Il vescovo Giovanni Piccioni: la Chiesa livornese tra fascismo e guerra

Giovanni Piccioni esercitò il suo ministero episcopale a Livorno dal 1921 al 1959. Quasi un quarantennio che lo vide al centro della scena in una diocesi tradizionalmente ritenuta tra le più difficili in Italia per i radicati fenomeni di irreligiosità e la presenza di una forte massoneria: un terreno difficile per lo sviluppo delle organizzazioni cattoliche [Bedeschi, 1983]. Alcuni studi hanno evidenziato le inequivocabili manifestazioni di deferenza al regime che caratterizzarono l’attività pubblica del presule durante il ventennio [Litrico, 2002; Mazzoni, 2009]: è indubbio che il vescovo salutasse con favore – specie in un contesto come quello livornese – l’inedita protezione che lo Stato fascista garantì alla religione cattolica, tanto più dopo i Patti lateranensi e la sanzione solenne del ruolo pubblico e ufficiale del cattolicesimo nella società italiana [Ceci, 2013].

Tuttavia a leggere nel suo complesso il messaggio pubblico di Piccioni si svelano i lineamenti di una strategia giocata su due tavoli, coniugando il caloroso appoggio al governo di Mussolini, i buoni rapporti mantenuti col federale di Livorno Umberto Ajello e, soprattutto, con la potente famiglia Ciano, con la frequente esteriorizzazione di una identità separata, discordante con le ambizioni totalitarie del fascismo, e coltivata anche nei confronti riservati col proprio clero e col laicato.

Monsignor Giovanni Piccioni e don Angeli (Archivio Centro Studi R. Angeli)

Monsignor Giovanni Piccioni e don Angeli (Archivio Centro Studi R. Angeli)

Indizi in questo senso punteggiano il suo ministero negli anni del fascismo, caratterizzato dalla particolare fermezza con cui si prodigò a difesa del clero e dell’associazionismo [Zargani, 1997], ed hanno la manifestazione più evidente nell’indizione dei sinodi diocesani del 1927 e 1938 (i primi in assoluto per la diocesi sorta nel 1806), nel secondo dei quali non si nascondevano gli obiettivi – come si legge nella lettera pastorale d’apertura – di una «restaurazione cristiana» del popolo. Va notato poi come immediata fu la reazione di Piccioni alla promulgazione delle leggi razziali: non sul piano pubblico, ma nella convocazione nel dicembre 1938 di un «incontro riservatissimo» a cui furono invitati i massimi dirigenti dell’Azione cattolica e alcuni sacerdoti (tra cui don Roberto Angeli) allo scopo di approntare una rete diocesana che favorisse «la collaborazione con i parroci e con le altre organizzazioni caritative per dare agli ebrei aiuti materiali e morali» [Erminia Cremoni, 1955].

Negli anni di guerra, fino alla destituzione di Mussolini, il presule alternò alle manifestazioni di lealismo patriottico, la vigorosa celebrazione della «missione indefettibile» del pontefice. Da un lato non si mancò di impetrare i «divini favori sull’Italia e sulle Forze Armate» nell’occasione della consacrazione dei soldati al Sacro Cuore di Gesù per la festa della Candelora del 1941 [«Bollettino Diocesano Livornese», n.1, 1941, p. 5], né furono meno solenni i momenti di invocazione alla “pace vittoriosa” come avvenne soprattutto nella imponente funzione del 16 maggio 1943 al santuario di Montenero in cui il vescovo, davanti a quarantamila livornesi, implorò la protezione della «Madre di Misericordia» sulla «nostra cara Patria», affinché potesse «presto intrecciarsi sulle bandiere al lauro dell’eroismo e della vittoria, l’ulivo della pace» [«Bollettino Diocesano Livornese», maggio, giugno, luglio 1943, p. 14]. Dall’altro, dal maggio 1942 al maggio 1943, la diocesi fu impegnata in un denso programma di celebrazioni per ricordare il giubileo episcopale di Pio XII, culminato con la festa di Cristo Re del 1942, nella quale Piccioni rievocò con forza gli obiettivi pacelliani di «ricostruzione della famiglia cristiana».

Dopo il 25 luglio, in linea con l’episcopato toscano, Piccioni mostrò di sposare la linea di pacificazione tracciata dal cardinale di Firenze Elia Dalla Costa pubblicando sul “Bollettino Diocesano” la notificazione del 31 luglio in cui l’arcivescovo di Firenze invitava i fedeli a rispettare le «legittime autorità» e richiamando «clero e popolo a uniformare la loro condotta ai principi che vi sono esposti» [«Bollettino Diocesano Livornese», maggio-giugno-luglio 1943, pp. 30-32]. Ed è significativo che il presule intese ribadire questa linea ancora nel marzo 1944, quando era ormai nota l’ampiezza dell’impegno di tanti cattolici nella Resistenza, dando spazio sull’organo ufficiale della diocesi, alla notificazione sul clero e i partiti pubblicata dal cardinale di Milano Ildefonso Schuster nell’ottobre 1943 con la quale si esprimeva la necessità che la Chiesa si mantenesse «fuori ed al di sopra di tutte le diverse competizioni d’indole politica» e si intimava esplicitamente all’obbedienza «secondo le leggi, alle legittime Autorità stabilite» [«Bollettino Diocesano Livornese», gennaio-marzo 1944, pp. 11-12].

Eppure è in questo contesto – che nel discorso pubblico non pare far emergere una significativa eccezione rispetto al coevo quadro regionale [Bocchini Camaiani, 2009] – che si sviluppò il Movimento cristiano sociale, senza dubbio uno dei gruppi cattolici di resistenza al fascismo più strutturati della Toscana, entrato nel Cln di Livorno già il 9 settembre 1943. Un contesto che appare di ancor più difficile lettura se solo si tenga conto che il gruppo strutturatosi intorno alla Fuci livornese ricevette a pochi giorni dall’armistizio una lettera degli assistenti don Angeli e don Amedeo Tintori che proponeva un invito aperto alla ribellione e affrontava esplicitamente il problema dell’obbedienza all’autorità costituita. Appellandosi al principio del diritto romano per il quale l’unico comando ammesso era quello proveniente dalla legge, si negava con forza ogni legittimità a comandi imposti con «la forza o la violenza o l’astuzia o l’arma di un uomo o di molti uomini» e si riaffermava che l’«unico governo legittimo», al quale era necessario «obbedire in coscienza», era «quello eletto secondo lo Statuto, il quale non è abrogabile se non per volontà concorde – liberamente e chiaramente manifestata – di tutto il popolo italiano» [Angeli, 1975, pp. 184-186].

Non può essere imputato a casualità anche il fatto che tra il clero legato a Piccioni non fu solo la figura di don Angeli ad emergere con un preciso profilo di antifascismo militante negli anni convulsi della guerra. Si è fatto ad esempio notare come tra i sacerdoti che più si impegnarono nella Resistenza nella diocesi di Massa Marittima-Populonia – retta con incarico ad personam dal vescovo di Livorno tra il 1924 e il 1933 – forti erano state le influenze esercitate dal presule livornese, assai diverso nel contegno verso il regime dal più allineato mons. Faustino Baldini che gli successe: è il caso di don Ivo Micheletti, che presiedette il Cln di Piombino, e di don Ivon Martelli, che fu a capo di quello di San Vincenzo, entrambi compagni di studio di don Angeli negli anni ’30 presso il Seminario Gavi di Livorno [Tognarini, 1995, p. 83]. Nel gennaio 1943 Piccioni non si fece scrupolo neanche nell’accogliere nella sua diocesi il lucchese don Antonio Vellutini, il quale era noto per il suo sbandierato antifascismo (tanto da essere inviato per qualche anno in una sorta di “confino” presso Montalto Uffugo in Calabria), e che, non a caso, presiedendo il Cln di Vada, fu assoluto protagonista delle azioni di difesa della popolazione contro l’occupante tedesco nel paese della costa livornese.

Piccioni 002È oltre il messaggio pubblico che, evidentemente, vanno ricercate le ragioni del fiorire in seno alla Chiesa di Piccioni di certi temi e personalità. La disponibilità completa delle carte dell’Archivio diocesano di Livorno potrebbe forse sbrogliare definitivamente certi nodi, tuttavia alcuni punti fermi emergono già con chiarezza. Intanto è il profilo biografico precedente la carriera episcopale di Piccioni a fornire più di una traccia: nella Pistoia di inizio Novecento il presule ebbe trascorsi di prete democratico-cristiano, avendo in  Toniolo e, soprattutto, in Murri i suoi ispiratori; fu tra gli organizzatori della prima Settimana Sociale del 1907 e sedette sui banchi del consiglio comunale di Pistoia dal 1903-1909 come leader dell’opposizione alla giunta socialista; nel primo dopoguerra, nominato vicario della diocesi pistoiese, entrò in rotta di collisione con le prime manifestazioni squadriste del fascismo [Angeli, 1977]. Inseriti in questo percorso non stupiscono né l’influenza che il vescovo esercitò nella formazione del fratello più piccolo Attilio, poi leader di punta della Dc degasperiana [Fanello Marcucci, 2011, pp. 15-21] né il fatto che tramite l’altro fratello Ulisse, questore a Torino, egli si procurasse letture vietate dal regime che poi metteva a disposizione dei suoi seminaristi. Fu così, ad esempio, che al Seminario Gavi si poté leggere nella sua prima stesura in francese del 1936 l’Humanisme Intégral di Jacques Maritain [Noce, 2004, pp. 84-85].

Si sostanzia dunque su questi presupposti il percorso di formazione intellettuale che condusse alcuni giovani sacerdoti della diocesi livornese a manifestare con precocità una matura coscienza politica e democratica. La scelta di Piccioni di nominare don Angeli e don Tintori assistenti ecclesiastici della Fuci nel 1939 appare in questa luce frutto di un progetto ponderato: i due sacerdoti erano inseriti in un circuito di relazioni che annoverava personalità come Guido Calogero, Giorgio La Pira, Igino Giordani e il gruppo che ruotava attorno alla rivista pisana “Il crivello” diretta da don Telio Taddei  e frequentavano già da un triennio le Università pontificie romane: in particolare don Angeli alla Gregoriana era venuto in contatto con un ambiente in cui «si respirava un’aria chiaramente antifascista» [Angeli, 1975a]. È, ad esempio, significativo che il sacerdote facesse derivare l’acquisita consapevolezza di una antitesi tra il cristianesimo e il totalitarismo nazista dalla frequentazione nel 1937 delle lezioni di etica fondamentale del professor Louis Chagnon: come annota don Angeli «non venivano citati, per iscritto, esempi concreti di stati totalitari (salvo gli stati comunisti), ma si indicavano come fautori della “statolatria”, Schelling, Hegel ed altri autori tedeschi. Gli studenti dovevano trarre da sé le conclusioni». Erano argomentazioni alle quali il sacerdote attinse a piene mani per dar forma a quella che lui stesso definì la «resistenza ideologica organizzata» dei cattolici livornesi: in particolare, a partire dal 1941, quegli argomenti vennero utilizzati nell’organizzazione delle lezioni pubbliche tenute presso il Cenacolo di studi sociali di S. Giulia nelle quali vennero pubblicamente criticate le tesi naziste e il concetto fascista dello stato [Merli, 1978]: si trattava di momenti di formazione a cui parteciparono studenti universitari, operai, allievi dell’Accademia Navale che ebbero l’esplicito appoggio del vescovo Piccioni che ne dava notizia sul “Bollettino Diocesano”.

Articolo pubblicato nel giugno del 2018.




Aspettando Hitler: la seduzione della bellezza e l’allontanamento da Firenze dell’ebreo Castelfranco.

Di tutti i luoghi che Hitler avrebbe desiderato con forza visitare anche semplicemente da turista, Firenze era la meta più agognata. Ci riuscì, accolto con inquietante bellezza e sfarzo imperiale, il 9 maggio 1938, ottanta anni fa esatti. Hitler, dalla stazione di Firenze, attraversò con l’auto scoperta il centro cittadino addobbato con sequenze ininterrotte di svastiche e bandiere gigliate, per poi dirigersi come prima tappa a Palazzo Pitti e alle sue collezioni artistiche. Quando l’auto varcò il cortile interno della reggia, probabilmente il Führer mai avrebbe immaginato che l’artefice della risistemazione di tanta magnificenza fosse stato proprio un ebreo.

La Toscana e Firenze erano la terza e ultima tappa programmata nella visita ufficiale in Italia, dopo Roma e Napoli, dopo un tour che, dal 3 al 9 maggio, avrebbe fatto fermare l’Italia per una settimana, convogliando energie e masse per salutare al meglio l’alleato nazista. In molte città fu decretata festa nazionale, gli esercizi commerciali furono chiusi, gli alberghi furono attrezzati per accogliere giornalisti e operatori cinematografici. Per Roma e provincia furono confezionate ben 13.000 bandiere tricolori con croce reale e fascio littorio, mentre i monumenti più emblematici della Capitale furono illuminati dalla luce di migliaia di fiaccole e fari, con suggestive e imponenti scenografie che riecheggiavano gli antichi fasti imperiali. Anche Napoli non fu da meno. La suggestiva visione del Golfo di Napoli, con lo sfondo del Vesuvio e della collina del monte Echia, si aprì a Hitler con la gigantesca scritta “Heil Hitler”, mentre di lì a poco avrebbe assistito alla sfilata di 200 unità navali a bordo del transatlantico Rex, con tanto di radiocronaca in italiano e in tedesco sullo sfondo.

Ogni città, in base alla sua vocazione storica e agli intenti del Duce, doveva impressionare il Führer per alcune sue peculiarità intrinseche. A Firenze era stato riservato il compito di sedurre l’alleato con la sua bellezza e armonia rinascimentale, con tanto di Ranuccio Bianchi Bandinelli, tra i maggiori archeologi di tutti i tempi, nel compito -per lui odiatissimo- di Virgilio dell’arte per i due dittatori.

Vorace collezionista e pittore mancato, Hitler amava Michelangelo, Leonardo, Raffaello, il rinascimento fiorentino e i ponti artistici che si erano creati all’epoca con il rinascimento d’Oltralpe. Legami artistici e spirituali che rinascevano nuovamente con l’alleanza dell’Asse: non a caso in una sala degli Uffizi erano stati collocati dipinti fatti arrivare direttamente dalla Germania a dialogo con la collezione di artisti tedeschi già presenti nei musei cittadini.

In questo gioco di seduzione, sotto il controllo di Alessandro Pavolini da Roma e dell’apposito ufficio festeggiamenti istituito in Comune, si erano adoperati schiere di architetti, fotografi, giovani artisti che diedero vita ad apparati effimeri degni di una corte cinquecentesca. Ma soprattutto e suo malgrado si era adoperato Giorgio Castelfranco, lo storico dell’arte ebreo direttore di un luogo altamente significativo per la visita fiorentina, un luogo dove bellezza e regalità si sposavano perfettamente: la Reggia di Palazzo Pitti.

Giorgio Castelfranco, figura di primo piano nel panorama della cultura italiana del Novecento, sia come funzionario della Soprintendenza che come critico militante e mecenate di artisti quali De Chirico e Savinio, nel 1936 era stato promosso a direttore della Galleria di Palazzo Pitti. La meritata carica sarebbe durata pochissimo: dopo aver alacremente lavorato per il riordino e la risistemazione della galleria e degli appartamenti dove il Führer, nel pomeriggio del 9 maggio, avrebbe riposato per un breve tempo le stanche membra, Castelfranco nell’aprile del 1938 fu allontanato dalla città e dal suo museo. Nella studiatissima macchina scenografica del grand tour hitleriano l’ebreo Castelfranco doveva momentaneamente scomparire.

Furono le inquietanti prove generali di disposizioni messe in atto con le successive leggi razziali. Così Castelfranco, all’inizio del 1944, in una relazione all’allora Ministro dell’Educazione Nazionale ricordava quei momenti:

È curioso che riuscii ad avere mezzi abbondanti nella primavera del 1938 sui fondi per le trionfali accoglienze fatte in Italia a Adolfo Hitler; avendo già da tempo studiato le questioni relative, potei, rapidamente, in poche settimane, realizzare un riordino parziale, che diede nei suoi limiti ottimi risultati. Mi occupai io anche del restauro del passaggio tra Pitti e Uffizi e del riordino delle collezioni di ritratti ivi esposte. Durante la visita di Hitler fui mandato con ridicoli e finti pretesti a Modena a reggere la R. Galleria Estense; avevo comunque accelerato i lavori intrapresi, che lasciai oramai terminati. Dall’estate del 1938 in poi la mia attività fu, per ovvie ragioni, ridotta; curai però ancora qualche piccolo lavoro ai locali di Pitti. Da allora cessarono anche le mie pubblicazioni e in genere, debbo dirlo, la mia attività di studi ebbe una brusca interruzione.

Nel settembre 1938 lo storico dell’arte siglò uno degli ultimi documenti, se non l’ultimo, come direttore di Palazzo Pitti, ovvero la relazione di tutti i lavori condotti tra il gennaio e il maggio 1938 nella Galleria Palatina. Il grande cantiere d’accoglienza aveva previsto il tappezzamento in seta delle sale di Marte, Apollo e Venere, la pavimentazione o il restauro di essa in tutte le sale, l’apertura di finestre sul giardino, l’abbellimento con pastelli -cari al Führer- dell’ambiente tra Palazzo Pitti e Corridoio vasariano. Niente era stato lasciato al caso: “sistemate adeguatamente  anche le latrine nell’ammezzato del Rondò di destra del palazzo” chiosava Castelfranco nella sua relazione conservata negli archivi della Soprintendenza fiorentina.

Il 20 gennaio 1939, dieci giorni prima del suo definitivo licenziamento per l’applicazione del R.D. del 15 novembre 1938, sarebbe giunto a Castelfranco, dal Ministero dell’Educazione Nazionale, il diploma a Ufficiale dell’Ordine della Corona d’Italia, prestigiosa e beffarda onorificenza.

Alessia Cecconi (Prato, 1981), storica dell’arte, è direttrice della Fondazione CDSE (Centro di Documentazione Storico Etnografica, Vaiano, Prato); collabora inoltre da molti anni con la Fondazione Memofonte di Firenze. Le sue ricerche e pubblicazioni sono dedicate alla letteratura artistica di età moderna, alla storia della tutela del patrimonio, al rapporto tra arte e memoria. Ha coordinato per la Regione Toscana il progetto ”Resistere per l’arte: guerra e patrimonio artistico in Toscana”, tema al quale ha dedicato le sue ultime pubblicazioni e mostre. Da sempre interessata all’educazione al patrimonio, è co-autrice del manuale di storia dell’arte per la scuola media inferiore Arte e Immagine (Gruppo RCS-Fabbri editore, 2014). 

Articolo pubblicato nel maggio del 2018.




Per una “casa della memoria al futuro” a Maiano Lavacchio

nella nostra vita di ogni giorno
Albert Camus, 1946

 

Quando, più o meno quindici anni fa, all’ISGREC fu portato un pacchetto con alcuni oggetti, fra cui una tessera forata dal proiettile che aveva ucciso Attilio Sforzi il 22 marzo 1944 – era inimmaginabile quel che oggi sta accadendo: la concreta prospettiva di un luogo di memoria a Maiano Lavacchio.

Attilio è uno degli undici “martiri d’Istia”, vittime di una strage di esclusiva responsabilità fascista. L’episodio, non l’unico o il più sanguinoso nel grossetano, nei nove mesi di sciagurata complicità nella “guerra ai civili” tra il fascismo repubblicano di Salò e l’alleato occupante (esercito e formazioni speciali della Germania hitleriana), creò un sentimento di rivolta nella popolazione locale, che andò oltre la condanna politica. Disumana l’esecuzione sommaria di pochi giovani pressoché disarmati, atroce lo strazio di genitori lasciati ad assistere a una morte insensata. Ne possediamo ricostruzioni e spiegazione storica1, ma è anche alla sensibilità di uno scrittore che conviene ricorrere per far “sentire” il clima di quei momenti:

saforzi_portoarmi Gli ultimi istanti volarono come un vento teso, assordante. Corrado ebbe appena il tempo di abbracciare il fratello Emanuele e baciarlo: caddero di schianto, l’uno sull’altro, ammucchiati, rami rinsecchiti dal sole e divorati dal fuoco crepitante. Improvvisa una folata piena di colombi si aprì in verticale dai coppi rossastri del tetto grande, e volò di traverso a Montebottigli. La gente stordita seguì il volo, lontano, finché gli occhi poterono vedere tra il verde del forteto: uno spettro, l’elmetto nero traballante sugli occhi, dall’angolo del caseggiato vide saltar fuori il Cariti che tirava l’organetto a bottoni; e cantava a gola piena un’aria siciliana incomprensibile, colma di mestizia, di scherno, di passione carnale, di odio e di vendetta: innaturale. 2

L’evento è stato oggetto di commemorazioni annuali fin dal 1945, con una cerimonia nel tempo più partecipata e solenne, in un luogo che non ha mai cessato di trasformarsi. Dove avvenne l’esecuzione, è stata costruita una cappella. Poco distante, ai ragazzi è stato dedicato un sobrio monumento, dal 2016 affiancato da una targa con codice QR, che rinvia al sito www.cantieridellamemoria.it per la narrazione dell’evento. Accanto a questo, altri segni di memorie sono diffusi nell’area compresa fra la frazione di Istia d’Ombrone e il comune di Magliano. Un bassorilievo e una pietra d’inciampo ricordano le storie contigue di deportati politici, in località Campospillo, mentre fra Maiano Lavacchio e la frazione di Istia è possibile seguire il sentiero percorso dai carretti che trasportarono i corpi dei ragazzi verso la Chiesa di Istia, in violazione del divieto di celebrare funerali e dell’ordine di seppellire i ragazzi in una fossa comune. Fu il parroco, don Omero Mugnaini, a compiere un clamoroso gesto di rivolta. La risposta che gli si attribuisce, alle minacce delle autorità civili e militari italiane e tedesche: “Voi pensate ai vivi, ché ai morti ci penso io”, non rimase una frase: gli undici feretri furono accompagnati al cimitero da una folla, mentre ai lati della strada erano puntate sul corteo funebre le mitragliatrici.

La storia dei ragazzi provenienti da altri luoghi ebbe poi un seguito in quelli. A Cinigiano, i genitori di Alfiero Grazi adottarono il disertore tedesco (dodicesimo del gruppo sorpreso la notte tra 21 e 22 marzo nella capanna delle macchie di Montebottigli e fortunosamente sfuggito alla morte), che affrescò la cappella del cimitero di Cinigiano, dove fu definitivamente sepolto Alfiero. Quando il corpo di Antonio Brancati nel 1967 fu riportato a Ispica, lo accompagnò l’antifascista grossetano Francesco Chioccon3. La lettera ai genitori di questo ragazzo siciliano è una fra le tante pubblicate, dei condannati a morte della Resistenza italiana; analogamente pubblicata, anche se in un volume locale, l’orazione tenuta da Chioccon a Ispica.

È naturale che da una vicenda di tale forza emotiva subito siano nate canzoni in ottava rima, secondo una tradizione locale di musica popolare, ma anche dopo anni, in un continuum, fino ad oggi, la storia dei ragazzi uccisi abbia ispirato scrittori e autori di teatro4.

Hanno avuto una straordinaria capacità mitopoietica la giovane età delle vittime, l’immagine della loro innocenza (undici “agnelli” in un opuscolo commemorativo scritto a pochi mesi di distanza5), il gesto coraggioso del prete e dei grossetani che sfidarono le mitragliatrici, il racconto della crudeltà dei comportamenti dei fascisti. Nel cosiddetto processone per i crimini dei fascisti repubblicani, la corte d’Assise straordinaria dispose per i responsabili condanne severe, in nessun caso applicate interamente. Se nell’immediato dopoguerra il contesto della guerra civile lasciò che questa comparisse come una fra le tante storie di Resistenza, e i ragazzi, come nel rapporto del Capo della Provincia Ercolani, soggetti “politici”, la completa ricostruzione storica ha messo in luce la particolare complessità di questo, che è un episodio di “guerra ai civili”, ma con vittime che hanno fatto comunque una scelta netta, rifiutando l’arruolamento imposto dal bando Graziani nel costituendo esercito della RSI. Hanno disobbedito6, il loro gesto ha provocato altra disobbedienza, se immediatamente è nata la formazione partigiana della zona, cui ha aderito addirittura una donna testimone dello scempio. Il fine di pulizia del territorio delle politiche duramente repressive del fascismo repubblicano, a Grosseto gestite con il pugno di ferro dell’ex-ufficiale viterbese Alceo Ercolani, dopo il 22 marzo del ’44 sortì l’effetto opposto, allargando l’area del dissenso esplicito della popolazione locale, nelle campagne e in città.

Da qui è necessario prendere le mosse per leggere il passaggio dall’appena ventilata ipotesi di vendita a privati di un edificio-simbolo della strage, nel luogo dove fu consumata, all’attuale progetto di creazione di un luogo di memoria. Non appena il Comune di Magliano in Toscana espresse la necessità di intervenire su un edificio malridotto e inutilizzato, anche alienandolo, una risposta corale dal territorio fu così persuasiva da bloccare ogni intervento a rischio di “inquinamento”. L’edificio è la vecchia scuola elementare, che raccoglieva bambini dell’area rurale, costruito negli anni di urbanizzazione delle campagne maremmane, post-riforma agraria.

L'ultimo saluto dei fratelli Matteini alla madre

L’ultimo saluto dei fratelli Matteini alla madre

Il valore simbolico non appartiene allo spazio fisico – aula, casa del custode – ma alla sua capacità evocativa; fu nell’edificio del podere, nella stanza adibita ad aula della scuola all’epoca degli avvenimenti, che i ragazzi furono rinchiusi dopo l’arresto, la notte tra 21 e 22 marzo, e processati e condannati a morte. Sulla lavagna i due fratelli Matteini scrissero il messaggio “mamma Lele e Corrado un bacio,”. Quel frammento staccato dal rettangolo d’ardesia a quadretti bianchi e quelle parole tracciate col gesso bianco devono aver pesato come un macigno sulla coscienza di chi, concittadino colpevole o complice, l’ha vista riprodotta tante volte sulle pagine delle cronache locali nei dintorni delle commemorazioni annuali o se l’è trovata di fronte, entrando nella stanza del Sindaco di Grosseto, dove fu collocata nel 1976.

Così è partita una sfida: trasformare lo spazio fisico – la piccola scuola anni Sessanta – in un luogo di memoria. Operazione di per sé culturalmente complessa (come trovare una chiave per dare la giusta misura al rapporto tra significante e significato?), assai impegnativa in un tempo in cui nuovi e inediti contesti impongono un sovrappiù di riflessione sul rapporto con il passato e la storia. A queste si sono sovrapposte, sovrastandole, le difficoltà concrete: risorse, competenze, tempi… Lungi dall’essere questi ostacoli superati, il dato attuale è un percorso avviato e in atto.

 

MAIANO LAVACCHIO LUOGO DI MEMORIA VIVA

Come il pescatore di perle che arriva nel fondo del mare
non per scavarlo e riportarlo alla luce, ma per liberare
staccando dalla profondità le cose preziose e rare, perle e coralli,
e per riportarne frammenti alla superficie del giorno
nuove forme e formazioni cristallizzate, rese invulnerabili contro gli elementi,
sopravvivono e aspettano solo il pescatore di perle
che le riporti alla luce come “frammenti di pensiero”
H. Arendt, Il pescatore di perle

La svolta è arrivata dall’incontro con un architetto, Edoardo Milesi, non nuovo a interessi per temi analoghi – a suo tempo si era occupato del Memoriale italiano di Auschwitz. Da un fitto scambio di idee, sopralluoghi e infine confronti con il Comune ha preso forma l’idea di un luogo di memoria viva, che dal frammento di storia sottratto alla futura dimenticanza possa trarre pretesto per proporre una “partecipazione a esperienze culturali anche su altro”. Il fine: non rinnovare “epoche già consumate”, piuttosto, come il pescatore di perle che evoca la visione della storia di Walter Benjamin, produrre una cultura per il futuro.

area scuolinaScegliere un luogo, riempirlo di cose e simboli, stabilirne l’uso sono operazioni tutt’altro che facili: crocevia di saperi, intenzioni pubbliche, tradizioni e sensibilità individuali. Fuori da sovrapposizioni meccaniche e forzature, serve tenere ferma l’idea che non c’è una corrispondenza facile tra fatti, memorie, significati e valore storico. La partizione degli spazi che il progetto architettonico prevede è rappresentazione del carattere di memoria viva, non schiacciata su un evento, non prospettiva di museo da visitare solo per conoscere o provare emozioni, entro i limiti di un preciso e circoscritto contenuto storico. Il materiale che possediamo comprende i dati fattuali delle storie, le culture di cui portano tracce la fisicità dei luoghi, gli ambienti e persone che li abitano. Ma la scelta condivisa tra l’ISGREC, l’architetto e il Comune è stata quella di andare oltre i limiti di un rapporto esclusivo con il luogo in quanto teatro di un evento, oltre i rischi dell’uso autoreferenziale della memoria.

C’è una relazione sempre più urgente da proporre al nostro lavoro sulla memoria. Fenomeni che si consideravano irripetibili, valori acquisiti una volta per tutte rivelano invece una pericolosa precarietà. Gli anniversari recenti – la Grande Guerra e l’emanazione delle leggi razziali italiane – i prossimi – l’inizio della II guerra mondiale – sono materia viva: xenofobie, razzismi, fino a genocidi e stragi di civili hanno diverse geografie, ma sono tornati ad essere parte del tempo presente. Molte di quelle che sono state a lungo memorie europee condivise sono escluse dal calendario civile in ampie zone dell’est Europa. La pace si è trasformata in tregua armata, carica di tensioni crescenti. Così la cifra della memoria è la sua capacità di guardare al futuro.

L’idea forte, divenuta un vero progetto – tavole e calcoli metrici e preventivo dei costi – è stata quella di Spazi da abitare: le stanze della memoria dei Martiri d’Istia aperte, contenitori di esperienze da fare, che conservino e via via sedimentino tracce del rapido transito o di una più lunga permanenza di persone. Cucina, foresteria, porticato esterno.

Pochi e semplici arredi, una sezione didattica con strumenti essenziali per stages, visite didattiche , laboratori e seminari.

I primi ad abitare quel che potrà essere realizzato nel novembre 2018 saranno gli studenti e gli insegnanti europei dell’Erasmus+ Our memories and I7. Già una trentina di classi di scuole superiori stanno lavorando a monitorare identità personali, familiari, delle comunità di appartenenza, a testare con esperienze personali o di gruppo quel che rimane intorno a loro del passato comune, più o meno vicino a loro (nessuno è nato prima del 2000). Insieme ai loro insegnanti e a un artista8 hanno cominciato ad esplorare musei e memoriali, a sperimentarsi come autori di un’elaborazione del proprio vissuto personale e di gruppo (familiare, etnico…). Gli studenti francesi e spagnoli hanno trovato rispettivamente nel Mémorial di Rivesaltes e nel Museu Memorial de l’exili (MUME) di La Jonquera materia per leggere un passato di fuga di massa dalle violenze di una guerra civile. Spagnoli e brigatisti internazionali hanno lasciato tracce del loro passaggio attraverso i Pirenei; il Museu Memorial de l’exili è stato edificato 10 anni fa sulla frontiera9. Le storie personali di cui sono piene carte, fotografie, registrazioni presenti nel MUME in una settimana di lavori di gruppo sono state materiale di studio, riflessione e comparazione su altre, nuove frontiere, che altri popoli attraversano.

erasmusplus

Il gruppo dell’Erasmus+ nel campo di Rivesaltes

A Rivesaltes sono conservate storie analoghe e diverse. È un campo nato negli anni Trenta del Novecento, ma vi sono stati ristretti anche algerini negli anni Sessanta. Oggi è un modernissimo laboratorio, spazio per studi e progetti culturali. Si sono cimentati in gruppo sull’esperienza del Memoriale gli studenti dei paesi partner, in una babele di lingue e competenze storiche che ha prodotto corti-circuiti interessanti. L’ultima tappa dell’esperimento collettivo sarà Maiano Lavacchio, stavolta a guida grossetana. Servirà a misurare l’efficacia dell’idea progettuale con i destinatari privilegiati, giovani lontani dalle vicende da cui scaturisce la scelta dei luoghi.

Certo, lo spazio piccolo del nostro insediamento rurale non potrà somigliare a luoghi che sono stati oggetto di generosi investimenti pubblici. Del resto, la pur alta capacità rappresentativa della strage di marzo a Maiano Lavacchio non è comparabile alla enormità dei fatti cui rimandano La Jonquera e Rivesaltes: la marea umana che oltrepassò i Pirenei, le decine di migliaia di indesiderabili, gli antifascisti, gli ebrei che a Rivesaltes vissero l’anticipazione del lager, fino ai citati algerini10

Tuttavia, la comparazione tra vicende, il dialogo e il lavoro comune tra persone portatrici di esperienze e saperi diversi sono le condizioni che danno senso lavoro su storia-memoria.

Quelli attuali sono giorni cruciali per questo progetto. È stata appena ufficializzata l’acquisizione da parte dell’ISGREC della scuola, in forza di una convenzione che dà avvio alla ricerca di risorse finanziarie. Il 22 la commemorazione vedrà, come al solito, la presenza delle istituzioni e di cittadini. Ci saranno anche gli studenti del Liceo linguistico Rosmini, reduci dal primo viaggio dell’Erasmus e per i prossimi due anni impegnati in Our memories and I.

Nessun indizio materiale dà evidenza a queste novità, ma per la casa della memoria al futuro di Maiano Lavacchio il primo passo – l’uscita dal regno di utopia – è fatto; non era il più facile.

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Note:

1 Il primo tentativo di ricostruzione della vicenda è in M. Magnani, La strage di Istia d’Ombrone (22 marzo 1944), Il Grifone, Grosseto 1945. In molte pubblicazioni successive esistono riferimenti e qualche sintetica cronaca del fatto. È del 1995 un volume prezioso per le fonti che utilizza: C. Barontini, F. Bucci, A Monte Bottigli contro la guerra: dieci “ragazzi”, un decoratore mazziniano, un disertore viennese, ANPI, Grosseto. Una completa ricostruzione storica è in M. Grilli, Per noi il tempo s’è fermato all’alba. Storia dei martiri d’Istia, edizioni ISGREC-Effigi, Arcidosso (GR) 2014.

2 G. Gianni, Nell’ombra delle stelle, Il paese reale, Grosseto 1973.

3 L’orazione di Chioccon è riprodotta in N. Capitini Maccabruni, La Maremma contro il nazifascismo, Provincia di Grosseto, 1984, pp. 143-8.

4 Un primo spettacolo teatrale fu rapppresentato a Grosseto negli anni Sessanta. È Oltre il ponte, autore e regista Mario Sermoni. Recente è AG46, produzione NONE-ISGREC, rappresentato più volte nel 2006.

5 M. Magnani, cit.

6 Cfr. il capitolo La scelta, in C. Pavone, Una guerra civile. Storia della moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991, pp. 3-62.

7 L’Erasmus+ Our memories and I ha avuto inizio nel settembre 2017 ed ha durata biennale. I paesi partner sono: Croazia, Francia, Germania, Italia, Spagna. I partner italiani: il liceo linguistico dell’Istituto Rosmini e l’ISGREC. Sedi dei partner stranieri: Split in Croaiza, Perpignan in Francia, Figueres in Spagna, Berlino in Germania.

8 Due gruppi di studenti – i francesi e gli spagnoli – hanno già prodotto manufatti esposti in mostre allestite nei due licei (Monturiol di Figueres e Pagnol di Perpignan). Le performances prodotte dai ragazzi stimolati da Rma Kroke

9 All’ingresso del MUME una targa con loghi grossetani e toscani ricorda il passaggio di antifascisti che dalla Toscana erano andati a combattere come volontari nella guerra di Spagna e da lì entrarono in campi di concentramento. Cfr. in questo sito il database Volontari antifascisti toscani nella guerra civile spagnola. La storia dei campi è in E. Acciai, I. Cansella, Storie di indesiderabili e di confini, ISGREC-Effigi, Arcidosso (GR) 2017.

10 Cfr. F. Bensaci-Lancou, Fille de harki. Éditions de l’atelier, s.d.. Fatima Bensaci racconta la storia quasi sconosciuta, in Francia forse rimossa, della minoranza algerina degli harkis, che furono internati dopo la guerra d’Algeria nel campo di Rivesaltes.

Articolo pubblicato nel marzo del 2018.




La reazione dentro l’innovazione. Il contratto di mezzadria toscano nel 1928

Preceduto da un nuovo capitolato colonico stipulato dai sindacati fascisti già nel 1926, il contratto di mezzadria toscano del 1928 è uno spartiacque importante nella storia di questo istituto agricolo nel Novecento, rimanendo in vigore – grazie alle resistenze padronali – ben oltre la fine del Regime. Fu infatti soltanto all’epoca dell’epilogo dell’Italia rurale, nel 1964, che si intervenne per via legislativa a riformarlo.

Arrivato dopo una discussione con gli agrari, che avrebbero preferito restaurare la consuetudine dell’accordo individuale, magari non scritto, il contratto fu spinto dallo stesso Gran consiglio del fascismo, che nel 1927 stabilì che la mezzadria doveva essere regolata tramite accordi collettivi siglati con i sindacati fascisti. Nel 1928 fu quindi varato il “Contratto collettivo di lavoro per la conduzione dei fondi a mezzadria nella regione Toscana”, da subito portato a modello per tutta l’Italia come forma fascista preferita per la regolazione dell’agricoltura, con l’istituto mezzadrile, letto in chiave ideologica come “armonioso”, esaltato e promosso. Nei fatti tuttavia, arrivando dopo la grande stagione di lotte ed avanzamenti – ancorché solo sulla carta – del 1919-20, il contratto del ’28 segnava la vittoria di una feroce reazione.

Sul piano generale, il “capoccia” continuava ad impegnare l’intera famiglia, perpetrando così il modello patriarcale. La “disdetta” veniva di fatto mantenuta libera – con tanto di possibilità da parte del concedente di recidere in tronco in contratto senza preavviso – mitigata solo dall’obbligo di convalida presso al Magistratura del lavoro, che si limitava a sanzionare un’azione già avvenuta, e con la previsione di una possibile accordo tra le organizzazioni sindacali fasciste, chiamate a rappresentare tanto i padroni che i mezzadri e vanificando per questa via qualsiasi reale tutela della parte più debole. Il riparto di tutti i prodotti e i redditi delle industrie poderali restavano ripartiti a metà, secondo i canoni classici della mezzadria. La direzione amministrativa e tecnica rimaneva saldamente in mano al proprietario, con l’esclusiva facoltà di decidere in merito alla scelta delle sementi, delle coltivazioni ed alla loro direzione tecnica, così come gli indirizzi zootecnici.

Il Contratto entrava nel merito di tutte le questioni mezzadrili. Il carattere reazionario era evidente anche in queste questioni più dettagliate. Il colono doveva immettere in proprio gli attrezzi e gli utensili. Tutta la famiglia era tenuta a lavorare sul podere eseguendo in maniera intelligente e disciplinata le istruzioni del proprietario, che in caso di rifiuto aveva la facoltà di assumere dei braccianti addebitando la spesa al mezzadro. Al colono era vietato di svolgere qualsiasi lavoro per conto terzi, salvo autorizzazione del proprietario. Erano a carico del mezzadro il mantenimento delle strade poderali e la manutenzione. Il contadino doveva provvedere anche al trasporto dei prodotti alla fattoria padronale o alla stazione ferroviaria. A metà erano divise anche le spese che sarebbero dovute essere a carico del proprietario, come quelle per i citati trasporti e l’assicurazione sul bestiame. Sempre a metà restavano l’acquisto di concimi, sementi, anticrittogramici e insetticidi, anche se il colono non aveva voce in merito a quali e quanti. Laddove le necessità della produzione moderna comportavano l’uso di macchinari, come nella trebbiatura, il colono doveva pagare un canone di affitto al proprietario, o sostenere la metà delle spese, in aggiunta al proprio lavoro, per l’affitto di macchine necessarie alla lavorazione del terreno. In merito alla vendita dei prodotti, le operazioni spettavano al padrone. Nel caso il raccolto di cereali non coprisse le esigenze alimentari della famiglia, il proprietario avrebbe provveduto con una quota della sua parte, ceduta però a prezzo di mercato. Una norma, fra le numerose, rende bene l’idea del permanere di un regime di potere feudale: le castagne venivano divise a metà, ma la raccolta, la ripulitura del bosco e la potatura spettavano al colono.

Si riconoscevano piccoli miglioramenti, quali l’obbligo del proprietario a fornire una casa adeguata al podere ed in buone condizioni, anche igieniche, e provvista in qualche modo di acqua. La manutenzione straordinaria dei fabbricati, le opere di bonifica e soprattutto le nuove piantagioni erano in linea teorica a carico del proprietario, che però di norma profittava della sua posizione di potere per evadere questi obblighi. Per la manutenzione di attrezzi e utensili si riconosceva una compartecipazione del proprietario, che poteva provvedervi con una quota forfettaria. La famiglia poteva poi tenere per i suoi consumi un orto e un pollaio, le cui dotazioni massime di animali da corte dovevano essere stabilite dai patti aggiuntivi.

Questi “miglioramenti” non erano comunque una novità, anzi per la gran parte erano già stati ottenuti durante le lotte precedenti. Venivano mantenuti, in forme attenuate, perché non inficiavano la sostanza della mezzadria, Il sindacato fascista poi doveva salvare almeno un’apparente funzione di tutela. La sostanza del Contratto era però una netta riaffermazione del potere degli agrari e la cancellazione delle conquiste più avanzate delle organizzazioni cattoliche e socialiste. Non va dimenticato poi che i patti aggiuntivi provinciali, con i loro riferimenti alle consuetudini, aggiungevano ulteriori aggravi sulla famiglia mezzadrile.

In conclusione, il contratto era nettamente sbilanciato sia dal punto di vista economico che nella regolazione dei poteri delle parti verso un “assolutismo” padronale. Il suo mantenimento anche in epoca repubblicana segnò un grave vulnus nelle campagne ai diritti nati con la Costituzione, e fu tra i motivi che impedirono una trasformazione democratica degli assetti proprietari dell’agricoltura italiana negli anni della Ricostruzione.

Stefano Bartolini è ricercatore presso l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia, coordina le attività di ricerca storica, archivistiche e bibliotecarie della Fondazione Valore Lavoro e fa parte del Consiglio dell’Associazione italiana di storia orale. Ha partecipato al recupero dell’archivio Andrea Devoto ed attualmente si occupa di storia sociale, del lavoro e del sindacato. Tra le sue pubblicazioni: Fascismo antislavo. Il tentativo di bonifica etnica al confine nord orientale; Una passione violenta. Storia dello squadrismo fascista a Pistoia 1919-1923; Vivere nel call center, in La lotta perfetta. 102 giorni all’Answers; La mezzadria nel Novecento. Storia del movimento mezzadrile tra lavoro e organizzazione. Ha curato le due mostre La mezzadria nel Novecento: lavoro, storia, memoria e La chiave a stella. Il lavoro industriale nel ‘900. Insieme a Giovanni Contini ha realizzato il film documentario In cerca della felicità. Storie di immigrati a Pistoia.

Articolo pubblicato nel febbraio del 2018.




MICHELE BARUCH BEHOR: da Cutigliano ad Auschwitz

L’alba del 21 gennaio 1944 fu tragica per la famiglia Baruch, composta da ebrei livornesi sfollati presso la pensione Catilina di Cutigliano, paese posto sulla montagna pistoiese lungo la strada verso l’Abetone. Per quella mattina erano stati convocati nella locale caserma dei carabinieri che li avrebbero inviati a un cupo destino, quello dei campi di concentramento nazi-fascisti.

La famiglia, emigrata a Smirne in Turchia nel 1920 alla ricerca di lavoro, aveva fatto ritorno a Livorno nel 1933 ed era composta da Isacco e Cadina, marito e moglie, rispettivamente di 54 e 44 anni  e dai loro figli, Michele (24 anni), Clara (17 anni) , Susanna (19 anni) e Marco (14 anni).

Erano ebrei sefarditi, discendenti cioè degli ebrei che alla fine del XV secolo i re cattolici di Spagna e Portogallo avevano deciso di espellere dai loro regni, facendo fortuna poi nell’impero ottomano nel quale avevano trovato rifugio. I sefarditi si erano poi diffusi lungo le rive del Mediterraneo e quindi anche in Italia dove si stabilirono soprattutto a Ferrara e Venezia prima e in Toscana poi. I granduchi medicei favorirono con le “Costituzioni leonine” lo stanziamento degli ebrei, in particolar modo a Livorno. Intorno agli anni Trenta del XX secolo la comunità ebraica della città labronica contava su circa 2.300 persone ed era una delle più consistenti della penisola.

Michele, che sarà il solo superstite della famiglia, nel 1933 lavorava alla Società Italiana del Litopone, produttrice di una miscela di solfato di bario e solfuro di zinco che dava il nome all’azienda. Con l’avvento delle leggi razziali, nel 1938, perse il suo impiego e la sua famiglia riuscì a sopravvivere solo grazie all’appoggio della locale comunità ebraica. In una sua testimonianza afferma di aver lavorato anche sotto falso nome per la Todt, un’impresa di costruzioni operante in Germania e poi negli altri paesi occupati che in Italia provvide alla costruzione di parte della linea Gotica, aggiungendo che “dopo una decina giorni i repubblichini, scoperto che ero ebreo, mi consigliarono con tono quasi bonario di abbandonare quel lavoro“.

P.ne Catilina2MG

Foto gentilmente concessa da Simone Breschi e Gianna Tordazzi

Le famiglie di origine ebrea vivevano nella zona del porto, occupandosi di cantieristica e nel centro storico intorno alla Sinagoga, cioè nelle zone più soggette ai bombardamenti alleati della primavera/estate 1943. Diversi gruppi familiari, fra cui i Baruch, decisero pertanto in quei mesi di spostarsi in zone ritenute più sicure. Molti si rifugiarono nell’entroterra fra Livorno e Grosseto e sulle colline pisane, altri andarono più lontano, nelle zone di Firenze, Lucca, Arezzo. Alcune famiglie si recarono in Garfagnana sfruttando la rete di conoscenze acquisite con le donne di servizio che tradizionalmente scendevano a Livorno da quelle zone. Altre decisero di spostarsi nei paesi della Toscana settentrionale, secondo alcuni direttamente su indicazione della Delasem, la Delegazione per l’Assistenza agli ebrei Emigranti, creata nel 1939 dall’Unione delle Comunità israelitiche per favorire la fuga agli ebrei che erano rimasti bloccati in Italia.

Fu in seguito a questo insieme di situazioni che i Baruch giunsero sulla montagna pistoiese e precisamente a Cutigliano. Quel che accadde loro nel piccolo paese dell’Appennino pistoiese lo sappiamo dallo stesso Michele che, a quarant’anni circa da questi fatti decise di far conoscere il calvario della propria famiglia attraverso un breve dattiloscritto, attualmente conservato presso la biblioteca della comunità ebraica di Livorno.

Una volta catturati, i membri della famiglia Baruch furono condotti prima nel carcere di Pistoia e da qui, dopo dieci giorni, alle Murate a Firenze. Nel carcere fiorentino i Baruch rimasero quindici giorni fra atroci sofferenze prima di partire per Fossoli, presso Carpi (MO), dove vissero circa un mese. Da qui, caricati su un carro bestiame assieme ad altre settanta persone circa, furono indirizzati verso una destinazione a loro originariamente ignota, che si rivelerà essere il campo di concentramento di Auschwitz. Per il viaggio di dieci giorni dice Michele nelle sue memorie “ci era stato dato un fiasco d’acqua e dei barattoli di marmellata e di pane“.

All’arrivo i superstiti furono posti in file di cinque davanti alle Kapò e al temuto dottor Mengele. Lavati, depilati con “rozzi rasoi” e cosparsi di creolina, furono condotti all’aperto in attesa del vestiario, cioè la nota divisa a righe e un paio di zoccoli di legno e, come si legge nelle memorie, delle “mutande pidocchiose appartenute a qualche altro deportato deceduto“. Michele ricorda quindi con dolore la marchiatura  sulla pelle del numero di matricola che ha portato sino alla morte, il 174474 e quella, con lo stesso numero, del vestito.

L’autore rammenta chiaramente a distanza di anni le lotte con i prigionieri già presenti nel campo per conquistare un posto nei letti a castello e gli appelli, fatti spesso alle tre del mattino, con accanto ai sopravvissuti le cataste costituite dai  corpi dei compagni deceduti durante la notte, perchè “all’atto della conta, doveva tornare il numero preciso” dei prigionieri.

Il loro lavoro consisteva nel “portare pietroni sulle spalle o con un carrettone o portare via i cadaveri dalle baracche per condurli ai forni crematori“, accompagnati dalle note di  Rosamunda, una polka della cui versione tedesca nel 1938 erano state vendute più di un milione di copie. Colpisce il fatto che questo stesso dettaglio è citato nell’opera “Se questo è un uomo” di Primo Levi.

Il pranzo era costituito da una brodaglia di rape, la cena che arrivava dopo un altro estenuante appello, da un po’ di margarina.

Michele afferma che solo dopo un po’ di tempo scoprì la funzione della ciminiera “le cui fiamme uscivano dipinte di mille colori“. In quel momento sentì mancargli il terreno sotto i piedi perchè fu solo allora che comprese che i suoi cari, non appena divisi dal dottor Mengele, erano stati destinati alle camere a gas e non alle docce come promesso. Il pezzo di sapone e l’asciugamano che avevano ricevuto erano stati insomma un vile inganno.

Nel suo breve dattiloscritto l’autore cita le baracche destinate all'”ospedale” (in realtà i locali dove venivano effettuati gli esperimenti dei medici nazisti) e fa riferimento alle esecuzioni capitali tramite “fucilazioni e tortura“.

Michele afferma di essere stato scelto, poi tramite il consueto appello, per andare a lavorare in un altro campo, quello di Monovitz, in polacco Oswiecim, a 7 km. da Auschiwitz, dove fu impiegato come manovale per scavare fosse e scaricare sacchi di cemento.

La mattina del 26 febbraio 1945 fu fatta una selezione per individuare gli inabili al lavoro che, si diceva, sarebbero stati destinati a un “lager di riposo“. La reale destinazione dei prescelti erano i forni crematori. Terminato l’appello Michele e altri giovani furono condotti in una fabbrica di armi e pezzi di ricambio per carri armati e autoblinde, la Buna Weke. Per i lavoratori di questa fabbrica i maggiori rischi erano dati dai bombardamenti alleati, quattro complessivamente, che colpirono la struttura e dal fatto che durante questi i tedeschi si recavano nei rifugi chiudendo i prigionieri nei locali con il rischio di rimanere sepolti vivi sotto le eventuali macerie.

L’ultima destinazione di Michele fu Buchenwald, da lui definito un campo di “eliminazione”, dove giunse dopo otto giorni di viaggio sotto i bombardamenti.  Michele, ormai pieno di sporcizia e di “bolle per mancanza di vitamine“, venne adibito a lavorare a un tunnel e riuscì a sopravvivere a diverse epidemie di tifo.

La mattina del 26 febbraio i russi fecero finalmente irruzione nel campo liberando i superstiti. Michele era ridotto a pesare solo 31 chilogrammi. Dopo quattro mesi di cure e una dieta “a base di brodo di carne senza ulteriori aggiunte” per evitare sforzi eccessivi a un corpo estrememamente delibitato, Michele potè tornare nell’amata Livorno dove però non aveva più nessuno che lo aspettasse e soprattutto pochissimi a credere ai suoi racconti. Ritornerà con la moglie nei campi di concentramento molti anni dopo.

Il breve dattiloscritto si conclude con un toccante appello di Michele “Noi scampati lotteremo con tutte le nostre forze perchè tutti si sentano fratelli ed amici, per il progresso che vada sempre avanti nella libertà e nella democrazia, affinchè nessuno abbia più a vivere la triste storia dei campi di sterminio“. Il semplice racconto di Michele si pone quindi nella scia delle testimonianze di molti altri reduci dai campi di sterminio, come ad esempio Primo Levi. Non è solo un resoconto breve, anche se circostanziato dei fatti, ma anche un invito, rivolto a tutte le persone, a fare in modo, attraverso il ricordo e l’impegno quotidiano, che questi tragici eventi non debbano ripetersi più, a far si che certe ideologie, sconfitte dalla storia, non debbano riapparire.

Andrea Lottini (Montecatini Terme, 1975) si è laureato in Scienze Politiche nel 2001 con una tesi sulla formazione professionale e in Scienze Religiose nel 2015 con una tesi su Egeria, pellegrina del IV secolo. Attualmente è insegnante di religione presso gli istituti comprensivi di San Marcello Pistoiese e di Agliana.

Articolo pubblicato nel gennaio del 2018.




Persecuzione e deportazione degli ebrei sulla montagna pistoiese

LA PRESENZA EBRAICA A SAN MARCELLO

Nel corso del 1938, in seguito al già citato inasprirsi delle sanzioni contro gli ebrei, il Ministero dell’Interno impose ai Comuni, con l’aiuto delle Prefetture, di individuare attraverso “una precisa rilevazione statistica degli ebrei residenti nei vari comuni alla mezzanotte del 22 agosto” (Collotti E., Ebrei in Toscana tra occupazione tedesca e RSI, Carocci Editore, Roma 2007, p. 31 vol. 2, doc. II.2.)

Ovviamente con tale provvedimento si mirava ad individuare gli ebrei da sottoporre successivamente a forme di detenzione ben più dure.

Il comune di San Marcello provvide prontamente a individuare gli ebrei presenti sul proprio territorio e infatti si nota dai fondi della sottoprefettura di Pistoia, busta 199, cartella “Razza, Censimento degli ebrei”, fogli 132-140, che alla mezzanotte del 22 agosto erano presenti sul territorio sette “capo famiglia o capo convivenza”, per un totale di quattordici persone. Si trattava di ebrei presenti solo in modo temporaneo e per questo non registrati presso l’anagrafe comunale ( Fagioli S., Ebrei e leggi antiebraiche nel comune di San Marcello Pistoiese,  edizioni C.R.T, Pistoia, 2002, p. 254). E’ da rilevare che la richiesta mirava ad accertare la presenza di ebrei stabilmente residenti e non temporaneamente presenti. Il comune fu in questo caso estremamente “zelante” nel rispondere alla direttiva del Ministero.

I sette capofamiglia erano:

  • Bassani Alessandro, del fu Eugenio
  • Carpi Cividali Olga, del fu Raffaele
  • Corinaldi Mario, del fu Cesare.
  • De Benedetti Clelia, del fu Salomone
  • Fiorentino Mosè, del fu Benedetto
  • Osima Rimini Bianca del fu Alessandro
  • Teglio Carpi Enrica, del fu Alessandro

È interessante notare che delle persone sopraindicate non risultano tracce nè ne Il libro della memoria, che indica le biografie di tutti gli ebrei deportati fra il ’43 e il ’45, nè nei diversi siti già più volte citati in queste lavoro. In parole povere le persone sopra citate non risultano deportate o almeno non lo risultano dall’Italia.

Si può ipotizzare che, presenti solo temporaneamente sulla montagna pistoiese, siano poi riuscite a fuggire altrove, forse in Svizzera, o in un altro paese, dove possano essere state catturate e sfortunatamente uccise o deportate.

Aldilà dei casi sopra esposti emerge che nel comune di San Marcello non ci furono nè arresti nè deportazioni (Cfr. Fagioli S., Ebrei e leggi antiebraiche cit…, p. 234). Fra i numerosi atti che Fagioli riporta ve ne è uno particolarmente interessante, la lettera del 20 settembre 1938 inviata dalla direzione didattica dei comuni di Agliana e San Marcello al Podestà nella quale si scrive che:

“Un decreto legge di prossima pubblicazione prevede la istituzione, a spese dello stato, di speciali sezioni di Scuole elementari per fanciulli di razza ebraica in quallunque località dove siano almeno dieci alunni e manchi la scuola mantenuta dalla Comunità isrealitica. Vi prego dunque di farmi sapere, no oltre il 23 c.m., con ogni precisione, il numero dei ragazzi di razza ebraica, residenti in codesto comune.”

Il commissario prefettizio risponde alla lettera tre giorni dopo dicendo che “In relazione al foglio sopra distinto, significo che nessun ragazzo di razza ebraica risiede in questo comune” (Cfr. Fagioli S., Ebrei e leggi antiebraiche cit…, p. 235-237).

Nel 1938 quindi a San Marcello non dimoravano stabilmente persone di razza ebraica in età scolare.

 IL CASO DEGLI EBREI  CONDOTTI SULLA MONTAGNA DA MONTECATINI TERME

Oltre ai già citati casi, risulta che una buona parte degli ebrei presenti sulla  montagna pistoiese provenisse da Montecatini, una delle nove già citate zone di internamento presenti nel territorio pistoiese.

La comunità di Montecatini Terme in seguito all’ordine del 9 settembre 1941 di Italo Balbo di trasferire in Italia gli stranieri presenti in Libia ospitava un consistente numero di stranieri, per la maggior parte anglo-maltesi, alloggiati in diversi alberghi. Molte di queste persone, come affermato anche dal prefetto di Pistoia Francesco Bianchi non godevano di buona salute. In particolare gli sfollati: “appartenenti in genere a classi sociali dal punto di vista economico ed igienico molto modeste, sono arrivati in Montecatini in condizioni igieniche personali pessime per sudiciume della pelle e degli abiti”. La popolazione locale timorosa di contagi (era particolarmente temuto in quel periodo il tracoma), provata dalle dure condizioni della guerra e inasprita dal fatto, vero o presunto, che queste persone potessero godere di sovvenzioni provenienti dai paesi d’origine, spingeva perchè queste persone fossero destinate altrove.

Del resto all’epoca Montecatini Terme era già una località molto frequentata e i timori che la presenza straniera potesse nuocere all’attività turistica era forte. Membri del partito fascista affermavano che ” si rileva a Montecatini Terme fra le condizioni dei nostri connazionali o rimpatriati dall’Africa Italiana e quelle di parecchi ebrei e internati stranieri […]. Questi ultimi, per le sovvenzioni che a loro provengono per tramite della Svizzera e per il largo sussidio loro concesso, tengono un tenore di vita frivolo e agiato” .

Dalle proteste verbali alcuni cittadini erano passati alle minacce, come si evince dal documento sotto riportato.

In seguito alle pressioni della cittadinanza quindi con il marzo 1942 cominciarono i primi trasferimenti.

Nel novembre 1942 erano comunque presenti a Montecatini ancora 89 anglo-maltesi, che ricevono un sussidio dal governo inglese e uno da quello italiano e circa sessanta cittadini stranieri, di varie nazionalità, internati o allontanati da zone militarmente importanti di altre province.

Il prefetto decise, come si nota dal documento riportato, di trasferire alcuni ebrei da Montecatini in piccoli località periferiche.

 Furono pertanto trasferiti a Cutigliano sulla montagna pistoiese:

Nadel Salomone di nazionalità polacca nato a Lwow, l’attuale Leopoli,  il 09/01/1881. Residente a  Genova dal 1938 . Venne prima internato a Guardiagrele (CH) il 27/07/40 e successivamente a Montecatini dal 09/08/41 fino al 31 agosto 1943.

Eckerling Chana (Chane) di nazionalità polacca nata a Hodorenka il 9 gennaio 1896, residente a Genova nel 1940, internata prima a Guardiagrele (Chieti) il 20/07/1940 e poi a Montecatini il 19/08/41.

Kreisling Edith nata a Vienna, nazionalità tedesca ex austriaca, nata il 16/03/1908, internata a Montecatini il 2/07/43

Weiller Alessandro, nato a Prijedor (Iugoslavia), apolide ex italiano, nato il 2/5/1890, residente a Fiume nel 1 1940, internato a Montecatini il 18/08/43.

Mevorah Miriam, nata a Prijedor (Iugoslavia), apolide ed ex italiana, nata il 2/01/1911, presente a Fiume nel 1940 e internata a Montecatini il 2/07/43.moglie di Weiller Alessandro.

 Dai dati disponibili sul portale del CDEC (Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea) e sul sito sito www.annapizzuti.it, che raccolgono i dati degli ebrei stranieri internati in Italia durante il periodo bellico, risulta che Salomone Nadel e Eckerling Chana (Chane) furono liberati a Bari il 15 febbraio del 1945, mentre Kreisling Edith e Mevorah Miriam furono liberate a Roma. Evidentemente in qualche modo riuscirono a fuggire alla cattura e a passare la linea del fronte scendendo nel meridione.

Il destino di Alessandro Weiller fu purtroppo diverso perchè come sopra indicato venne deportato e morì in un campo di concentramento a tutt’oggi sconosciuto.

 IL CASO DEGLI EBREI CATTURATI A CUTIGLIANO E PRUNETTA

Un destino molto diverso caratterizzò purtroppo gli ebrei livornesi sfollati a Cutigliano che furono catturati a gennaio 1944 ad opera di militari italiani e tedeschi.

Furono catturati nella località della montagna pistoiese:

– Baruch Behor Michele di Baruch Isacco e Cadina Masriel, nato a Smirne il 14/1/1920. Deportato a Auschwitz fu l’unico del gruppo a sopravvivere.

– Baruch Clara di Baruch Isacco e Cadina Masriel, nata a Smirne il 23/4/28. Morì ad Auschwitz il 15 aprile 1944, dopo la liberazione del campo.

– Baruch Isacco di Baruch David e Benezra Giuditta, marito di Cadina Masriel, nato a Smirne il 20/3/1890.

– Baruch Marco di Baruch Isacco e Cadina Masriel, nato a Smirne il 27/11/31

– Baruch Susanna di Baruch Isacco e Cadina Masriel, nata a Smirne il 21/10/29

– Masriel Cadina di Moise Masriel e Susanna Masriel, moglie di Baruch Isacco, nata a Smirne il 24/12/1900. Uccisa il 26 febbraio 1944

– Pesaro Gualtiero di Leone Pesaro e Argia Piperno, marito di Rosa Cremisi, nato a Livorno il 23/7/1896

– Baruch Behor Michele di Baruch Isacco e Cadina Masriel, nata a Smirne il 14/1/1920

Tutti finirono ad Auschwitz con il convoglio partito da Fossoli il 22 febbraio 1944 e qui, salvo come detto Baruch Behor Michele trovarono la morte.

In un’occasione successiva alla retata del 26 gennaio furono catturati:

– Pesaro Arnaldo di Leone Pesaro e Argia Piperno nato a Livorno il 23/10/1900. Arrestato a Cutigliano, morì nell’eccidio di Ponte alla Lima di cui si parlerà successivamente.

– Tullio Levi di Angelo Levi e Rosilde Ravà, nato a Parma nel 1876, sposato con Elisabetta Nesti. Catturato con alcuni abitanti del luogo venne fucilato presso il cimitero di Pianosinatico (vedi paragrafo successivo)

La cattura del primo gruppo di persone avvenne il 26 gennaio 1944, favorita da spie italiane.  Non fu necessario ricorrere alla ricerca casa per casa perchè la presenza degli ebrei era nota alla polizia locale che intimò agli sfollati di presentarsi in caserma per le cinque del mattino del 26 gennaio. L’ebrea Nina Molco, nel suo diario ricorda che supplicò il locale maresciallo di lasciare stare lei e sua zia Clelia a causa della tarda età (87 anni) di quest’ultima. Il maresciallo la invitò a presentare un certificato medico che attestava le precarie condizioni di salute dell’anziana e così le due donne poterono rimanere a Prunetta fino alla liberazione, vivendo comunque nelle privazioni e con l’ansia di un arresto imminente. Nel maggio ’44 Clelia morì’ e Nina continuò a raccontare nel suo diario della presenza di truppe tedesche e le razzie compiute dagli invasori per procurarsi il cibo nonchè il costante pericolo di rappresaglie. Nina Molco annotò anche che «Tutti quelli che erano qui, e non erano pochi, sono stati presi, meno alcuni, i più abbienti, che sono riusciti a scappare». Lo scritto lascia trapelare che quindi a cadere vittima dei nazi-fascisti furono soprattutto gli ebrei appartenenti ai ceti popolari, quelli che non avevano risorse sufficienti a consentire loro di accedere ad eventuali vie di fuga. Si fa presente inoltre, ed è un dato importante, che alcuni, probabilmente temporaneamente residenti e quindi non registrati ufficialmente, riuscirono a fuggire alla cattura.

I Baruch, erano sfollati presso la pensione Catilina, oggi un negozio di abbigliamento, nella piazza principale del paese. Erano fuggiti a Livorno da Smirne nel 1933 dove Michele, l’unico che sopravviverà, lavorava come manovale. Nel 1938, in seguito alle leggi razziali, aveva perso il lavoro. La famiglia era sopravvissuta solo grazie all’elemosina della comunità ebraica fino al momento della deportazione. Catturato con la famiglia, fu imprigionato per circa un mese presso il carcere delle Murate a Firenze, poi condotto a Fossoli e da lì con un viaggio di quattro giorni in cui potè consumare solo da un panino alla marmellata a Auschiwitz. Subito separato dal resto della famiglia non vide più nessuno. Comprese il destino dei suoi familiari solo in un secondo momento. “…Mentre facevamo l’appello – scrisse quarant’anni dopo Michele – di fronte alle nostre baracche vedevamo un’altra baracca molto grande, con una grossa ciminiera le cui fiamme uscivano dipinte di mille colori. Noi nuovi del campo non sapevamo che cosa venisse fatto là e per appagare la nostra curiosità domandammo a qualcuno più anziano del campo a cosa serviva quella ciminiera e così venimmo a sapere che quello era un forno crematorio. Poi domandai quando potevo incontrarmi con la mia famiglia, me purtroppo seppi la verità e cioè che i miei cari erano stati barbaramente stroncati nelle camere a gas ed i loro corpi fatti scomparire per sempre nel forno crematorio. Mi sentii mancare il terreno sotto i piedi pensando ai miei cari ed a quanto avevano dovuto soffrire… allora per diverso tempo implorai la morte, perché ero rimasto solo ed avevo appena ventiquattro anni” Il Tirreno, ed. Livorno, del 25 maggio 2009).Ad Auschwitz rimase quattro mesi, poi passò per molti campi fra cui Mathausen, Bergen Belsen e Dachau. Fu liberato in un piccolo campo della Germania Orientale il 20 aprile del ’45 dalle truppe russe e rimandato in Italia dopo quattro mesi di cure (Intervista disponibile in http://digital-library.cdec.it/cdec-web/audiovideo/detail/IT-CDEC-AV0001-000209/michele-behor-baruch.html)

A Prunetta, una località ad internamento libero, dove cioè gli ebrei potevano muoversi con una certa libertà, il 26 gennaio furono arrestate le sorelle Gabriella e Vera De Cori, di origine pisana e sfollate con l’anziana madre, Giuseppina Ambron sulla montagna pistoiese. Furono  catturate con l’inganno dal questore Chicca che le aveva invitate a presentarsi in Questura per regolare alcune pratiche. La madre venne rilasciata perchè anziana con la promessa che le figlie sarebbero state liberate entro poche ore. In realtà furono condotte via senza abiti invernali a Firenze prima e a Fossoli dopo, per poi finire la loro esistenza probabilmente a Auschwitz. La madre inviò una supplica al ministro dell’Interno sostenendo che aveva perso il marito e il figlio durante la prima guerra mondiale e sostenendo l’italianità della sua famiglia. Al momento dell’istanza della signora Ambron probabilmente le figlie erano già decedute. Con le sorelle il 26 gennaio 1944 furono catturati da italiani alcuni ebree jugoslavi provenienti da Aosta, originarie della zona di  Zagabria.

Dal sito del Cdec e dal sito annapizzuti.it risultano inoltre catturate a Prunetta:

–                    Fiser Regina, nata il 1/1/1909 da Massimiliano Fiser e Giulia Svez a Nosice (Iugoslavia). Condotta a Fossoli da qui con il convoglio nr. 08 del 22 febbraio partì per Auschiwitz dove giunse quattro giorni dopo. Non è sopravvissuta al campo di concentramento.

–                    Weiss Nada,  nata a Zagabria il 12 aprile 1916, figlia di Norbert Weiss e Giza Haim. E’ sopravvissuta alla Shoah.

Il responsabile della deportazione, il questore di Pistoia, pisano come le sorelle De Cori, non ha mai pagato per il suo crimine, grazie all’amnistia concessa ai collaborazionisti.

 LE STRAGI DEL LANIFICIO TRONCI E DEL CIMITERO DI PIANOSINATICO: LA MORTE DI ARNALDO PESARO E DI TULLIO LEVI

Il fratello di Gualtiero Pesaro, uno delle vittime della retata del 26 gennaio, Arnaldo, morì nella strage del lanificio Tronci, avvenuta in seguito alla vendetta nazista successiva ad un attacco partigiano contro le truppe tedesche che stavano risalendo la penisola. A Casotti fra il 26 e il 27 settembre 1944 le truppe tedesche rastrellarono infatti 35 abitanti e li rinchiusero nel lanificio Tronci, situato lungo il torrente Lima. La situazione già precaria dei prigionieri peggiorò con la fuga di Guido Vasetti, uno dei detenuti. Il comandante tedesco che aveva minacciato in un primo momento di fucilare cinque prigionieri successivamente ritornò sulle sue decisioni e liberò gli ultrasessantenni, fra cui il titolare dell’azienda Raffaello Tronci. Questi, saputo che i tedeschi se ne erano andati, ritorno nel pomeriggio nei pressi del lanificio e udì l’esplosione dei locali che provocarono la morte di cinque persone fra cui il già citato Arnaldo  Pesaro.

In un altro attacco contro un convoglio tedesco compiuto dai partigiani guidati da Ducceschi morirono due soldati ed uno rimase ferito. La ritorsione nazista fu pronta, la zona di Pianosinatico ed il territorio del comune di Cutigliano vennero rastrellati con l’obiettivo di “ripulirlo” dalla presenza partigiana.

Undici prigionieri, in prevalenza ultrasessantenni, vennero condotti presso il cimitero di Pianosinatico a fucilati. Tra essi, anche il professore ebreo Tullio Levi ( cfr. scheda  su http://www.straginazifasciste.it/)

Inoltre, per garantire la ritirata, i tedeschi minarono quasi tutte le abitazioni di Cutigliano.

 Sulla strage furono avviate indagine dalla procura militare di Roma nel 2010. Il 30 giugno fu fissata un’udienza con richiesta di accertamenti sull’esistenza in vita di militari tedeschi sospettati della strage.

 Andrea Lottini (Montecatini Terme, 1975) si è laureato in Scienze Politiche nel 2001 con una tesi sulla formazione professionale e in Scienze Religiose nel 2015 con una tesi su Egeria, pellegrina del IV secolo. Attualmente è insegnante di religione presso gli istituti comprensivi di San Marcello Pistoiese e di Agliana.

Articolo pubblicato nel dicembre del 2017.




La persecuzione fascista contro gli ebrei nel pistoiese

CENNI STORICI SULLA PRESENZA EBRAICA A PISTOIA

Le prime tracce delle presenza ebraica a Pistoia risalgono alla fine del XV secolo quando due ebrei di origine pisana, Sabato e il figlio Musetto, chiesero agli Anziani ed al Gran Consiglio di poter “fenerare”, cioè di poter svolgere l’attività di prestatori di denaro o in alternativa di esercitare qualsiasi altro mestiere, risiedendo in città con le loro famiglie e la servitù. Esprimevano nella loro richiesta il desiderio anche di essere considerati cittadini alla pari degli altri e di poter godere della libertà di culto e della immunità da tutti gli oneri, ad eccezione delle gabelle, per un periodo di circa dieci anni, prerogativa di tutti i prestatori di denaro (Andreini, A., Il ghetto degli ebrei a Pistoia, in Bollettino Storico Pistoiese XCI (1989), (terza serie, XXIV), p. 63-73).

L’attività feneratizia, cioè volta al prestito del denaro, continuò anche successivamente, come attestano i capitoli del 1455 tra il Comune e un banchiere per la gestione di un banco di pegno per 6 anni (Capecchi, I. – Gai, L., Il Monte della Pietà a Pistoia e le sue origini, Firenze 1975, p. 69).

In seguito all’obbligo per gli ebrei toscani di trasferirsi nei ghetti di Siena e Firenze a fine XVI secolo la piccola comunità ebraica pistoiese scomparve per riapparire intorno al 1641, anno in cui la presenza ebraica tornò ad essere menzionata quando dopo l’incendio della sacrestia della cattedrale, alcuni ebrei acquistarono i resti degli armadi intagliati da Ventura Vitoni.

Il termine “ghetto” compare per la prima volta nella storia pistoiese nel 1718, quando viene usato nel registro della parrocchia di San Matteo, per designare l’area occupata da quattro famiglie residenti al primo piano di una corte sita nei pressi della piazza dell’Ortaggio (ex piazza del Pesce), ora piazza della Sala.

Il ghetto citato è ricordato fino al 1753, mentre da un documento del 1777 risulta che nel quartiere di Porta Lucchese vi fosse un vicolo “detto del Ghetto” che corrispondeva ad una piccolissima corte dell’odierna via Puccini (Zdekauer, L., L’interno di un banco di pegno nel 1417, in Archivio Storico Italiano Firenze, S.V., XVII, p. 63-104).

E’ possibile inoltre che in città esistessero in quel periodo un cimitero ebraico e una piccola sinagoga.

In alcuni documenti del 1742, relativi a quella che da tempo veniva chiamata “Piazza Ebrea” o Piazza dello Spirito Santo (attualmente Piazza S.Leone), si legge che: Gli agnelli, uccelli, uovi , e altri commestibili proibiti nel tempo della Quaresima, non si vendano né si possano vendersi altrove che sulla Piazza dello Spirito Santo (Andreini, A., Il ghetto degli ebrei a Pistoia, in Bollettino Storico Pistoiese XCI (1989), (terza serie, XXIV), p. 64.

 LA PERSECUZIONE FASCISTA CONTRO GLI EBREI NEL PISTOIESE

Con l’estate del 1938 si scatenò una fortissima campagna anti-giudaica caratterizzata da una serie di leggi volte a perseguitare gli “appartenenti alla razza ebraica” il cui culmine fu l’ordine di arresto e di internamento del 30 novembre 1943 che ebbe tragiche conseguenze anche per gli ebrei “pistoiesi”. Particolarmente negativa per gli ebrei fu la pubblicazione di alcuni testi come “Gli ebrei in Italia” di Paolo Orano in cui si attaccavano addirittura quelli appartenenti al partito fascista o “Sotto la maschera di Israele” di Gino Sottochiesa  (Fornaciari P., L’universo minore. Confino, internamento, concentramento, deportazione degli Ebrei. Le responsabilità italiane ed il caso di Pistoia, Edizioni Erasmo, Livorno, 2014, p. 23-25)

Il testo che più di ogni altro mosse l’opinione pubblica contro gli ebrei fu comunque il “Manifesto della razza” apparso sul Giornale d’Italia con il titolo “Il Fascismo e i problemi della razza”. Apparso senza firma, nei giorni successivi alla prima pubblicazione fu sostenuto, su diretta richiesta del duce, da una decina di medici e professori universitari.

La negativa campagna di stampa e l’emanazione delle leggi razziali colpirono anche la piccola comunità ebraica di Pistoia, composta da alcune “storiche” famiglie fra le quali possiamo ricordare i Corcos, i Piperno, i Coen e i Bemporad, proprietari di una bottega di stoffe e abbigliamento in via del Can Bianco e che avevano fatto costruire nel 1910 la torre “Bemporad”, ancor oggi esistente. La famiglia era anche proprietaria di un mulino presso Serravalle Pistoiese (Cutolo F., La deportazione degli ebrei nel pistoiese)

Israele Bemporad, ad esempio, che si era iscritto alla facoltà di Giurisprudenza, nel 1939 in seguito alle leggi razziali fu espulso dall’Università. Successivamente si iscrisse alla formazione partigiana “Fantacci” che operava sulle colline della Castellina e Casore del Monte, presso Serravalle Pistoiese. Partigiano divenne anche Giancarlo Piperno che era stato accolto, avendo la casa distrutta dai bombardamenti, dalla famiglia Bemporad nella villa in località Bacchettone, posta sulla collina fronteggiante la stazione di Serravalle Pistoiese. Giancarlo Piperno anni dopo divenne un famoso radiologo specializzato in radiologia medica oncologica presso l’ospedale di Pistoia (Balleri S., Mario Parri scultore e altri personaggi dell’antifascismo e della resistenza nel pistoiese, Pistoia 2017, p. 111-115.)

Allo scoppio della guerra, il regime fascista decise la costruzione di campi di concentramento in tutto il territorio nazionale per internare i cittadini dei paesi nemici, i prigionieri di guerra, gli oppositori politici, gli omosessuali e gli ebrei stranieri. Con l’8 settembre la situazione degli ebrei peggiorò ulteriormente e quelli che non erano stati internati cercarono di fuggire sparpagliandosi sui monti. Agli ospiti “originari”, dopo il 30 novembre ’43, si aggiunsero nuove vittime, che nonostante si fossero date alla macchia cercando rifugio sui monti per fuggire ai rastrellamenti, erano stati catturati.

Nella provincia di Pistoia, vi erano in tutto nove località di detenzione: Agliana, Buggiano, Lamporecchio, Larciano, Montecatini, Pistoia, Ponte Buggianese, Prunetta e Serravalle Pistoiese. La tendenza fu quella di adattare  per l’internamento edifici o strutture già esistenti. Gli internati vennero quindi, almeno inizialmente, collocati in ville, case private, conventi, scuole, fabbriche dismesse, addirittura in cinematografi. Gli internati avevano quindi la possibilità di spostarsi, in alcuni casi addirittura di andare e venire dai luoghi d’origine. Spesso la popolazione locale non conosceva, o fingeva di non conoscere, l’origine di questi “stranieri” (Fornaciari P., op. cit, p. 35)

Con l’8 settembre del 1943 la situazione peggiorò decisamente. Polizia e carabinieri confluirono nella guardia nazionale repubblicana (GNR) che venne sostenuta dalla Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, costituita da fascisti della prima ora.

Nel periodo intercorrente fra il 30 novembre 1943 e l’ottobre 1945 in provincia di Pistoia furono arrestati in seguito alle retate dei nazisti e dei fascisti ottantotto ebrei, secondo quanto indicato nei database dei siti www.nomidellashoah.it e www.annapizzuti.it, che vennero uccisi direttamente o deportati nei campi di concentramento di Buchenwald, Auschwitz e Mathausen, dopo essere stati condotti prima nel carcere di Pistoia e poi a Fossoli, nei pressi di Carpi.

La maggior parte degli ebrei che si trovavano nel pistoiese fu catturata al momento del passaggio del nucleo operativo nazista specializzato in “rastrellamenti” guidato da Dannecker, che dopo aver compiuto la retata degli ebrei nel ghetto di Roma (mille persone complessivamente catturate di cui solo quindici tornarono in Italia alla fine della guerra) stava ripiegando (Cutolo F., op. cit., consultabile in in www.toscananovecento.it). Dannecker era uno specialista in questo genere di azioni e proprio per questa sua grande capacità era stato spostato dalla Bulgaria all’Italia. Fu questi a compiare la retata del 6 e 7 novembre a Firenze e a irrompere nella sinagoga fiorentina per catturare circa duecento  persone. A Firenze furono razziati anche i conventi, dove molti perseguitati si erano rifugiati. Al Carmine, dove si trovavano molte donne ebree con i loro figli piccoli, avvenne l’episodio più odioso. Ci fu un’irruzione il 26 novembre e per quattro giorni le donne recluse, prima di essere deportate e uccise ad Auschwitz, subirono inerrarabili violenza da parte dei militi fascisti di guardia, accorsi in aiuto dei tedeschi (Baiardi M., tratto dall’inserto a cura della Regione Toscana “I l giorno della memoria 2002-2009” in La Nazione del 25 aprile 2009). Alle catture contribuirono dunque, in virtù dei provvedimenti emanati dalla RSI alla fine del novembre ’43, anche le forze di polizia locali, compresi numerosi reparti di carabinieri e le unità della GNR. La deportazione avvenne ad opera delle forze armate tedesca, spesso con la collaborazione dei militi della RSI.

La maggior parte degli ebrei fu catturata nelle province settentrionali della regione, perchè qui avevano deciso di fuggire, cercando disperatamente di scendere verso il meridione, o perchè qui erano stati internati in quanto stranieri dopo l’entrata in guerra dell’Italia. La percentuale degli ebrei deportati dall’Italia è stata calcolata intorno al 20 per cento (Sarfatti M., La Shoah in Italia, Einaudi, 2005, p. 109). L’ottanta per cento degli ebrei si salvò dunque, ma è altrettanto vero che molti italiani contribuirono con delazioni, a volte volontarie a volte estorte con la forza, alla cattura. Gli ebrei sfuggiti alla cattura vissero quindi in clandestinità adottando le più disparate strategie di sopravvivenza.

Molti degli ebrei catturati a Pistoia avevano trovato qui ospitalità su indicazione della Delasem (Delegazione per l’Assistenza agli ebrei emigranti), creata dall’Unione delle Comunità Israelitiche nel 1939 per aiutare gli ebrei a espatriare e a sostenere comunque gli internati in Italia. Gli ebrei in questione erano in molti casi originari di Livorno e vivevano prevalentemente intorno alla sinagoga della città labronica. Solo i più ricchi vivevano nella zona dell’Ardenza. La maggior parte di queste persone apparteneva al ceto popolare ed era occupata nel settore cantieristico o svolgeva la professione di venditore ambulante (Orsi P.L., Dal censimento del 1938 alla persecuzione,  la comunità ebraica di Livorno, Belforte, Livorno 1990, p. 210).  Una sostanziale parte della comunità era costituita da ebrei provenienti dalla Grecia e dalla Turchia, giunti a Livorno negli anni Trenta. Con il settembre del ’43 e la occupazione tedesca gli ebrei cercarono rifugio in zone più impervie o comunque note. La famiglia di Nina Molco con la zia si trasferirà ad esempio a Cutigliano dove era solita recarsi per le vacanze estive.

Alla fine del 1943 la Delasem fu purtroppo infiltrata da spie che contribuirono a scoprire i nomi degli ebrei aiutati che, quindi, se non erano riusciti a fuggire, furono perciò catturati (Daghini R., La Shoah a Serravalle e Pistoia, in Microstoria, nr. 52, 2007, p.33.)

In provincia di Pistoia i primi rastrellamenti avvennero a Montecatini Terme il 5 e il 6 novembre 1943. Il resto degli arresti risale al gennaio ’44.

Gli Ebrei catturati nel pistoiese appartenevano dunque alle famiglie “locali” e a quelle “sfollate”.

Degli ottantotto catturati solo cinque saranno i superstiti.  Michele Behor Baruch, Isacco Mario Baruch, Matilde Beniacar, Aldo Moscati e Sol Cittone; una sesta superstite, Gertrude Loeb, pur vedendo la liberazione del campo di sterminio di Auschwitz (27 gennaio 1945), morì due settimane dopo per le sue pessime condizioni di salute. Fra gli altri periranno nel campo di Auschwitz Carlo e Massimo d’Angeli rispettivamente di 5 anni e 2 anni e 5 mesi, Bruno e Guido Valabra di 11 anni e 7 anni e mezzo, Claudio e Lia Vitale di 7 anni e 2 anni e tre mesi.

La superstite Sol Cittone, apparteneva a una delle famiglie di ebrei turchi di Livorno sfollate a Serravalle per i bombardamenti.

Fu arrestata con tutta la sua famiglia il 12 gennaio 1944 dal maresciallo Luigi Cellai, comandante della stazione dei carabinieri di Serravalle Pistoiese, portata prima nel carcere di Pistoia, poi nel carcere delle Murate a Firenze per circa due settimane, da qui a Fossoli con tutta la famiglia e infine sui vagoni per Auschwitz dove giunse alla mezzanotte del quinto giorno. Venne  liberata dall’esercito russo nel 1945.  Rimpatriata da Auschwitz a Livorno l’anno successivo denunciò il 10 settembre attraverso l’UCEI il maresciallo Cellai usando questi termini «Fatemi il piacere se lo vedete, denunciatelo subito e fategli torture e lavorare peggio deve anche soffrire e deve fare una fine peggio dei cani quel maledetto repubblicano. Nemmeno la cenere ci deve rimanere come lui ha rovinato me e tutta la famiglia». Nel dopoguerra, decise di imbarcarsi per Israele e visse a Haifa. E’ tornata a Serravalle nel 2014. Sol ricordava ancora quei momenti e mostrava ancora disprezzo per il maresciallo Cellai che aveva consegnata la sua famiglia ai nazisti e non aveva mai pagato per i suoi crimini. Della sua famiglia, composta dai due genitori e da cinque fra fratelli e sorelle, una di solo tre anni, lei, all’epoca quindicenne, fu l’unica superstite (Il Tirreno, ed. Pistoia, 16 ottobre 2014.).

Andrea Lottini (Montecatini Terme, 1975) si è laureato in Scienze Politiche nel 2001 con una tesi sulla formazione professionale e in Scienze Religiose nel 2015 con una tesi su Egeria, pellegrina del IV secolo. Attualmente è insegnante di religione presso gli istituti comprensivi di San Marcello Pistoiese e di Agliana.

Articolo pubblicato nel dicembre del 2017.




Gli altri e Ilio Barontini

“Gli altri e Ilio Barontini”: è il titolo della ricerca di Mario Tredici (Ets, 2017) sui comunisti livornesi che, a vario titolo, furono inviati dal loro partito in Urss tra la fine degli anni venti e la metà degli anni trenta, e in cui si riassume sinteticamente il senso di questo lavoro.  Infatti se Ilio Barontini è stato un uomo politico assai noto e celebrato , “gli altri” sono rimasti finora pressoché sconosciuti: su di loro è caduta una spessa coltre di oblio. Ma allora, negli anni segnati dalla dittatura fascista, ebbero un ruolo significativo per mantenere in vita l’organizzazione illegale comunista in Italia, alimentare l’emigrazione in Francia e poi essere inviati dal Pci in Urss, un tratto distintivo perché emblematico di un valore politico. Quattro di loro combatterono in Spagna nelle Brigate Internazionali, e uno Menotti Gasparri cadde nel novembre 1936 in difesa di Madrid.

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Ilio Barontini (al centro in piedi, con la cravata e le mani in tasca) in una foto di gruppo con Togliatti e Nilde Iotti (Archivio Istoreco, Livorno)

Ilio Barontini, è stato finora l’unico cui siano state dedicate ben tre biografie: la prima, la tesi di laurea di Giovanni Degl’Innocenti, scritta nel 1981-82. Poi a seguire quella scritta a due mani da Era Barontini e Vittorio Marchi nel 1987, e infine quella di Fabio Baldassarri edita nel 2013. I documenti base su cui si è sviluppata questa ricerca sono ovviamente i fascicoli del casellario politico centrale all’Archivio centrale dello stato. Una raccolta di dati di natura poliziesca, comunque fondamentali, senza i quali per quasi tutti loro si sarebbe del tutto persa ogni memoria. La persecuzione come strumento di conoscenza, insomma. Documentazione certo parziale e tendenziosa, arricchita però, in vari casi, dalle lettere inviate dagli emigrati alle famiglie e dunque in grado di restituirci il tratto umano e momenti del pensiero politico. Di assoluta importanza è stato anche l’archivio del partito comunista, depositato alla Fondazione Gramsci, poiché su quasi tutti era stata stilata almeno una scheda biografica dall’ufficio quadri del Pci a Mosca. Per i militanti che furono in Spagna è stato di grande utilità anche l’archivio delle Brigate Internazionali, sempre alla Fondazione Gramsci.

Per Barontini, che certamente è la personalità di maggior rilievo politico, l’autore ha scelto di concentrare la ricerca, anche e soprattutto per la dimensione internazionale della sua attività (Francia, Unione Sovietica, Spagna, Etiopia, ancora Francia nel maquis e poi la Resistenza in Emilia-Romagna), su alcuni problemi ancora aperti: quale fu il suo impegno in Francia subito dopo la fuga da Livorno nel maggio 1931; come e perché fu inviato in Unione Sovietica, con note negative come sostenne Paolo Robotti; come si configurò il suo ruolo nel paese del socialismo al tempo di Stalin.  Emerge in sostanza un profilo di Barontini come stalinista a tutto tondo. Fu permeato da quella temperie politica come quasi tutti quelli che ebbero un ruolo dirigente nel Pci in quel tempo, tanto più se si trovarono a vivere e operare nell’Urss.

Il mito, di cui è stato da sempre circonfuso, si è nutrito di una perniciosa rinuncia a un serio approccio critico. Come invece merita, dato che è stato uomo del suo tempo, non ha partecipato a deliziosi balli di gala ma ha attraversato le fasi della storia del XX secolo più dure e drammatiche. Poteva essere solo cavaliere dell’ideale? In sostanza è emersa una figura con forti chiaro-scuri, che nel periodo qui analizzato (in sostanza dal 1927 al 1936) ha avuto un ruolo di primo piano.

La ricerca d’archivio ha consentito di accertare in via definitiva il fatto che Ilio Barontini fu inviato in Unione Sovietica per punizione. Era tra i dirigenti operativi del Centro estero del Pci, responsabile dell’invio di corrieri in Italia e fu travolto dal clima di sospetti nella “grande inchiesta” interna al Pci condotta nel 1932 da Giuseppe Dozza. E di cui si trovano accenni negli scritti di Giorgio Amendola, Mario Montagnana e Aldo Agosti. Fu accusato di “disordine, settarismo, non buona politica dei quadri” come ebbe a rilevare Togliatti. Fu ritenuto responsabile in sostanza di scarsa vigilanza cospirativa e rimosso dal delicato incarico. E gli andò bene, perché Dozza chiese addirittura di sospenderlo per sei mesi dal partito, sanzione che l’Ufficio politico rifiutò di infliggergli. Il libro ricostruisce nel dettaglio la complessa vicenda, finora trascurata dalla ricerca storica.

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Ettore Borghi (Casellario Politico Centrale, Archivio Centrale dello Stato)

Poteva essere una caduta definitiva, invece in Unione Sovietica riuscì ben presto a riabilitarsi e a entrare nel nucleo dirigente dell’emigrazione. Barontini aveva personalità, carattere e “nervi saldi” come si riconosceva. Risalì la corrente, pur patendo un altro infortunio con il rifiuto opposto ai dirigenti sovietici ad andare a Odessa. Pur di restare a Mosca (si era ben inserito nel Club degli emigrati italiani e si era anche innamorato) accettò le conseguenze del suo rifiuto: venne rimosso dall’incarico di funzionario del Profintern e dovette andare a lavorare in fabbrica. Sempre nel 1933 fu implicato, politicamente, nella tragica vicenda che portò all’omicidio di Alberto Bonciani, alias Grandi. Che venne soppresso in un albergo nel centro di Mosca. Finora la vicenda, per il contesto in cui si svolse, aveva sollevato gravi dubbi sul coinvolgimento della dirigenza del Club. La ricerca ha potuto utilizzare una vasta documentazione (anche risalente all’Nkvd) da cui esce una piena conferma della fondatezza di quei sospetti. Anche Barontini fu tra gli estensori di ripetute accuse e avvertimenti sul caso Bonciani.

Grazie alle lettere alla famiglia e alla documentazione d’archivio la ricerca ha teso a delineare quali fossero la mentalità e formazione politica di Barontini quando lasciò la Francia per Mosca. L’esperienza sovietica ne accentuò i tratti, segnò e plasmò la personalità politica di Barontini in senso stalinista. Esito che lui stesso ebbe a segnalare nell’autobiografia: “Non sono mai stato in dissenso con il partito”; “mi sono sforzato di assorbire quanto più ho potuto di ideologia marxista leninista stalinista”. E, in effetti, a Mosca, nel Club Internazionale di cui fu uno dei leader, fu sempre schierato a fianco di Paolo Robotti “stalinista al 100 per 100” come lo definì Dante Corneli. Lui “soldato disciplinato” fu allineato convintamente con il partito fino alle estreme conseguenze anche nella lotta senza quartiere contro i compagni accusati di bordighismo o di trotzkismo. Una lotta politica che nell’Urss di Stalin si trasformò ben presto in tragedia con oltre cento comunisti italiani soppressi e molti altri spediti nei gulag. Una tragedia che il Pci tenne celata fino al novembre 1961, quando proprio Robotti fu autorizzato a parlarne in comitato centrale. Quando Barontini arrivò a Mosca nel settembre 1932, era un dirigente in disgrazia, quando ne uscì, quattro anni dopo, nell’estate 1936 aveva uno status di tutto rilievo, tanto che fu tra i 62 che firmarono il famoso appello ai “fratelli in camicia nera”

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Armando Gigli (Casellario Politico Centrale, Archivio Centrale dello Stato)

Ma torniamo agli “altri”. Alle biografie degli altri otto militanti: vite parallele con tratti ed esiti assi diversi.  Astarotte Cantini e Menotti Gasparri ebbero un destino tragico: il primo fu represso nelle purghe staliniane, l’altro cadde combattendo a Madrid. Cantini era di origini assai modeste, militante anarchico poi diventato comunista, emigrò in Francia e quindi in Russia dove fu soppresso nel 1938. Il secondo, operaio vetraio, fu condannato giovanissimo dal Tribunale speciale, riuscì a fuggire in Francia dove peregrinò molto stentatamente nell’emigrazione (faceva letteralmente la fame), con compiti modesti nei ranghi dei Comitati proletari antifascisti (Cpa) finché venne inviato in sanatorio in Russia fino alla tragica morte a Madrid. Tamberi è una figura atipica: piccolo commerciante in fallimento fuggì  in barca da Livorno con Ilio Barontini e Armando Gigli; visse e lavorò a Mosca per oltre cinque anni e riuscì a tornare in Italia con un passaporto ottenuto dall’ambasciata italiana nell’autunno del 1936, mentre già dilagavano le repressioni staliniane. Riuscì, singolarmente, a passare indenne tra le insidie di Scilla e Cariddi.

Urbano Lorenzini emerge come la figura più compromessa con lo stalinismo: ebbe – come rivendicò – rapporti sistematici con l’Nkvd per denunciare alcuni dei propri compagni di Odessa. Ettore Borghi, di origini contadine, ebbe un ruolo fondamentale nella ricostruzione dell’organizzazione giovanile comunista a Milano: arrestato nel settembre 1934, fu condannato a 18 anni di galera. Nel dopoguerra di affermò come dirigente della Federmezzadri di cui fu segretario generale. Anche Armando Gigli, processato e assolto per insufficienza di prove nel 1927-28 dal Tribunale speciale, fu inviato più volte come corriere in Italia. Arrestato nel 1935 fu condannato a 12 anni. Assai controversa invece la figura di Angiolo Giacomelli, tra i fondatori del Pci a Livorno. Transfuga nel 1927, dal 1929 al 1932 a Mosca, inviato come corriere in Italia fu arrestato. Rimesso in libertà grazie all’amnistia del decennale svolse un ruolo occulto ma molto importante tra il 1933 e il 1935 quando venne nuovamente arrestato nel febbraio nella grande retata frutto di una delazione di un vecchio comunista, Tullio Baronti. Giacomelli fece il compromesso con l’Ovra con l’obiettivo di scoprire la spia o le spie che avevano provocato la caduta dell’intero gruppo dirigente comunista. La cosa si riseppe: da qui l’ostracismo, con l’espulsione per tradimento dal partito, fino alla sua riabilitazione completa nel 1969. Infine di grande rilievo la figura di Silvano Scotto, un portuale che fu l’anima della riorganizzazione del Pci dopo le ripetute retate dei primi anni ’30. La ricerca, proprio nell’ambito della sua biografia, ricostruisce anche il quadro politico degli anni della svolta a Livorno mettendo in luce una coriacea e persistente  volontà combattiva del piccolo nucleo comunista esistente in città. Che non cedette mai le armi.

Quella che esce da questa ricerca è una galleria di figure politiche, con l’obiettivo di ricostruire, attraverso loro, un periodo di lotte e di travagli umani e politici, segnato da una durezza di vita e di sacrifici, di dolori non solo dei militanti ma anche e soprattutto delle loro famiglie (molto importanti le lettere inviate a madri, mogli e figli). Anni ed esperienze connotati certo da asprezze, settarismi, opacità e talora gesti politici condannabili, ma anche anni ricchi di occasioni di crescita e riscatto, di coraggio e di dignità. Di lotte contro il fascismo. Questi tenaci combattenti fuggirono dall’Italia sotto il segno di un’amara sconfitta, ma sicuri che presto o tardi le cose sarebbero cambiate (è il leitmotiv di quasi tutte le lettere alle famiglie) e con una fiducia totale nel ruolo dell’Unione Sovietica. Un’ancora di salvezza, in un mare in tempesta.

 * Mario Tredici, giornalista professionista, è stato capocronista delle redazioni di Pontedera e di Livorno per il quotidiano “Il Tirreno” e vice capo redattore responsabile delle pagine nazionali. Membro del consiglio nazionale della Fnsi, del consiglio regionale toscano e del consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti, è stato assessore alle culture del Comune di Livorno dal 2009 al 2014.

Articolo pubblicato nell’ottobre del 2017.