Le parallele convergenze livornesi. Pci e Dc nella lunga giunta Diaz (1944-1954)

Tra il 29 luglio 1944 e il 1° dicembre 1954 le giunte comunali di Livorno furono guidate ininterrottamente dal comunista Furio Diaz. Si tratta di una lunga esperienza amministrativa che presenta un elemento di forte peculiarità nella collaborazione e nell’intesa di governo tra comunisti e cattolici ben oltre la rottura dell’alleanza antifascista avvenuta a livello nazionale nel maggio 1947. L’alleanza di governo tra Pci e Dc si prolungò infatti per tutta la prima legislatura fino al 1951, avendo un suo corollario significativo fino al dicembre 1953, data in cui cessò l’atteggiamento di opposizione costruttiva fino ad allora assunto dai democristiani. Passaggi talmente significativi da aver assunto col tempo, nel sistema commemorativo cittadino, le sembianze di mito fondativo nella costruzione etico-identitaria della Livorno postbellica. La valenza simbolica di quegli eventi ha finito così per sminuire in parte, nella percezione pubblica, la complessità di un contesto contraddittorio come quello della Livorno di quegli anni.

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Soldati Inglesi tra le macerie di Livorno (Collezione Sandonnini, Istoreco Livorno)

Con gli Alleati: una città “sotto tutela”
L’analisi del rapporto tra cattolici e sinistre livornesi nel periodo delle giunte unitarie deve in primo luogo tener conto della morfologia dei centri di governo e di potere del territorio. Poiché a limitare e condizionare la capacità di governo della giunta intervennero molti fattori. A partire dall’arrivo degli Alleati (19 luglio 1944), infatti, su Livorno si concentrarono una serie di interessi – primariamente bellici e poi politici – che di fatto dilazionarono, attraverso una lunga e contraddittoria fase di transizione, il passaggio ad un effettivo stato di pace. La presenza militare alleata, che si protrasse fino al dicembre 1947, significò per la città anche una serie di enormi problemi di ordine pubblico che si andarono ad assommare ai disastri materiali e psicologici prodotti dalla guerra.

D’altra parte il governo militare degli Alleati (Allied Military Government, Amg) pretese subito di stabilire il «completo controllo» sull’amministrazione per i superiori interessi di guerra legati alla strategicità assunta dal porto di Livorno sul fronte mediterraneo. Diaz, che non senza difficoltà il maggiore E.N. Holmgreen aveva accettato come sindaco su proposta del Cln e dopo la rinuncia di Giorgio Stoppa, sapeva di essere un primo cittadino “sotto tutela” e che il primo obiettivo alleato era quello di «organizzare una complessa rete di attività non militari al solo scopo di difendere i vantaggi militari acquisiti».

Le istruzioni di Togliatti: alleanze obbligate
In più, nella città simbolo del Partito comunista, le prime impronte di guerra fredda complicarono il quadro dei rapporti tra forze alleate, Cln, apparati di governo, partiti politici e Chiesa cattolica in un succedersi di raffinate tattiche ideologiche. Dietro i compromessi e le convergenze tra comunisti e cattolici, si celavano spesso le doppiezze e le ambiguità di una battaglia politica di cui la giunta livornese era solo una pedina di uno scacchiere ben più complesso. In questo senso è davvero emblematico un documento del 27 ottobre 1944. A meno di tre mesi della formazione della giunta espressione del Cln, il segretario del Pci Palmiro Togliatti inviò delle lapidarie «istruzioni» al sindaco di Livorno: «Non intralciare il lavoro dell’AMG; Mantenere buoni rapporti con la Dc; Non fare mostra di sentimento anticlericale e rassicurare i cattolici sulla libertà di culto».

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Diaz, secondo da sinistra, ad un’iniziativa del Pci livornese (Collezione Sandonnini, Istoreco Livorno)

Il documento offre chiare informazioni non solo sulle strategie del Partito comunista, ma anche su quelle degli Alleati. Come riporta Roger Absalom, infatti, le direttive del segretario generale del Pci al sindaco di Livorno furono intercettate dall’Office of Strategic Services (Oss), il Servizio americano di informazioni politiche e militari, a conferma di una preoccupazione anticomunista che già in quella fase si era scatenata tra le forze alleate. Tanto che nei rapporti dei servizi segreti americani si paventava perfino l’esistenza di una linea diretta Mosca-Livorno: gli alleati erano dunque «particolarmente sensibili al “pericolo rosso” rappresentato dai livornesi tradizionalmente radical-rivoluzionari» in una città che era divenuta punto nevralgico del sistema logistico di una guerra ancora in corso.

In questo quadro la strategia togliattiana, condivisa da Diaz, ebbe non poche difficoltà ad essere perseguita. La necessità politica di mantenere «buoni rapporti con la Dc» si scontrava spesso con la linea non sempre conciliante espressa dalla Federazione comunista livornese. Mantenere una linea di equilibrio tra opposte tendenze e coinvolgere la base del partito nelle battaglie della giunta unitaria si rivelò spesso per Diaz un compito improbo. Complicazioni che emergono con chiarezza, ad esempio, nella lettera che il sindaco inviò alla segreteria della Federazione livornese del Pci il 9 maggio 1947: «Cari compagni, devo richiamare con maggiore energia la vostra attenzione sulle deficienze che si verificano nell’opera del Partito per fiancheggiare e sorreggere l’amministrazione comunale da noi diretta».

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Il vescovo Piccioni e don Roberto Angeli nel 1951 (Archivio Centro Studi Roberto Angeli)

La debole Dc: interviene De Gasperi…
Sul fronte opposto, la partecipazione alla giunta unitaria dei democristiani si inseriva in un quadro complesso caratterizzato da molte contraddizioni. Basti ricordare che la Dc locale era nata formalmente solo tre giorni dopo la liberazione di Livorno (22 luglio 1944) e che la partecipazione dei cattolici alla Resistenza era stata garantita esclusivamente dal movimento cristiano-sociale, fondato da don Roberto Angeli già nel 1942, i cui membri entrarono nel Cln livornese dal 9 settembre 1943. A questo proposito è significativa la ricostruzione fatta da Carlo Lulli, storico direttore del “Telegrafo”, sulla formazione della prima giunta unitaria del 29 luglio 1944: l’allora impiegato dalla segreteria del Cln ha sostenuto che negli intensi colloqui di quelle ore con il Commissario provinciale alleato John F. Laboon per la formazione della giunta «si scoprì che in città non c’erano rappresentanti della Democrazia cristiana» e allora si organizzarono «delle ricerche affannosissime per trovare delle persone cristiano-sociali» che fossero disposte a diventare «democristiane per aderire, anche su scala livornese, a quello che era il quadro nazionale».

Questa situazione generò enormi malumori tra i cristiano-sociali, il cui credo politico era una aperta risposta progressista alla Dc dei conservatori. La “battaglia” tra cristiano-sociali e democristiani livornesi raggiunse un livello tale che solo l’intervento perentorio di De Gasperi poté risolverla e non senza strascichi polemici tra le divergenti anime del cattolicesimo livornese. L’opposizione del Cln all’entrata nel comitato degli esponenti Dc, costrinse infatti il segretario nazionale democristiano a scrivere il 20 settembre 1944 una dura lettera al presidente Ruelle, chiedendo testualmente che si mettesse termine alla «deplorevole scissione» tra i cattolici e che si superasse «l’anomalia» del Cln livornese. La Dc, diceva De Gasperi, doveva essere accettata dal Cln livornese per «adeguarsi al quadro nazionale».

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Il settimanale diocesano di Livorno “Fides”

Un cacciucco alla livornese?
Questo complesso di concause portò ad una situazione di estrema debolezza organizzativa del partito e allo scarso appeal dei suoi esponenti sulla base cattolica. Nel primo riassunto statistico dei tesserati che la segreteria De Gasperi elaborò nel 1945, lo Scudo crociato livornese era di gran lunga all’ultimo posto in Toscana per numero di sezioni (appena 10) e tesserati (1000, di cui solo 63 donne). A questo si assommava la litigiosità dei suoi vertici locali e la scarsa considerazione che essi godevano tra le gerarchie ecclesiastiche livornesi: nella relazione che don Angeli, delegato vescovile di Azione cattolica, inviava ai vertici nazionali scriveva che «l’inferiorità numerica della Dc» rispetto al Pci era «aggravata da una notevole mancanza di dirigenti capaci», da cui seguiva «un indirizzo fiacco e inconcludente, più orientato al quieto vivere che all’affermazione di un’idea».

In questo quadro il giudizio della Chiesa livornese sulla collaborazione istituzionale nella giunta non differiva dalla linea espressa da Pio XII: è noto infatti che la via della collaborazione tra cattolici, comunisti e socialisti dell’immediato dopoguerra era stata una parentesi a cui la Santa Sede aveva guardato «con estremo sospetto e che subì di malavoglia». In un articolo durissimo scritto dal direttore del settimanale diocesano «Fides» dopo la formazione della nuova giunta unitaria e il quasi plebiscito ottenuto dai comunisti alle amministrative del novembre 1946, si diceva che i comunisti si erano assicurati una «nuova brillante vittoria tattica», poiché avevano in mano la giunta senza avere oppositori in consiglio comunale. I democristiani, definiti spregiativamente «collaborazionisti», «abbacinati dall’idea di “servire il popolo” non hanno capito che il miglior mezzo per servirlo era quello di controllare l’Amministrazione socialcomunista, e non di avallarla: di difendere la democrazia e non di partecipare ai suoi funerali: di rispettare la volontà popolare e non di affogarla in un indefinibile… cacciucco alla livornese».

La tenuta istituzionale della giunta di espressione ciellenistica fu dunque messa a seria prova dalla precarietà di una situazione di “lunga liberazione” e dalle contrapposizioni scatenate dalla “guerra ideologica” che contraddistinse gli anni del centrismo degasperiano: fattori di cui è necessario tener conto per valutare in tutta la sua complessità un’esperienza che rappresenta comunque un unicum tra le esperienze amministrative uscite dalla Resistenza.

*Gianluca della Maggiore è dottorando in Storia contemporanea presso l’Università di Roma Tor Vergata. E’ membro del coordinamento di redazione di ToscanaNovecento e collabora con l’Istoreco di Livorno. Autore di studi sul mondo cattolico, si occupa anche di cinema, Resistenza e movimenti politici. Ha pubblicato il volume Dio ci ha creati liberi. Don Roberto Angeli (2008).

Articolo pubblicato nel settembre 2014.



Tirrenia ’82 e non solo. Le feste dell’Unità negli anni Ottanta

La festa nazionale de l’Unità che si tenne a Tirrenia dal 3 al 19 settembre 1982, della quale Oriano Niccolai, “Rossocreativo”, creò il manifesto portante, si inscrive nella serie di grandi eventi politico-culturali che il Pci mise in campo a partire dalla metà degli anni ‘70 del Novecento, in un crescendo che percorse tutto il decennio successivo, divenendone forse una delle più caratterizzanti. Frequentate da artisti e intellettuali, percorse da politici di tutti i partiti che facevano a gara per ottenere visibilità (non solo italiani, ma anche europei, americani o altro), rilanciate dagli inviati della grande stampa e da televisioni nazionali e locali, le Feste de l’Unità in quel periodo furono eventi cruciali nei quali veniva propagandata, discussa e diffusa in forma allargata la “linea” politica. Una sorta di congressi non formalizzati, aperti e all’aperto.

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Il Manifesto di Tirrenia 1982 di Oriano Niccolai

Si trattava di una strategia politica e comunicativa che non nasceva per caso e i cui prodromi possono intravedersi già alla fine degli anni ’60. Parallelamente all’incremento dei consensi politici registratosi negli anni ’70, anche le feste crescevano, conquistandosi diffusione e consenso. Secondo i dati riportati da Anna Tonelli, la progressione è la seguente: 4607 nel 1972, 5724 nel 1973, 6563 nel 1974, 7059 nel 1975.

Come mai – ci si chiedeva negli organismi dirigenti – le Feste de l’Unità sono sempre pienissime mentre le sezioni spesso sono vuote? Il Pci rifletteva sia sul successo di forme nuove di comunicazione, sia, soprattutto, su possibili forme nuove di aggregazione. E mentre si approntavano importanti momenti di studio come i seminari tenuti alle Frattocchie nel ’75 e ad Ariccia nel ’76, restava forte la volontà politica di proiettarsi all’esterno e di coinvolgere non solo gli iscritti e neanche solo i propri votanti, ma di tendere a parlare anche a quei ceti che non avevano tradizionalmente il Pci come referente politico, con l’idea di realizzare una comunicazione, si potrebbe dire, di massa. Per questa ragione si affinava e si differenziava anche l’offerta culturale, con il coinvolgimento di artisti di rilievo internazionale.

La segreteria di Berlinguer, iniziata nel 1972, dette un impulso indubbio all’operazione feste; e, dal momento in cui nel 1976 il Pci acquisì tanti consensi elettorali da far intravedere il sorpasso sulla DC, le feste dell’Unità cominciarono ad acquistare il carattere di “prove di democrazia diffusa” e di prove di governo; ovvero, situazioni in cui la perfetta organizzazione, culturale, politica ed economica, la chiarezza cristallina dei bilanci, l’efficienza dei servizi e la qualità complessiva dell’offerta politica, culturale e di intrattenimento diventava la dimostrazione palpabile che il Pci sapeva e poteva governare. Subito.

In questo filone si può ben collocare la Festa nazionale di Tirrenia, realizzata in una situazione di enorme difficoltà ambientale da migliaia di volontari, guidati da una dirigenza politica giovane ed efficiente, contornata dall’impegno sentito di molti intellettuali, locali e nazionali.

Nel comizio di chiusura tenuto il 19 settembre davanti a almeno 500 mila persone Enrico Berlinguer affermò: “I compagni di Pisa hanno realizzato un’impresa straordinaria… un Festival letteralmente inventato in un’area brulla e nulla hanno chiesto al partito ma gli hanno dato la loro abile ed esperta opera sacrificando le ferie e spesso parte del loro salario… I compagni di Pisa, ben diretti dalla Federazione, hanno dato una testimonianza di come bisogna lavorare”.

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Foto di Daniele Altamore (fonte: Tirrenia82.com)

Ma la festa (e non a caso siamo partiti dal suo responsabile grafico, Oriano Niccolai) si caratterizzò anche per una immagine innovativa, colorata, fantasiosa e gioiosa. Scriveva Giulio Borrelli, inviato nazionale del TG1: “A Tirrenia c’è stato lo sforzo di introdurre forme di incontro e di partecipazione maggiormente in sintonia col modo, più laico e meno ideologico, con il quale oggi la gente si avvicina alla politica”. E si chiedeva cosa mai ci facessero, in una festa così vivace moderna e colorata “i padiglioni trionfalistici dei paesi dell’est”, anni luce diversi.

Cosa fu dunque Tirrenia 1982? La prima caratteristica che salta agli occhi è che a portare avanti un impegno colossale furono dirigenti, nazionali e locali, molto giovani, trentenni già selezionati e sperimentati; 29 anni aveva il responsabile del cantiere Paolo Fontanelli, 29 il responsabile stampa e propaganda Massimo Baldacci, 29 Fausto Valtriani che gestì l’accoglienza e del turismo, 35 il segretario della Federazione Luciano Ghelli, 27 anni Walter Veltroni, responsabile della comunicazione a Tirrenia e viceresponsabile nazionale stampa e propaganda, 36 Vittorio Campione, meno che trentenni erano i ricercatori di storia che realizzarono una delle mostre più visitate.

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(fonte: Tirrenia82.com)

La seconda caratteristica è che essa fu una festa per la città e non solo di partito. Lavorarono per la festa gli intellettuali dell’Università, ma offrirono gratuitamente alcune loro opere artisti come Guttuso (con le cui stampe firmate furono pagate molte imprese edili).

Vediamo qualche numero: dall’8 maggio al 1 settembre 1982 furono bonificati 28 ettari di terreni abbandonati, con oltre 50mila ore di lavoro volontario; mille volontari al giorno nei week end, qualche centinaio nei giorni di lavoro, 12mila persone in tutto, il 20% donne. Furono costruiti 6 km di strade, una rete idraulica di 4 km, una rete elettrica, approntati 291 servizi igienici in muratura, impiegati 85 km di tubi innocenti e 29mila metri cubi di legna, furono acquistate imponenti tensostrutture bianche e molte cucine complete per i ristoranti. L’architetto Francesco Tomassi curò il progetto urbanistico, l’organizzazione operativa fu di Enzo Cini, segretario Cgil Edili.

Furono realizzate in loco 5 Mostre inedite (La Pace prima di Tutto, La Toscana, una regione rossa, Scienza Tecnologia, sviluppo, I Parchi naturali, Maiakowskij giornalista, Mostra d’arte figurativa), e ci furono due mostre d’arte in città.

Negli spazi dibattiti si svolsero in media 5 iniziative politiche al giorno con politici di alto rango; nello spazio cinema vennero proiettati dai 3 ai 5 film al giorno; ci furono una ventina di spettacoli teatrali , vari spettacoli di altro genere, grandi concerti come quello dei Genesis e quello di Baglioni, uno spazio giovani sempre attivo, varie manifestazioni sportive; i ristoranti furono in tutto 19, 21 i bar-pizzerie, alcune enoteche, due punti telefono, una tabaccheria; furono installati tre sportelli bancari, uno dei quali automatico (il primo nella città). La festa ebbe un bilancio e un magazzino informatizzato, che consentiva il controllo in tempo reale dello stato delle forniture.

I visitatori furono oltre 2 milioni; l’incasso superò i 7 miliardi di lire, con un guadagno di circa 400 milioni di lire; rimasero di proprietà del partito molte strutture, riutilizzate negli anni successivi e date alle sezioni.

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Berlinguer a Tirrenia 1982 (fonte: Tirrenia82.com)

I Giornalisti inviati furono 200, le Delegazioni estere 30, e 110 l’ultimo giorno; ai dibattiti politici, oltre a tutti i dirigenti nazionali e toscani del Pci, partecirono personaggi del calibro di Franco Bassanini, Giulio Andreotti, Giorgio Spini, Tina Anselmi, Maria Eletta Martini, Luciano Lama, Bruno Trentin, Ottaviano Del Turco, Gianni De Michelis, Rino Formica, Sergio Zavoli, Tullio De Mauro, Felice Ippolito, Luigi Cancrini, Luciano Terrenato, Italo Insolera, Carlo Bernardini, Franco Della Peruta, Nicola Badaloni, e molti altri.

Nelle conclusioni Enrico Berlinguer, rilanciando quanto aveva da poco esternato nella nota intervista a Eugenio Scalfari, riprese il tema della diversità del Pci e della necessità che il Pci fosse un partito diverso. Lui che già aveva contrapposto le feste dell’Unità ai partiti, diventati, diceva, “macchine di potere e di clientela che gestiscono interessi disparati, anche loschi senza perseguire il bene comune, a Tirrenia affermò: “Il paese è stanco di vedere la politica ridotta a giochi meschini, a loschi intrighi, al mercato dei posti. I comunisti rappresentano – non da soli, ma nel modo più rigoroso e coerente – l’aspirazione del popolo e del paese a che si respiri un’aria pulita e possano risolversi i problemi lasciati incancrenire da anni di malgoverno”.

E forse prendendo spunto da queste parole, l’editoriale dell’opuscolo pubblicato a fine festa chiosava: “Chi crede che la politica sia soltanto gioco delle parti e trattativa di vertice fatta sopra la teste di uomini e donne non è evidentemente mai stato a Tirrenia. Anche rivista dopo molti anni, lungi dal sembrare trionfalistica, la frase appare cogliere in pieno il senso di un impegno collettivo in quel momento fortemente sentito e generosamente vissuto.

* Cristiana Torti è ricercatrice presso il Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell’Università di Pisa. Insegna Storia del Patrimonio industriale e storia dell’Ambiente e del Territorio. E’ vicepresidente del Corso di Dottorato in Storia e Orientalistica. Su questo tema ha svolto una relazione più dettagliata in apertura della Giornata di testimonianze, riflessioni, fotografie e video, a trent’anni dalla festa, tenutasi il 13 ottobre 2012 presso il Centro Maccarrone di Pisa. [Si ringrazia anche Andrea Bianchi della Fondazione La Quercia Pisana-Rami del Sapere, per la collaborazione]

Articolo pubblicato nel settembre 2014.




Oriano Niccolai, il creativo rosso

Racconta Oriano Niccolai, classe 1930, di essersi fatto tutta la Sardegna a dorso di mulo per girare documentari, in 16 mm, per la propaganda politica del Partito comunista. Era il 1968 e grazie al benestare di Enrico Berlinguer, conosciuto negli anni Cinquanta a Livorno, Niccolai organizzò quello che fu probabilmente l’esordio di una campagna elettorale multimediale nella storia del Pci. Con Berlinguer, allora non ancora segretario nazionale, passò una nottata girovagando tra le strade di Cagliari per esporgli la sua idea innovativa di comunicazione politica. E quell’anno, per le elezioni regionali sull’isola, non furono solo comizi e manifesti: per la prima volta vennero utilizzati musica, report e documentari.

Oltre 2000 manifesti
Non è da molto che la storiografia ha cominciato ad occuparsi delle forme della comunicazione politica dei partiti di massa del dopoguerra. Un contributo originale e significativo è arrivato di recente proprio dalla riscoperta dell’opera di Niccolai, grazie al progetto che gli ha dedicato l’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea nella provincia di Livorno (Istoreco). Selezionando tra gli oltre 2mila manifesti presenti nel suo archivio (di cui quasi due terzi realizzati da Niccolai dagli anni Cinquanta ad oggi), l’Istoreco ha allestito una mostra a lui dedicata Rosso creativo. Oriano Niccolai 50 anni di manifesti, da cui è scaturito poi un catalogo curato da Margherita Paoletti e Valentina Sorbi (vedi a fianco).

Il creativo rosso
Difficile definire con categorie standard il profilo biografico di Niccolai: non certo un intellettuale, né un semplice creatore di manifesti. La penna del giornalista del “Tirreno” Luciano De Majo, in occasione dei suoi ottant’anni, gli trovò una definizione originale: «il creativo rosso». Creativo perché non solo funzionario addetto allo stampa e propaganda, non solo grafico e impaginatore, ma anche disegnatore, autore, giornalista. Un creativo a tutto tondo, che è stato in grado di anticipare i tempi ideando per la Federazione di Livorno, e poi in diverse parti d’Italia, delle moderne campagne di comunicazione, capaci di utilizzare strumenti nuovi e diversi registri per veicolare il messaggio politico.

Manifesto per la Festa dell’Unità di Livorno (1965) (Archivio Istoreco Livorno)

Manifesto per la Festa dell’Unità di Livorno (1965) (Archivio Istoreco Livorno)

Spicca il volo dal “Nido delle Aquile”
D’altra parte la formazione di Niccolai è imbevuta di pittura e cinema. A Livorno, sua città natale, giovanissimo frequenta gli ambienti di pittura cittadini, per poi grazie a Nelusko Giachini e, soprattutto, Silvano Filippelli, appassionarsi al cinema francese e all’arte del far manifesti. Alla fine degli anni ’40 comincia dunque a frequentare “il Nido delle Aquile”, cioè l’Ufficio propaganda della Federazione comunista livornese, un gruppo effervescente composto da intellettuali, giornalisti, disegnatori e critici d’arte. In questa fucina Niccolai impara ad andare oltre l’idea del grafico tout court, diviene un comunicatore: testo e immagine cooperano in pari grado alla comunicazione del messaggio. Da qui la grande attenzione alle tecniche giornalistiche di impaginazione e la sperimentazione di nuove forme di comunicazione, come la striscia luminosa lunga più di 350 metri, costruita per la Festa dell’Unità di Livorno del 1979.

L’uomo delle isole
Di lui si accorgono i vertici nazionali, che da Livorno lo inviano in giro per l’Italia a mettere la sua esperienza nella comunicazione al servizio delle Federazioni più deboli. Nel 1968 in Sardegna, poi nel 1971, a seguito di un gemellaggio delle Federazioni di Livorno e Pisa con quella di Caltanissetta, cominciano i suoi pellegrinaggi in Sicilia. Fino al 1984 saranno undici i suoi viaggi in terra siciliana (in particolare per le elezioni regionali del 1976). E poi la Calabria nel 1978 per tenere corsi sulla propaganda e le tecniche di comunicazione. Privilegiato poi il rapporto con l’Isola d’Elba in cui lavora moltissimo fino alla fine degli anni Ottanta.

Da Rodari a Steiner, passando per Zancanaro
Quello con Berlinguer non è il solo incontro importante nella vita di Niccolai, tutto il suo percorso è costellato di incontri e amicizie di rilievo: con Gianni Rodari, nel 1949 a Reggio Emilia (con cui lavorò poi fianco a fianco nella campagna elettorale nazionale del 1958), con Albe Steiner negli anni Sessanta a Bologna, con Tono Zancanaro con cui lavorò negli anni siciliani. Niccolai è curioso e innovativo, gli incontri ne forgiano l’estro e la personalità, ma è capace di rielaborare un suo percorso autonomo, lontano dalle esagerazioni retoriche della lotta politica tra blocchi. Nei manifesti di Oriano, scrive Sergio Staino nel catalogo della mostra, «tutto si muove nella ricerca di un giusto equilibrio tra l’informazione del messaggio e la sottolineatura espressiva dello stesso».

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Articolo pubblicato nel marzo 2014.




Le fonti dell’Archivio di Stato di Livorno per lo studio del primo fascismo

La nascita dell’Archivio di Stato di Livorno è dovuta al Rdl 22 dicembre 1939, n. 2006, che impose la costituzione di una sezione di Archivio di Stato in ogni capoluogo di provincia. La guerra, soprattutto quelle aerea, ritardò l’attivazione dell’archivio, che iniziò ad operare solo alcuni anni dopo la fine del conflitto nei locali del Palazzo del governo, nell’attuale via Fiume. Al nuovo archivio giunsero – più o meno ordinati – tutti i fondi precedentemente conservati dall’Archivio storico cittadino, fondato nel 1899 da Pietro Vigo. Questo comportò l’avvio di un’ingente quantità di lavori per il loro ordinamento, che si conclusero provvisoriamente solo nel 1960 con la pubblicazione del primo inventario dell’Archivio di Stato di Livorno. Ma perché ci interessa sapere questo per orientarci tra le fonti del fascismo livornese? Per il motivo che la maggioranza di questa tipologia di carte su cui oggi possiamo studiare vennero ordinate – e quindi “manipolate” per l’ultima volta – proprio durante queste operazione di prima messa a disposizione degli studiosi del patrimonio dell’Archivio di Stato di Livorno.
Immagine1Mi riferisco a due fondi in particolare: quello topico del Partito nazionale fascista e quello del Comitato provinciale di liberazione nazionale. Senza scendere troppo nel dettaglio è sufficiente sapere come, alla data del 25 luglio 1943, l’archivio della federazione si trovasse nella sede di Piazza Cavour. Sicuramente vi rimase fino alla costituzione della federazione provinciale del Partito fascista repubblicano, prima del trasferimento in via della Paluda a causa dell’interdizione delle vie centrali del capoluogo per la creazione della “Zona nera” (15 novembre 1943). Non è chiaro se tutto l’archivio venne trasportato nella nuova sede, ma comunque fu recuperato quasi intatto dal Comitato provinciale di liberazione nazionale dopo la liberazione della città da parte degli angloamericani (19 luglio 1943). L’interesse per i resistenti a “controllare” l’archivio stava nella possibilità di passarlo al setaccio per individuare responsabilità – e responsabili – del passato ventennio, rendendo più rapida la fase istruttoria per la “defascistizzazione” della provincia di Livorno. Questo ha fatto sì che tale archivio si mescolasse con quello del Comitato provinciale di liberazione nazionale, soprattutto nella sua componente “politica”. La serie di buste dell’Ufficio politico, infatti, è la più consistente del fondo (14 buste su un totale di 43, di cui altre 14 di denunce varie provenienti dai comitati periferici). Ciò che rende interessante – ed importante – questo materiale è come si tratti di fascicoli personali intestati a noti personaggi dell’epoca, corredati di documentazione proveniente dall’archivio della federazione (tessere, fascicoli personali dell’iscritto, richieste ecc.) per acclarare la loro partecipazione alla vita del ventennio precedente.
Nell’archivio della federazione, infatti, si possono tutt’ora rinvenire molti incartamenti intestati ai singoli e finalizzati al riconoscimento del proprio impegno fascista. Il fondo Partito nazionale fascista è comunque molto voluminoso e si compone di 78 buste. Le più interessanti per ricostruire le origini del partito – e coglierne la sua componente di violenza – sono sicuramente quelle relative alle “istanze” per il riconoscimento dell’attività squadrista (1939) o della partecipazione alle giornate della Marcia su Roma (1923-1941).
Ovviamente all’interno del fondo ci sono tante altre fonti per capire la composizione del partito livornese negli anni del regime, come le cartelle biografiche degli iscritti al fascio del capoluogo (bb. 17) e alla federazione (bb. 19). Su questo genere di documenti Matteo Mazzoni ha realizzato l’analisi puntuale di quattro gruppi rionali del solo fascio di Livorno (27% degli iscritti). Queste cartelle sono rilevanti in quanto all’interno si possono trovare documenti istruttori particolarmente utili per lo studio delle dinamiche locali del partito.
L’altro grande nucleo concerne le richieste di iscrizione al Pnf relativa all’ultima apertura delle iscrizioni (1940-1941), che permettono un’analisi puntuale di questa componente del fascio “dell’ultima ora” (bb. 11).
I due fondi che ho sommariamente illustrato non rientrano necessariamente nel patrimonio di ogni singolo archivio di Stato, trattandosi di documentazione non prodotta da enti periferici dello Stato ma da organizzazioni politiche. Quelli che invece per legge sono fondi che devono essere nel patrimonio di un archivio di Stato sono i fondi Prefettura, Questura e Tribunale del capoluogo di provincia.
La Prefettura, in quanto organo più importante della provincia per il sistema amministrativo italiano, è anche il fondo più consistente. Per la documentazione fascista le buste utili sono diverse, e tutte a vario modo assai rilevanti trattandosi della corrispondenza tra singoli enti (i cui archivi, magari, non sono stati conservati) e il “centro” della periferia. Mi riferisco in particolar modo alla serie “Fascismo” e ai suoi riferimenti al Pnf, Pfr e le varie organizzazioni federali (bb. 189 e 190), le case del fascio della provincia (b. 212) e l’applicazione della legislazione razziale (bb. 93, 172 e 337). Di particolare utilità, anche per indagini sui legami tra caso locale e nazionale, sono le buste relative ai rapporti tra prefetti e sindaci-podestà della provincia (bb. 157, 181, 187). Queste carte, se lette in filigrana, fanno emergere bene gli umori della federazione in provincia nell’arco del ventennio.
Per ovvie ragioni il fondo Questura è forse il più ricco di quelli che si trovano all’Archivio di Stato di Livorno che possono aiutare i ricercatori negli studi sul “fascismo-movimento” e “fascismo-regime” nella provincia labronica. Le serie più calzanti per leggere in fieri l’affermazione fascista – oltre alla b. 487 (partito fascista) della A3 “associazioni” – sono la A1 “informazioni personali” e A8 “persone pericolose per l’ordine pubblico”. L’A1 è la serie adatta per svolgere ricerche su determinate persone, trattandosi delle indagini svolte dalle forze dell’ordine su sollecitazioni della prefettura (per intervento di altri enti o per denunce anonime), ma grazie al recente strumento di corredo realizzato per muoversi anche su determinate tematiche di ricerca. La serie A8 è il cosiddetto Casellario politico provinciale, per cui conserva un gran numero di fascicoli nominativi che seguono la “vita” degli indagati. Il problema è che questo strumento di polizia rimase attivo fino alla fine degli anni ’70 (quantomeno le carte che abbiamo si fermano a quella data), per cui venne ampiamente rimaneggiato, soprattutto dopo la fine del fascismo e della Seconda guerra mondiale. Questo non impedisce di poter scorgere qualche fascicolo interessante per capire la genesi dello squadrismo, soprattutto se riferibile a determinate categorie di persone controllate dalla polizia prima e dopo la guerra.
L’ultimo fondo di quelli “istituzionali” nel quale è possibile indagare il fascismo livornese è, senza dubbio, quello del Tribunale. Come è noto le violenze squadriste, soprattutto per fatti di sangue, vennero “perseguite” (quantomeno ci fu un tentativo) prima dell’affermazione del regime fascista, lasciando ampie testimonianze istruttorie tra le carte processuali livornese. Questo aspetto si rivelò decisivo nel secondo dopoguerra, quando, con la cosiddetta legislazione per le “sanzioni contro il fascismo”, vennero riaperti alcuni casi amnistiati o chiusi nel ventennio precedente.
Vorrei chiudere questa panoramica sulle fonti del primo fascismo rinvenibili nell’Archivio di Stato di Livorno con un fondo un po’ meno conosciuto, ma fondamentale per comprendere fino in fondo le dinamiche socio-politiche che hanno sotteso alla nascita del fascismo labronico e in tutta l’area costiera. Mi riferisco all’archivio “di persona” di Salvatore Orlando. Erede dell’omonima famiglia, fu a capo del cantiere navale di Livorno dal 1877 alla sua morte nel 1926. Attraverso il suo ruolo di personaggio pubblico centrale per la vita politica livornese del mondo liberale (deputato, 1904-1920; sottosegretario di Stato ai trasporti 1918; senatore 1920-1926) lo mise al centro anche dell’affermazione fascista in città e sul territorio. Attraverso la sua corrispondenza (bb. 28), in particolar modo quella relativa all’ultima fase della sua vita (1921-1926) è possibile seguire, quasi giorno per giorno, la crescita del movimento fascista. Venire? Attraverso le numerose donazioni al fascio che egli fece a partire dalla primavera del 1921, in modo regolare, partecipando informalmente alla vita della sezione livornese e di altre sezioni all’interno del suo “feudo” elettorale.

Articolo pubblicato nel luglio 2021.




Erminia Cremoni (1905-1956)

Erminia Cremoni

Erminia nasce a Livorno l’8 gennaio 1905 da una famiglia di modeste condizioni; si iscrive fin da piccola all’Azione cattolica, dedicandosi all’apostolato ed alle opere assistenziali.

Nel corso degli anni Trenta è esponente di un associazionismo cattolico che guarda con diffidenza al regime e che cerca di salvaguardare un’autonomia rispetto ai tentativi di controllo “totalitario” dell’educazione dei giovani. Partecipa all’Unione femminile cattolica, fondata dalla curia livornese nel 1932, così come ad altri gruppi, quali l’Unione donne cattoliche e la Gioventù femminile di Azione cattolica. Di quest’ultima associazione Erminia viene nominata presidente nel 1943, a fianco del sacerdote don Roberto Angeli. Si occupa tra l’altro della formazione delle operaie che lavorano nelle fabbriche livornesi e nei maggiori cantieri della città, come la Oto e la Motofides.

Nel periodo della Resistenza aderisce al movimento dei cristiano-sociali, fondato da don Angeli, che coniuga valori cattolici e idealità socialiste; esso entra a far parte del Comitato toscano di liberazione nazionale in collegamento col Partito d’Azione.

Erminia Cremoni e Emilio Angeli (©️Archivio Centro Studi Roberto Angeli)

Partecipa all’attività di assistenza a un gruppo di soldati italiani scampati alla cattura tedesca e rifugiati nei sotterranei dell’ospedale di Livorno. Collabora inoltre alla rete di soccorso ai perseguitati di origine ebraica: percorre una o due volte a settimana circa venti chilometri a piedi da Montenero, anche nel corso di allarmi e bombardamenti, per fornire rifornimenti ad un gruppo di ebrei nascosti in una palazzina di via Micali nella città labronica. Svolge un lavoro di sostegno materiale e spirituale ai partigiani cristiani, trasportando viveri, armi, medicine, materiali di propaganda. Sarà riconosciuta partigiana combattente nel servizio “I” (Informazioni) della Divisione “Giustizia e Libertà”.

Dopo la fine del conflitto Erminia prende l’abilitazione all’insegnamento della religione nelle scuole medie; continua a dedicarsi ad opere assistenziali e nel 1944 fonda e presiede la sezione livornese del Centro italiano femminile (CIF), organizzazione politica e ricreativa delle donne cattoliche. È successivamente eletta come consigliera di minoranza nelle liste della Democrazia cristiana in Consiglio comunale. Muore nel 1956.

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🟪Archivio ISRT, Fondo Clero toscano nella Resistenza, b. 6, f. Livorno, testimonianza dattiloscritta di Erminia Cremoni, s.d. ma fine anni Quaranta – primi anni Cinquanta.

Nel 1943, quando cominciarono a delinearsi a Livorno i primi movimenti antifascisti, collaborai alla diffusione di idee cristiane sociali.
Dopo l’8 settembre aiutai diversi soldati italiani nel loro tentativo di sottrarsi alla cattura da parte dei tedeschi. Si nascosero nei sotterranei dell’ospedale civile di Livorno con rifornimento di viveri, denari e abiti civili ed un gruppo di marinai catturati nell’isola d’Elba. Lavoro difficile perché si doveva agire sotto la sorveglianza delle sentinelle tedesche ed uscire insieme – magari a braccetto – per accompagnarli oltre la città. Possono essere testimone di questo Amalia ed alcune infermiere dell’ospedale.

Venuto l’ordine di evacuazione della città rimasero senza casa un gruppo di circa 15 ebrei poveri, malati, vecchi e bambini dell’ospedale israelitico. Insieme a don Angeli e don Spaggiari procurammo di venire il loro soccorso moralmente e materialmente – con visite periodiche – fino al giugno 1944. Il pericolo cui andavo incontro era grave perché si sapeva quanto gli ebrei erano sorvegliati. Le visite si facevano uno o due volte la settimana e si andava in città – via Micali – da Montenero quasi sempre a piedi andare e venire. Circa 20 km con allarmi continui e più volte sono stata presa dai bombardamenti. In questo tempo si era nascosto anche un medico di Modena – straniero ed ebreo – al sanatorio Villa Corridi, ed anche per lui si faceva tutto quello che era possibile. Dopo l’arresto di don Angeli che guidava questo lavoro – fu arrestato 17 maggio 1944 – fui costretta a non venire più in città perché mi avevano segretamente avvertito che avevo pronto il mandato di cattura. Per questo chiedere informazioni all’avvocato Funaro di Livorno. Contemporaneamente ero in stretta collaborazione con il gruppo della resistenza cristiana […] e mi prestavo ospitando in casa alcuni dei capi della resistenza[:] Benetti, Pagani, alcuni sacerdoti Enriquez medaglia d’oro […],1 Don Angeli, il “nonnino” Angeli Emilio,2 medaglia di argento, Orlandini, Merlini, Figara, il capitano Pini, ed altri dei quali non si poteva sapere il nome. Mi prestavo per il trasporto dei medicinali, viveri, armi, proiettili, lettere, diffusioni giornali, documenti falsi, carte di identità false con relative tessere del pane. La famiglia Pagani può testimoniare.

Erminia Cremoni

Nel novembre del 1943, per incarico del “nonnino” Emilio Angeli […andai] a Castagneto nel Mugello per la ricerca di prigionieri inglesi e per fornire collegamenti a nuclei partigiani della Resistenza che abitavano in quella zona. Andai a Vicchio, Dicomano e nei pressi del Monte Falterona con il pericolo di essere arrestata dai tedeschi che si trovavano ovunque e fermavano le persone chiedendo spiegazioni e documenti. Viaggiavo con dei libri di propaganda dell’Azione cattolica perché sarei in quel caso stata la “propagandista”. Quando dovevo passare davanti ai posti di blocco tedeschi, il cuore mi sembrava che si fermasse. In queste occasioni scrivevo nomi e dati in carta velina che nascondevo in mezzo all’ovatta della giacca. A Castagno fui ospite in casa del mugnaio che aveva una figlia che faceva da collegamento tra la montagna ed il paese. Anche questo dopo poco [fu] arrestato. Seppi dopo, e a Livorno e fuori, di aver avuto contatto con [persone] formidabili, specialmente donne.
Nel giugno [1944], si avvicinavano gli americani, cominciarono le razzie di uomini da parte dei tedeschi nella zona di Montenero dove abitavo, Villa Todda, e ad Antignano dove mi ricavo ogni giorno perché mi ero impiegata. Mi riuscì a nascondere alcuni uomini e fornire a loro e ad altre ville vicine un serrato servizio di informazioni sui movimenti delle SS. Mi chiamavano “il Gazzettino” – alcuni riuscirono a fuggire –. Il cerchio si stringeva sempre di più, il mio ufficio, il consorzio agrario, chiuse e così iniziò quel terribile periodo di terrore per l’avanzata [americana?] che tartassava la zona di proiettili a pioggia continua e per la caccia all’uomo delle SS. Fu in uno di questi terribili giorni, non riuscivo a stare chiusa in casa, che stando distesa dietro un muretto del giardino per non essere colpita alla testa sentii un [latrato?]. Mi dirigevo verso quel punto ma un tedesco mi aveva veduta e la mitragliatrice intensificò la sua mira, avanzando strisciando a zig-zag per terra arrivai al punto dove sentivo il latrato e trovai un giovane ferito gravemente al basso ventre. Andai a chiamare il medico che si rifiutò di venire, allora presi una cassetta di medicinali e come potei disinfettai tutta la zona, era in un lago di sangue, lo fasciai stretto, poi lo trascinai sempre strisciando per terra dietro un pagliaio. Ma eravamo di nuovo presi di mira e le pallottole piovevano e ripassavano sopra le nostre teste. Non abbandonai il ferito finché non lo misi in una boscaglia, indicandogli una casa dove poteva nascondersi. Seppi che fu poi portato all’ospedale, fu operato e salvato.
Offrii per qualche mese ospitalità a don Angeli finché fu arrestato e deportato nei campi di concentramento della Germania.
Questo è ciò che ricordo.




Primetta Cipolli (1899-1963)

Primetta Cipolli Marrucci ad un comizio durante la campagna per l’elezione dell’Assemblea costituente, 1946 (©️Archivio Renza Bendinelli)

Nasce a Cecina il 23 settembre 1899; la madre fa la lavandaia, il padre è un operaio fornaciaio. Primetta interrompe la scuola in terza elementare, dovendo contribuire a mantenere la famiglia dato che la madre è malata. L’abbandono degli studi costituirà per lei sempre motivo di rammarico.

Nel 1911 i Cipolli sono costretti a trasferirsi in Maremma poiché il padre si è esposto durante gli scioperi organizzati dal sindacato tra Livorno e Piombino; emigrano successivamente a Torino, ma fanno ritorno a Cecina in seguito allo scoppio della grande guerra.

Nel 1918, alla morte della madre, Primetta prende su di sé il carico della famiglia e torna al lavoro in fabbrica dove alcuni compagni socialisti la invitano ad entrare nel partito ed a formare il gruppo femminile. Aderisce poi al Partito comunista d’Italia (PCd’I), fondato a Livorno nel 1921.

Nel 1923 sposa Oreste Marrucci, cugino di Ilio Barontini, che conosce fin dalle scuole elementari. I due – presi di mira per i loro atteggiamenti antifascisti − sulla base di motivazioni politiche ed economiche decidono nel 1924 di emigrare in Francia, prima a Marsiglia e poi a Parigi, dove Primetta diventa agente di collegamento per il Partito comunista.

1951, Livorno comizio piazza Magenta elezioni amministrative (©️Archivio Renza Bendinelli)

Dopo la morte del marito Oreste, avvenuta nel settembre del 1938 nella “battaglia dell’Ebro” durante la guerra civile in Spagna, Primetta partecipa alla Resistenza francese, impegnandosi probabilmente in compiti di assistenza e sostegno alle attività dei partigiani di origine italiana; è arrestata per circa un mese tra la fine del 1943 e l’inizio del 1944.

Nel 1945 torna a Livorno impegnandosi nel partito e nell’amministrazione comunale. Grazie anche alla partecipazione alla scuola di partito entra nei quadri del PCI. Dopo le elezioni amministrative del novembre 1946, diventa assessore all’Anagrafe, annona e beneficenza nella giunta presieduta dal sindaco comunista Furio Diaz. Primetta è dunque la prima donna in tutta la provincia di Livorno ad occupare cariche politiche.

Nel 1947 interrompe l’attività pubblica per motivi di salute, torna a Parigi e rientra a Livorno un paio di anni più tardi. Continua a lavorare per il partito, per l’UDI e per l’amministrazione comunale come consigliera. Nel 1957 le sue condizioni di salute si aggravano e nel 1959 presenta le sue definitive dimissioni al sindaco. Muore il 3 maggio 1963.

1952, Livorno, Asilo comunale, visita da assessore (©️Archivio Renza Bendinelli)

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Memoria autobiografica in: Renza Bendinelli, Primetta e Oreste, “fuoriusciti” antifascisti. Fra storia e memoria, Pisa, ETS, 2022, p. 112.

Debbo dire che malgrado la mia attività politica sia stata continuativa e mai abbia avuto la minima incertezza sulla giustezza della linea del Partito e nella lotta che si stava combattendo, riconosco che non sempre nella mia attività ho reso al massimo. Penso che spesso nei primi tempi della mia attività ero chiamata facilmente a coprire cariche di responsabilità e di fiducia non per la mia capacità, ma piuttosto per il mio attaccamento al Partito e per la mia serietà morale e politica che ispiravano fiducia. Infatti ritengo sempre di essere stata un quadro mediocre: ho letto un po’ ma non ho mai studiato e forse questo è dovuto in gran parte al fatto che, oltre all’attività politica, ho dovuto sempre lavorare per vivere. Ed all’epoca in cui avrei dovuto svilupparmi non vi erano possibilità di frequentare scuole e corsi politici e non era nemmeno facile, data la scarsezza enorme dei quadri, togliere compagne che avevano del posti di responsabilità. Ed in me forse non vi è stata nemmeno facilità di studiare e di apprendere.
Inoltre ero soggetta ad una certa timidezza che era di freno al mio sviluppo e credo di aver avuto anche una sottovalutazione delle mie forze e possibilità. Ad esempio fino al 1938 non ho mai avuto il coraggio di prendere la parola in pubblico ed ero molto reticente a parlare in assemblee alla presenza di compagni che ritenevo più qualificati: e di queste deficienze mi restano ancora alcuni residui.
La timidezza l’ho in parte vinta al momento della partenza per la Spagna del mio compagno. Di fronte all’esempio del suo sacrificio non vidi che una cosa: sostituirlo nella lotta, seguire il suo esempio e quello delle altre migliaia di eroi, battermi con tutte le mie forze e su tutti i fronti. Fu così che dopo la sua partenza e soprattutto dopo la sua morte affrontai il pubblico, vinsi ogni reticenza e mi accorsi che i1 mio lavoro così rendeva molto di più e mi dava anche maggior soddisfazione. E nel lavoro attivo trovai l’unico conforto per la perdita del mio compagno. Ho preso parte alla lotta di liberazione e se non ho potuto dare di più ciò è in rapporto alle mie condizioni di salute. Sono stata arrestata e non ho avuto la minima defezione malgrado la mia situazione fosse preoccupante.




Osmana Benetti (1923-2016)

Osmana Benetti (©️Istoreco Livorno)

Osmana, Osman come la chiamano parenti ed amici, nasce a Livorno il 24 dicembre 1923, terza di cinque figli. La madre fa la lavandaia, il padre, marinaio, ha viaggiato in tutto il mondo; si trovava in Russia nel 1917 ed è stato dunque testimone dell’ondata rivoluzionaria, rimanendone impressionato e affascinato. Nel 1923 smette di imbarcarsi e inizia a lavorare come operaio al cantiere navale Orlando, subendo nel corso degli anni vari incidenti, di cui uno grave.

Osmana frequenta la scuola fino alla quinta elementare, ma deve abbandonare gli studi, con grande dispiacere, a causa delle difficoltà economiche dei genitori. La sua è una famiglia aperta, in cui si legge tutti insieme dopo cena e si ascoltano gli avventurosi racconti di viaggio del padre. Quest’ultimo non è un antifascista attivo, ma ha sempre rifiutato la tessera fascista.

Nel 1943 la ragazza ventenne entra nella Resistenza, di nascosto dalla famiglia, agendo come staffetta partigiana sulle colline livornesi tra la Valle Benedetta e il Castellaccio. In quest’area opera dalla primavera il 10° distaccamento “Oberdan Chiesa” della 3a Brigata Garibaldi.

Nel 1944, dopo la Liberazione, conosce Garibaldo Benifei, che diverrà suo compagno di vita e di militanza politica; i due si sposano il 24 gennaio 1945 con rito civile al Comune di Livorno.

Osmana Benetti (©️Istoreco Livorno)

Osmana, come il marito, si iscrive al Partito comunista; si impegna in diverse associazioni, come l’Unione donne italiane, l’ANPI, l’Associazione nazionale perseguitati politici italiani antifascisti (ANPPIA). Non risulta che abbia presentato domanda di riconoscimento ufficiale delle attività svolte nella fase dell’occupazione tedesca.

Assieme a Garibaldo si farà portavoce, soprattutto nelle scuole, presso le giovani generazioni, degli ideali civili e delle esperienze vissute nel difficile periodo della Resistenza. Le saranno conferite l’onorificenza d’onore di cavaliere della Repubblica nel 2014 e, nel 2015, la Livornina dal Comune di Livorno. Muore il 10 febbraio 2016.

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🟥 Intervista a OSMANA BENETTI, in L. Antonelli, “Voci dalla storia. Le donne della Resistenza in Toscana tra storie di vita e percorsi di emancipazione”, Pentalinea, 2006, p. 238

…Vado di là e la mi’ mamma mi viene dietro e vede che io parlo con quest’uomo, al che non ti dico quel che è successo, mi ha preso a ciaffoni:1 “Cos’è questa storia, te che ti incontri con gli uomini”. Una cosa che son stata così male, così male perché era una cosa che non me la sarei mai aspettata capito. E questa donna la capisco, lei era preoccupata io sparivo troppo spesso.
Andai dal compagno Di Maio a chiedergli che, siccome lui lavorava per la Todt e reclutava gli uomini per la Todt, io gli dissi: “Guarda io non ti chiederò mai nemmeno una lira, ma fammi un foglio che io possa presentare in casa mia che io sono reclutata dai tedeschi alla Todt e che tutti i giorni io devo venire giù, sennò altrimenti per me diventa una vita impossibile, impossibile”.
Lui disse che cercava e invece …successe che fucilarono Oberdan Chiesa che era nel carcere di Pisa e ci fu un attentato a Rosignano, lui era stato anche in Spagna, i tedeschi andarono al carcere, lo potarono sulla spiaggia di Rosignano e lo fucilarono. Da parte nostra ci fu una fortissima reazione e i compagni fecero tantissimi volantini e dovevano essere messi nei punti in vista dove c’era la gente […] e io stavo lì pensando e ripensando come potevo fare per fare mettere in evidenza su alla Valle Benedetta questo fatto. Allora presi, sai a quei tempi ci facevano il corredo quando s’aveva una certa età ed erano tutti legati con dei fiocchini rosa, gialli, verdi, allora io levai tutti questi nastrini colorati dal corredo mio, da quello delle mie sorelle e poi presi questi volantini e li legai con questi fiocchini. Alla Valle Benedetta […] la sera tardi andai con questi volantini, li legai tutti alle piante più basse lungo la strada dove ci passano gli operai che andavano alla miniera. […] e tutti seppero come era stato ammazzato Oberdan Chiesa…

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🟥 Osmana Benetti: “Abbiamo lottato come gli uomini, poi siamo rimaste un passo indietro” (intervista di Simona Poli – La Repubblica, 25.05.015)

Qual era il suo compito?
“Facevo da collegamento tra campagna e città, mi muovevo a piedi, qualche volta in bicicletta finché non la rubavano. I messaggi in genere li nascondevo nel reggiseno ma per fortuna non ebbi mai problemi, parevo una bimbetta, non avevo né fisico né portamento da ragazza, ero proprio una che non si faceva notare”.

Pensava mai a cosa avrebbe fatto se fosse stata arrestata?
“Mi ero preparata, del resto le storie si conoscevano, sapevamo delle torture e delle botte. La mia non era incoscienza, ero consapevole dei rischi e capivo che avrei potuto essere uccisa. I tedeschi li ho visti tante volte ma non ho mai avuto nessun contatto diretto, non partecipai ad azioni di guerra. Quell’esperienza mi è servita a scegliere la mia vita futura. Dopo la Liberazione mi sono subito messa a lavorare per ricostruire gli asili e le mense per gli operai. Anche Garibaldo ha fatto tanto e ha ottenuto molti riconoscimenti. Il nostro è stato il primo matrimonio civile celebrato a Livorno e abbiamo potuto sposarci solo grazie alla solidarietà dei compagni e delle compagne che ci dettero lenzuoli, tovaglie, mobili. Noi non avevamo nulla, nemmeno i soldi per gli anelli. Gli operai dei Cantieri Orlando ci regalarono le fedi d’acciaio”.

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🟧Il mio 25 aprile a Livorno: Garibaldo e Osmana Benifei (Raicultura)






Ubaldina Pannocchia (1923-2021)

Ubaldina Pannocchia

Ubaldina nasce a Livorno il 29 giugno 1923. Il padre ha una macelleria e anche lei collabora fin da piccola alla sua gestione. Sente forte il rammarico di dover interrompere gli studi dopo la quinta elementare, perché la famiglia, non avendo sufficienti disponibilità, fa proseguire solo i due figli maschi. La madre la spinge ad imparare il ricamo dalle suore, ma Ubaldina preferisce la musica e riesce a prendere lezioni di piano fino allo scoppio della guerra.

Comincia a interessarsi di politica quando si innamora di Nedo Guerrucci, amico del fratello Roberto. Entrambi studenti, sono attivi nelle reti comuniste livornesi già prima dell’8 settembre 1943. Nello stesso anno, a causa dei bombardamenti sulla città, la famiglia di Ubaldina sfolla a Lorenzana.

Ubaldina Pannocchia

Dopo l’armistizio, Nedo è chiamato a presentarsi al Comando militare di Ardenza, ma si dà alla macchia e raggiunge una formazione partigiana a Castellaccio. Per mantenersi vicina a lui ed al fratello, Ubaldina prende contatti con altri partigiani come Vasco Caprai e Giovanni Finocchietti e inizia a muoversi in bicicletta per le colline livornesi trasportando viveri, armi, medicine e volantini.

Tutti questi giovani confluiscono dalla primavera del 1944 nel 10° distaccamento “Oberdan Chiesa” della 3a Brigata Garibaldi, la principale formazione attiva in quest’area.

Ubaldina non presenterà domanda di riconoscimento anche perché, come molte donne impegnate con compiti informali, acquisirà dopo molti anni la consapevolezza di aver svolto un ruolo significativo. Dopo la guerra entra nel PCI, si impegna nell’UDI e successivamente nell’ANPI. Si sposa con Nedo, che è diventato un dirigente del partito, e lo segue nei suoi incarichi a Roma e all’Isola d’Elba. È lei a insistere perché il marito completi il percorso universitario, interrotto nel periodo dell’occupazione tedesca; laureatosi in biologia, Nedo diventa assistente universitario e infine tecnico a Livorno, dove la coppia torna a vivere. Ubaldina muore il 29 luglio 2021.

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🟪Intervista in ‘Noi, partigiani. Memoriale della Resistenza Italiana’

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🟧Intervista a UBALDINA PANNOCCHIA, in L. Antonelli, “Voci dalla storia. Le donne della Resistenza in Toscana tra storie di vita e percorsi di emancipazione”, Pentalinea, 2006, p. 290

Come aiutava il suo fidanzato nella Resistenza?

– Io cercavo di procurargli le medicine, le tenevo in casa nel pianoforte.

Una volta che in formazione c’era un ferito mio fratello e il mio fidanzato presero un medico fascista e lo portarono su a Gello, lo portarono col calesse su nei boschi, quando tornò però non fece la spia. Io più che altro procuravo questi medicinali, a volte anche qualche cosa da mangiare, i medicinali li compravo in farmacia perché potevo farlo, avevo le possibilità. Io non sono mai stata in formazione, solo una volta ho accompagnato un compagno, Finocchietti, Giovanni Finocchietti a Monterotondo, io gli portai il sacco per non dare troppo nell’occhio perché era già renitente di leva, lo portai su a Castellaccio, lo salutai e tornai indietro. Ero in contatto con un altro, Vasco Caprai, che stava a Livorno, che era quello che mandava i partigiani nelle varie formazioni.

La mia famiglia ha saputo tutto dopo, sapevano solo che il mio fidanzato era in formazione […].

– Lei non ha avuto contatti con altre donne staffette?

Ubaldina Pannocchia

– No più che altro uomini, Giovannino Geppetti, a Fauglia gli portai rivoltelle e roba che mi era rimasta e lui mi disse: – Guarda di portarcele -. C’erano sempre i tedeschi, io nella borsa da spesa con la biciclettina anche lì, sull’Aurelia perché con la bicicletta non potevo passare dai boschi, con questa borsa arrivai fino a Fauglia. Non ho avuto paura, è l’incoscienza dei giovani. Avevo un po’ di paura e di pensiero per il mio fidanzato in formazione perché tedeschi e specie fascisti sparavano, li cercavano. Io in formazione non sono mai stata, sono stata staffetta, ma l’ho saputo ora che quelle che facevano queste cose erano staffette, io non ero nulla, ero la fidanzata e la sorella di due perseguitati diciamo e basta. […]

– I compagni partigiani come vedevano le donne che si impegnavano?

– Bene, bene, subito dopo la guerra ai compagni non gli pareva vero che si collaborasse al partito, specie per gli asili. Io ho fatto molto specie nell’UDI, l’Unione donne italiane con cui s’è organizzato gli asili, poi si distribuiva “Noi donne”, si portava nelle case, si facevano le feste. Poi collaboravo alla Festa dell’Unità, con Osmana, Laura Diaz e altre.

– La Resistenza che insegnamenti le ha dato come donna?

Mi ha aiutato ad essere più consapevole della situazione politica italiana, mi ha fatto capire cosa era il fascismo, io sono maturata attraverso la Resistenza, ho cambiato modo di vedere la vita, prima pensavo che le donne non dovessero interessarsi di politica, invece no.