del sesso criminale, della rapina, della diserzione»; «Mecca d’una ricchezza facile e larga»; «linea del massimo livello toccato dalla degradazione e dalla voluttà animalesca d’un Paese costretto a sopravvivere senza pensare più a niente»; «Quotidiana festa panica», teatro di malfattori licenziosi e déracinés «antesignani d’una beffarda dolcevita»; popolata da «incredibili personaggi», segnorine, sciuscià, «», borsari neri, delinquenti e disertori[3]. Tali stereotipi venivano rimessi in circolazione in modo del tutto acritico, riproducendo senza alcun filtro le rappresentazioni create ai tempi della sortie de guerre.

Negli anni della presenza alleata, Livorno e Tombolo costituirono per l’appunto il palcoscenico di un racconto che mostrava al pubblico italiano l’intollerabile relazione tra GIs neri e donne di inesistente virtù. Grazie all’operazione inventiva di giornalisti, intellettuali e artisti, la realtà prosaica di una striscia di costa tra il mare e l’Aurelia fu trasfigurata nella quintessenza del proibito, dell’esotico e del dissoluto, sintesi di un mondo al contempo repellente e affascinante. «Città proibita», «perduta», «paradiso nero»: le varie sfumature di Tombolo, anche sul piano linguistico, denotano la plasticità di un manufatto culturale capace di intercettare gli umori di strati sociali diversi, per estrazione e appartenenza partitica. Tombolo è stato un dispositivo narrativo di grande efficacia, intrinsecamente politico nel rendere immediatamente percepibili i confini di una comunità (locale/nazionale) in via di rifondazione, e il profilo di una democrazia nascente che non intendeva sovvertire le gerarchie di genere e razza: in tal senso, un “mito politico”.
Si consideri, per esempio, la Gazzetta di Livorno. Tramite Tombolo il quotidiano social-comunista denunciò i guasti del capitalismo statunitense e rivendicò l’onore della stragrande maggioranza del popolo italiano, ritenuto antropologicamente estraneo alla corruzione delle «segnorine silvestri» cadute nelle reti dell’alleato nemico. Fu Gino Serfogli, già nel 1946, a scrivere per la Gazzetta un reportage a puntate, poi raccolte in un opuscolo di «cronache sensazionali» andato a ruba nelle edicole al costo di trenta lire. I pezzi su Tombolo, rilanciati dal Corriere d’informazione, conquistarono le pagine della stampa nazionale, codificando i contorni di una storia a metà tra il noir e il mélo. Insieme all’infelice destino delle prostitute, trattate con un misto di denigrazione, maschilismo e moralismo compassionevole, vennero esposte al giudizio del pubblico la depravazione del meticciato interrazziale e l’infelice sorte dei “mulattini”, frutto del malo incontro tra donne scostumate e selvaggi ubriachi, sfrenati e incivili[4]. Lo stesso Santini, all’epoca firma de Il Tirreno, fu tra i primi a descrivere i fatti della pineta, nella quale accompagnò personaggi come Curzio Malaparte e Federico Fellini, a loro volta richiamati dall’eco di turpi misfatti e relazioni pericolose. Il risultato dei “pellegrinaggi” nella mitica Tombolo furono scritti e pellicole cinematografiche che fissarono nella memoria del dopoguerra una narrazione romanzata, in cui rimaneva intrappolato lo sguardo dei narratori, animati dalla volontà di smascherare le nefandezze dell’esercito americano o l’immoralità della Livorno “rossa”, città simbolo del Partito Comunista Italiano, a seconda che a parlarne fossero Indro Montanelli, Arrigo Benedetti, Giorgio Ferroni, Fellini, Alberto Lattuada, Malaparte e altri ancora.
Montanelli ebbe un ruolo decisivo nel trasformare quel lembo di macchia mediterranea nell'”Africa di quaggiù”, applicando le figurazioni della letteratura coloniale al popolo della pineta. Tra gli sceneggiatori di Tombolo, paradiso nero, film uscito nel 1947 sotto la regia di Ferroni, l’ex-volontario in Etiopia aveva dedicato a Tombolo alcuni articoli sul Corriere d’Informazione: emblematica, tra questi, la storia di un fantomatico disertore afroamericano, nascosto nella pineta e impazzito dopo avere scoperto che il figlio «mulatto», avuto da una segnorina, era stato ucciso dalla madre, e avere a sua volta ucciso l’infanticida. Il «» veniva pensato come «il Tarzan e il King Kong» di Tombolo, vestito di una pelle di leopardo e ululante nella notte[5]. Rappresentazioni simili erano offerte da Malaparte, secondo cui nella foresta toscana «Les nègres avaient créé une espèce d’horrible casbah, une jungle habitée par des fauves à l’aspect humain»[6].
uell’immaginario giungeva dunque quasi inalterato in una memoria degli anni Novanta, che continuava a discettare di neri e di donne di malaffare, ricevendo il plauso della stampa italiana. Vale la pena interrogarsi sul perché di questo persistente successo, nonostante esistessero letture altre rispetto alla denigrazione pura e semplice delle segnorine e dei loro rapporti interrazziali. Basti pensare a Senza pietà di Lattuada (1948), la cui epica neorealista comportava, pur con innegabili ambiguità, uno sguardo indulgente verso i perdenti e le figure marginali/criminali, privo della sprezzante stigmatizzazione della promiscuità tra bianchi e neri che aveva segnato il canone dominante di Tombolo, paradiso nero. Innanzitutto, come già accennato, le descrizioni della pineta incorporavano e divulgavano categorie centrali nella ricostruzione dell’identità politica del dopoguerra, quelle di nazione, genere e razza. Attorno ad esse si concentravano questioni di vasta portata: il posizionamento a favore o contro gli Stati Uniti, la critica o l’assenso al capitalismo “d’importazione”, lo svincolarsi o meno dal retaggio razzista coloniale, l’affermazione di una nuova rispettabilità democratica e la difesa della reputazione internazionale italiana, alla quale si legava la condanna dell’amoralità femminile, sulla base di una reiterata concezione sessuata della comunità politica che trovava facile sponda nella contiguità tra la morale comunista e quella cattolica.eri
Anche il razzismo anti-nero valicò gli steccati politici, in modo più o meno consapevole ed esibito. Se il Corriere non lesinò le esternazioni apertamente afrofobiche e razziste, sul settimanale satirico socialista Il Pettirosso, collegato all’Avanti!, apparvero vignette e storie umoristiche che prendevano in giro le segnorine e gli afroamericani. L’immagine beffarda di un GI nero impacciato nel calzare un paio di scarpe, quasi fosse uno scimmione, mentre i civili italiani erano costretti a indossare sandali o a camminare scalzi per via della loro miseria, rende bene lo spirito della rivista[7]. Nelle fonti socialiste e comuniste, la derisione dei militari neri si combinò all’idea che le prostitute fossero espressione di una stanchezza morale, del desiderio di una vita più ricca e agiata. L’antiamericanismo di sinistra sfociò in banalizzazioni razziste che furono censurate dalla stampa afroamericana e dal giornale militare statunitense Stars and Stripes.
Tombolo racchiudeva le tensioni del dopoguerra: l’avvento dell’egualitarismo democratico insieme alla forza dei cliché discriminatori, l’antifascismo patriottico unito a un antiamericanismo corrosivo, fruibile sia da sinistra che da destra. Non solo: dalla bonifica di quell’anti-Italia passava l’emarginazione di un’umanità degenerata, composta da donne immorali, coi loro amanti afroamericani e una nutrita platea di criminali. Questo sacrificio sarebbe stato fondamentale per riaffermare l’onore e la bianchezza nazionale, lasciando alle spalle le colpe del fascismo, le rovine della guerra e l’onta di una sconfitta che la permanenza dell’alleato invasore rendeva palpabile (e talvoltun insopportabile). Proprio all’ombra di queste contraddizioni nasceva un mito profondamente evocativo, destinato a riemergere nei vari percorsi della memoria.

 

 

 

 

 

 

 

NOTA

  1. Aldo Santini, Tombolo, Milano, Rizzoli, 1990, p. 7.
  2. Cfr. Chiara Fantozzi, L’onore violato: stupri, prostituzione e occupazione alleata (Livorno, 1944-47), «Passato e Presente», 34, 99, 2016, pp. 87-111; Vinzia Fiorino, Smarrimenti e ricomposizioni. Il dopoguerra a Pisa 1946-1947, Pisa, Ets, 2012, pp. 39-41; Charles L. Leavitt IV, The Forbidden City: Tombolo between American Occupation and Italian Imagination, in Guido Bonsaver, Alessandro Carlucci e Matthew Reza (a cura di), Italy and the USA: Cultural Change Through Language and Narrative, Cambridge, Legenda, 2019, pp. 143-155.
  3. Così nella recensione di Silvio Bertoldi, Quella torbida leggenda delle «segnorine» di Tombolo, «Corriere della sera», 24 maggio 1990, p. 5.
  4. Chiara Fantozzi, Raccontare Tombolo. Prostituzione di guerra e confini della cittadinanza nella transizione alla democrazia, «L’italianista», 38, 3, 2018, pp. 418-432;
  5. Silvana Patriarca, Il colore della repubblica. «Figli della guerra» e razzismo nell’Italia postfascista, Einaudi, 2021.
  6. Indro Montanelli, C’è un pazzo che urla nella pineta, «Nuovo Corriere della Sera», 30 marzo 1947, p. 3.
  7. Curzio Malaparte, Deux Chapeaux de paille d’Italie, Parigi, Les Editions Denoël, 1948, p. 54.
  8. Scarpe, «Il Pettirosso», 4-11 febbraio 1945, p. 1.



Armando Turinelli

Il 31 luglio del 1922, l’Alleanza per il Lavoro (una coalizione tra CGdL, USI, UIL[1], FILM)[2] proclamò lo “sciopero legalitario” contro i soprusi e le violenze dei fascisti, finanziati dagli agrari e dagli industriali (con la complicità della Chiesa e della monarchia) per contrastare “il pericolo rosso”. «La Parola dei Socialisti» del 11 giugno 1922 aveva già accusato la borghesia di avere “allevata in seno una serpe” e di non essere più in grado di gestire quel movimento che aveva incoraggiato, credendo di poterlo manovrare a suo vantaggio.[3] Anche a Livorno, come nelle altre città, le squadracce delle camice nere, si muovevano (indisturbate) per la città in cerca di cittadini da malmenare e conti da regolare[4]. Con la proclamazione dello sciopero, partì la mobilitazione fascista: centinaia di squadristi da tutta la Toscana si ritrovarono a Livorno nella sede di via Goldoni per stroncare la “città rossa”. I fascisti devastarono la Camera del Lavoro, i circoli socialisti, le sedi delle organizzazioni “sovversive”. Alcune sparatorie ci furono in via Garibaldi, in piazza Carlo Alberto (attuale piazza della Repubblica), in via della Pina d’Oro. Scontri a fuoco tra comunisti e fascisti anche in via dell’Oriolino. In via Solferino, quasi all’imboccatura di piazza XI maggio ed al quadrivio di via della Campana, furono feriti con colpi di rivoltella due fascisti. Altri scontri in via Santa Fortunata, dove un facchino che strappava i manifesti fascisti, dopo una colluttazione con un cittadino, fu aggredito da alcuni fascisti che attaccavano in zona i manifesti; ancora ad Ardenza Terra, in via ed in piazza Vittorio Emanuele (attuali via e piazza Grande), in zona Ponte Arcione[5] (Pontarcione, tra via Provinciale Pisana ed il ponte sull’Ugione), dove perse la vita Filippo Filippetti. Furono aggrediti anche rappresentanti del Consiglio e della Giunta comunale. Vennero uccisi l’assessore Luigi Gemignani e il consigliere Pietro Gigli, insieme al fratello Pilade.

Il 3 agosto, un migliaio di camice nere circondarono il palazzo comunale. Costanzo Ciano e il marchese Perrone Compagni minacciarono il sindaco Mondolfi che, costretto dalla violenza, rassegnò le dimissioni. Il Comune andò in mano ai fascisti ma in città continuano per le vie non gli scontri. Vengono devastate le sedi del Partito Socialista e quella del Partito Comunista (via Santa Fortunata). Scontri avvengono anche in via Tranquilli, sul Voltone, in via Palestro, in via San Luigi e in via Cairoli. Nel pomeriggio del 4 agosto le squadracce fasciste organizzano delle retate e tra gli arrestati, insieme al vicesindaco di Livorno Adolfo Minghi, c’è anche Armando Turinelli[6].
Con la vittoria del fascismo, insieme alle Camere del Lavoro, alle Case del popolo, alle sedi di partiti e di cooperative, vengono costrette a chiudere anche le sedi delle associazioni anticlericali compreso il Gruppo antireligioso “Pietro Gori”.
Nel 1922, a causa dell’attività politica, Turinelli viene licenziato. Non troverà più un’occupazione fissa ed inizia un periodo difficile per tutta la famiglia. Affittato un magazzino in via Provinciale Pisana[7], riprende a svolgere il vecchio mestiere di impagliatore di damigiane e fiaschi di vino.
La casa del Turinelli diventa luogo di incontro di sovversivi

di giorno vengono gli amici del babbo vestiti con i panni da lavoro, hanno sempre fretta e parlano a voce così bassa che non è facile capirli; arrivano e partono senza salutare, senza prendere mai né un bicchiere d’acqua né una tazza di cicoria.[8]

Durante il regime, Armando sarà vittima di aggressioni fisiche e di azioni punitive con irruzioni nella notte nella propria abitazione alla ricerca di materiale sovversivo. Talvolta viene prelevato con la forza e portato nei locali della Fortezza Vecchia dove viene percosso. Nonostante i soprusi, Turinelli rimane fedele ai suoi ideali: “Volete che mi vesta da fascista? Io mi vesto però l’abito è vostro ma dentro sono mio”[9]. Alle elezioni politiche, per le quali era prevista la sola possibilità di approvare o respingere un’unica lista di deputati sostenitori del fascismo Armando si presenta al seggio con la sciarpa rossa e vota no “e siccome il voto non è affatto segreto, torna a casa pesto e sanguinante”[10].
Racconta poi la figlia Lenina che ogni volta che c’è una parata o che a Livorno arrivano personaggi importanti del Regime, il padre viene prelevato e portato in caserma[11]. Una volta all’uscita trova un manipolo di fascisti intenti a purgare i dissidenti con il famigerato olio di ricino. Turinelli rientra al Commissariato e al questurino incredulo che gli chiede il perché del suo ritorno risponde seccamente: io alla purga preferisco la galera.[12]

Nel periodo della guerra, i Turinelli trovarono riparo presso una casa a “Campo al Melo” (una frazione di Livorno nell’entroterra dopo Cisternino) e si guadagnano da vivere vendendo in città il raccolto della campagna. Durante il giro in città, Armando si allontanava dai familiari per incontrarsi clandestinamente con gli antifascisti livornesi.

Finita la guerra e sconfitto il fascismo, riprendono le attività pubbliche e dall’agosto 1945, ricompare il Gruppo Antireligioso Pietro Gori. Il 21 marzo 1946, esce il primo numero de «Il Corvo», giornale anticlericale edito dallo stesso gruppo. Turinelli è confermato Presidente del Gruppo (lo sarà fino alla scomparsa[13]) e scrive articoli per il giornale.

Armando Turinelli muore il 23 gennaio 1951, il giorno dopo la scomparsa di Ilio Barontini (morto nella mattina del 22 gennaio in seguito ad un incidente stradale insieme ai compagni di partito Frangioni e Leonardi[14]), al quale era stato al fianco fin dal 1921. Al suo funerale saranno presenti i soci del Gruppo anticlericale ed un migliaio di amici e compagni con numerosi vessilli rossi[15].
Turinelli è stato tra i fondatori del PCd’I e negli anni venti, Segretario provinciale della Fiom CGdL di Livorno[16].

NOTE

  1. https://it.wikipedia.org/wiki/Unione_Italiana_del_Lavoro_(1918-1925) – (Da non confondere con il sindacato omonimo fondato nel 1950 ed esistente tutt’oggi).
  2. https://it.wikipedia.org/wiki/Alleanza_del_Lavoro.
  3. http://www.comune.livorno.it/_cn_online/index02b2.html?page=default&id=554&lang=it.
  4. Paola Ceccotti, Il Fascismo a Livorno – dalla nascita alla prima amministrazione podestarile, Empoli, Ibiskos Editrice, 2006, p. 101.
  5. Da «Il Telegrafo» del 3 agosto 1922 (i giorni precedenti il 3 agosto, il giornale non esce in edicola per l’adesione allo sciopero indetto dall’Alleanza del Lavoro).
  6. Memorie dell’Antifascismo Livornese, (a cura dell’ANPPIA di Livorno), Pisa, Industrie Grafiche d Pacini, 2000, pp. 14, 20.
  7. Marco Susini, “MILITANTI” Personaggi e Storie della sinistra livornese, Pontedera, Bandecchi &Vivaldi, 2002, p. 105.
  8. Rosalba Risaliti “Le cinque domande di Cesarina”, https://anppia.it/l-antifascista/leggi-anche-tu/ .
  9. https://www.facebook.com/anppiantifascista/photos/a.1443457072608570/2745214389099492/?type=3
    Racconto del figlio Spartaco.
  10. M. Susini “MILITANTI”… cit. 105.
  11. Ibidem.
  12. Ibidem p. 106.
  13. «Il Corvo» (anno VI n.15) 1 maggio 1951 p.4.
  14. https://archivio.unita.news/assets/main/1951/01/23/page_001.pdf.
  15. «Il Corvo» (anno VI n.15) 1 maggio 1951 p.4.
  16. https://necrologie.repubblica.it/necrologi/2004/439054-turinelli-armando?nome=turinelli+armando.



Armando Turinelli

Questo ritratto che proponiamo di un militante antifascista si colloca nella cornice della tradizione anarco-comunista di Livorno ma soprattutto in quella dell’anticlericalismo labronico. Non si tratta di un personaggio di primissimo piano ma può essere utile a rappresentare attraverso un percorso biografico sintetico, una vicenda molto più estesa e significativa.
Di origine lombarda (Milano), Armando nasce a Noceto in provincia di Parma il 16 aprile 1886. La famiglia è parte di una compagnia teatrale.
In cerca di un lavoro più redditizio, Armando abbandona l’attività teatrale e si stabilisce a Livorno, nota città anticlericale e sovversiva. Troverà occupazione presso una ditta che riveste le damigiane per il vino.
Fin dai primi anni si impegna in attività politiche e sindacali. Contrario al dogma religioso ed al potere della Chiesa, la sera del 4 agosto del 1910[1] Turinelli promuove, insieme ad un gruppo di Compagni del quartiere Stazione (Vannucci, Andreucci, Cerrai, Ficini, Giovannetti, Serri, Tucci, Falleni, Pampana, Filippetti), in antitesi alla costruzione di una nuova chiesa, la costituzione di un’associazione antireligiosa chiamata “Gruppo Antireligioso di viale Carducci” (successivamente assumerà il nome di Gruppo Antireligioso Pietro Gori[2]) del quale sarà Presidente.
Nel primo ventennio del ‘900, Turinelli scrive articoli per quotidiani politici tra i quali l’«Avanti!»[3] e ricopre ruoli di responsabilità in diversi giornali. Diviene gerente de «La Parola dei Socialisti»[4], settimanale socialista fondato da Giuseppe Emanuele Modigliani (diventato poi voce delle correnti rivoluzionarie). Nel 1913 è gerente responsabile de «Il Razionalista» – giornale quindicinale di battaglia razionalista e anticlericale fondato a Livorno[5]. Nel 1915 è gerente responsabile de «Il Fascio socialista» (organo della Federazione socialista Livorno-Elba e dei collegi di Volterra e Lari)[6].

Nel 1914 entra nel Comitato Federale del PSI[7]. Si dedica poi a studiare le opere di Lenin.
Nelle pause di lavoro, com’era tradizione dei livornesi del periodo, pranzava presso la Antica Fiaschetteria Civili (oggi conosciutissimo Bar Civili) dove conosce e poi sposa Gina, la nipote del proprietario del locale. (La coppia avrà sette figli: Comunardo, Spartaco, Lenina[8], Oreste, Eleonora, Cesarina, Glauco).
Negli anni a seguire, troverà occupazione come operaio presso la Società Metallurgica Italiana (SMI)ed entrerà a far parte della Commissione Interna.
Su posizioni massimaliste, Turinelli sosterrà l’adesione delle Organizzazioni Sindacali alla III Internazionale[9].
Con l’entrata in guerra dell’Italia nel conflitto mondiale, la situazione economica si aggrava. La linea politica della Camera del Lavoro di Livorno (CdL) era tendenzialmente quella moderata indicata dai socialisti riformisti e dai repubblicani. La FIOM invece sosteneva la necessità di una mobilitazione più radicale. Quando ci furono le prime agitazioni degli operai alla SMI, Turinelli (uno degli organizzatori della lega aderente alla FIOM) sottolineava il fatto che, anche se era difficile, occorreva tentare una mobilitazione ed era sbagliato negare pregiudizialmente ogni appoggio all’agitazione…[10] Nonostante le divergenze, la CdL e la FIOM concordarono sulla linea da seguire. Alla fine la CdL dette un parziale contributo alla risoluzione della vertenza sostenendo la lotta dei metallurgici e Turinelli acquistò e distribuì 600 copie del giornale della Confederazione tra gli operai della SMI. Per la FIOM fu un grande successo: gli operai approvarono l’operato degli organizzatori sindacali con “un voto di plauso” e circa 1.000 nuove adesioni. Gli operai iscritti alla FIOM, restarono comunque lontani dalla CdL, visto che all’interno prevaleva una linea moderata, considerata avversa[11].
Nel secondo semestre del 1919 ci furono le elezioni per il rinnovo degli organi dirigenti della CdL. Nonostante l’attacco dei repubblicani e l’intervento del deputato socialista Modigliani che suggeriva una politica più riformista, i risultati (grazie anche all’euforia per la rivoluzione in Russia) videro vincitrice la linea massimalista che aprì le porte della Segreteria a Zaverio Dalberto. Tra gli 11 eletti è presente anche Armando Turinelli[12].

Il 1 febbraio 1920 la Federazione Anarchica Livornese e la Federazione Giovanile Socialista organizzano un comizio unitario al Teatro San Marco alla presenza di Errico Malatesta, una delle più importati figure del movimento anarchico. Aderirono diverse realtà del mondo sovversivo provenienti da Pisa e Livorno: socialisti, anarchici, repubblicani, sindacalisti. Turinelli rappresenta la Camera del Lavoro di Livorno[13].
Il 5 novembre 1920, Turinelli (facente parte del Comitato di Agitazione) presiede un’assemblea per discutere la proclamazione di uno sciopero generale in seguito agli annunci degli industriali metalmeccanici livornesi di voler ridurre i salari[14].
Con la partenza di Dalberto nell’agosto del 1920, diviene Segretario Ugo Sereni, socialista riformista. In seguito ai primi licenziamenti tra il 1920 e il 1921, all’interno del movimento operaio si concretizzano due posizioni: quella guidata dal segretario della CdL confederale e quella anarco-comunista della Camera sindacale del Lavoro dell’USI (Unione Sindacale Italiana) appoggiata dall’ala comunista della CGdL (Confederazione Generale del Lavoro) nel frattempo ufficializzata con la scissione al Congresso del PSI di Livorno del 21 gennaio.
Il 15 febbraio del 1921, presso la CdL sindacale il comunista Turinelli presentò un ordine del giorno per lo sciopero generale cittadino di protesta contro i licenziamenti, da effettuarsi anche se la dirigenza della CdL (confederale) non fosse stata d’accordo. Il giorno successivo, alla adunanza del Consiglio delle Leghe alla CdL confederale, i comunisti e i sindacalisti intervennero in massa, e praticamente imposero lo sciopero[15]. Fu un successo, non solo per la massiccia adesione ma anche perché i fascisti (nonostante i rinforzi giunti da fuori Livorno) non riuscirono a contrastarlo.

NOTE:

  1. Molto probabilmente nella bottega di via del Vigna angolo viale Carducci.
  2. «Il Corvo» (anno I n.4) 31 agosto 1946 p.1.
  3. Testimonianza della figlia Lenina.
  4. http://www.fondazionemodigliani.it/node/31243.
  5. http://www.fondazionemodigliani.it/node/31675.
  6. https://www.fondazionemodigliani.it/node/31244
  7. Nicola Badaloni, Franca Pieroni Bortolotti, Movimento operaio e lotta politica a Livorno, 1900-1926, Roma, Editori Riuniti, 1977, p. 113.
  8. Comunardo, Spartaco, Lenina, saranno poi ribattezzati dal regime con nomi più graditi: Bruno, Luigi, Arnalda, tutti nomi di parenti di Benito Mussolini – vedi anche: Rosalba Risaliti “Le cinque domande di Cesarina”, https://anppia.it/l-antifascista/leggi-anche-tu/.
  9. N. Badaloni, F. Pieroni Bortolotti, Movimento operaio e …. cit., p. 113.Luigi Tomassini, Le voci del Lavoro. 90 anni di organizzazione e di lotta della Camera del Lavoro di Livorno, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1990, (a cura di Ivan Tognarini e Angelo Varni), p. 197.
  10. Ibidem p. 198.
  11. Ibidem p. 226.
  12. Tobias Abse, Sovversivi e fascisti a Livorno. Lotta politica e sociale (1918-1922), Milano, Franco Angeli editore, 1991, p. 60.
  13. Ibidem p. 194.
  14. L. Tomassini, Le voci del Lavoro. 90 anni di organizzazione…, cit, p. 261.



Giorgio Alberto Chiurco: un intellettuale militante nel regime fascista.

Giorgio Alberto Chiurco (1895-1974) è noto soprattutto come cronista ufficiale della rivoluzione fascista, autore di una delle più celebri opere edite sul tema negli anni del regime mussoliniano. Nato a Rovigno d’Istria ma trasferitosi presto in Toscana per motivi di studio, egli fu uno dei protagonisti della fascistizzazione delle province senese e grossetana. Ma non solo: medico e squadrista della prima ora, poi parlamentare, ufficiale pluridecorato, docente universitario e scienziato razzista, Chiurco fu un attore molto attivo nella vita politica e intellettuale del regime. Finora, il suo percorso biografico era stato soltanto parzialmente esplorato dalla storiografia ma il volume di Borri, esito di un’approfondita ricerca negli archivi nazionali e internazionali, si propone di fornire una ricostruzione complessiva delle vicende politiche e culturali del personaggio, che si intrecciano su più livelli con la storia italiana del Novecento.

Riportiamo di seguito un estratto del volume, dedicato al ruolo svolto da Giorgio Chiurco, come medico e intellettuale fascista, nella creazione di un nuovo prototipo di italiano, il cosiddetto «Uomo Nuovo» fascista inteso come modello di un’umanità superiore, destinata a fare le fortune dell’Italia e del regime.

 

Un intellettuale militante

V’è una cultura della rivoluzione che si esprime attraverso la polemica pubblicistica di uomini come Maccari e Malaparte. Ve ne è un’altra che parla per anatemi e per invettive ma che, andando al sodo, serve unicamente nei momenti di pericolo […]. V’è, infine la cultura della rivoluzione che ha avuto per cronisti Gorgolini e Chiurco, e che ha per storici Volpe ed Ercole. La prima cultura, della polemica pubblicistica, impedisce che le porte della rivoluzione si chiudano […]. La seconda cultura, quella degli oltranzisti, è sempre richiamabile in servizio, al primo segno del temporale. La terza cultura, quella dei cronisti della rivoluzione, rimane l’anima di ogni processo storico da istruirsi a carico di quei nemici che, rimasti nascosti durante il nostro cammino, tentano di uscire allo scoperto per sbarrarci, al momento che sembrerà loro opportuno, la strada.

Era in questi termini che Mussolini descriveva a Yvon De Begnac[1] l’attivismo politico racchiuso nell’opera degli intellettuali fascisti. Chiurco trovava posto nel gotha culturale fascista non tanto per meriti scientifici, ma come cronista del periodo rivoluzionario, a dimostrazione della forte impronta ideologica che ne caratterizzò il lavoro, come pure della pluralità di ambiti su cui tale operato si estese. L’eclettismo dell’istriano può leggersi come riflesso del pluralismo culturale sperimentato dal regime, inteso come sovrapposizione fra correnti e programmi diversi nei campi delle arti e della scienza, destinati però a convergere nella mobilitazione in favore della rivoluzione fascista.[2] La celebrazione totalitaria del primato della politica su ogni espressione della vita delle masse rappresenta probabilmente la sintesi più efficace per spiegare tale pluralità, senza con questo voler ridurre la cultura fascista alla sua sola funzione strumentale.[3]

Mario Isnenghi distingueva tra intellettuali militanti, produttori di senso, e intellettuali funzionari, organizzatori e propagandisti, rinviando alla funzione svolta dagli attori culturali nella società fascista. L’attenzione di Isnenghi non era rivolta alla sola conoscenza alta, ma all’organizzazione culturale latamente intesa, comprendendo quindi insegnanti, giornalisti, oratori i quali, per motivi e in modi diversi, portarono la dottrina fascista tra le masse.[4] Le convergenze e sovrapposizioni riscontrabili tra tali figure e funzioni,[5] lungi dallo sminuirne l’efficacia, riconfermano la pluralità di livelli su cui si mossero gli agenti culturali del fascismo, seppur all’interno della cornice tracciata dal regime. Anche intellettuali intransigenti come Chiurco, contrari a mediazioni che limitassero la forza rinnovatrice fascista, distinsero la propria attività per un doppio crisma culturale e politico, conoscendo convergenze e divergenze rispetto alle correnti dominanti.[6] Non ci sono soltanto opportunismo e spirito conformista nelle proposte del medico istriano, pronto a formulare idee e difendere le proprie posizioni, se ritenute meritevoli, anche quando difformi dagli orientamenti del regime. A rendere Chiurco un intellettuale militante, nel significato più letterale del termine, è la natura totalizzante della sua adesione al regime, che ne fa uno scienziato, medico e autore vissuto nel fascismo e del fascismo, criticandone talvolta decisioni e orientamenti, ma condividendone il progetto complessivo.

La produzione letteraria dell’istriano può essere ricompresa nelle due macrocategorie degli scritti scientifici e delle opere a carattere cronistico-letterario dedicate al fascismo rivoluzionario e ai suoi martiri. Una distinzione – come vedremo – comunque non priva di punti d’incontro, riflesso tanto del ricordato eclettismo dell’autore, quanto del progressivo prevalere del Chiurco politico rispetto allo scienziato. Gli scritti razzisti degli anni Trenta, piegati alle necessità della pseudoscienza di regime, sono in tal senso indicativi della politicizzazione di tutta la produzione letteraria dell’istriano, il quale appartenne alla cosiddetta «industria culturale» tratteggiata da Gabriele Turi, formata dall’insieme degli intellettuali di regime. Al centro di tale produzione, indipendentemente dalle singole aree di interesse, rimasero sempre la costruzione dello Stato nuovo e di una nuova generazione di italiani, i «fascisti integrali» evocati da Mussolini.[7] Il concetto dell’italiano nuovo ricorre tanto negli scritti scientifici, quanto nella produzione cronistico-letteraria del medico istriano, sempre attento a temi quali l’educazione dei giovani, lo sport, l’eugenetica, la salvaguardia della sanità razziale.

Nell’ottica del regime, le nuove generazioni dovevano essere innanzitutto numerose, in salute e fisicamente prestanti, motivo per cui la medicina divenne una pratica «con etichetta nazionalistica e marchio fascista», come scritto da Giorgio Cosmacini.[8] Il regime sottopose la disciplina all’influenza dell’autorità politica, facendo dei medici i “sacerdoti” del progetto mussoliniano di ingegneria sociale, incaricandoli di salvaguardare la salute fisica e morale della popolazione, di «abituare gli italiani al moto, all’aria libera, alla ginnastica ed anche allo sport».[9] Nel 1921, Chiurco vedeva negli squadristi i protagonisti di una nuova era, «gli eletti, gli aristocratici del pensiero e dell’azione predestinati al comando da Dio e dalla patria». Per un corretto sviluppo dei giovani risultava fondamentale la «forza, equilibrio, volontà, disciplina che solo una razionale educazione fisica può dare».[10]

L’evoluzione del concetto di uomo nuovo ricalca nel pensiero di Chiurco la cronologia tracciata da Emilio Gentile, per cui a cavallo tra gli anni Venti e Trenta l’attenzione si concentra sul potenziamento fisico e demografico della popolazione, con l’emergere dell’imperialismo e del razzismo quali fattori di rilievo nel dibattito. Nel Manuale di cultura fascista del 1930, l’autore inseriva le politiche demografiche tra «i principi basilari del Fascismo nei riguardi della tutela fisica e morale della razza», vedendo nella crescita della popolazione «uno dei mezzi più efficaci per la sua valorizzazione ed espansione materiale e spirituale nel mondo».[11] Al numero doveva seguire la qualità, assicurata dallo sviluppo di qualità fisiche e mentali, favorite da politiche volte ad «accrescere la validità, l’energia e la resistenza morale e fisica del giovane», facendone un «cittadino soldato» e un cittadino-produttore.[12] Con la proclamazione dell’impero alla metà degli anni Trenta, alla formazione delle nuove generazioni si aggiunse il problema della loro protezione dal rischio di incroci genetici con le popolazioni indigene, la mescolanza con le quali rappresentava «sia per ragioni sanitarie e biologiche, che per la dignità della razza, un grave pericolo per il popolo italiano colonizzatore». Per questo motivo, diventava «un dovere della nostra dignità imperiale» la «formazione di una coscienza razziale per difendere la razza italica da qualsiasi imbastardimento», ricorrendo a leggi che «impediscono il mescolamento di italiani con indigeni».[13]

Al problema della preservazione si affiancava quello dell’educazione. Per questo motivo, il regime varò dagli anni Venti quello che Luca La Rovere ha definito «il più importante esperimento di pedagogia politica di massa mai tentato nella storia nazionale italiana».[14] L’educazione morale doveva riguardare il senso di disciplina e la fedeltà all’idea, per cui sui fascisti, secondo i postulati di Arnaldo Mussolini, incombeva «il dovere di essere, nella vita nazionale, sempre i primi, vigili contro gli avversari» ma anche pronti «a volgarizzare i postulati», a «tesserli ed a viverli nelle manifestazioni di ogni giorno».[15] Fascismo, aggiungeva Chiurco, significava «soprattutto spirito di abnegazione ed assoluta e cieca disciplina», poiché «il fascista deve essere in prima linea puro e senza macchia».[16] Nei manuali scolastici curati tra il 1930 e il 1934, l’istriano dedicò ampio spazio ai «doveri del cittadino verso la famiglia e verso la patria», sostenendo che ogni buon italiano «sentirà, e praticherà, prima di ogni altro, il dovere dell’ordine e della disciplina», poiché «dall’uno e dall’altra scaturiscono il rispetto delle leggi, il sentimento della gerarchia, l’ossequio all’Autorità».[17]

È infine evidente l’intento educativo della Storia della rivoluzione fascista. Non a caso, Mussolini medesimo, nel proprio Invito alla lettura, incluse tra i principali destinatari dell’opera «i giovani delle più fresche generazioni», che attraverso l’opera «impareranno a venerare i segni del Littorio e a rispettare i veterani che fecero la Guerra e la Rivoluzione».[18] La funzione didattica della Storia fu sottolineata da numerose riviste del tempo, con Carlo Capasso che la definì «una vera scuola per le generazioni nuove»,[19] mentre il periodico del ministero della Pubblica Istruzione, Accademie e Biblioteche d’Italia, inserì i volumi del Chiurco tra le opere che «inizieranno il giovine alla meditazione degli avvenimenti storici».[20] Pure i fuoriusciti antifascisti intuirono l’intento pedagogico di quella che definirono «una storia del fascismo ad uso dei balilla», e pur criticando l’opera e lo stile prolisso dell’autore, riconobbero come il poter disporre di «un’organizzazione di massa, inquadrata da migliaia di cavalier Chiurco» costituisse un punto di forza dell’Italia mussoliniana.[21]

Tramite l’apparato propagandistico fascista, la Storia divenne un testo importante per il progetto di rinnovamento nazionale, una presenza immancabile tra gli scaffali di biblioteche, circoli di lettura, scuole di ogni grado e tipologia, nonché dono per gli studenti che maggiormente si fossero distinti nell’apprendimento, i quali «nell’esempio dei pionieri della rigenerazione della patria» avrebbero trovato «i migliori esemplari per la loro formazione spirituale».[22]

 

[1] F. Perfetti (a cura di), Y. De Begnac, Taccuini mussoliniani, Il Mulino, Bologna 1990, pp. 402-3.

[2] A. Tarquini, Storia della cultura fascista, Il Mulino, Bologna 2011, p. 225.

[3] E. Gentile, La via italiana al totalitarismo. Il partito e lo Stato nel regime fascista, Carocci, Roma 2008 (ed. orig. 1995). In generale, R. Ben-Ghiat, La cultura fascista, Il Mulino, Bologna 2000.

[4] M. Isnenghi, Intellettuali militanti e intellettuali funzionari. Appunti sulla cultura fascista, Einaudi, Torino 1979.

[5] S. Luzzatto, The Political Culture of Fascist Italy, in Contemporary European History, vol. 8, 2, 1999, p. 322.

[6] A. Tarquini, Storia della cultura fascista, cit., pp. 86-89, 228-29.

[7] G. Turi, Lo Stato educatore. Politica e intellettuali nell’Italia fascista, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 21. Sul tema, E. Gentile, Fascismo. Storia e interpretazione, Laterza, Roma-Bari, 2002, pp. 235-64; P. Bernhard, L. Klinkhammer (a cura di), L’uomo nuovo del fascismo. La costruzione di un progetto totalitario, Viella, Roma 2017.

[8] G. Cosmacini, Medici e medicina durante il fascismo, Pantarei, Milano 2019, p. 65. In riferimento al ruolo dei medici nel regime, R. Maiocchi, Scienza e fascismo, Carocci, Roma 2004, pp. 140-54.

[9] Discorso ai medici del novembre 1931, in E. e D. Susmel (a cura di), Opera Omnia, vol. 25, La Fenice, Firenze 1956, pp. 58-62. Circa la funzione educatrice dello sport, P. Dogliani, Educazione fisica, sport nella costruzione dell’«uomo nuovo», in P. Bernhard, L. Klinkhammer (a cura di), L’uomo nuovo del fascismo, cit., pp. 143-55.

[10] Lo squadrista incarnò il mito fascista dell’italiano nuovo, E. Gentile, Fascismo. Storia e interpretazione, Laterza, Roma-Bari, 2002, pp. 245-48. Per le citazioni cfr. L’inchiesta fascista sui fatti di Roccastrada, in L’Era Nuova, 30 luglio 1921; Fascismo ed educazione Fisica, in La Scure, 24 giugno 1922.

[11] G.A. Chiurco, Manuale di cultura fascista, Morano, Napoli 1930, pp. 89-90.

[12] Id., L’educazione fisica nello Stato fascista. Fisiologia e patologia chirurgica dello sport, San Bernardino, Siena 1935, p. 7. Il modello di “cittadino-soldato” è posto al centro della pedagogia totalitaria del regime dalla seconda metà degli anni Venti.

[13] Id., La sanità delle razze nell’Impero italiano, Istituto Fascista dell’Africa Italiana, Roma 1940, pp. 1049-50.

[14] L. La Rovere, Totalitarian Pedagogy and the Italian Youth, in J. Dagnino, M. Feldman, P. Stocker (a cura di), The “New Man” in Radical Right Ideology and Practice. 1919-1945, Bloomsbury Academic, London 2018, p. 21. La traduzione è mia.

[15] A. Mussolini, Fascismo e civiltà, Hoepli, Milano 1937, pp. 134-35.

[16] G.A. Chiurco, Comandamento del fascista: onestà e disciplina, in Il Popolo Senese, 3 gennaio 1929.

[17] Id., Elementi di cultura fascista, Morano, Napoli 1934, p. 94.

[18] B. Mussolini, Invito alla lettura, in G.A. Chiurco, Storia della rivoluzione fascista, vol. 1, Vallecchi, Firenze 1929, pp. VII-VIII.

[19] C. Capasso, Storia della rivoluzione fascista di G.A. Chiurco, in Bibliografia fascista, 7, 1929, pp. 1-3. Capasso fu docente scolastico, studioso di didattica e professore universitario.

[20] G. Ruberti, Libri per una vita intera, in Accademie e Biblioteche d’Italia, 1, 1929, pp. 50-58.

[21] S. T., Una storia del fascismo ad uso dei balilla, in Lo Stato Operaio, 8, 1929, pp. 706-11.

[22] La citazione è di Ruggero Romano, deputato fascista dal 1924 al 1939, durante una cerimonia ufficiale a Noto, cfr. C. Sgroi (a cura di), R. Liceo-Ginnasio «A. Di Rudinì» di Noto. Annuario Scolastico 1929-1930, Studio Editoriale Moderno, Catania 1931, p. 22.