Vaiano: storia di una Casa del Popolo

Dopo la fine della Grande Guerra, i socialisti ripresero con vigore, anche in Val di Bisenzio, l’attività di propaganda e di proselitismo: è in questo contesto che si colloca il progetto di dar vita ad una Casa del popolo.

Furono infatti la crescita del sindacato, del movimento cooperativistico, di quello mutualistico e del Partito socialista che  fecero sorgere l’idea di costruire a Vaiano una Casa del popolo, per dare finalmente ai lavoratori uno spazio dove fosse possibile svolgere attività di tipo culturale e ricreativo.

Naturalmente bisognava risolvere il problema delle risorse. A questo riguardo, occorre tenere presente che il concordato per l’applicazione delle otto ore nel Pratese, stipulato il 6 maggio 1919, stabiliva che ogni ditta avrebbe versato alla Camera del lavoro, per la costruzione delle Case del popolo di Prato e di Vaiano, una somma non inferiore a sette lire per ogni operaio ed operaia. Dal canto loro, i lavoratori si impegnavano a rinunciare a dieci delle venti lire che avrebbero riscosso in occasione della firma della pace in favore delle erigende Case del popolo.

Grazie a questo meccanismo fu possibile raccogliere buona parte dei fondi necessari, il denaro mancante venne trovato tramite un’apposita sottoscrizione.

A Vaiano fu deciso di rialzare di un piano l’immobile della Cooperativa generale di consumo (sorta nel 1910) e di utilizzare il grande salone che si sarebbe così ottenuto come Casa del popolo. I lavori, iniziati ai primi di aprile del 1920, erano già conclusi nell’estate: in agosto nei locali della Casa del Popolo si svolse un’adunanza dei rappresentanti delle sezioni socialiste della vallata.

La Cooperativa generale di consumo era, a tutti gli effetti, la proprietaria del salone edificato dai lavoratori.

Ma la neonata Casa del popolo cadde ben presto sotto i colpi della violenza squadristica, che, il 17 aprile 1921, si abbatté prima su Prato e poi su Vaiano, colpita in quanto roccaforte del movimento operaio della zona. Nel pomeriggio del 17 aprile giunsero in paese quattordici camion carichi di fascisti scortati da un automezzo dei carabinieri. Sul camion di testa e su quello di coda era stata piazzata una mitragliatrice. Gli squadristi erano circa quattrocento. Arrivati in centro, cominciarono a sparare all’impazzata: il bilancio della spedizione fu di due morti (Guglielmo Vitali ed Umberto Corona) e di tredici feriti tra la popolazione: Vitali venne ucciso mentre stava parlando con degli amici fuori dal caffè detto di “Cucca”, Corona, un giovane diciassettenne soprannominato “il Profughino” perché aveva lasciato il suo paese durante la ritirata delle truppe italiane nel 1917, fu raggiunto da un colpo sparato da una finestra. La Cooperativa generale di consumo, la Società democratica di mutuo soccorso, la Lega laniera, la Lega edile e la Casa del popolo vennero devastate, la stessa sorte subirono diverse case, fra cui quella di Battista Tettamanti, che, negli anni precedenti, era stato alla testa dei lanieri della zona. L’ammontare dei danni fu superiore a 187.000 lire dell’epoca. I danni arrecati alla Casa del popolo furono calcolati in 17.280 lire. La spedizione era stata guidata dal pratese Tullio Tamburini, ex impiegato del lanificio Forti della Briglia, che sarebbe poi divenuto prefetto ed infine capo della polizia della Repubblica sociale italiana.

L’assalto squadristico significò la fine della Cooperativa generale di consumo, che, come si è detto, ospitava anche la Casa del popolo.

I fascisti assunsero il controllo della Cooperativa. L’immobile divenne la sede della Casa del fascio: il salone che era stato della Casa del popolo diventò una palestra dove, in caso di maltempo, si svolgevano le esercitazioni del premilitare. Ma dopo la fascistizzazione la Cooperativa cominciò a navigare in cattive acque ed infine fallì: nel 1929 i suoi locali furono messi all’asta ed acquistati da Dante Bardazzi, fornaio. I fascisti continuarono peraltro ad occuparli senza pagare una lira di affitto al proprietario.

L’immobile restò in loro mano sino al 25 luglio 1943.

Dopo la liberazione di Vaiano (10 settembre 1944) i lavoratori ripresero possesso dell’immobile che era stato della Casa del fascio, sistemandovi le loro organizzazioni politiche e sindacali: i locali furono occupati dal Partito comunista, dal Partito socialista, dalla Camera del lavoro, dalla risorta Cooperativa di consumo e dal Circolo ricreativo. Più tardi fu stipulato un regolare contratto di affitto col proprietario dell’immobile, Dante Bardazzi.

La ripresa della normale attività politica mise in luce la forza ed il radicamento del Partito comunista nella vallata. Anche la CGIL era molto forte: la Camera del lavoro di Vaiano sorse nel 1944.

Nel 1946 fu deciso di costruire una nuova sede per l’organizzazione camerale: il progetto prevedeva che all’edificio fosse annesso un politeama. Negli anni seguenti le energie dei lavoratori vaianesi furono assorbite da questo progetto: i lavori furono ultimati nel 1949, ma la crisi dell’industria tessile determinò la fine della Camera del lavoro di Vaiano, che, per il calo degli iscritti, fu costretta a cessare la sua attività nel giro di pochi anni. Il permesso per l’apertura della sala cinematografica nel nuovo politeama non venne concesso per ragioni politiche, ed il locale dovette essere venduto: si riaffacciò così l’esigenza di edificare una Casa del popolo.

Ma il momento non era propizio perché proprio in quegli anni il governo Scelba-Saragat (ribattezzato “governo SS” dai lavoratori) scatenò la sua offensiva contro le Case del popolo, decidendo, nel 1954, di recuperare allo stato tutti i beni che erano appartenuti al disciolto Partito nazionale fascista ed assestando, in tal modo, un duro colpo al movimento circolistico (nella sola provincia di Firenze, fra il 1953 ed il 1955, furono chiuse ben ventitré Case del popolo).

Nel corso degli anni Sessanta, col venire meno dello scelbismo e con l’avviarsi verso un risultato positivo della lenta gestazione del centrosinistra, il quadro politico si fece meno sfavorevole, mentre si rafforzava la coscienza che le case del popolo dovevano essere sempre più delle strutture capaci di coinvolgere ampi strati sociali e classi di età diversa. Per altro verso, l’aumento del reddito e dei consumi, il moltiplicarsi degli apparecchi radiotelevisivi ed il diffondersi della motorizzazione spinsero la gente verso nuove forme di utilizzazione del tempo libero, determinando una seria crisi delle case del popolo.

Ebbero quindi del coraggio i sette compagni che il 24 febbraio 1961, con rogito del notaio Ugolino Golini di Firenze, costituirono l’Associazione civile Casa del popolo di Vaiano. Ricordiamone i nomi: Natale Consorti, Dino Lilli, Giorgio Oliviero Meucci, Severino Morganti, Mauro Risaliti, Giuseppe Santi e Pietro Sizzi.

L’Associazione acquistò l’immobile del vecchio teatro Gustavo Modena, per costruire, sull’area da esso occupata, la nuova Casa del popolo, ma, prima che cominciassero i lavori, dovettero passare sette anni, durante i quali vennero esaminati vari progetti, tenendo conto della realtà di Vaiano e delle capacità economiche dell’Associazione stessa.

A dare la spinta necessaria alla realizzazione dell’opera fu l’avanzata del Partito comunista alle politiche del 1968 (+1,65% alla Camera), insieme con l’esplodere della contestazione studentesca e col riaccendersi delle lotte operaie, che, in tutta Italia, determinarono un rilancio delle case del popolo.

Verso la metà di luglio del 1968 l’impresa edile Carlo Fiaschi iniziò i lavori sulla base di un progetto fatto dal geometra Alberto Pastacaldi (la direzione tecnica dei lavori venne in seguito affidata all’architetto Vinicio Brilli ed all’ingegner Umberto Fiaschi).

L’inaugurazione della nuova sede ebbe luogo domenica 20 settembre 1970, centesimo anniversario della breccia di Porta Pia.

L’apertura dei nuovi locali ha permesso alla Casa del popolo di esplicare un’attività rilevante, alla quale hanno dato un valido contributo i giovani entrati a far parte dell’associazione. Molteplici sono state le iniziative, sia ricreative sia culturali, e costante è stato l’impegno in difesa delle libertà democratiche (giova sottolineare che la Casa del popolo ha rappresentato un punto di riferimento per gli alpini inviati a sorvegliare la Direttissima durante la tragica stagione degli attentati ferroviari degli anni Settanta-Ottanta).

Ed anche oggi la Casa del popolo gode di buona salute e continua a svolgere una funzione davvero preziosa, permettendo ai lavoratori di socializzare, di ricrearsi e di allargare i propri orizzonti culturali.

Articolo pubblicato nel marzo del 2015.




La Giornata del Ricordo a dieci anni dalla prima celebrazione

A distanza di 10 anni dalla prima applicazione della legge istitutiva della Giornata del Ricordo, vale la pena di dare uno sguardo d’insieme a quella che all’inizio fu una sfida per la rete degli istituti storici della Resistenza, oggi è un patrimonio di molte esperienze, che ci consegna anche un’eredità di riflessioni sul rapporto storia-memorie-usi pubblici della storia. La storia di “dolore ed esilio” delle popolazioni del Confine orientale era considerata storia negata; la scena fu occupata allora da conflitti di memorie e usi politici delle vicende di tutta quell’area: foibe, violenze, l’abbandono delle terre che ne erano state teatro: il lungo esodo da Venezia Giulia, Istria e Dalmazia. Nel tempo il fenomeno nazionale della crescita delle date del calendario della memoria ha fatto riflettere sulla creazione di quelli che Giovanni De Luna ha definito “pilastri dell’albero genealogico della nazione”, avvenimenti del nostro passato che si sceglie di ricordare, lasciandone cadere nell’oblio altri. Quella che la Giornata del Ricordo ha voluto sottrarre al silenzio ormai non è più una storia negata. Si sono moltiplicate ricerche nuove, la letteratura e la memorialistica prima a circolazione soprattutto locale hanno raggiunto grande visibilità, scuola e istituzioni puntualmente rispettano il dettato della legge.

partenze

Partenze di profughi da Pola, 1947

Quella di cui si tratta non è questione locale e concentrata tra le prime violenze delle foibe istriane -1943 – e l’esodo, ma parte di un dramma che ha coinvolto milioni di europei durante e dopo la seconda guerra mondiale, “laboratorio” della storia complessa del Novecento: tra guerre, violenze, foibe, diplomazia. Guido Crainz, in un libricino pensato per la buona divulgazione, parlò di «un calvario che ha riguardato milioni di persone […] fra tensioni e conflitti di lungo periodo, l’incubo del nazismo, le macerie materiali e ideali della guerra e i processi traumatici di costruzione di un’Europa ‘divisa’» (Il dolore e l’esilio, 2005). Rimanendo entri i limiti cronologici del Novecento, la Grande Guerra aveva lasciato tensioni legate alla nazionalità, nelle zone di confine tra Italia e paesi slavi, cresciute con i processi d’italianizzazione forzata imposti dal fascismo. Alla deflagrazione della seconda guerra mondiale si accompagnarono gli orrori della guerra fascista nei Balcani (il “testa per dente” contro i partigiani slavi della famosa Circolare 3C Roatta), l’occupazione tedesca del Litorale Adriatico, le Resistenze antifasciste italiana e slava e l’esplosione delle violenze. In forma più o meno sotterranea, l’ombra di quegli eventi s’allunga fino alle strategie della tensione dell’Italia repubblicana.

Guardando alla diffusione delle conoscenze nella società e nella scuola, il bilancio è di una crescita quantitativa di sapere, in parte di coscienza critica, indispensabile per distinguere il lavoro di onesta divulgazione dalle incursioni della politica in argomenti delicati, ancora vivi nelle memorie e nelle implicazioni con le storie di tempi vicinissimi a noi. Sapevamo poco, prima del 2005, degli oltre cento centri nazionali di raccolta profughi, dei luoghi della memoria, del viaggio del piroscafo Toscana e delle traversìe dei profughi (dalle stime tra 200.000 e 350.000), accolti anche in Toscana, in centri di raccolta – il più noto Laterina (AR), la cui esistenza è documentata fino al 1963. Non disponiamo di dati certi sugli arrivi: da un censimento del 1956 si rilevarono 6.074 presenze.

confineA dare strumenti per far crescere le conoscenze ha agito la risorsa-rete nazionale degli istituti storici della Resistenza, collegata anche ad associazioni e centri culturali, come la Società di Studi fiumani di Roma. Essenziale il contributo dell’Istituto regionale del Friuli Venezia Giulia, dalla cartografia del “Confine mobile” all’abbondante storiografia; l’Istituto piemontese organizzò nel 2005 a Torino un corso di formazione, da cui gli istituti toscani riportarono un patrimonio di sapere, inizio del percorso, ancora in atto, di studio, elaborazione didattica, invenzione di iniziative originali di studio e divulgazione. Fu momento di svolta un triennio di lezioni e laboratori che coinvolsero un gran numero di insegnanti, iniziativa istituzionale, sostenuta dalla Regione Toscana e dalla Direzione scolastica regionale, coordinata dall’Istituto di Grosseto in collaborazione con l’ISRT, premessa al viaggio di studio di un gruppo di insegnanti, uno per ciascuna provincia.

L’itinerario del viaggio, seguendo le tappe dei luoghi di memorie dolorose e del “confine mobile”, completò la mappa delle conoscenze. A Trieste, alla Risiera di San Sabba, le tracce dell’orrore dei forni crematori nazisti, accanto a quelle della violenza del fascismo di Confine – Narodnj Dom e Sinagoga. Ma lo sguardo su Trieste era diretto a trovare segni di una città-incrocio tra due linee di confine: nord-sud, est-ovest, confronto e convivenza plurisecolare tra culture. A Gonars ci fu la scoperta del lungo silenzio italiano sul campo di concentramento fascista per slavi, quasi introvabile, a oltre sessant’anni privo di un memoriale. L’Istria e Basovizza mostrarono i segni di altri orrori: gli infoibamenti di italiani, nella fase di persecuzione slava di italiani, nel contesto di un conflitto tra Resistenze e fascismi, ma anche nazionale. In Istria, le campagne dell’interno testimoniavano l’abbandono, porte e finestre chiuse da decenni in città come Albona la definitiva e quasi totale estinzione della comunità italiana. A Padriciano fu ultima tappa del viaggio il Centro raccolta profughi, temporanea dimora di chi aveva scelto di partire, lasciando oggetti, che oggi invece di farsi osservare come indizi di vita passata suscitano una sensazione di morte.

Centro raccolta profughi di Padriciano (Trieste)

Centro raccolta profughi di Padriciano (Trieste)

Il racconto del viaggio è parte essenziale del ruolo che l’esperienza toscana ha avuto nel trasferimento di conoscenze e nella formazione culturale e civile nelle scuole toscane e in ambienti vari, non solo toscani. Un documentario, una mostra itinerante, la diffusione di strumenti didattici che ogni anno si sono affinati, “beni culturali durevoli”, che hanno impedito di disperdere l’eredità di un esperimento interessante, stimolando al contrario altro lavoro. Attualmente sono a fuoco altri temi di studio, altri itinerari, che hanno dilatato il tempo oggetto di interesse e di sperimentazione didattica fino all’epoca dell’esplosione delle nazioni nella ex-Jugoslavia, partendo dallo scoppio della Grande Guerra, come i viaggi a Sarajevo.

Un percorso durato dieci anni ha incrociato momenti storici e geo-politici diversi. Quello attuale richiede con urgenza la sottolineatura della lezione che i più riflessivi tra gli intellettuali nati e vissuti nelle terre di confine o esuli consegnano: il confine come luogo di confronto e non di scontro e negazione dell’altro, la diversità di culture come ricchezza, la conoscenza come mezzo necessario per misurarsi con memorie difficili e lutti non elaborati. Per questo abbiamo a cuore, tra le lezioni che una ricca e buona storiografia ha offerto, quella di Marta Verginella, storica italiana nell’Università slovena di Lubiana, doppia “identità”, in termini linguistici e culturali, per sensibilità vicina a protagonisti della grande letteratura di confine, come Claudio Magris. Conviene raccogliere le buone lezioni, proprio ora che il corso della storia presenta preoccupanti indizi di segno opposto, con forme inedite di violenza e rifiuto dell’altro, in cui l’Europa forse sperava di non doversi più imbattere.

Articolo pubblicato nel febbraio 2015.




Un’isola cooperativa

Il 1848 è un anno cruciale, sia nella storia europea che nel Comune di Castagneto Carducci.Il territorio di Castagneto fu infatti dominato per secoli dalla grande proprietà nobiliare, che per un periodo prese il nome di Comunità dei Gherardesca; nel 1848 le tensioni tra i castagnetani e la potente famiglia sfociarono in una serie di moti e di atti di violenza contro le proprietà dei nobili padroni. Per porre fine alle violenze furono concesse delle “preselle” (parcelle di terreno): ciò portò alla nascita di una nuova classe sociale di piccoli possidenti, i presellai, di orientamento piccolo borghese cattolico e conservatore, e all’inizio dell’emancipazione dei castagnetani dagli antichi rapporti di potere.

Fu proprio all’interno di questa nuova e vivace classe che nacque la cooperazione nel Comune di Castagneto; anzi si potrebbe dire che il cooperativismo fu uno strumento di unione sociale per i piccoli proprietari e un mezzo di sostentamento alle loro attività e di emancipazione dai vecchi sistemi di potere.

Nel 1884 si formò la Società Operaia di Mutuo Soccorso: a dispetto del nome questa società era nata nell’ambiente dei presellai e il suo obiettivo era quello di soddisfare i bisogni dei piccoli proprietari e dei loro braccianti.

Nel 1902 nacque la Cooperativa di Consumo e Agricola di Castagneto Marittimo (in seguito cambiò la ragione sociale in Cooperativa Agricola di Castagneto Carducci): ancora una volta furono alcuni presellai che promossero questa realtà. Si trattava di una cooperativa di consumo che si occupava di vendere derrate alimentari – ramo che poi fu chiuso perché poco remunerativo – e attrezzi agricoli e concimi ai soci. La cooperativa fu la prima nel Comune a vendere i concimi chimici che da tempo erano usati nel resto d’Italia: sicuramente questo fatto era un riflesso della presenza delle preselle, le quali portarono una ventata di novità nelle colture e nelle tecniche di coltivazione, trasformando anche il paesaggio che era da tempo immutato.

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negozio della coop la proletaria Donoratico, via aurelia 1959

Infine, nel 1910, si formò, ancora all’interno della classe dei piccoli possidenti cattolici, la Cassa Rurale, ancora oggi in attività.

In questa prima fase la cooperazione castagnetana restò molto legata all’agricoltura, riflettendo la società e l’economia del paese, quasi esclusivamente rurale.

Gli anni del fascismo furono anni duri per la cooperazione. Dopo l’attacco squadristico alla cooperazione durante i primi anni Venti si arrivò a quella che è conosciuta come la Normalizzazione fascista, ossia alla costituzione dell’Ente Nazionale per la Cooperazione Fascista e l’irreggimentazione dei vari sodalizi, perseguita sostituendo i consigli di amministrazione con persone favorevoli al Regime.

A Castagneto non si sentirono né le scosse dell’attacco squadristico né il giro di vite successivo. Una delle ragioni di questa relativa tranquillità è da ricercarsi nel fatto che una delle massime cariche del Regime, il presidente del Tribunale Speciale e castagnetano Antonino Tringali Casanuova, fu egli stesso socio onorario di una cooperativa formatasi durante il Regime (la Cooperativa Dopolavoristica) e funse da “ombrello protettivo” contro le durezze della Normalizzazione per le altre coop del territorio. Del resto la cooperazione affondava le proprie radici in una classe borghese e cattolica, lontana dagli ideali socialisti avversi al Regime: ad esempio durante gli anni della Grande Guerra il presidente della Cooperativa Agricola fu il futuro presidente del PNF locale; inoltre, proprio in questi anni si costituì una cooperativa di consumo a Bolgheri che fu promossa da un rappresentante degli antichi padroni – e ora alleatisi con il fascismo, il conte Ugolino Della Gherardesca.

Dopo la liberazione di Castagneto, nel 1944, le cose cambiarono radicalmente. Alcuni esponenti delle grandi casate si erano schierati con le forze antifasciste, ma ciò non bastò a ricostruire il loro antico potere: dopo la guerra il baricentro politico del Comune si spostò a sinistra, e il volto del Comune cambiò radicalmente.

Oltre alla creazione di nuove cooperative sin dai primi giorni della Liberazione (come la Cooperativa di consumo del Popolo di Donoratico o la Rinascita, che i occupava della ricostruzione dopo il passaggio della guerra) anche quelle nate durante il Fascismo vennero riattivate con nuovi consiglieri e soci. Del resto anche l’economia del territorio, da secoli votata all’agricoltura, stava subendo un processo di diversificazione delle attività: la proliferazione di cooperative, durante la seconda metà del XX secolo seguì questo processo, giocando un ruolo importante.

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Commesse dello spaccio della Proletaria a Donoratico, via aurelia, 1958

Iniziò ad espandersi il nucleo abitativo, soprattutto a Donoratico: dagli anni sessanta sino alla fine degli anni Ottanta vi furono delle cooperative edilizie, impegnate anche nella costruzione della zona di edilizia popolare dopo l’attuazione della legge 167 (come la Cooper Castagneto Carducci); vi furono cooperative legate al settore del turismo (Altro Spazio); esperienze legate ai nuovi settori produttivi, come la cooperativa formata dai dipendenti del Cantiere Navale di Donoratico; vi furono esperienze di cooperazione cattolica (la cooperativa Aclista) – per quanto non fortunate. Dopo la guerra e l’abbandono delle campagne dei castagnetani che cercavano lavoro nei poli artigianali e industriali vicini (Cecina, San Vincenzo e Piombino) i grandi proprietari fecero venire manodopera dal Sud, soprattutto dalle Marche: anche negli anni successivi i marchigiani continuarono ad arrivare, in cerca di terra e lavoro, formando a loro volta delle cooperative (un esempio ne è la Stalla Sociale, promossa da marchigiani e in attività dalla fine degli anni Sessanta agli anni Ottanta). La cooperazione che nella prima metà del novecento era chiusa nei confini comunali si aprì all’esterno, sia per l’apporto dell’immigrazione meridionale che per delle realtà promosse da cooperatori del Nord. L’agricoltura continuò a giocare un ruolo di primo piano: si formarono anche delle cooperative agricole, come il Germinal, un esperimento interessante promosso alla fine degli anni Settanta da giovani castagnetani che volevano fare una scelta di vita e di lavoro “in comune”.

Un ultimo cenno è doveroso fare a tre realtà ancora oggi in attività e in espansione nel territorio. La prima è la Banca di Credito Cooperativo di Castagneto Carducci, costituita nel 1910 come Cassa Rurale di Depositi e Prestiti da cattolici e presellai: dopo gli anni del fascismo, che la portarono verso la chiusura, nel dopoguerra la Cassa si riprese, cominciando ad espandersi nella provincia di Livorno e di Grosseto, arrivando a contare oggi più di 20 filiali; Unicoop Tirreno, nata come La Proletaria nel 1945 tra gli operai dell’ILVA di Piombino è presente a Donoratico dal 1954: oggi la cooperativa è estesa su quattro regioni; Terre dell’Etruria, una coop agricola impegnata in vari settori agroalimentari e tecnici, con oltre 3300 aziende agricole associate, nacque nel 1950 come Cooperativa Produttori Donoratico e dopo il lavoro dei primi anni di raccolta e commercializzazione del latte, è oggi una realtà importante diffusa nelle province di Livorno, Pisa e Grosseto.

Articolo pubblicato nel febbraio 2015.




Un secolo ed un architetto: Giovanni Michelucci

Il 7 aprile 2014 siamo giunti alla terza presentazione del documentario, sottotitolato in inglese, Giovanni Michelucci. Elementi di vita e di città, regia di Cristiano Coppi, al Cinema Odeon di Firenze realizzato con la Provincia di Pistoia la Fondazione Giovanni Michelucci di Fiesole con il contributo della Regione Toscana e in quest’occasione con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia in collaborazione con l’Università di Firenze, Dipartimento di Architettura DIDA/Festival Internazionale di Architettura in video MEDIARC.

Le precedenti presentazioni erano state al cinema Globo di Pistoia nel dicembre 2012 e al Museo MAXXI di Roma nel maggio 2012.

Il documentario racconta i cento anni vissuti da Giovanni Michelucci e i momenti che hanno segnato la sua vita di uomo e di architetto. Attraverso filmati dell’epoca, riprese delle sue opere più importanti e interviste, il documentario vuole descrivere la complessità ed il fascino di un personaggio di cui tanto si è scritto ma che ancora oggi conserva molti aspetti da esplorare. Collaboratori, architetti e storici dell’architettura, come Claudia Conforti, Paolo Portoghesi, Corrado Marcetti, Mauro Innocenti, Marco Dezzi Bardeschi, Francesco Dal Co, solo per fare qualche nome, hanno raccontato le molteplici sfumature di uomo che ha attraversato un secolo, il secolo breve cogliendone i mutamenti. La puntuale regia di Cristiano Coppi si è avvalsa di un comitato scientifico composto da Andrea Giraldi, Matilde Montalti e Alice Vannucchi.

Nato il 31 dicembre 1890 a Pistoia in una famiglia proprietaria di un’officina per la lavorazione artigianale e artistica del ferro, si diploma all’istituto Superiore di Architettura dell’Accademia di Belle Arti, nel 1914 ottiene la licenza di professore di disegno architettonico; insegnerà presso l’istituto superiore di architettura di Firenze e sarà eletto Preside della Facoltà di Architettura nel 1944.
Durante la grande guerra Michelucci realizza una cappella sul fronte orientale vicino a Caporetto: più volte sarà costretto a confrontarsi con gli effetti della catastrofe (la ricostruzione del centro di Firenze dopo la seconda guerra mondiale, la risistemazione del quartiere popolare di S. Croce dopo l’alluvione, la chiesa a Longarone dopo la tragedia del Vajont). Dopo la guerra lascia le “Officine Michelucci”. All’ambiente artistico pistoiese, in cui svolge un ruolo importante di riferimento intellettuale, appartiene anche Eloisa Pacini, raffinata pittrice, che sposa nel 1928 conosciuta frequentando politici, intellettuali, pittori e musicisti mondanità di Roma dove vive dal 1925.
La sua adesione al regime fascista e oculate frequentazioni lo portano nel 1933 ad essere coordinatore del gruppo toscano e alla vittoria nel concorso per la Stazione di S. Maria Novella a Firenze con un’opera di valore internazionale per le qualità funzionali e per l’inserimento nel contesto storico e urbano.
3Dopo la guerra, che osserva da lontano isolandosi  nella sua casa alla Cugna, immersa nella natura della montagna pistoiese e che sarà nuova fonte di ispirazione,  crea la rivista “La Nuova Città”, espressione di un nuovo atteggiamento verso la società, dialogante e partecipativo, propone per la ricostruzione della zona attorno a Ponte Vecchio ipotesi innovatrici che s’infrangono di fronte alla tendenza conservatrice della città. Nel 1948 Michelucci lascia la presidenza della Facoltà di Architettura di Firenze passando alla facoltà d’ingegneria di Bologna; continua la ricerca di un nuovo linguaggio dell’architettura: la concezione dello spazio percorribile, la città variabile, un nuovo rapporto antico-moderno che si esprime anche nell’uso congiunto della pietra e del mattone con il cemento armato, l’acciaio e i nuovi materiali, così le idee prendono forma come  per la Chiesa di San Giovanni Battista sull’Autostrada del Sole, a Campi Bisenzio, conclusa nel 1964, trait d’union di un paese in pieno miracolo economico, nella quale Michelucci anticipa i temi di una Chiesa in mutamento come sarà sancito dal concilio Vaticano II, o con la Chiesa di Borgo Maggiore, nella Repubblica di S. Marino.

6Nel 1967 progettò con Mauro Innocenti l’ospedale di Sarzana affrontando così il tema della degenza, ma la costruzione, avviata nel 1974 si protrasse per decenni e non poté vederla ultimata.

Nel 1972 nel saggio Brunelleschi mago,pubblicato con l’editore  ed amico pistoiese Tellini, con la postfazione di Mario Aldo Toscano. Bruno Zevi scrive su “L’Espresso” dei colloqui informali e antiaccademici di Michelucci con Brunelleschi. Il titolo è suggerito da un passo di Kafka “Perché mago? Non so, ma è capace di provocare un vivo sentimento di libertà…”. Wanda Lattes in un  intervista a Michelucci presso la sua casa al Roseto a Fiesole descrive il libro come un “volumetto elegante, raffinato senza illustrazioni, spoglio di banali concessioni alla civetteria consumistica” con chiaro intendimento pedagogico e civico, nato non ambizione filologica ma come proseguimento di quelle lezioni impartite per anni in cattedra. Mario Toscano l’ha ascoltato per anni, poi ha iniziato a registrare i suoi discorsi spontanei; uno scritto che nasce quindi come discorso socratico tra un docente e tanti non individuati discenti.

michelucciNel 1974 muore la moglie Eloisa ed inizia un nuovo decennio creativo e progettuale. Nel 1982 Giovanni Michelucci costituisce con la Regione Toscana ed i comuni di Fiesole e Pistoia la “Fondazione Michelucci”, mentre una donazione di disegni al Comune di Pistoia costituisce il “Centro di documentazione Giovanni Michelucci” di Pistoia.

Le pagine de La Nuova Città,  riflettono su temi come Carcere e città, Scuola e periferia, Città e follia, e portano all’ideazione del Giardino degli incontri nel carcere fiorentino di Sollicciano, un progetto sviluppato dal 1986 con i detenuti per creare un luogo di incontro  con i familiari, ultimato nel 2007. Il 31 dicembre 1990 muore a Fiesole.

Alice Vannucchi  è ricercatrice presso l’Istituto storico della Resistenza e della società Contemporanea di Pistoia,  è membro della redazione della rivista “Quaderni di Farestoria”, è docente nella scuola primaria dal 2007. Fra le sue pubblicazioni: Il rientro in città: il problema degli alloggi, in Pistoia fra guerra e pace a cura di M.Francini, I.S. R.Pt. Editore, 2005. Teorie di democrazia in Italia e Francia nel dopoguerra in “Quaderni di Farestoria”,anno VIII-n2 maggio –agosto 2006,pag.61-69. Le scuole di partito nel PCI di Togliatti.Il caso toscano (1945-1953) in “Quaderni di Farestoria”,anno XII-n 2- maggio –agosto 2010,pagg.33-45. Ha curato la mostra e il numero monografico Cupe Vampe: la guerra aerea a Pistoia e la memoria dei bombardamenti, ISRPt. Attualmente si occupa di storia sociale e storia dell’editoria.

Articolo pubblicato nel dicembre 2014.




“Oggi e domani”

“Pace”, “lotta al fascismo”, “democrazia” e “socialismo”: intorno a queste  parole si è sviluppato il lungo percorso umano e politico di Enzo Enriques Agnoletti che attraversa il cuore del Novecento.

Cresciuto in una famiglia della borghesia intellettuale e laureatosi in Legge con Piero Calamandrei, a cui restò sempre legato dalla frequentazione della La Nuova Italia, casa editrice animata da giovani intellettuali antifascisti, fino all’impegno dell’immediato dopoguerra ne “Il Ponte” prima come redattore fino alla direzione della rivista dopo 1956 per circa un trentennio succedendo proprio al suo maestro.

Il percorso di formazione e attività politica e intellettuale di Enzo Enriques Agnoletti è sicuramente legato al ruolo di primo piano svolto nel corso della Resistenza fiorentina e toscana nelle file del Partito d’Azione, il partito della “rivoluzione democratica” che tanta parte ebbe nell’opposizione e nella lotta al fascismo e di cui fu anche rappresentante all’interno del Comitato Toscano di Liberazione Nazionale (CTLN) oltre che estensore di manifesti e documenti di tale organismo. Tra questi l’ordine del giorno del 3 gennaio 1944 in cui chiede che il Ctln si costituisca come “governo provvisorio di Firenze e provincia” e quello dell’11 agosto dello stesso anno in cui si invita la popolazione all’insurrezione contro il nazifascismo.

La stampa clandestina azionista a partire dal periodico “Oggi e domani” a “La Libertà” lo vide tra i principali animatori e redattore assai attivo mentre la sua militanza antifascista lo porterà al carcere e al confino. Insieme a Carlo Ludovico Ragghianti e soprattutto Ernesto Codignola proprio nella stampa azionista tratteggia già durante la clandestinità i lineamenti di una concezione di stato democratico e federalista in netta rottura non solo ovviamente con il ventennio mussoliniano ma anche con lo stato liberale e monarchico.

Il nesso Resistenza-Costituzione-Repubblica democratica a partire dall’insegnamento di Calamandrei è da lui declinato con particolare attenzione anche ai diritti sociali oltre che civili e con una forte accentuazione di una prospettiva di trasformazione in senso socialista. A dieci anni dalla liberazione lo stesso Calamandrei aveva notato come “…per compensare le forze di sinistra di una rivoluzione mancata, le forze di destra non si opposero ad accogliere nella Costituzione una rivoluzione promessa” ovvero quello che veniva individuato come il carattere “programmatico” della carta costituzionale (pieno diritto al lavoro, decentramento, ampio riconoscimento dei diritti civili e sociali ecc.). Nella sua lunga militanza Agnoletti, insieme all’amico e collaboratore Ernesto Codignola e al gruppo fiorentino di matrice azionista, cercò di essere costantemente attento a questa dimensione senza dimenticare, aspetto legato anche alla sua conoscenza della lingua inglese come traduttore per alcuni anni della casa editrice La Nuova Italia, la dimensione internazionale dei problemi geopolitici che la giovane Repubblica democratica. Da qui anche l’impegno per un’Europa federale ed autonoma dai blocchi politico-militari guidati delle superpotenze della Nato (Usa) e del Patto di Varsavia (Urss).

Ma l’attività di Agnoletti non si limitò a quella strettamente culturale incarnando da subito una figura di intellettuale-militante, tipica dell’antifascismo europeo novecentesco, oggi del tutto scomparsa e che lo spingerà dopo aver condiviso con Ernesto Codignola le esperienze della diaspora azionista (e la stagione di Unità popolare, a fianco di Ferruccio Parri, nata per contrastare la cosiddetta “legge-truffa” maggioritaria del 1953) alla militanza nel Partito socialista fino all’espulsione nel 1981 insieme all’amico Codignola in netto contrasto con il nuovo corso del partito inaugurato dalla segreteria di Bettino Craxi.

Vicesindaco nella giunta del centrosinistra fiorentino guidata da Giorgio la Pira dal 1961 al 1964 il suo nome resta anche legato alla stagione che vede Firenze come uno dei principali centri della distensione internazionale, della “diplomazia dei popoli”, oltre all’elaborazione del piano regolatore, lo sforzo per fare della città un modello di dialogo tra il mondo cattolico e le forze laiche e socialiste. E  in questo senso la nettezza delle sue posizioni a favore del  Divorzio e contro il Concordato tra Stato e Chiesa cattolica non si tradurranno mai in atteggiamenti di pregiudiziale chiusura verso l’universo religioso ma resteranno rivolti sempre a forte critica verso scelte e posizioni ben precise della Chiesa cattolica (e della Democrazia cristiana) non impedendogli rapporti di stima e amicizia con una figura centrale del cattolicesimo democratico fiorentino e nazionale come Giorgio La Pira.

Negli anni sessanta e settante molte delle sue energie verranno incanalate nelle solidarietà con il Vietnam e contro la guerra in Indocina ad opera degli Usa. Sono gli anni, soprattutto la seconda metà degli anni sessanta e la prima dei settanta del novecento, di intensi scambi e qualificate collaborazioni con associazioni, fondazioni e organismi internazionali, a partire dal Tribunale Russell, che lo vedono impegnato intensamente, in prima persona spesso a proprie spese.

Eletto nel 1983 nelle liste della Sinistra indipendente al Senato (di cui ricoprirà anche la carica di vicepresidente) l’anno dopo sarà tra i più convinti oppositori dell’istallazione dei missili a Comiso.

Presidente della Fiap (Federazione italiana associazioni partigiane) dal 1976 al 1986 non ha mai interrotto il suo impegno per la valorizzazione del patrimonio dell’antifascismo e della Resistenza, italiana ed europea, soprattutto delle sue correnti socialiste, Agnoletti è sempre stato vicino all’Istituto storico della Resistenza in Toscana, presso cui sono depositate anche parte delle sue carte relative all’attività di resistente mentre l’archivio personale ha trovato posto presso l’Istituto universitario europeo.

Lo sdegno morale per le ingiustizie e le atrocità di cui quasi ogni mattina abbiamo notizia leggendo i giornali” da Agnoletti attribuito ad Olaf Palme, leader socialdemocratico svedese a lui vicino, è in realtà la stessa molla etica e politica che ha guidato la sua lunga e ricca esistenza dall’impegno partigiano a quello internazionalista, dalle sponde dell’Arno a quelle del Mekong del martoriato Vietnam trasformando l’indignazione “in scelta politica concreta, che deve naturalmente tenere conto delle circostanze”.

Bibliografia essenziale

Giuseppe Sircana Ad vocem, Treccani.it

Enzo Enriques Agnoletti. L’utopia incompiuta del socialismo, a cura di Andrea Becherucci e Paolo Mencarelli, “Il Ponte”,LXX, nn.1-2 (gennaio-febbraio 2014)

Articolo pubblicato nel dicembre 2014.




Romano Bilenchi, a 25 anni dalla morte

Venticinque anni fa, il 18 novembre 1989, moriva nella sua casa di via Brunetto Latini, a Firenze, Romano Bilenchi. Aveva da poco compiuto 80 anni (era infatti nato il 9 novembre 1909 a Colle di Val d’Elsa), aveva lavorato fino all’ultimo ai suoi progetti letterari, portando avanti quella tenace volontà di riscrittura (che significa anche ripensamento, riconsiderazione, analisi) che da sempre caratterizzava come un tratto distintivo il suo lavoro.

Nella sua casa – da cui ormai da anni non si allontanava più, per l’aggravarsi della malattia che lo affliggeva – aveva esercitato il suo ruolo di intellettuale, di coscienza critica e di testimone del suo tempo; lo aveva fatto in modo appartato e dimesso, senza spocchia o boria, discutendo tuttavia animatamente e calorosamente, con grande schiettezza, insomma dialogando nel senso più pieno del termine, con chiunque, amici intellettuali, giovani, semplicemente amici, si rivolgesse a lui, anche con la curiosità di ascoltare le sue parole, gli infiniti episodi della sua vita, da autentico “narratore orale” quale era stato definito.

Nel momento in cui ci si avvicina a Romano Bilenchi, ci si scontra immediatamente con la complessità irriducibile della sua figura e con la stratificazione di interessi (culturali, letterari, politici) che la connotano (dunque di prospettive o punti di vista con cui è possibile accedervi). E’ proprio questo elemento a rendere particolarmente arduo il tracciarne un profilo, un ritratto, che risulterà sempre inevitabilmente una copia sbiadita e parziale del modo di essere di Bilenchi.

Certo, l’approccio più immediato e all’apparenza (solo all’apparenza, però) più facile è quello che lo vede testimone impegnato inromano-bilenchi-160x250 prima persona nelle vicende del suo tempo, che lo vede cioè attraversare il labirinto del Novecento, con le ideologie, le incurvature, le idealità, le delusioni che lo hanno caratterizzato. Bilenchi muore proprio in quel 1989 che vede la caduta del muro di Berlino, ovverosia di uno dei simboli del percorso travagliato del Novecento, che chiude il ‘secolo breve’ e questa coincidenza di date getta una luce particolare sul nostro discorso.

Bilenchi si muove nello spazio temporale del Novecento attraversandone i momenti più emblematici: pur venendo da una tradizione familiare socialista, aderisce in gioventù al fascismo, con la forza ‘eversiva’ di un giovane che vede in quel movimento lo strumento per rompere con il passato, nella convinzione di voler partecipare alla costruzione di un mondo nuovo, di una nuova società, fondata su nuovi valori morali.

Ma l’adesione al fascismo non significa affatto una identificazione acritica o un annullamento della coscienza critica; al contrario Bilenchi si trovò ad esercitare la sua adesione da uomo libero, e fu proprio questo esercizio di libertà del pensiero, unito all’incondizionato riconoscimento del valore in sè dell’amicizia, ad erodere dal di dentro le sue convinzioni e a collocarlo su un nuovo fronte. Si è definito Bilenchi ‘fascista di sinistra’, così come si è parlato di ‘fascismo rivoluzionario’, per sottolineare il fortissimo senso antiborghese e anticapitalistico delle sue posizioni. Definizioni che a stento racchiudono la complessità delle scelte e del pensiero bilenchiani.

“Fascista lo sono stato quando ero più giovane, soprattutto quando ero un ragazzo. (…) ora se debbo dirle la verità non lo sono più”: così ad Ezra Pound, ma è solamente una delle tante ammissioni (o confessioni) di un mutamento ideologico che Bilenchi ci consegna con una folgorante, essenziale semplicità.

bilenchi-bottone“Non essere più fascista” ci rivela in controluce la sensazione sgradevole e amara di speranze tradite, di disillusioni e delusioni andata maturando nel corso di tanti anni e insieme l’esercizio di una coscienza critica inesausta, che lo conduce a scelte diverse, a trovare nuovi orizzonti, dunque un nuovo spazio ideologico in cui riversare il peso delle speranze e degli ideali per un mondo nuovo.

Bilenchi si muove con passione e passioni, sul versante delle ideologie del Novecento, non è un gretto opportunista o un voltagabbana, ma un uomo che crede e difende i suoi valori appassionatamente, che sa compiere scelte di campo. Passione e amicizia costituiscono chiavi di lettura significative nel percorso umano e politico di Bilenchi.

Se era stato un fascista non accomodante e per molti aspetti scomodo, Bilenchi sarà ancora un comunista non ortodosso, capace di coniugare la carica sovversiva, antiborghese, anticapitalistica del comunismo con la sua idea di libertà e di uomo. Altra definizione, quella di comunista liberale, che presenta gli stessi limiti di cui dicevamo.

Bilenchi aderì al PCI con convinzione, senza dubbio, ma per tutto il resto della vita ebbe bisogno di ripercorrere e spiegare (spiegarsi) quello che era successo a lui e ad un’intera generazione. Da qui, il lavorio continuo di riscrittura, di scavo e di illuminazione sui percorsi segreti della sua parabola. Da qui emerge ancora l’intreccio indissolubile tra la passione politica e la scrittura, la letteratura. Ma emerge anche, senza retorica, la categoria dell’amicizia, che è la chiave per penetrare nell’uomo, nella personalità di Bilenchi e che ha ispirato alcune delle sue pagine più belle.

L’amicizia, la condivisione di destini, non sempre e non necessariamente di idee, la comprensione tra uomini costituiscono un valore ininterrottamente affermato da Bilenchi, nell’arco della sua esistenza e della sua produzione letteraria. “L’unica cosa che vale è l’amicizia e tenersi stretti tra coloro che, o fessi o intelligenti, sono in buona fede”: così scrive, nel 1935, a Mino Maccari, offrendoci un’altra scoperta ammissione, di cristallina semplicità ma insieme di grande vigore.

romano bilenchiDopo la liberazione di Firenze e dopo l’impegno in prima persona nella Resistenza, Bilenchi si dedica ad una intensa attività pubblicistica, a testimonianza del suo impegno civile. Straordinaria è l’esperienza del “Nuovo Corriere”, da lui diretto, che diventa a poco a poco un momento di incontro e confronto delle forze democratiche fiorentine, un momento di feconda apertura culturale. Per otto anni, Bilenchi si concentra sul lavoro giornalistico, trascurando la letteratura; vi tornerà dopo la ferita del 1956, dopo cioè la chiusura del quotidiano, riprendendo così il lavorio di scavo e riscrittura a lui congeniale, con nuovi progetti editoriali.

Bilenchi infine rientra nel PCI nel 1972, nel momento in cui si apre una nuova fase politica per il partito, tornando così ad impegnarsi in prima persona per la costruzione di una nuova sinistra.

Le date che, sommariamente, abbiamo indicato rappresentano autentici snodi della storia del Novecento italiano e vedono sempre Bilenchi impegnato ad offrire contributi significativi. Accanto a questo, intrecciata con tutto questo, la passione per la letteratura, l’esercizio, anche se talvolta trascurato per lunghi periodi, della scrittura, con prove che lo collocano tra i più grandi autori del Novecento. E certo quest’ultimo, non secondario aspetto della personalità di Bilenchi, pure noi lo abbiamo trascurato e ce ne rammarichiamo, consapevoli dell’inestricabile intreccio di passioni che ci offre.

Articolo pubblicato nel novembre 2014.




La fontana “Riti di primavera” il capolavoro di Jorio Vivarelli realizzato in collaborazione con Oskar Stonorov e ispirato alle “Le Sacre du Printemps” di Igor Stravinskij.

Sono trascorsi cinquant’anni da quando nel dicembre del 1964 Jorio Vivarelli vinse il Concorso Internazionale bandito dalla Città di Philadelphia e dal Fairmount Park Association  con il progetto, elaborato in collaborazione con gli architetti Stonorov e Haws, di una grandiosa fontana destinata al centro urbano di quella città. L’opera allora si affermò per la sua straordinaria innovazione formale tratta com’è dai motivi ispirati ad un’opera di Stravinskij “La sagra della primavera”, sorprende ancora oggi quanti, come il critico Ragghianti, hanno potuto ammirarne “la rotazione centrifuga dei corpi quasi, un rito di danza nel contesto delle forme scultoree”.

Chi era Oskar Stonorov? Scopriamolo guardando il suo ritratto

Jorio Vivarelli ritrae l’architetto Oskar Stonorov subito dopo aver appreso della sua precoce scomparsa in seguito ad un disastroso incidente aereo nel maggio del 1970. Si tratta di un ritratto che Vivarelli tiene in casa fino alla fine dei suoi giorno e che entra nella collezione della Fondazione pistoiese, a lui intitolata, solo dopo la scomparsa dell’artista pistoiese avvenuta il 1 settembre del 2008. Si tratta di un ritratto teso ad evocare la personalità dell’amico architetto Oskar Stonorov nato nel 1905 a Francoforte sul Meno figlio di padre russo, poi naturalizzato statunitense. Bruno Zevi nel numero speciale de «L’architettura cronache e storia» del giugno 1972 lo descrive dotato di “una personalità multiforme, straordinariamente energica e incisiva”; a sua volta Frederick Gutheim nella stessa rivista scrive: «Stonorov era uno sportivo oltre che un artista, andava a cavallo, giocava a tennis, nuotava. Guidava una delle auto di moda dell’epoca, una Moon. Era pianista dotato, frequentava le sale da concerto come i nights. La sua formazione cosmopolita era rafforzata dalla conoscenza di quattro lingue, ma non si può dire che venisse ammirato dagli americani. Era ben accetto da coloro che avevano familiarità con il mondo dell’arte, come Lewis Mumford, e dall’influente circolo di persone che si raccoglievano intorno al Museum of Modern Art di New York».

Vivarelli traduce la “straordinaria energia” dell’amico concentrandosi nello sguardo pungente, nelle sopracciglia ben alzate, nelle pupille che sembrano schizzar fuori dalle orbite, aggiunge poi un sorriso-smorfia per sottolineare quanto fosse puntiglioso, critico e attento verso se stesso e  verso gli altri. Il lungo collo infine, sottolinea la postura eretta e un’andatura scattante, propria di chi affronta la vita di petto. Si direbbe, guardando il ritratto, che Stonorov non era certo, a prima vista, un soggetto, affabile!

Stonorov era stato tra i primi a scegliere la frontiera americana dopo aver studiato al Polytechnique di Zurigo e aver lavorato nello studio di Andrè Lurcat a Parigi dove fece amicizia con Willy Boesiger e Giovanni Vedres con i quali più tardi collaborò al riordino degli archivi di Le Corbusier e partecipò, sotto la sua diretta supervisione, alla stesura dei testi che composero «L’opera completa di Le Corbusier et Pierre Jeanneret» il cui primo volume fu pubblicato nel 1929. In quell’anno Stonorov si stabilì in America, prima a New York nello studio di Harvey Corbett poi, a Philadelphia, dove nel 1930 aprì uno studio con i 6.000 dollari che si era aggiudicato piazzandosi al secondo posto, con il tedesco Alfred Kastner, nel concorso per il Palazzo dei Soviets a Mosca.

A Philadelphia realizzò il primo progetto pubblico di edilizia del New Deal, dedicato a un eroe del sindacalismo Carl Mackley Houses, che fu salutato con favore da Henry Wright e Lewis Mumford in un articolo della rivista «Fortune».

Successivamente disegnò con George Howe e Louis Kahn un piano residenziale per alcune città della Pennsylvania. Con Kahn nel 1943 scrisse «Why City Planning Is Your Responsibility» e nel 1944 «You and Your Neighborhood… A Primer for Neighbohood Planning».

L’anno in cui Stonorov incontrò Vivarelli era il 1951 allorché, assieme a Carlo Ludovico Ragghianti, si stava occupando di allestire a Palazzo Strozzi una mostra antologica dedicata a Frank Lloyd Wright che ritornava in Italia per ricevere a Firenze la cittadinanza onoraria e a Venezia la laurea honoris causa. Quella mostra ebbe il merito di far conoscere all’Italia la grandezza di Wright e l’architettura cosiddetta “organica”.

La passione di Stonorov per la scultura lo portò a incontrare Renzo Michelucci recandosi una domenica mattina nella sua fonderia a Pistoia. Jorio, che vi lavorava, ricordò così quel loro primo incontro. «Era domenica mattina, dovevo consegnare un lavoro e stavo facendo ore di straordinario. Sentii suonare alla porta, all’inizio feci finta di niente ma poi la scampanellata riprendeva con ancora più insistenza. Mi alzai molto contrariato e aprii la porta, vidi un uomo alto, calvo con due spalle da lottatore. “Sono l’architetto Stonorov mi faccia entrare”. “Qui lei non mette piede se non chiede il permesso al Cavalier Renzo Michelucci, la sua casa è quella là” e richiusi la porta mentre questi continuava a replicare. “Lei non sa chi sono io!” Non passò neanche dieci minuti che Stonorov tornò in fonderia con Michelucci rosso per la rabbia».

Il secondo incontro tra Stonorov e Vivarelli avvenne all’inaugurazione della mostra di Wright a Firenze. Da quel momento fra i due nacque un’amicizia che durò quindici anni e permise a Vivarelli, di lì a poco, di lavorare negli Stati Uniti dove insieme progettarono e realizzarono grandi opere. Stonorov, come Michelucci, nutriva un’attenzione particolare nei confronti dei problemi legati all’edilizia delle comunità in genere e dei lavoratori in specie. La sua idea era supportata dal convincimento che l’architettura potesse migliorare le condizioni di vita dell’uomo. Stonorov che si definiva «lecorbusiano per intelletto, wrightiano per istinto e toscano di adozione».

Fu così che Vivarelli e Stonorov realizzarono per Walter Reuther, presidente del grande United Auto Workers Union, il Villaggio nel Black Lake (UAW Family Center Education) che doveva coinvolgere in “toto” la vita del lavoratore e rendere umana e gradevole la vita dei workers.

Sempre ispirato dal concetto di un’arte al servizio della comunità, Stonorov negli anni Sessanta, invita Vivarelli, appena giunto negli Stati Uniti, a pensare a sculture e monumenti che stessero nelle piazze come punti d’incontro degli spazi urbani nelle nuove città. Fu così che Stonorov coinvolse Vivarelli nel progetto per la realizzazione di un quartiere a Philadelphia costruito secondo i concetti pensati da Reuther, un quartiere dove le varie classi sociali si fondevano senza entrare in conflitto, rispettose ognuna del proprio ruolo.

Adamo e evaL’affinità tra Stonorov e Vivarelli nasceva dal fatto che il primo, avendo studiato presso lo scultore Aristide Maillol, ammirò subito la forza della modellazione plastica e la grande abilità manuale di Vivarelli e quindi insieme modellarono fontane come quella chiamata “Tuscan Girls” per il Palazzo Plaza in Benjamin Franklin Parkway, il bronzo “Adamo ed Eva” sempre a Philadelphia, la fontana “Le Bagnanti” per la piazza dello Stephen College nella città di Columbia nel Missouri.

 Il capolavoro indiscusso dei due amici, Vivarelli-Stonorov è “Riti di Primavera” del 1964 opera che risulterà vincitore del concorso internazionale indetto negli Stati Uniti dalla Città di Philadelphia per l’erezione di un grande monumento nella centralissima Piazza Kennedy.  La giuria era composta da nomi prestigiosi quali gli scultori Norman Rice nonché da Philp Price, presidente della Fairmont Park Art Association e già nel dicembre del 1963la stampa ne dà il primo annuncio ricordando che «… a vincere il concorso, cui avevano partecipato 200 artisti di tutto il mondo e un solo italiano, è stata l’opera “Riti di primavera” che trae ispirazione da motivi del compositore russo Stravinskij. Ha un’altezza di 9 metri, un diametro di 30 ed è composta da grandiosi gruppi bronzei. Sorgerà nel moderno centro di Philadelphia accanto alle opere che da venti anni si stanno attuando in questa città secondo lo sviluppo urbanistico e artistico previsto dal Piano Regolatore»

Riti di primaveraDobbiamo purtroppo ricordare che la nuova amministrazione della città di Philadelphia non riuscì ad inserire il progetto nel nuovo piano finanziario e lo abbandonò. Per tale ragione il modello di Riti di primavera è rimasto finora un soggetto di grande respiro scenico conservato dall’autore. Un vero peccato che nessun Ente locale o regionale abbia ancora pensato a trasformarlo in un monumento pubblico che, per la sua straordinaria bellezza, adornerebbe anche il più importante spazio urbano.

La scultura “Riti di primavera” prende ispirazione da “Le Sacre du Printemps” composta da Igor Stravinskij che è stata definita la “Nona sinfonia del XX secolo”.

La prima rappresentazione della “Sagra della primavera” del compositore russo ebbe luogo il 28 maggio del 1913 al Theatre des Champs Elisee di Parigi sotto la direzione di Pierre Monteaux con una orchestra tra le più colossali mai viste prima d’allora, infatti, oltre al folto stuolo di archi, Igor Stravinskij inserì ottavini, flauti, oboi, il corno inglese, clarinetti, fagotti, 8 corni, 4 trombe, tromboni, tube, timpani, grancasse, tamburelli, piatti, cimbali antichi e uno strumento sudamericano chiamato guiro.

Da una tale massa di strumenti scaturì una “granitica sonorità orchestrale” che, spazzando via le tante Primavere sdolcinate del passato, produsse un nuovo concetto di bellezza fatto di armonie e sonorità incredibili che s’abbattevano violentemente sull’ascoltatore con una sonorità brutale, selvaggia e aggressiva per rappresentare  le forze scatenate dalla natura.

Stravinskij descrisse una primavera che nasce dalle viscere della terra, con forze primordiali cito le sue parole“si contorcono negli spasmi della riproduzione”. I barbari e crudeli riti della Russia pagana celebravano l’avvento della primavera e culminano con il sacrificio della vergine.

Il capolavoro appartiene al periodo stilistico fauvista del compositore russo di origine poi naturalizzato francese e in seguito statunitense. Nato nel 1882 lasciò la Russia per la prima volta nel 1910 dirigendosi a Parigi per assistere al balletto ”L’uccello di fuoco”. Durante il soggiorno compose tre importanti opere per balletti russi; “Uccello di fuoco”, “Petruska” e “La sagra della primavera”.

Le tre opere segnano l’evoluzione del cammino stilistico di Stravinskij: “Uccello di fuoco” ha uno stile che si accosta a quello di Korsakov, mentre “Petruska” è l’avvento della bidimensionalità sonora per giungere, infine, alla dissonanza polifonica e selvaggia della “Sagra della primavera”. Come disse lo stesso Stravinskij, “con queste prime l’intento che riposto dietro a queste opere era quello di “a quel paese” il pubblico”. E ci riuscì benissimo, infatti la premiere della Sagra del 1913 si trasformò in una sommossa, come più oltre vi dirò.

Costume di scenaNel balletto il compositore mette in scena un rito pagano di inizio primavera tipica della Russia antica. Una giovinetta viene scelta per ballare fino allo sfinimento e la sua morte era un sacrificio offerto agli dei per renderli propizi in vista della nuova stagione.

Sono molti i passaggi famosi, ma due appaiono degni di particolare menzione: in primo luogo il motivo di apertura del fagotto con note portate all’estremo del suo registro, quasi fuori estensione, per simulare un risveglio di primavera, in secondo luogo il poliaccordo di otto note eseguito dagli archi e accentuato da corni in controtempo.

La ritmica ossessiva unita alla politonalità suscitò scandalo nella Parigi dell’epoca.

L’azione del balletto come la musica si struttura in due parti: la melodia del fagotto sembra provenire da profondità ancestrali accompagnata da tremolii e trilli che evocano il fremito della natura che sboccia e germoglia. Poi irrompe un suono martellante e sincopato formato da accordi sovrapposti (settima di mi bemolle accordo perfetto di fa bemolle maggiore) che introducono la Danza degli adolescenti.

È come una flagellazione, un corto circuito dal quale tutto scaturisce e prende vita tramite un ritmo ossessivo, implacabile che attraversa gli episodi delle Città rivali, del Corteo del Saggio e dell’Adorazione della terra.

Nella seconda parte il sacrificio inizia con un preludio nel quale l’intensità della linea melodica evoca un’atmosfera triste e meditativa.

Il Saggio e le fanciulle immobili guardano il fuoco davanti alla collina sacra: devono scegliere l’Eletta, colei che sarà sacrificata per propiziare la fertilità della Terra.

Subentrano poi violenti accordi che con cadenza martellante introducono l’episodio dei “Cerchi misteriosi degli adolescenti” mentre incalza la danza frenetica della Glorificazione dell’Eletta.

Arriva, infine, la danza sacrificale dell’Eletta.

La danza cresce vorticosamente, il ritmo diventa parossistico, tutti gli uomini sono selvaggiamente eccitati, la musica gronda nel più profondo del proprio essere (così scrisse Bechèr).

Il rito pagano nella inesorabile logica del sacrificio ci colpisce con la sua barbara violenza riportandoci alle origini ancestrali dell’esistenza umana.

Jean Cocteau parla di dolori dell’infanzia della terra e, parafrasando un’opera poetica di Virgilio definisce la partitura della Sagra una “Georgica della preistoria”.

La prima esecuzione del brano in quel lontano 29 maggio del 1913 provocò una violentissima reazione del pubblico. La musica fu coperta dai fischi e dalle grida.

Stravinskij fuggì dal teatro e ma fu inseguito, raggiunto e malmenato. Sfinito e con una vertebra rotta si ammalò a tal punto da essere ricoverato in ospedale.

Riporto qui di seguito un efficacissimo commento su quella serata fatto dallo stesso Stravinskij.

“I danzatori avevano provato per mesi e sapevano benissimo quel che facevano, anche se spesso quel che facevano non aveva niente a che vedere con la musica. ” Conterò fino a quaranta mentre tu suoni, – mi diceva Nizinskij (il maestro di ballo),- e vedremo dove ci incontreremo”. Non arrivava a capire che, benchè potessimo ad un certo punto incontrarci, questo non voleva dire necessariamente che fossimo andati insieme durante il percorso. Anche i danzatori seguivano più la battuta di Nizinskij che quella della musica. Nizinskij contava in russo, naturalmente, e poiché i numeri russi oltre il dieci sono polisillabi nei tempi veloci né lui né gli altri potevano tener dietro alla musica. Fin dall’inizio della rappresentazione si sentirono moderate proteste contro la musica. Poi, quando il sipario si alzò sul gruppo di fanciulle della “danza degli adolescenti”, la tempesta scoppiò. Dietro di me gridavano Taci Basta Basta le più agitate erano, naturalmente, le signore più eleganti di Parigi. Visto che il tumulto continuava e, pochi minuti dopo lasciai furioso la sala… Arrivai dietro il palcoscenico, dove vidi Diaghilev che faceva manovrare le luci in sala nell’ ultimo sforzo di far tornare la calma in teatro. Per tutto il resto della rappresentazione stetti dietro le quinte vicino a Nizinskij reggendolo per le code del frac, mentre lui in piedi su una sedia urlava dei numeri ai danzatori come un timoniere.

La danza cresce vorticosamente, il ritmo diventa parossistico, tutti gli uomini sono selvaggiamente eccitati, la musica gronda nel più profondo del proprio essere (così scrisse Bechèr). Il rito pagano nella inesorabile logica del sacrificio ci colpisce con la sua barbara violenza riportandoci alle origini ancestrali dell’esistenza umana.

Jean Cocteau parla di dolori dell’infanzia della terra e, parafrasando un’opera poetica di Virgilio definisce la partitura della Sagra una “Georgica della preistoria”. La prima esecuzione del brano in quel lontano 29 maggio del 1913 provocò una violentissima reazione del pubblico. La musica fu coperta dai fischi e dalle grida.

Stravinskij fuggì dal teatro e ma fu inseguito, raggiunto e malmenato. Sfinito e con una vertebra rotta si ammalò a tal punto da essere ricoverato in ospedale. Riporto qui di seguito un efficacissimo commento su quella serata fatto dallo stesso Stravinskij.

“I danzatori avevano provato per mesi e sapevano benissimo quel che facevano, anche se spesso quel che facevano non aveva niente a che vedere con la musica. ” Conterò fino a quaranta mentre tu suoni, – mi diceva Nizinskij (il maestro di ballo),- e vedremo dove ci incontreremo”. Non arrivava a capire che, benchè potessimo ad un certo punto incontrarci, questo non voleva dire necessariamente che fossimo andati insieme durante il percorso. Anche i danzatori seguivano più la battuta di Nizinskij che quella della musica. Nizinskij contava in russo, naturalmente, e poiché i numeri russi oltre il dieci sono polisillabi nei tempi veloci né lui né gli altri potevano tener dietro alla musica. Fin dall’inizio della rappresentazione si sentirono moderate proteste contro la musica. Poi, quando il sipario si alzò sul gruppo di fanciulle della “danza degli adolescenti”, la tempesta scoppiò. Dietro di me gridavano Taci Basta Basta le più agitate erano, naturalmente, le signore più eleganti di Parigi. Visto che il tumulto continuava e, pochi minuti dopo lasciai furioso la sala… Arrivai dietro il palcoscenico, dove vidi Diaghilev che faceva manovrare le luci in sala nell’ ultimo sforzo di far tornare la calma in teatro. Per tutto il resto della rappresentazione stetti dietro le quinte vicino a Nizinskij reggendolo per le code del frac, mentre lui in piedi su una sedia urlava dei numeri ai danzatori come un timoniere.

Articolo pubblicato nel novembre 2014.




Ilio Barontini. Un protagonista dell’antifascismo internazionale

Ilio Barontini nasce a Cecina (Livorno) il 28 settembre 1890 da due genitori di origini contadine ed è il secondo di cinque figli. Il padre in seguito ad una malformazione che ne causò il ricovero a Roma riuscì a frequentare una scuola professionale e grazie alle competenze lì acquisite fu chiamato dalla famiglia Wassmuth (famiglia valdese da lungo residente a Livorno) ad occuparsi delle loro fabbrica di pipe in città. Ilio presto si sposerà e avrà due figlie, Nara nata nel 1915 ed Era nata nel 1923.

Viene richiamato alle armi durante la 1ᵃ Guerra ma dopo un breve periodo viene destinato alla produzione bellica alla Breda di Milano. Alla fine del conflitto entra come operaio nelle officine ferroviarie della stazione di Livorno. Nel 1920 lo troviamo esponente del Consiglio provinciale del Sindacato Ferrovieri e nel Comitato federale del Psi. Sempre nel 1920 diviene consigliere del Comune di Livorno ed è presente nella giunta Mondolfi con la delega alle finanze come assessore supplente.

Aicvas0003Nel 1921 aderisce alla formazione del Partito Comunista d’Italia, sezione della IIIᵃ Internazionale. Assume da subito ruoli di rilievo e si trova a difendere, in contrasto con il centro del Partito, l’adesione dei comunisti agli Arditi del Popolo a fianco degli anarchici, repubblicani e socialisti. Svolgerà un ruolo centrale nel’organizzazione dello sciopero della fine di luglio, organizzato dall’Alleanza del Lavoro. Fu in quell’occasione, in cui la città labronica si trasformò in un vero e proprio scontro armato, che vennero distrutte le sedi della Camera del Lavoro, dello SFI e del PCd’I e avvenne l’assalto all’abitazione dei fratelli Gigli con la morte di Pietro.

Dopo la marcia su Roma viene licenziato insieme a tutti i ferrovieri attivi nella lotta contro lo squadrismo. Tra il 1923 e il 1924 subisce tre arresti, con proscioglimento e assoluzione per insufficienza di prove. Diventa un militante “dormiente” e entra e va a lavorare nella ditta del padre.

Dal 1931 si trova in Francia dove lavora tra gli emigrati e per conto del centro del Partito comunista fino a quando, alla fine del 1932 parte per l’Unione Sovietica dove svolgerà un lavoro politico tra i lavoratori marittimi e poi entrerà come operaio in una fabbrica aereonautica dell’Armata Rossa. Durante il soggiorno sovietico frequenterà il corso per quadri dell’Internazionale. Nel 1935 torna in Francia e da qui poi verrà inviato a combattere in Spagna come ufficiale di Stato maggiore della XII Brigata internazionale. Partecipa alla battaglia in difesa di Madrid, a quella di Albacete e poi al combattimento presso il fiume Jarama. Nel frattempo è divenuto commissario politico del battaglione che si trova sotto il comando militare di Randolfo Pacciardi. Quando Pacciardi sarà ferito in battaglia, il comando, anche militare, passa a Barontini che dirigerà la battaglia di Guadalajara, battaglia che si protrae più di dieci giorni. Dopo questa prova viene nominato commissario politico di Divisione ma alla fine di settembre a causa di un comportamento che verrà sanzionato dal nuovo comandante Klèber come poco ortodosso con l’assenso di Togliatti e contro il parere di Vidali e della Teresa Noce, ritorna in Francia.

In Francia, da parte del Centro estero del Pci, per mezzo di Di Vittorio, gli viene ordinato di recarsi a combattere in Etiopia accanto alla resistenza etiope dove sarà poi raggiunto dallo spezzino Domenico Rolla e da Anton Ukmar. Prenderanno i nomi di battaglia dei tre apostoli: Paulus, Petrus e Johannes, e agiranno in tre zone diverse del paese. Barontini nel territorio di sua competenza riuscirà anche a stampare un giornale bilingue, “La voce degli Abissini”. Sulla loro testa verrà messa una taglia e facendosi il pericolo troppo grave, i tre rientrano passando da Khartoum dove Barontini è accolto dal generale Alexander che più tardi gli conferirà la Bronze Star. Sarà un’esperienza che probabilmente gli tornerà utile per la resistenza armata contro i tedeschi, sia in Francia che in Italia.

Immagine Barontini da diapIn Francia è già in atto l’occupazione tedesca e Barontini rientrato col nome di battaglia “Giobbe” nel sud della Francia, organizza i gruppi dei franc tireurs preparando anche azioni clamorose come quella contro l’Hotel Terminus di Marsiglia, sede del comando delle SS che sarà fatto saltare per aria. Dopo l’8 settembre ritorna clandestinamente in Italia e per ordine del Partito è inviato a costruire i GAP (Gruppi d’azione patriottica).

Con il nome di “Fanti” si sposta tra Emilia Romagna, Piemonte, Toscana, Veneto e Lombardia. Dall’ottobre 1943 è a Bologna dove dirige la lotta armata. Nel maggio del 1944 con il nome di battaglia “Dario” dirigerà per il Pci, l’azione politica delle formazioni partigiane. A giugno prende il governo del Comando Unico Militare dell’Emilia Romagna. Dirigerà con esito positivo la battaglia di Porta Lame a Bologna del novembre 1944 e quella di Monte Formia nel modenese. Alla fine della guerra ritorna a Livorno, entra nel Comitato Centrale del Partito comunista, viene eletto deputato all’Assemblea costituente e segretario della Federazione del Partito comunista a Livorno.

Con le elezioni de 1948 diventa senatore della Repubblica con l’incarico di sottosegretario della Commissione Difesa. Quelli che in quel periodo l’hanno conosciuto ne hanno tramandato un’immagine mitica e, se vogliamo, anche stereotipata. Vestito di un impermeabile sdrucito sembrava aver mantenuto le abitudini della clandestinità, atteggiamento non solo probabile ma comprensibile e, non solo suo, ma di tutti quelli che nel ventennio si erano dovuti guardare non solo le spalle, considerati gli anni cupi in cui si erano trovati a vivere. La morte sopravverrà repentina per un incidente stradale il 22 gennaio 1951. Insieme a lui moriranno altri quadri dirigenti di quel Partito che si vedrà decapitato da cause esterne e imponderabili e per il quale comincerà una lunga fase di transizione verso un nuovo gruppo dirigente.

Oltre alla decorazione della Bronze Star ricevette da Giuseppe Dozza, sindaco di Bologna, il titolo di cittadino onorario della città. Ricevette anche dal’Unione Sovietica il prestigioso Ordine della Stella Rossa.

Articolo pubblicato nell’ottobre 2014.