Mens Sana Siena: 150 anni di sport

Le grandi idee nascono per gioco, spesso e volentieri davanti ad una buona birra. Non è uno slogan pubblicitario bensì una constatazione storica quella che ci porta a raccontare (in estrema sintesi) i quasi 150 anni di vita della Mens Sana Siena, società sportiva fra le più longeve, nonché vincenti, del panorama italiano. Nacque in birreria la Mens Sana, per volere di alcuni studenti universitari (Pianigiani, Alessandri, Tuci i loro nomi) che in una fresca serata autunnale del 1870 si erano incontrati fra i tavoli del “Giudat”, ritrovo senese per eccellenza in quegli anni, con l’idea di costituire un’associazione che promuovesse l’innovazione dell’attività ginnica nel tessuto sociale di una cittadina da sempre fortemente ancorata alle proprie tradizioni.

Gli albori: tra ginnastica, tiro a segno e scherma
La gestazione durò qualche mese, ma il 16 aprile 1871 arrivò il momento di mettere nero su bianco e fondare l’Associazione Ginnastica Senese (denominazione seguita dal motto di Giovenale “Mens Sana in Corpore Sano”, divenuto ragione sociale ed identificazione del club biancoverde solo nel 1931), una sorta di “palestra” per tutti quei giovani che attraverso l’esercizio fisico potevano mantenersi “robusti e disciplinati per apportare gloriosa e santa difesa alla Patria”, come scrive due anni più tardi il segretario Bandini nella relazione morale al consiglio direttivo, uno dei documenti più antichi rintracciabili nell’archivio storico della società.

La scherma (Archivio Storico Mens Sana 1871)

La scherma (Archivio Storico Mens Sana 1871)

Ginnastica, tiro a segno e scherma le discipline inizialmente praticate, un piazzale nei pressi di un ex convento di frati (fuori Porta Camollia, l’accesso nord delle mura cittadine) il primo campo di allenamento, un’ottantina i soci fondatori, oltre a quelli contribuenti (due lire per l’affiliazione, una lira il contributo mensile) e ad un buon interesse riscosso in città, soprattutto fra i giovani. La mitica palestra di Sant’Agata, a due passi da Piazza del Campo, sarebbe sorta qualche anno dopo: nel frattempo l’associazione aveva ospitato il Congresso Nazionale Ginnastico (1875) e, grazie al prestigio di cui godeva il “maestro direttore” Leopoldo Nomi, aggiunto la pratica di nuoto e ciclismo, oltre ad allestire quella sezione femminile che, nel 1907, si guadagnerà la medaglia d’argento al Concorso di Venezia dopo aver presentato, per la prima volta in Italia, il gioco della palla al cerchio. L’antesignano della pallacanestro, del basket, l’eccellenza sportiva con la quale, destino o casualità, la Mens Sana moderna ha dominato in Italia e primeggiato in Europa dal Duemila ad oggi.

I trionfi del basket
Dal fermento dei primi del Novecento nascono scissioni interne (Sport Club) e frizioni esterne (nel 1904 vede la luce la Robur, indirizzatasi con successo nel calcio ma avversaria agguerrita nel ciclismo), oltre ad un allargamento degli orizzonti che vede la Mens Sana attiva nel pattinaggio (sarà società campione d’Italia nel 1939), nell’hockey a rotelle, nella lotta, nella boxe, in maniera a dire il vero assai marginale pure sui rettangoli verdi del football. Il tunnel imboccato nel periodo fascista, quando la società viene addirittura commissariata, vede la fine con la ripresa delle attività sportive nel Dopoguerra: atletica leggera, pallavolo e soprattutto pallacanestro sono i motori che accendono una nuova stagione, culminata con l’accelerazione di fine anni Sessanta che porta, in rapida successione alla costruzione del Dodecaedro (1968) e del Palasport (1976), i due grandi impianti coperti di proprietà che accendono la stella della Mens Sana soprattutto sotto canestro.

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La pallacanestro (Archivio Storico Mens Sana 1871)

L’approdo della squadra in Serie A nel 1973 fa conoscere Siena in Italia anche a livello sportivo e accentua quel processo di identificazione del nome Mens Sana con lo sport dei giganti che dura tutt’oggi (dopo otto scudetti ed una manciata di coppe nazionali, oltre ad una coppa europea, finite in bacheca fra il 2002 ed il 2013), nonostante nel frattempo i risultati abbiano raggiunto l’eccellenza pure altrove, prova ne siano i titoli internazionali conquistati nel pattinaggio corsa da Laura Perinti e nel pattinaggio artistico da Cristina Giulianini, la breve ma significativa esperienza in Serie A2 della squadra di hockey pista, i tanti allori giunti dalla ginnastica artistica o da nuove discipline quali karate e judo.

Centoquarantaquattro anni dopo quell’allegra bevuta fra universitari, la Mens Sana (anzi, adesso chiamatela Mens Sana 1871) rappresenta una vera e propria eccellenza senese, forte dei suoi impianti che disegnano il crinale della vallata di viale Sclavo, di atleti professionisti che ne portano in giro per l’Europa i colori, di oltre tremila iscritti ai corsi (ragazzini e passionisti non più giovani che, senza inseguire risultati agonistici, vestono il biancoverde per tenersi in forma e divertirsi), di un’utenza sempre più esigente che, sotto la presidenza di Piero Ricci, ha portato al “boom” di un’innovativa e diversificata offerta nel mondo del fitness, di duemilaottocento soci che ne confermano il preminente ruolo sportivo-istituzionale nella Città del Palio.

Il presente e il futuro.
Nessun dubbio però che il 2014 sia stato un annus horribilis per tutto lo sport senese, Mens Sana compresa. Anzi, Mens Sana in prima linea. Figlio di pessime gestioni finanziarie, in aggiunta al progressivo disimpegno nel settore delle sponsorizzazioni sportive cittadine da parte di Banca Monte dei Paschi, il fallimento delle due maggiori realtà professionistiche cittadine ha cancellato in un batter d’occhi due lustri di militanza nella massima serie calcistica (l’Ac Siena ha chiuso i battenti dopo 110 anni di storia, una nuova società è pronta a ripartire ma dovrà farlo dalla serie D) e messo fine al ciclo più vincente (otto scudetti e varie coppe, anche a livello internazionale, fra il 2002 ed il 2013) che il basket italiano potesse vantare dall’avvento del professionismo. Il crac della Mens Sana Basket, una Spa controllata per oltre l’80% delle proprie azioni dalla Polisportiva Mens Sana ma, come da statuto della stessa, in sostanziale autonomia dato l’ambito professionistico nel quale svolgeva la propria attività, cancella d’improvviso Siena dalla geografia del basket che conta e la relega in quarta categoria, l’attuale serie B, laddove la neonata Mens Sana 1871 è stata ammessa a partecipare dalla Federazione Italiana Pallacanestro.

Prima squadra e settore giovanile, ricostruiti a tempo di record nonostante le comprensibili difficoltà (logistiche e, ancor più, finanziarie), rientrano nell’orbita di quella che viene chiamata la “casa madre”: entusiasmo e buona volontà non mancano (il presidente Piero Ricci ha affidato il ruolo di direttore sportivo a Lorenzo Marruganti, coach del team biancoverde sarà Matteo Mecacci), la strada per risalire però è fisiologicamente lunga. Ed in salita.

*Matteo Tasso, nato a Siena nel 1974, ha curato nel 2001 il volume celebrativo per i 130 anni di vita della Polisportiva Mens Sana. Giornalista pubblicista dal 1998, coniuga la propria attività nel settore bancario ad una collaborazione con testate giornalistiche locali occupandosi principalmente di argomenti sportivi. Segue da tre lustri le vicende del basket mensanino sulle colonne de “Il Corriere di Siena” ed è il telecronista su Canale 3 Toscana delle partite della squadra biancoverde, oltre a curare rubriche su Antenna Radio Esse e sul portale internet www.oksiena.it.

Articolo pubblicato nell’agosto del 2014.




Bianca Bianchi: dall’antifascismo esistenziale al “virus della politica”

Bianca Bianchi nasce a Vicchio il 31 luglio 1914. La sua educazione alla politica ha origine nell’ambiente familiare, in particolare grazie alla personalità del padre Adolfo, fabbro e segretario della federazione socialista del paese, con il quale ogni pomeriggio Bianca intrattiene lunghe chiacchierate, durante le quali impara che socialismo vuol dire “amare i più poveri e fare qualcosa per loro”. Ogni giovedì inoltre salta la scuola e accompagna il padre alla sezione del partito dove fuori, durante il mercato settimanale, in piedi su un tavolo, tiene appassionati comizi.

Dopo la morte prematura del padre, all’età di sette anni, Bianca si trasferisce, insieme alla madre e alla sorella maggiore a Rufina, presso l’abitazione dei nonni materni. Ha un rapporto conflittuale con la madre che, ripiegata sul modello domestico, non comprenderà mai l’attrazione della figlia per lo studio e per la volontà di evadere dal mondo provinciale. Trova però un valido sostenitore nel nonno Angiolo, contadino antifascista, figura importante nella sua formazione intellettuale dopo la morte del padre, che stimolerà Bianca con discussioni letterarie, religiose e politiche.

Bianca dimostra presto il suo interesse per lo studio e, grazie all’appoggio del nonno, abbandona la campagna e si trasferisce a Firenze, per frequentare la Scuola Magistrale “Gino Capponi”, prima, e la Facoltà di Magistero poi. Nel 1939 consegue la laurea con una tesi dal titolo Il pensiero religioso di Giovanni Gentile, discussa con il relatore prof. Ernesto Codignola, che l’anno successivo viene pubblicata.

IMG_3280Inizia da subito ad insegnare: le viene offerta una cattedra a Genova, dove non rispetta i programmi, che prevedevano l’esclusione degli argomenti riguardanti la civiltà ebraica, tenendo lezioni personali in proposito. Tale comportamento insubordinato le vale l’allontanamento dall’istituto genovese. Le viene affidato allora un nuovo incarico a Cremona, da dove viene, anche questa volta, presto licenziata, a causa del primo compito in classe proposto ai suoi studenti, in cui ha chiesto di riflettere sui caratteri della società moderna e sui progetti per il futuro. In particolare aveva invitato un suo studente di origine ebraica ad essere sincero e a scrivere liberamente il proprio pensiero. Bianca viene allora assegnata all’Istituto italiano di cultura in Bulgaria. L’ “esilio” a Sofia, dove intrattiene anche una prima relazione amorosa, in realtà permette a Bianca di imparare una nuova lingua e di insegnare liberamente, senza le limitazioni politiche del regime. Il soggiorno però è breve e nel giugno 1942 torna in Italia, per aiutare la madre e la sorella, in difficoltà nel contesto bellico.

Dopo la caduta del fascismo e la firma dell’armistizio, si impegna, in quell’opera di soccorso e di travestimento di massa dei soldati sbandati, messa in atto dalle donne italiane, in quello che è stato definito maternage di massa (Bravo). Partecipa poi, su invito del prof. Codignola, che era stato il suo relatore di tesi, alle riunioni del Partito d’Azione, contribuendo attivamente alla resistenza. In particolare distribuisce volantini antifascisti e, qualche giorno prima dell’insurrezione fiorentina, le viene affidato il compito di trasportare un carretto carico di armi. L’esperienza della resistenza è breve, ma per Bianca ha un valore importante, perché permette il passaggio dall’antifascismo esistenziale, vissuto individualmente, ad una maturazione politica consapevole, vissuta in condivisione con i compagni partigiani.

È dunque dopo la fine della guerra che Bianca passa alla vita politica attiva. Il momento della svolta è rappresentato, nel ricordo stesso di Bianca Bianchi (si veda il documento allegato), dalla presa di parola, che avviene durante il comizio del democristiano Gianfranco Zoli nella primavera del 1945. Bianca accoglie l’invito dell’oratore al contraddittorio, criticando il suo fare da “pompiere” che sembrava voler spegnere gli ideali di rinnovamento, e invita invece a realizzare una politica diversa, che si faccia portavoce della volontà di cambiamento e di speranza degli italiani. Alla fine del comizio un gruppo di socialisti avvicinano la giovane, invitandola ad iscriversi al PSIUP. Bianca Bianchi inizia a frequentare la sezione di via San Gallo, per “ascoltare e osservare”, ma la sua passione e la sua convinzione di “poter contribuire a creare un mondo di eterna primavera” la fanno passare ben presto all’azione. Si iscrive al partito, organizza iniziative culturali, dibattiti, ed è subito protagonista della campagna elettorale, riuscendo ad acquisire molti consensi tra la base, anche grazie alle sue abilità oratorie.

Al Congresso provinciale della primavera del 1946, per la formazione della lista dei candidati per la Costituente infatti, viene votata quasi all’unanimità come capolista. I compagni di partito però, diffidando delle donne in politica e della giovane età della Bianchi, la sostituiscono con un esponente di spicco e di consolidata militanza nel partito, Sandro Pertini. Nonostante la delusione, Bianca Bianchi continua la sua appassionata e frenetica campagna elettorale, raggiugendo così, alle elezioni del 2 giugno, un successo personale inaspettato, riuscendo ad accaparrarsi il doppio dei voti del capolista Pertini (15384 voti) ed entrando così di diritto tra le 21 donne elette all’Assemblea Costituente.

Si ricorda in seno alla discussione della Costituente l’impegno di Bianca Bianchi a favore della scuola pubblica, opponendosi fermamente alla parificazione tra le scuole pubbliche e quelle private, previsto dall’art. 27 (poi 33) della Costituzione.

IMG_3308Al Congresso del partito del 9-13 gennaio 1947 inoltre, dopo una lunga e sofferta riflessione, decide di seguire la minoranza di Saragat, a cui la legava anche una profonda amicizia, nel Partito Socialista dei Lavoratori Italiani. La sua carriera politica prosegue poi nel 1948, quando viene eletta nella I legislazione in Sicilia.

Da ricordare poi la sua battaglia a favore di una legislazione meno discriminatoria nei confronti dei figli illegittimi, iniziata in seguito alla sua partecipazione al Congresso dell’Alleanza femminile internazionale di Amsterdam del 1948 e conclusasi con l’approvazione della legge nel 1953.

Tra il 1953 e il 1970 Bianca Bianchi non viene rieletta nelle successive legislature e riprende quindi l’impegno nel settore dell’istruzione, curando la rubrica de La Nazione, Occhio ai ragazzi e fondando la “Scuola d’Europa”.

Rientra in politica nel 1970, per una legislatura, eletta consigliera comunale a Palazzo Vecchio a Firenze, e successivamente continua ad occuparsi dei temi dell’istruzione e si dedica alla letteratura, intrisa di quella passione e di quel “virus della politica” che aveva caratterizzato tutta la sua vita.

Si è infine spenta il 9 luglio 2000.

 

Articolo pubblicato nel luglio 2014.




Oriano Niccolai, il creativo rosso

Racconta Oriano Niccolai, classe 1930, di essersi fatto tutta la Sardegna a dorso di mulo per girare documentari, in 16 mm, per la propaganda politica del Partito comunista. Era il 1968 e grazie al benestare di Enrico Berlinguer, conosciuto negli anni Cinquanta a Livorno, Niccolai organizzò quello che fu probabilmente l’esordio di una campagna elettorale multimediale nella storia del Pci. Con Berlinguer, allora non ancora segretario nazionale, passò una nottata girovagando tra le strade di Cagliari per esporgli la sua idea innovativa di comunicazione politica. E quell’anno, per le elezioni regionali sull’isola, non furono solo comizi e manifesti: per la prima volta vennero utilizzati musica, report e documentari.

Oltre 2000 manifesti
Non è da molto che la storiografia ha cominciato ad occuparsi delle forme della comunicazione politica dei partiti di massa del dopoguerra. Un contributo originale e significativo è arrivato di recente proprio dalla riscoperta dell’opera di Niccolai, grazie al progetto che gli ha dedicato l’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea nella provincia di Livorno (Istoreco). Selezionando tra gli oltre 2mila manifesti presenti nel suo archivio (di cui quasi due terzi realizzati da Niccolai dagli anni Cinquanta ad oggi), l’Istoreco ha allestito una mostra a lui dedicata Rosso creativo. Oriano Niccolai 50 anni di manifesti, da cui è scaturito poi un catalogo curato da Margherita Paoletti e Valentina Sorbi (vedi a fianco).

Il creativo rosso
Difficile definire con categorie standard il profilo biografico di Niccolai: non certo un intellettuale, né un semplice creatore di manifesti. La penna del giornalista del “Tirreno” Luciano De Majo, in occasione dei suoi ottant’anni, gli trovò una definizione originale: «il creativo rosso». Creativo perché non solo funzionario addetto allo stampa e propaganda, non solo grafico e impaginatore, ma anche disegnatore, autore, giornalista. Un creativo a tutto tondo, che è stato in grado di anticipare i tempi ideando per la Federazione di Livorno, e poi in diverse parti d’Italia, delle moderne campagne di comunicazione, capaci di utilizzare strumenti nuovi e diversi registri per veicolare il messaggio politico.

Manifesto per la Festa dell’Unità di Livorno (1965) (Archivio Istoreco Livorno)

Manifesto per la Festa dell’Unità di Livorno (1965) (Archivio Istoreco Livorno)

Spicca il volo dal “Nido delle Aquile”
D’altra parte la formazione di Niccolai è imbevuta di pittura e cinema. A Livorno, sua città natale, giovanissimo frequenta gli ambienti di pittura cittadini, per poi grazie a Nelusko Giachini e, soprattutto, Silvano Filippelli, appassionarsi al cinema francese e all’arte del far manifesti. Alla fine degli anni ’40 comincia dunque a frequentare “il Nido delle Aquile”, cioè l’Ufficio propaganda della Federazione comunista livornese, un gruppo effervescente composto da intellettuali, giornalisti, disegnatori e critici d’arte. In questa fucina Niccolai impara ad andare oltre l’idea del grafico tout court, diviene un comunicatore: testo e immagine cooperano in pari grado alla comunicazione del messaggio. Da qui la grande attenzione alle tecniche giornalistiche di impaginazione e la sperimentazione di nuove forme di comunicazione, come la striscia luminosa lunga più di 350 metri, costruita per la Festa dell’Unità di Livorno del 1979.

L’uomo delle isole
Di lui si accorgono i vertici nazionali, che da Livorno lo inviano in giro per l’Italia a mettere la sua esperienza nella comunicazione al servizio delle Federazioni più deboli. Nel 1968 in Sardegna, poi nel 1971, a seguito di un gemellaggio delle Federazioni di Livorno e Pisa con quella di Caltanissetta, cominciano i suoi pellegrinaggi in Sicilia. Fino al 1984 saranno undici i suoi viaggi in terra siciliana (in particolare per le elezioni regionali del 1976). E poi la Calabria nel 1978 per tenere corsi sulla propaganda e le tecniche di comunicazione. Privilegiato poi il rapporto con l’Isola d’Elba in cui lavora moltissimo fino alla fine degli anni Ottanta.

Da Rodari a Steiner, passando per Zancanaro
Quello con Berlinguer non è il solo incontro importante nella vita di Niccolai, tutto il suo percorso è costellato di incontri e amicizie di rilievo: con Gianni Rodari, nel 1949 a Reggio Emilia (con cui lavorò poi fianco a fianco nella campagna elettorale nazionale del 1958), con Albe Steiner negli anni Sessanta a Bologna, con Tono Zancanaro con cui lavorò negli anni siciliani. Niccolai è curioso e innovativo, gli incontri ne forgiano l’estro e la personalità, ma è capace di rielaborare un suo percorso autonomo, lontano dalle esagerazioni retoriche della lotta politica tra blocchi. Nei manifesti di Oriano, scrive Sergio Staino nel catalogo della mostra, «tutto si muove nella ricerca di un giusto equilibrio tra l’informazione del messaggio e la sottolineatura espressiva dello stesso».

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Articolo pubblicato nel marzo 2014.




Bruna Talluri (1923-2006)

Bruna Talluri (a destra) con la sorella Maria (©️Archivio della famiglia di Bruna Talluri)

Nasce a Siena il 12 giugno 1923, prima di tre sorelle e un fratello, da Amalia Barborini e Luigi Talluri. La famiglia Talluri appartiene alla piccola borghesia cittadina, aperta e liberale tra le mura domestiche, fascista rispettabile all’esterno. L’iscrizione al PNF permette a Luigi di mantenere il posto di ragioniere del Monte dei Paschi, a Bruna di frequentare la scuola elementare privata dalle Suore di Santa Caterina e sfuggire così ai rigidi dettami della scuola fascista e agli obblighi della socialità di regime che mal sopporta fin da bambina. La passione e lo studio della storia e della filosofia al Liceo classico Enea Silvio Piccolomini le fanno percepire tutta la distanza fra il libero pensiero e le restrizioni imposte dalla dittatura. Nel 1941 Luigi è condannato a due anni di confino con l’accusa di aver pronunciato parole ingiuriose nei confronti del duce. Bruna, che frequenta l’ultimo anno di liceo, è costretta a abbandonare gli studi e a prendere il posto di lavoro del padre per mantenere la famiglia; riuscirà comunque a sostenere l’esame di maturità e ad iscriversi alla Facoltà di Lettere e filosofia all’Università di Siena. Negli anni del liceo ha stretto un sodalizio intellettuale con un suo professore, Luigi Bettalli, di idee liberalsocialiste, con il quale resta in contatto anche negli anni successivi.

Agli inizi del 1943 si reca a Torino a trovare l’amica e compagna di studi Ida Levi e incontra l’avvocato Fortini, che le consegna un pacchetto di stampa clandestina da recapitare ad alcuni referenti senesi del Partito d’Azione. Avendo già consolidato questi legami, dopo l’8 settembre si attiva subito per nascondere i soldati sbandati e collabora alla costruzione di una rete segreta di militari e civili intenzionati a resistere all’occupazione.

Le sorelle Lina e Rina Guerrini, anche loro legate al Partito d’azione, nascondono nella loro abitazione nel vicolo del Bargello un ciclostile che usano insieme a Bruna per scrivere e diffondere volantini e un bollettino titolato “Liberalsocialismo”. Trasmette ai giovani le parole d’ordine necessarie per raggiungere i primi gruppi partigiani sparsi nelle campagne, raccoglie soldi, medicine, sollecita le donne a guastare gli indumenti per adattarli ai giovani alla macchia, inventa espedienti per ricoverare partigiani e soldati alleati bisognosi di cure nell’ospedale di Siena. In questo lavoro si fa aiutare dalla sorella Maria e dal giovane fratello Marcello.

Verso la fine dell’inverno 1943-44 il gruppo azionista senese subisce un duro colpo: il professor Bettalli, le sorelle Guerrini e alcuni ufficiali che collaborano con il “Raggruppamento Monte Amiata” vengono arrestati. Bruna non viene coinvolta e continua ad operare con le poche forze attive in città. Tuttavia a metà giugno viene condotta alla Casermetta, sede della polizia politica, e messa a confronto con un giovane trovato in possesso di volantini; resiste ad un lungo interrogatorio ed è lasciata libera dal famigerato comandante Luigi Zolese, ma ritiene necessario allontanarsi con la famiglia da Siena, ospitata da amici alla fattoria di Celsa.

Dopo la Liberazione torna a casa e insieme a Renata Gradi, Tina Meucci e Annunziata Pieri fonda i Gruppi di difesa della donna. Riconosciuta partigiana combattente, l’impegno culturale e politico rimane il filo conduttore della sua vita: apprezzata saggista, docente di storia e filosofia del Liceo scientifico Galilei, infaticabile testimone della Resistenza. Insieme a Vittorio Meoni è fondatrice dell’Istituto storico della Resistenza senese e sua prima direttrice. Muore il 21 novembre 2006.

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🟩 Testimonianza di Bruna Talluri su “Noi Partigiani. Memoriale della Resistenza italiana”

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🟪 Bruna Talluri tenne dal 1939 al 1945 un diario, conservato alla Fondazione Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano. I brani citati sono tratti da Patrizia Gabrielli, Scenari di guerra, parole di donne. Diari e memorie nell’Italia della seconda guerra mondiale, Bologna, Il Mulino, 2007, pp. 262-3, 266.

13 ottobre 1944

Mi hanno offerto un posto alla redazione della “Libertà”. Non so cosa fare. Devo decidere tra politica e… cultura.

Non dimentico, d’altra parte, di essere una donna. Mi manca la sicurezza e la fiducia in me stessa. Poi non vedo chiara la situazione del Partito d’Azione. Non capisco il significato delle Associazioni femminili o dei movimenti femminili nell’ambito dei Partiti.

Bruna Talluri (©️Archivio della famiglia di Bruna Talluri)

Che senso hanno? Non siamo tutti cittadini, uomini e donne, con uguali diritti?2 Bisogna puntare su questa effettiva uguaglianza. Come studiosa mi considero una dilettante, ma potrei dedicarmi all’insegnamento… Sono come color che son sospesi… Non ho voglia di decidere… Sono abbastanza matura, purtroppo, per sapere che a ventun anni una donna che vuole fare “carriera” politica deve accettare l’aiuto e la protezione di un uomo: è tollerata nella misura in cui lavora su commissione.

Rifuggo per natura da intrighi e compromessi e non potrei rinunciare a pensare e ad agire secondo le mie convinzioni. Stasera sono quasi sicura che sceglierò di insegnare. […]

2 novembre 1944

Quando il pericolo di un “arresto” mi teneva in allarme, mio padre più volte mi aveva detto che avrebbe preso il mio posto e si sarebbe accusato di tutto, se io fossi stata interrogata. Il timore di questo intervento mi impacciava. Allora ricorsi ad uno stratagemma. Dissi a mio padre di aver nascosto nella fodera del mio cappotto un documento compromettente e che lo avrei tirato fuori per confermare le mie responsabilità, se avesse tentato di intervenire. La strisciolina di carta la cucii davvero, in sua presenza, nel bavero del mio cappotto invernale. L’ho ritrovata oggi e l’ho ripiegata con cura. Mi sono intenerita. Naturalmente non era un documento importante: soltanto un piccolo espediente per ingannare mio padre; un rotolino di carta, in cui avevo scritto in microscopica calligrafia un inno ingenuo, e per di più bruttino, al sacro ideale della libertà:

Schiera esigua

in stretta fila

alza al vento

la bandiera

che promette

LIBERTÀ ecc. ecc.

[…]

22 gennaio 1945

Sono stata a Colle Val d’Elsa ad una riunione dell’UDI. Ho dovuto esibirmi con un breve discorso al saloncino comunale. Parlare in pubblico mi imbarazza: non ne sono capace.

25 aprile 1945

Abbiamo ritrovato il gusto di raccontare. Per tanti anni abbiamo vissuto in attesa del nemico: “Taci, il nemico ti ascolta”. Rivedo il dito teso e minaccioso che spunta dal manifesto appiccicato sui muri. Per alcuni anni abbiamo evitato di parlare, di scrivere, imparando soltanto a tacere. Anche oggi se mi sorprendo a parlare di politica con un amico in mezzo alla strada, mi volto in giro preoccupata. Devo ritrovare tutti i ricordi sepolti o accantonati nella memoria per paura del “nemico”…

“L’Italia libera” clandestina, organo del Partito d’Azione, è uscita il 14 aprile con questo titolo: “La Germania crolla. Pronti per l’insurrezione. L’unificazione di tutte le forze partigiane”. Il foglio è arrivato oggi a Siena per canali misteriosi.

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Tosca Martini (1914-1988)

Ritratto di Tosca Martini, anni Trenta (©️Archivio famiglia Maullu Martini)

 

Nata a Cantagallo nel 1914 in una numerosa famiglia contadina della zona, a dodici anni Tosca va a lavorare nella fabbrica tessile di La Briglia, di proprietà della famiglia ebrea Forti. Proviene da un ambiente antifascista, come pure l’amato fratello minore Lido, che nel dopoguerra sarà dirigente sindacale della Val di Bisenzio e di Prato. Sotto il regime, Tosca diviene un punto di riferimento per le rivendicazioni operaie e per la propaganda antifascista.

Lido, fratello di Tosca Martini (©️Archivio Fondazione CDSE)

Dopo l’8 settembre 1943 agisce da staffetta nella formazione “Orlando Storai” di stanza sul Monte Javello; aiuta i renitenti a raggiungere i partigiani diventando anche punto di riferimento per le loro famiglie e fidanzate.

Nel suo percorso è cruciale la decisione di far cucire in segno di protesta una bandiera rossa per la festa dei lavoratori del 1944. La mattina del 1° maggio il paese di Usella, nel fondovalle, si sveglia con una bandiera rossa che sventola su un alto cipresso, sopra la strada provinciale (oggi SR 325), e con manifesti che tappezzano i muri delle case (“morte ai fascisti, fuori i tedeschi e viva il 1° maggio”). Di nascosto dalle famiglie, infatti, nei giorni precedenti Tosca e altre donne di Usella (Giulia Lavati, Martina Martini, Nigella Catani, Fernanda Ferrantini, Rosa “la merciaia”) hanno confezionato il drappo con un nastrino tricolore. I militi della Guardia nazionale repubblicana accorrono immediatamente per togliere la bandiera e per arrestare Tosca, ritenuta autrice della protesta. Già il 2 maggio è nel carcere femminile di Santa Verdiana a Firenze, dove conosce la partigiana fiorentina Tosca Bucarelli, che di lei racconterà: “insieme a me era la più torturata di tutte”.

Tosca Martini, al centro, con una sorella e un’amica di Usella, anni Trenta (©️Archivio Fondazione CDSE)

Viene interrogata numerose volte dalla Banda Carità presso Villa Triste e torturata per circa due mesi, ma non rivela mai informazioni sulla Resistenza. Secondo la sua testimonianza è salvata dalla possibile deportazione grazie all’intervento, tra giugno e luglio, di un noto avvocato pratese su insistenza dei compagni partigiani.

Tornata a casa, benché debilitata dalle sevizie e dal carcere, continua a dare il proprio contributo all’organizzazione della Resistenza fino al passaggio del fronte in Val di Bisenzio nel settembre 1944. Il 23 aprile 1951 si aprirà a Lucca il processo alla Banda Carità e Tosca Martini verrà chiamata più volte a testimoniare.

Nel Dopoguerra riprende a lavorare nel tessile, impegnandosi nel sindacato con il fervore che sempre l’ha contraddistinta; è riconosciuta partigiana combattente il 12 marzo 1947.

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🟪Stralci dall’intervista realizzata da Laura Landi il 10 settembre 1988, pubblicata in Alessia Cecconi, Francesco Venuti (a cura di), Sul cipresso più alto. La storia di Tosca Martini e altre vicende di guerra e Resistenza, Montemurlo, Fondazione CDSE, 2013, pp. 66-69.

Io entrai al Forti alla briglia appena finito dodici anni, sono nata di gennaio, a marzo ero già a lavorare nel reparto orditura. Si lavorava tante ore e ho imparato alle macchine di ritorto, sempre in orditura. Poi c’era il magazzino e poi si andava alla grande tessitura, perché il Forti è sempre stata una grande ditta, lì siamo cresciuti. […]

In fabbrica ci andavo in bicicletta, dopo parecchio tempo hanno messo un autobus. Noi donne non si prendeva la stessa paga degli uomini, per carità, e allora ho dovuto fare la sindacalista.

Nel 1943 morì la mia povera sorella Duilia di malattia e lasciò due bambine. Succede il patatrac di Badoglio, a questo punto mi venne chiesto di iscrivermi al sindacato di Badoglio, ma io non volevo assolutamente accettare, perché dovevo badare alle bambine ed ero troppo occupata, gli dissi “sentite, non ho proprio punta voglia di mettermi a fare la sindacalista perché ho altre cose, m’hanno lasciato due bambine”, non volevo accettare. Allora cosa hanno fatto? Hanno fermato tutte le macchine, i magazzinieri, 14 orditoi, tutte le macchine da ritorto, poi tutte quelle che facevano le rocche e i fusi, tutta la tessitura, era una grande ditta e io mi son trovata in mezzo a tutti gli operai in quella maniera, “lo devi far te, lo devi far te”, e alla fine ho accettato.

Ora succede che Badoglio sta poco, liberano il Duce e ritorna il sindacato fascista. Noi tutti in fabbrica si era d’accordo che questa cosa non si poteva assolutamente accettare. E allora vengono in tessitura a sparare con le rivoltelle, allora quel pover’uomo del mio zio di Vaiano, fratello della mia mamma, disse che accettava lui di essere delegato del sindacato fascista, mentre tutti urlavano e scappavano come pazzi. Poi [dopo l’8 settembre] successe la ribalta un’altra volta e allora io sono rimasta lì al sindacato mio, che non era più il sindacato di Badoglio, ma era il nostro. Sono sempre rimasta all’avanguardia della briglia fino a quando il 1° maggio non sono stata arrestata e portata via.

Dall’8 settembre al maggio ’44 si lavorava con le formazioni partigiane. Io avevo tutta l’organizzazione: quando venivano gli aerei americani o inglesi a portare la roba sulle colline, informavo le formazioni sugli arrivi: s’aveva il nostro ordine del giorno. […]

Salivo anche ai Faggi personalmente a portare le notizie e si vede che il Barellini2 l’hanno messo a fare la spia e mi ha visto. io e la povera Teresa moglie del mio povero fratello [Lido] si fece finta di andare a lavorare perché mi seguivano. Si aveva il segretario del partito fascista che stava lì a dormire nell’ultima casa in fondo, era di Prato, era un gobbino e diceva “benedetto il Dio, quella donna ci va la mia padrona di casa a veglia la sera e vado a chiamarla delle volte, ci resto anche io, l’è tutta casa e lavoro, possibile che lei la faccia codeste cose?”.

Insomma, mi presero il 1° maggio del ’44, qui [facendo riferimento a un libro] è un po’ raccontato, un po’ tralasciato, ’un possono mica dire tutto. Si capisce quanto è importante, c’è fatti per fare un libro. Mi arrestarono per cosa si è fatto con il mio cognato che era ferroviere di Vaiano.

Al mio cognato dissi: te la metti, e io preparo la bandiera, e vai per il 1° maggio a metterla proprio in cima al cipresso, quello che va al cimitero gl’era bello alto. Proprio in cima in cima aveva messo questa bandiera rossa, l’aveva legata con una maniera che lui figurati gl’ha avuto il primo premio che ha in casa, andava a allacciare i fili quando va il treno.3 L’aveva messa in un modo che non c’era modo nemmeno levarla, mandarono a levarla e non lo sapevano fare. La vedevano proprio bene dalla ferrovia, la si vedeva proprio bene, tutti la vedevano. La sera prima gli si dette la botta, si mise tre manifesti “morte ai fascisti”, ma grandissimi, tre di qua e tre di là, rivolti alla chiesa, e la mattina tutti li leggevano: “morte ai fascisti, fuori i tedeschi, viva il 1° maggio”, grandi così, io e la povera Fernanda sia andò a metterli. Non mi avevano visto, era notte.

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🟥Amiche per la libertà – Tosca Martini, Tosca Bucarelli e le altre – Corto realizzato dalla Scuola di Cinema “Anna Magnani” di Prato con regia di Massimo Smuraglia, ispirato alla vicenda della partigiana Tosca Martini di Usella, alla cui sceneggiatura ha collaborato la Fondazione CDSE (il film è liberamente ispirato al libro “Sul cipresso più alto”, edizioni CDSE). Con Francesca Cellini e Doriana Clemente. Musica Originale di Samuele Luca.

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🟪ISRT, Fondo Calamandrei, Processo alla Banda Carità, Busta 4.1.3. Stralcio della sentenza della Corte di Assise di Lucca del 28 luglio 19512, 25esimo episodio – Martini Tosca – (imputazione n. 27) – Il documento integrale è pubblicato in pubblicata in Alessia Cecconi, Francesco Venuti (a cura di), Sul cipresso più alto. La storia di Tosca Martini e altre vicende di guerra e Resistenza, Montemurlo, Fondazione CDSE, 2013 

[…] Questi come primo atto la prese per il petto nonostante le proteste della donna che irritarono maggiormente il Bellesi, quindi cominciò a coprirla con pugni e ceffoni al viso così violenti da farle uscire copioso il sangue dalle orecchie e dal naso. Dicendo poi che non voleva farsi male alle mani, si tolse la cinghia dei pantaloni e con questa prese a colpire la ragazza, in maniera che la placca di metallo piuttosto grossa la colpiva sulla carne che in tal modo veniva a lacerarsi avendole sollevato all’uopo anche le vesti e riducendola tutta pesta. Le cinghiate sempre più violente si protrassero per lungo tempo e la Martini per il dolore continuava ad urlare in modo tale che alcuni funzionari della Questura, che si trovavano nella stanza vicina, si affacciarono alla porta per protestare contro quel trattamento inumano. […]