L’occupazione nazista di Monsummano, 1943-1944

I giorni successivi all’Armistizio furono terribili per l’Italia e per i suoi abitanti: anche Monsummano, paese pistoiese di 9647 abitanti nel 1944, fu profondamente sconvolto con l’immediato arrivo di colonne motorizzate naziste.

Durante la guerra furono più di 800 i monsummanesi richiamati alle armi e a settembre la maggior parte di loro fece ritorno a casa fra pericoli e difficoltà. I meno fortunati vennero catturati dai tedeschi e sfruttati come forza lavoro o imprigionati nei lager con la qualifica di Internati Militari Italiani: nell’archivio locale sono presenti ben 26 domande di liberazione redatte dalle famiglie o dai datori di lavoro.

Un fenomeno nato con l’occupazione nazista fu quello degli helpers, persone che dettero protezione agli ex-prigionieri militari alleati in fuga dai campi d’internamento italiani: assicurarono loro vitto, vestiti e alloggio. A Monsummano le richieste di riconoscimento nel dopoguerra furono soltanto due, da parte di Matteo Mattei e Ulderigo Giovannelli, ma non siamo a conoscenza dell’esito; tuttavia, sappiamo che Mattei, residente a Montevettolini, dopo aver dato riparo ad alcuni soldati alleati ed esser stato denunciato dai repubblichini locali, fu arrestato e rinchiuso in un campo di lavoro, riuscendo poi a fuggire.

Casa del fascio di CintoleseIn tutta la RSI furono organizzate retate dai tedeschi e dai repubblichini per la cattura e la deportazione degli ebrei. Il 5 novembre 1943 una perlustrazione organizzata dal fascio monsummanese portò al fermo di sei ebrei: Giulio Melli (74) e sua moglie Giuseppina Coen (74); Elio Melli (39), figlio di Giulio, e sua moglie Vilma Finzi (33); Sergio (10) e Giuliana Melli (3), figli di Elio. Un altro uomo, Carlo Levi (72), fu imprigionato il 14 febbraio 1944. I sette furono internati nel campo di concentramento di Fossoli e da lì partirono con i treni in direzione Auschwitz: nessuno tornò più a casa.

Il comando provinciale nazista era collocato a Pistoia mentre leggi e ordinanze venivano divulgate nei comuni dal commissario prefettizio, ruolo ricoperto prima da Gildo Rubino poi dal professore Italo Giampieri. Fra i numerosi decreti emanati occorre ricordarne alcuni: la presentazione obbligatoria per i militari rientrati dopo l’8 settembre; il divieto di aiutare i soldati angloamericani; la consegna di tutte le armi; le speciali disposizioni sulla circolazione dei veicoli; la proibizione di ascoltare canali radio ostili; il coprifuoco dalle 22 alle 5; le norme sull’oscuramento; la lotta al mercato nero; l’obbligo di eliminare ogni riferimento alla passata monarchia dalle intitolazioni.

Un grave problema che afflisse la comunità fu quello degli sfollati, persone provenienti dai luoghi più disparati che cercavano rifugio e protezione. Nella città valdinievolina furono ospitati in case libere o abbandonate, negli edifici scolastici, in locali di fortuna, spesso sprovvisti di sufficienti condizioni sanitarie e alimentari.

Quotidiani allarmi risuonavano nell’abitato, soprattutto nelle ore notturne: la sirena era installata in casa del capo guardia Nazzareno Pieri presso il palazzo comunale. A Montevettolini, Giuseppe Francini suonava le campane della chiesa per informare la popolazione. Durante gli allarmi, gli abitanti solevano scappare nella campagna e nei rifugi; già dal febbraio ‘44 gli enti comunali avevano provveduto a costruire trincee e difese antiaeree. La città termale non subì mai un completo bombardamento aereo, fu però cannoneggiata e mitragliata diverse volte dagli alleati che causarono 12 vittime.

In paese fu attiva l’organizzazione nazista Todt con sede nello stabilimento termale e hotel della Grotta Giusti, reclutando personale civile in parte aderente e in parte obbligato: innalzarono un fortino in cemento armato, edificarono varie baracche in legno e scavarono una galleria a forma di ferro di cavallo nella Cava Rossa. Un distaccamento dell’amministrazione tedesca fu alloggiato alla Grotta Parlanti e le due grotte vennero collegate telefonicamente con un filo volante spesso sabotato. Inoltre, da inizio giugno fino al 14 luglio, il quartier generale di Albert Kesselring, comandante della Wehrmacht in Italia, fu situato alla Grotta Giusti.

Nel corso della stagione estiva i nazisti in ritirata furono colpevoli di una scia di massacri perpetuati ai danni della popolazione civile ed esportarono, senza nessun accorgimento giuridico, bestiame, cibo, vestiti e beni di qualsiasi valore. Ben 7 civili monsummanesi persero la vita prima dell’eccidio del Padule di Fucecchio (174 morti) avvenuto il 23 agosto 1944: Sereno Romani (45), colpevole di aver difeso una parente vittima di un tentativo di stupro; Bruno Baronti (20) e Foscarino Spinelli (20, di Lamporecchio) accusati di essere partigiani; Brunero Giovannelli (22), colpito nel tentativo di fuga durante un rastrellamento; Marino Agostini (34), Italo Laserdi (29), Fausto Franceschi (66), Antonio Boninsegni (18 anni), accusati di effettuare segnalazioni luminosi.

Le formazioni partigiane dell’area si distinsero per attività di sabotaggio, di raccolte armi e informazioni. Erano tre: la Stella Rossa, comunista, la Corallo, partito d’azione e la Faliero. I partigiani monsummanesi furono almeno 17, i patrioti 15. Il 4 settembre 1944 un’azione congiunta delle varie squadre portò all’occupazione della città già abbandonata dai tedeschi.

Il potere politico fu assunto a partire da fine agosto da Aurelio Pestelli, proprietario della Grotta Giusti. Il C.L.N. locale cominciò la propria attività nel giugno 1944 aiutando, in ambito economico e politico, la cittadinanza e al 5 settembre risaliva la prima riunione post-liberazione nella sala podestarile del comune.

Il 9 settembre il comunista Fulvio Zamponi fu nominato all’unanimità primo sindaco di Monsummano mentre il democristiano Giulio Bendinelli divenne vicesindaco.

Matteo Grasso, laureato in storia, svolge quotidianamente attività di ricerca archivistica, orale e bibliografica finalizzata all’approfondimento locale e nazionale di particolari momenti storici legati al periodo contemporaneo. Collabora sia con l’Istituto Storico della Resistenza di Pistoia (ISRPt), gestendo il sito web e facendo parte del consiglio direttivo, sia con l’Associazione Culturale Orizzonti di Lamporecchio che diffonde il mensile Orizzonti. Ha pubblicato una monografia dal titolo Guerra e Resistenza. Vicende partigiane per uno della «Bozzi», la storia personale di Doriano Monfardini e alcuni saggi riguardanti il periodo della seconda guerra mondiale sui Quaderni di Farestoria, periodico quadrimestrale dell’ISRPt. Inoltre ha partecipato a presentazioni di libri, tra i quali Achille Occhetto, a conferenze e a incontri su temi storici sia a livello comunale sia in ambito provinciale. Attualmente svolge un tirocinio per la valorizzazione storico-artistica di una villa medicea a Firenze.

Articolo pubblicato nel marzo del 2015.




Pistoia, 28 gennaio 1947: sciopero generale

I podromi del primo sciopero generale provinciale iniziarono a farsi sentire già nel dicembre 1946. Nel corso del mese il Pastificio Maltagliati a Margine Coperta e quello Giaccai di Pescia sospendevano la produzione per mancanza di farine. A Pescia anche la manifattura Cavallucci effettuava licenziamenti. Il 18 i mezzadri manifestavano massicciamente a Pistoia chiedendo l’applicazione del Lodo De Gasperi. In montagna, una serie di manifestazioni dei disoccupati in favore della ricostruzione causavano tensioni a più riprese e blocchi stradali. Anche i lavoratori ospedalieri scendevano in sciopero. Il 20 infine la fornitura di energia elettrica si interrompeva alla San Giorgio, la più importante industria della zona, bloccando la produzione. Una manifestazione di un migliaio di operai si recava in Prefettura provocando lievi scontri. Il Prefetto Mazzolani si dimostrava preoccupato. Fin dalla fine della guerra la conflittualità sociale era stata all’ordine del giorno, la disoccupazione e l’inflazione alte, ma in due anni la situazione non solo non era migliorata ma sembrava addirittura peggiorare, esasperando gli animi.

La stessa CGIL si trovava alla testa di agitazioni che a stento riusciva a controllare, specie in montagna e tra i disoccupati. Il 20 dicembre la Camera del Lavoro di Pescia votava un ordine del giorno contro il caro prezzi, che il Prefetto dispose riconoscendo che ormai il costo della vita aveva raggiunto limiti sproporzionati rispetto alle possibilità dei lavoratori e dei ceti medi. Ai primi di gennaio Mazzolani invocava al Ministero dei lavori pubblici i finanziamenti per la ricostruzione, promessi ma fermi per motivi burocratici, sottolineando che i disoccupati di San Marcello erano «ridotti alla fame» e che il rischio di nuove agitazioni era alto.

Tuttavia, la situazione a gennaio continuò ad aggravarsi. Tra il 9 e il 10 la fornitura di elettricità si interrompeva in quasi tutte le industrie della provincia, lasciando fermi più di ottomila lavoratori. Il 20 la protesta esplose a Campotizzoro. I disoccupati occuparono gli uffici telegrafici e annonari, chiedendo lavori pubblici, l’assorbimento di una parte di loro alla SMI, la riduzione dei prezzi, il pagamento del Premio Repubblica, un sussidio straordinario e la distribuzione di pasta. Gli operai della SMI entrarono in sciopero per solidarietà. I disoccupati a quel punto bloccarono anche la strada statale, desistendo solo dopo una mediazione portata avanti dai Carabinieri, dai rappresentanti della CdL e dalla Prefettura. In montagna si era intanto formato un Comitato pro-agitazione che intendeva proclamare lo sciopero. In questo contesto, il Questore si recava a Firenze per convincere il direttore della SMI, Orlando – inviso ai lavoratori per il suo coinvolgimento con il regime fascista –  ad assumere alcuni disoccupati. Orlando però rifiutava sia l’assunzione sia la successiva proposta prefettizia di partecipare a un tavolo di trattativa. Il Comitato intanto proclamava l’intenzione di riprendere l’azione entro tre giorni in mancanza di risultati.

A quel punto la Camera del Lavoro rischiava di essere scavalcata e si assunse, tra il 23 e il 24, la direzione dell’agitazione, che si stava trasformando anche in un braccio di ferro con la direzione della SMI. Venne presentato al Prefetto un piano per l’assorbimento di 350 disoccupati, 150 direttamente alla SMI e 200 presso un’azienda agricola collegata.

In montagna erano in agitazione circa duemila lavoratori, tra disoccupati e maestranze SMI, a cui si aggiunsero altri 500 operai delle Cartiere Cini. Dal 25 gli operai della San Giorgio entravano in sciopero bianco. Tutte le trattative restavano ferme al palo per il rifiuto intransigente di Orlando di sedere al tavolo, nonostante gli sforzi di Mazzolani.

Il 28 la CGIL proclamava lo sciopero generale, con una piattaforma rivendicativa ad ampio raggio:  indennità mensa; miglioramenti salariali; Premio Repubblica per le lavoranti a domicilio; applicazione dell’accordo nazionale per gli operai artigiani; miglioramenti salariali; assegni di famiglia; gratifiche natalizie ai lavoratori agricoli; applicazione Lodo De Gasperi; miglioramenti ai pensionati; ribasso generi largo consumo e tesseramento; distribuzione normale generi  alimentari; provvedimenti contro il mercato nero; risoluzione problema dell’energia elettrica.

In provincia si fermava tutto ad eccezione dei negozi alimentari e dei servizi di pubblica utilità. L’Associazione degli industriali accettava di sedersi al tavolo, ma la trattativa si preannunciava difficile. Messa alle strette, la SMI accettava l’assunzione di un centinaio di disoccupati. Tuttavia l’Associazione degli industriali subordinava la discussione di tutti i punti alla cessazione dello sciopero, cosa che la CGIL rifiutò. A quel punto nelle trattative si inserirono anche il Sindaco di Pistoia, il segretario nazionale della Fiom e la CdL di Firenze. L’accordo venne raggiunto il 30, prevedendo l’assunzione da parte della SMI di 50 lavoratori e l’avviamento al lavoro in Svizzera per altrettanti, insieme ad un sussidio. L’Associazione degli industriali si impegnava a collocarne altri 120 e a proseguire le trattative sugli altri punti, conclusesi poi in sede regionale con un nulla di fatto. Alla San Giorgio tuttavia alcuni operai intendevano continuare lo sciopero per protestare contro l’accordo, convinti a desistere da Valdesi della CGIL. Il 31 infine arrivava un altro risultato dal versante statale, con l’estensione del sussidio di disoccupazione a tutte le categorie industriali, ai braccianti e ai lavoratori edili.

L’esito dello sciopero fu incerto. Da una parte segnava un primo e palpabile successo della linea intransigente di Orlando, seppur in sordina. Dall’altra la CdL incassò alcuni risultati, sia economici che politici, ma piuttosto miseri rispetto alle richieste ed ai rischi presi. Forzata dall’agitazione dei disoccupati e probabilmente dall’entusiasmo dei militanti comunisti, la CdL usciva dallo sciopero con l’amaro in bocca e con uno strascico pesante al suo interno. Per la prima volta venne alla luce pubblicamente un dissidio tra la componente comunista, guidata da Valdesi, e quella democristiana di Turco, seppur ad acque ormai calme. L’esponente DC considerava lo sciopero in montagna mal impostato ed espresse riserve anche sulla costruzione della piattaforma, a suo dire inadatta. Le richieste erano legittime ma si era rischiato di impegnare il sindacato in una trattative lunga e pericolosa, punto su cui convergevano anche i socialisti con Morandi. I comunisti accusarono la componente DC di aver sottilmente sabotato lo sciopero. La vicenda arrivò fino a Roma, con l’ipotesi di una commissione di  inchiesta da parte della CGIL nazionale, mentre i democristiani si ritiravano dalla segreteria della Camera del Lavoro pur continuando l’attività nei sindacati di categoria.

 Stefano Bartolini è ricercatore presso l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia e coordina le attività di ricerca storica, archivistiche e bibliotecarie della Fondazione Valore Lavoro. Ha partecipato al recupero dell’archivio Andrea Devoto ed attualmente si occupa di storia sociale, del lavoro e del sindacato. Tra le sue pubblicazioni: Fascismo antislavo. Il tentativo di bonifica etnica al confine nord orientaleUna passione violenta. Storia dello squadrismo fascista a Pistoia 1919-1923Vivere nel call center, in La lotta perfetta. 102 giorni all’Answers.

Articolo pubblicato nel gennaio 2015.




Giovanni Tellini libraio ed editore

Giovanni Tellini (Firenze 1932-1984)  a fine anni ’60 lasciò Firenze, da poco alluvionata, e approdò a Pistoia.

In corso Gramsci, davanti alle sede del PCI pistoiese, aprì una piccola libreria variegata, confusionaria, piena di cose nuove …  la libreria ben presto si guadagnò l’esagerata nomea di “libreria di Mao”. Frequentata da politici, intellettuali e artisti diventò un punto di riferimento nella geografia culturale della città.

Poi il salto di qualità: nella piccola stanza senza finestra Tellini  partorì l’idea della casa editrice ed iniziò a pubblicare. Dall’arte, alla poesia, dalle prime guide turistiche ai saggi storici, il panorama si ampliò in poco tempo, le pubblicazioni  avevano recensioni e buon riscontro di vendita.
Il grande amore di Giovanni, la Maremma, grazie ad un incontro con il “custode di Roselle” Morbello Vergari (e poi con Alfio Cavoli),  divenne  musa di un’appassionata serie di pubblicazioni sulla “amara terra” e  su gli etruschi.  In quasi venti anni i titoli, frutto di questa piccola casa editrice di provincia, arrivarono a più di un centinaio.
Non da meno erano i nomi degli autori,  ed amici, che si raccoglievano intorno a Giovanni Tellini: Giovanni Michelucci, Claudio Rosati, Renato Risaliti, Domenico Maselli, i giornalisti Valeriano Cecconi e Maurizio Tuci, artisti come Fernando Melani e Sigfrido Bartolini. Una parentesi che valeva la pena di raccontare per una figura autodidatta, un uomo timido ed ironico, libraio e editore ricordato  a distanza di trent’anni dalla morte con affetto e stima.

Alice Vannucchi  è ricercatrice presso l’Istituto storico della Resistenza e della società Contemporanea di Pistoia,  è membro della redazione della rivista “Quaderni di Farestoria”, è docente nella scuola primaria dal 2007. Fra le sue pubblicazioni: Il rientro in città: il problema degli alloggi, in Pistoia fra guerra e pace a cura di M.Francini, I.S. R.Pt. Editore, 2005. Teorie di democrazia in Italia e Francia nel dopoguerra in “Quaderni di Farestoria”,anno VIII-n2 maggio –agosto 2006,pag.61-69. Le scuole di partito nel PCI di Togliatti.Il caso toscano (1945-1953) in “Quaderni di Farestoria”,anno XII-n 2- maggio –agosto 2010,pagg.33-45. Ha curato la mostra e il numero monografico Cupe Vampe: la guerra aerea a Pistoia e la memoria dei bombardamenti, ISRPt. Attualmente si occupa di storia sociale e storia dell’editoria.

Articolo pubblicato nel gennaio 2015.




Memorie di bronzo, memorie di pietra.

Era il 16 settembre 1945 quando il popolo di San Lorenzo appose sulla fiancata dell’omonima chiesa una lapide per ricordare la fucilazione di sei civili da parte dei soldati tedeschi avvenuta il 12 settembre 1943. Era il primo dei “segni di memoria” posti a Pistoia per ricordare la guerra e la Resistenza.

Inizialmente il Comune, nonostante fosse governato da PCI e PSI, dimostrò una certa riluttanza a impegnarsi in questa politica, lasciando l’iniziativa ai singoli e alle associazioni. L’iniziativa della Giunta fu probabilmente bloccata dal conflitto tra la visione della Resistenza della DC, che dominava i centri finanziari locali e tendeva a presentare l’evento come una lotta per la libertà ormai conclusa, e quella del PCI, che vedeva la Resistenza come la tappa di un processo da portare avanti.

Vi fu così una divisione urbanistica tra il centro cittadino, dove il ricordo si concentrò sui civili e i partigiani morti per mano nazi-fascista, e le chiese di periferia, dove furono poste le lapidi dedicate ai soldati.

La risistemazione nel 1959 del quadrato dei caduti nel cimitero da parte del comune segnò la fine di questa prima fase conflittuale: per la prima volta la proposta fu accettata all’unanimità dal consiglio. In secondo luogo, dal 1959 al 1984 non fu inaugurato nessun monumento di grande portata. Questo atteggiamento non si traduceva nell’accantonamento della Resistenza, anzi. In quegli anni, anche a Pistoia le cerimonie per il 25 aprile vedevano la partecipazione di tutti i partiti ciellenisti e avvaloravano il concetto di Resistenza come “secondo Risorgimento”.

Vi erano dunque altre cause. Negli anni ’60 la maggior parte di chi voleva ricordare i propri cari lo aveva già fatto, mentre l’esperienza del centro-sinistra stemperò le tensioni politiche e la contesa sulla Resistenza.

Una nuova fase fu aperta dal Sacrario per i caduti di tutte le guerre, inaugurato al cimitero di Pistoia per commemorare tutti caduti nel 1984. Era l’unico progetto a volgere in quella direzione: le altre opere (come la scultura di Flavio Bartolozzi in Piazza San Lorenzo), inserite nel tessuto cittadino e dalla visibilità pronunciata, insistevano sulla partecipazione della popolazione alla Resistenza. La sensazione è che si cercasse di ribadire una politica memoriale posta in discussione dalla fine del «compromesso storico». Il tracollo della Prima Repubblica, con la scomparsa o la trasformazione dei partiti ciellenisti, procurò ulteriori sconquassi.

A causa dell’instabilità dell’amministrazione locale tra il 1985 e il 1992, una nuova politica della memoria fu elaborata solo verso la fine degli anni ’90. Protagonisti delle commemorazioni  furono i civili: lo scopo non era più condannare la repressione nazi-fascista, ma deplorare la guerra in quanto tale.

Anche la materialità del ricordo venne meno. Le grandi lapidi in marmo hanno lasciato spazio a piccoli riquadri in pietra e a cippi orizzontali. Quasi invisibili all’occhio distratto del cittadino, i nuovi segni testimoniano il desiderio di accostarsi alla quotidianità e all’umiltà delle vittime; ma, non marcando il paesaggio, corrono il rischio di consegnare all’oblio i nomi di chi si voleva ricondurre alla luce.

Chiara Martinelli è dottoranda presso l’Università degli studi di Firenze ed è membro dal 2007 della redazione della rivista «QF. Quaderni di Farestoria». Tra le principali pubblicazioni, si segnalano: Esigenze locali, suggestioni europee. L’istruzione professionale italiana (1861-1886), «Passato e presente», n. 93, 2014, Lo sguardo ambivalente sulla tradizione nei quaderni di scuola durante il periodo fascista: Pistoia 1929, «Società e storia», n.137, 2012, Una città industriosa e la sua scuola: fondazione e primi anni di vita della Regia Scuola Industriale Antonio Pacinotti (1907 – 1924), Pistoia, I. S. R. Pt., 2010.

Articolo pubblicato nel gennaio 2015.




Un secolo ed un architetto: Giovanni Michelucci

Il 7 aprile 2014 siamo giunti alla terza presentazione del documentario, sottotitolato in inglese, Giovanni Michelucci. Elementi di vita e di città, regia di Cristiano Coppi, al Cinema Odeon di Firenze realizzato con la Provincia di Pistoia la Fondazione Giovanni Michelucci di Fiesole con il contributo della Regione Toscana e in quest’occasione con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia in collaborazione con l’Università di Firenze, Dipartimento di Architettura DIDA/Festival Internazionale di Architettura in video MEDIARC.

Le precedenti presentazioni erano state al cinema Globo di Pistoia nel dicembre 2012 e al Museo MAXXI di Roma nel maggio 2012.

Il documentario racconta i cento anni vissuti da Giovanni Michelucci e i momenti che hanno segnato la sua vita di uomo e di architetto. Attraverso filmati dell’epoca, riprese delle sue opere più importanti e interviste, il documentario vuole descrivere la complessità ed il fascino di un personaggio di cui tanto si è scritto ma che ancora oggi conserva molti aspetti da esplorare. Collaboratori, architetti e storici dell’architettura, come Claudia Conforti, Paolo Portoghesi, Corrado Marcetti, Mauro Innocenti, Marco Dezzi Bardeschi, Francesco Dal Co, solo per fare qualche nome, hanno raccontato le molteplici sfumature di uomo che ha attraversato un secolo, il secolo breve cogliendone i mutamenti. La puntuale regia di Cristiano Coppi si è avvalsa di un comitato scientifico composto da Andrea Giraldi, Matilde Montalti e Alice Vannucchi.

Nato il 31 dicembre 1890 a Pistoia in una famiglia proprietaria di un’officina per la lavorazione artigianale e artistica del ferro, si diploma all’istituto Superiore di Architettura dell’Accademia di Belle Arti, nel 1914 ottiene la licenza di professore di disegno architettonico; insegnerà presso l’istituto superiore di architettura di Firenze e sarà eletto Preside della Facoltà di Architettura nel 1944.
Durante la grande guerra Michelucci realizza una cappella sul fronte orientale vicino a Caporetto: più volte sarà costretto a confrontarsi con gli effetti della catastrofe (la ricostruzione del centro di Firenze dopo la seconda guerra mondiale, la risistemazione del quartiere popolare di S. Croce dopo l’alluvione, la chiesa a Longarone dopo la tragedia del Vajont). Dopo la guerra lascia le “Officine Michelucci”. All’ambiente artistico pistoiese, in cui svolge un ruolo importante di riferimento intellettuale, appartiene anche Eloisa Pacini, raffinata pittrice, che sposa nel 1928 conosciuta frequentando politici, intellettuali, pittori e musicisti mondanità di Roma dove vive dal 1925.
La sua adesione al regime fascista e oculate frequentazioni lo portano nel 1933 ad essere coordinatore del gruppo toscano e alla vittoria nel concorso per la Stazione di S. Maria Novella a Firenze con un’opera di valore internazionale per le qualità funzionali e per l’inserimento nel contesto storico e urbano.
3Dopo la guerra, che osserva da lontano isolandosi  nella sua casa alla Cugna, immersa nella natura della montagna pistoiese e che sarà nuova fonte di ispirazione,  crea la rivista “La Nuova Città”, espressione di un nuovo atteggiamento verso la società, dialogante e partecipativo, propone per la ricostruzione della zona attorno a Ponte Vecchio ipotesi innovatrici che s’infrangono di fronte alla tendenza conservatrice della città. Nel 1948 Michelucci lascia la presidenza della Facoltà di Architettura di Firenze passando alla facoltà d’ingegneria di Bologna; continua la ricerca di un nuovo linguaggio dell’architettura: la concezione dello spazio percorribile, la città variabile, un nuovo rapporto antico-moderno che si esprime anche nell’uso congiunto della pietra e del mattone con il cemento armato, l’acciaio e i nuovi materiali, così le idee prendono forma come  per la Chiesa di San Giovanni Battista sull’Autostrada del Sole, a Campi Bisenzio, conclusa nel 1964, trait d’union di un paese in pieno miracolo economico, nella quale Michelucci anticipa i temi di una Chiesa in mutamento come sarà sancito dal concilio Vaticano II, o con la Chiesa di Borgo Maggiore, nella Repubblica di S. Marino.

6Nel 1967 progettò con Mauro Innocenti l’ospedale di Sarzana affrontando così il tema della degenza, ma la costruzione, avviata nel 1974 si protrasse per decenni e non poté vederla ultimata.

Nel 1972 nel saggio Brunelleschi mago,pubblicato con l’editore  ed amico pistoiese Tellini, con la postfazione di Mario Aldo Toscano. Bruno Zevi scrive su “L’Espresso” dei colloqui informali e antiaccademici di Michelucci con Brunelleschi. Il titolo è suggerito da un passo di Kafka “Perché mago? Non so, ma è capace di provocare un vivo sentimento di libertà…”. Wanda Lattes in un  intervista a Michelucci presso la sua casa al Roseto a Fiesole descrive il libro come un “volumetto elegante, raffinato senza illustrazioni, spoglio di banali concessioni alla civetteria consumistica” con chiaro intendimento pedagogico e civico, nato non ambizione filologica ma come proseguimento di quelle lezioni impartite per anni in cattedra. Mario Toscano l’ha ascoltato per anni, poi ha iniziato a registrare i suoi discorsi spontanei; uno scritto che nasce quindi come discorso socratico tra un docente e tanti non individuati discenti.

michelucciNel 1974 muore la moglie Eloisa ed inizia un nuovo decennio creativo e progettuale. Nel 1982 Giovanni Michelucci costituisce con la Regione Toscana ed i comuni di Fiesole e Pistoia la “Fondazione Michelucci”, mentre una donazione di disegni al Comune di Pistoia costituisce il “Centro di documentazione Giovanni Michelucci” di Pistoia.

Le pagine de La Nuova Città,  riflettono su temi come Carcere e città, Scuola e periferia, Città e follia, e portano all’ideazione del Giardino degli incontri nel carcere fiorentino di Sollicciano, un progetto sviluppato dal 1986 con i detenuti per creare un luogo di incontro  con i familiari, ultimato nel 2007. Il 31 dicembre 1990 muore a Fiesole.

Alice Vannucchi  è ricercatrice presso l’Istituto storico della Resistenza e della società Contemporanea di Pistoia,  è membro della redazione della rivista “Quaderni di Farestoria”, è docente nella scuola primaria dal 2007. Fra le sue pubblicazioni: Il rientro in città: il problema degli alloggi, in Pistoia fra guerra e pace a cura di M.Francini, I.S. R.Pt. Editore, 2005. Teorie di democrazia in Italia e Francia nel dopoguerra in “Quaderni di Farestoria”,anno VIII-n2 maggio –agosto 2006,pag.61-69. Le scuole di partito nel PCI di Togliatti.Il caso toscano (1945-1953) in “Quaderni di Farestoria”,anno XII-n 2- maggio –agosto 2010,pagg.33-45. Ha curato la mostra e il numero monografico Cupe Vampe: la guerra aerea a Pistoia e la memoria dei bombardamenti, ISRPt. Attualmente si occupa di storia sociale e storia dell’editoria.

Articolo pubblicato nel dicembre 2014.




“Mi sa che avevano sensazioni confuse là in basso”

Il 24 ottobre 1943 gli Inglesi bombardarono per la prima volta la città, come nei giorni precedenti avevano colpito Prato, il 2 settembre, e Firenze, il 23. Che per Pistoia si stesse avvicinando lo stesso destino lo si poteva quindi supporre, un opuscolo della protezione antiaerea infatti avvertiva il 18 ottobre: «All’inizio della guerra Pistoia fu classificata di scarsa importanza agli scopi bellici. Oggi però la guerra è entrata in una fase talmente attiva e violenta che anche Pistoia ha assunto importanza ai detti effetti, e occorre mettere in atto quanto è al momento possibile, affinché la popolazione possa affrontare con animo sereno una eventuale offesa aerea».
Quella notte l’allarme durò 2 ore e 40 minuti e uno stormo di aerei Wellington britannici bombardò la città dalle 23.25 alle 24.10. Gli obiettivi sensibili della città erano sia le linee di comunicazione che le postazioni di valore militare: Pistoia infatti rappresentava un importante snodo ferroviario di collegamento tra il sud ed il nord del Paese, dato che si trovava lungo la linea ferroviaria Porrettana che costituiva un collegamento verso nord in alternativa alla linea “direttissima” da Prato. Erano poi presenti in città tre caserme militari ed un’importante industria per la riparazione di velivoli e apparati militari di notevole importanza. Le Officine Meccaniche San Giorgio erano infatti adibite alla riparazione di velivoli della Regia Aeronautica e si ipotizza che nel campo di volo adiacente alla fabbrica, presidiato da circa 300 militari tedeschi, si trovassero alcuni Messerschmitt ME323 Gigant, il più grande modello di aereo costruito durante la Seconda Guerra Mondiale.

16Il vero dramma per Pistoia fu che gli obiettivi si trovavano a ridosso del centro abitato: molte bombe sganciate per colpire i punti prefissati caddero sulle abitazioni civili nella zona a sud della città e, nonostante le precauzioni prese dalle autorità cittadine, i danni furono ingenti. Era l’UNPA (Unione Nazionale Protezione Antiaerea) a gestire i rifugi pubblici pistoiesi (una quarantina) pronti ad ospitare circa 10.000 cittadini anche grazie al fatto che, data la necessità, furono classificati come rifugi tutti gli scantinati agibili dei palazzi della città, benché non garantissero sempre una reale sicurezza. Dalla mappa dei rifugi si può vedere come la popolazione residente nella zona della “Pistoia bene”, dove i palazzi signorili erano dotati di scantinati adattabili, risultasse maggiormente protetta; diversa era invece la situazione dei quartieri popolari dove lo stesso Comitato ammise che era stato impossibile impiantare alcun tipo di rifugio. Nonostante le precauzioni in quella notte i morti furono molti; anche se il numero non è tutt’oggi ufficiale, data la discordanza delle cifre e degli elenchi delle vittime ancora sparsi tra vari archivi, una ricognizione di tutte le liste reperite attesta che le vittime siano state 157.

Perché in quella notte le sensazioni furono confuse? Innanzitutto, come emerge dalle testimonianze, il bombardamento risultò del donnatutto inaspettato e la popolazione si ritrovò disorientata, nonostante i ripetuti avvertimenti delle autorità. Dalle testimonianze emerge poi che in una parte della popolazione erano diffuse ostilità nei confronti del vecchio regime e fiducia negli alleati liberatori, ma la stampa locale, ancora sotto controllo fascista, presentò il bombardamento come un attacco terroristico ed in effetti “i liberatori” in quell’occasione risultarono la causa della distruzione diretta della città: furono loro a portare la guerra nelle case, cosa che fino a quel momento non era mai avvenuta. Quindi le sensazione confuse furono causate proprio dalla difficoltà di concepire i drammi causati dal bombardamento di quella notte come un tassello di una più ampia manovra militare di liberazione della penisola italiana. Si diffusero per questo irragionevoli interpretazioni, come che i piloti fossero ubriachi :«Quella sera si dormiva tutti. Ci svegliò mia madre perché vide i bengala e disse: “Brucia tutto il mondo!” […]ma mi avevano detto che quando si spengevano i bengala finivano di bombardare, invece fu un bombardamento terroristico perché quando finì la luce intensa dei bengala incominciò il bombardamento vero dove morì diversa gente. Poi si venne a sapere che gli aerei e i piloti erano inglesi e per di più ubriachi».

Con difficoltà questa interpretazione ha lasciato il campo a più verosimili spiegazioni di strategia militare: in realtà, ancora oggi, nella rielaborazione della memoria pubblica, la distruzione causata dai bombardamenti alleati si annovera tra quegli episodi difficilmente inseribili sia nella rappresentazione degli eventi condivisa dalla cultura istituzionale antifascista sia in un percorso di attribuzione della totalità delle colpe al nazifascismo; infatti solo negli anni Duemila sono state affisse in città due targhe in ricordo della tragedia, piccole e senza riferimenti storici precisi.

Francesca Perugi è ricercatrice presso l’ISRPt e membro della redazione dei Qauderni di Farestoria. Ha curato la mostra e l’omonimo numero monografico di QF “Cupe vampe: la guerra aerea a Pistoia e la memoria dei bombardamenti”

Articolo pubblicato nell’ottobre 2014.




“Fu una mattinata tremendissima”

Gli anni del dopoguerra sono tra i più duri per la popolazione pistoiese. Il numero dei disoccupati, dopo la fine del conflitto, sale vertiginosamente dalle seimila alle dodicimila unità, di cui almeno 2.500/3.000 nella zona montana. Si aggiunge una grave carenza dei generi di prima necessità. Pane e lavoro sono le parole d’ordine di numerose mobilitazioni sociali, che cominciano fin dal 16 ottobre 1944 con la prima manifestazione delle donne con in braccio i loro figli, e si protraggono fino alla fine degli anni ’40.
Ad una situazione economica ristagnante, con numerose aziende appena riavviate costrette a chiudere per mancanza di energia elettrica, di materie prime, di ordinazioni, con i lavori di ricostruzione – in particolare dei ponti e della ferrovia Porrettana – che tardano a partire almeno sino alla fine del 1946 e mal finanziati, quella sociale diviene l’emergenza prioritaria segnalata ogni mese a Roma dai prefetti che si succedono.

cdl anni 40Ancora nel marzo 1946 una serie di manifestazioni di donne reclama alimenti e tenta, a Pistoia ed a Pescia, di assaltare i magazzini del consorzio agrario per impossessarsi di generi alimentari da consegnare poi alle cooperative del popolo per la distribuzione. L’attivismo e il protagonismo di masse ingenti di cittadini e cittadine ereditato dall’esperienza resistenziale si esprime, oltre che nella politica di partito, in un’elevata disponibilità all’azione per migliorare le proprie condizioni di vita e cercare di dare impulso a scelte di trasformazione. Le relazioni economiche tra le parti sociali rischiano spesso di tramutarsi in conflitti diffusi. Gli attori in campo, i prefetti, i sindaci, le organizzazioni dei datoriali (Confindustria, Confagricoltura ecc…), la Camera del lavoro della CGIL unitaria, i grandi partiti come la DC, il PSI e il PCI ed il CLN fino al 1946, si trovano costantemente impegnati un un’opera di mediazione che cerca di contenere la carica esplosiva della disperazione, trovando accordi, mediazioni, persuadendo le folle di disoccupati a forme di azione responsabili e sollecitando i governi. Come scrive il prefetto Mazzolani nel luglio del ’46 i problemi «possono essere risolti solo se gli organi centrali responsabili verranno nell’ordine di idee di attuare una politica economica, finanziaria e sociale, se non rivoluzionaria, almeno coraggiosa ed aderente allo stato di necessità, in cui versa attualmente il popolo italiano, senza aver paura di toccare le posizioni privilegiate di questo o quel gruppo più o meno ristretto».

contadini piazza san francescoLa situazione più critica è in montagna, dove le uniche attività in grado di garantire l’occupazione sono le cartiere della Lima, i traballanti lavori di ricostruzione ma soprattutto la SMI. Ed è proprio in conseguenza di un duro braccio di ferro alla SMI che il 28 giugno 1947 si giunge al primo grande sciopero generale della provincia, che si risolverà in un fallimento parziale e lascerà duri strascichi di divisioni interne alla CGIL tra la componente comunista e quella democristiana.

Progressivamente le trasformazioni dello scenario politico italiano, con la rottura dell’unità antifascista al governo nel maggio 1947, l’incipiente guerra fredda, lo svilupparsi ed acuirsi di uno scontro politico ed ideologico durissimo, hanno ricadute sul contesto locale, dove questi processi si vanno ad unire alla stagnazione ed alla mancanza di risposte efficaci. Se da una parte la conflittualità popolare permane e si esaspera, dall’altra gli apparati dello Stato tra il 1947 ed il 1948 cominciano a chiudere le porte ed a leggere ideologicamente la portata di conflitti fino ad allora rimasti confinati in gran parte all’ambito economico.
La stessa gestione dell’ordine pubblico risente di questo clima da muro contro muro che si va costruendo, slittando nel corso del tempo verso soluzioni sempre più di forza. Il 1947 si chiude con la rottura delle trattative sul contratto dei metallurgici, che provoca l’invasione della sede della Confindustria da parte degli operai della San Giorgio. E pochi giorni dopo il 1948 si apre con una serie di arresti preventivi nel pesciatino che causano un nuovo sciopero generale con numerosi blocchi stradali che sfociano in gravi scontri a Bonelle. Le sinistre tentavano di giocare la carta della mobilitazione, “dare una spallata” in vista delle elezioni del 18 aprile. Il nuovo prefetto, Festa, abbandona il ruolo neutrale del funzionario statale per divenire nei fatti parte della macchina della DC, informando costantemente Scelba dei progressi del suo partito e commentando positivamente i risultati democristiani dopo le elezioni, sostenendo che la sconfitta dei socialcomunisti avrebbe liberato la popolazione da un incubo.

manifestazione schianoIn questo quadro matura uno degli eventi più tragici per la storia di Pistoia nel Novecento. Nell’estate del ’48 la SMI annuncia la sua intenzione inamovibile di procedere al licenziamento di 500 tra operai e operaie. La posizione della CGIL non ammette a sua volta mediazioni al ribasso. Ne segue una vertenza che va avanti per mesi ma che, dopo la scissione della componente cristiana della CGIL ad agosto che si riorganizza nei Sindacati liberi, per Festa diventa l’occasione adatta a scalzare il sindacato delle sinistre e favorire quello vicino al governo appoggiando al tempo stesso la direzione aziendale. Si deve dimostrare ai lavoratori l’incapacità sindacale di socialisti e comunisti. La mattina del 16 ottobre 1948 si svolge l’ennesima manifestazione di famiglie disoccupate o precarie. Dalla montagna la popolazione raggiunge Pistoia, la chiamano “La marcia della fame”. Nel capoluogo le fabbriche scioperano. Le donne guidano il corteo. Per la prima volta la prefettura si rifiuta di ricevere una delegazione dei dimostranti per discuterne l’ordine del giorno e ordina di disperdere i manifestanti. Nei violenti scontri alle cariche seguono i lacrimogeni e alla fine gli spari. Rimangono a terra sette feriti, uno dei quali in modo mortale, il venticinquenne operaio della San Giorgio Ugo Schiano.

La repressione dà un duro colpo alla strategia della Camera del lavoro, che disorientata cede. Festa commenta a Scelba: «si può facilmente desumere che gli organi sindacali si sono dovuti arrendere a discrezione, accettando le condizioni imposte dalla Società, perché si sono resi conto che l’azione sindacale, male impostata e male condotta, li aveva posti in un vicolo cieco dal quale sarebbe stato impossibile uscire senza sottoscrivere l’accordo, qualunque esso fosse. Sta di fatto che, così come è stata conclusa, la vertenza di Campotizzoro, sulla quale si è fatto tanto clamore e non è mancata la più esosa speculazione politica, costituirà un grave colpo per il prestigio della locale Camera Confederale del Lavoro, mentre se ne avvantaggeranno i Sindacati Liberi e lo stesso Partito della Democrazia Cristiana»

Stefano Bartolini è ricercatore presso l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia e coordina le attività di ricerca storica, archivistiche e bibliotecarie della Fondazione Valore Lavoro. Ha partecipato al recupero dell’archivio Andrea Devoto ed attualmente si occupa di storia sociale, del lavoro e del sindacato. Tra le sue pubblicazioni: Fascismo antislavo. Il tentativo di bonifica etnica al confine nord orientale; Una passione violenta. Storia dello squadrismo fascista a Pistoia 1919-1923; Vivere nel call center, in La lotta perfetta. 102 giorni all’Answers.

Articolo pubblicato nell’ottobre 2014.




Un altro 8 settembre. La liberazione di Pistoia

Alla fine dell’estate del 1944 Pistoia portava ben visibili i segni, materiali ed immateriali, della guerra. Colpita da stragi ed eccidi di civili – dalla strage di piazza San Lorenzo del 12 settembre 1943 fino agli impiccati a Montale il 4 settembre 1944 – bombardata più volte dall’ottobre ’43, svuotata dagli sfollamenti in campagna, la città ed il suo territorio furono investiti da un passaggio del fronte prolungato, dovuto alle attività di rallentamento messe in atto dei tedeschi, che stavano ancora ultimando la costruzione delle fortificazioni difensive sulla Linea Gotica, ed al maltempo.

Le truppe Alleate, un esercito multietnico composto da americani, inglesi, sudafricani, indiani, brasiliani ecc…, si erano attestate nella zona dell’empolese alla fine di agosto, riuscendo a passare l’Arno ai primi di settembre, ma sempre in maniera precaria, dovendo affrontare le asperità delle piogge che mandarono in piena il fiume distruggendo i ponti di barche del genio militare. Il Comando di Kesselring era ancora a Monsummano Terme, prima di essere trasferito alla Villa di Celle e di lì poi sugli appennini a Maresca. I tedeschi ostacolavano gli alleati contendendo loro ogni frazione con azioni di pattuglie che prendevano contatto per poi sganciarsi rapidamente. Al tempo stesso portavano avanti azioni di guerra ai civili, culminate nel padule di Fucecchio il 23 agosto, con 174 morti.

Sul territorio vennero a incrociarsi tre diverse strategie. La lenta ritirata tedesca sulle montagne, l’azione delle pattuglie alleate di avanguardia e l’attività delle formazioni partigiane. Già dal 12 giugno era stato infatti costituito un Comando di piazza unico per tutte le formazioni dipendenti dal Comitato Provinciale di Liberazione Nazionale (CPLN), per un totale, tra brigate e formazioni, di 23 unità garibaldine e 24 classificate come di Giustizia e Libertà, oltre a 14 gruppi socialisti e comunisti nella zona di Pescia. Esisteva inoltre la formazione di Ducceschi “Pippo”, che operava con una certa autonomia.
liberazione pistoia via abbi pazienzaLe formazioni furono in gran parte dislocate intorno al capoluogo per procedere poi all’ingresso in città. Secondo il Comando: «Il giorno 7 settembre, quando ancora le truppe tedesche si trovavano nei sobborghi di Pistoia, fu decisa dal comando di piazza l’occupazione della città. Parteciparono all’operazione tutte le formazioni non impegnate per la loro dislocazione in altri settori. L’operazione, che costò perdite notevoli, riuscì brillantemente e la città fu tenuta per quattro giorni con continue azioni di fuoco contro distaccamenti e pattuglie tedesche, sotto intenso bombardamento, fino all’arrivo delle truppe alleate. La maggior parte delle formazioni continuarono quindi le azioni contro il nemico fino allo scioglimento del comando (20 settembre 1944)».
Il CPLN ebbe come strategia politica quella di portare avanti autonomamente la liberazione del capoluogo e, dove possibile, dei paesi e delle frazioni, per dimostrare non solo la propria capacità militare ma anche quella politica e amministrativa. Come scrisse lo stesso Comitato: «il CLN dispose il concentramento delle formazioni operanti in città per l’occupazione di tutti i punti strategici ed edifici pubblici, assumendo la direzione della cosa pubblica per evitare ogni pericolosa vacanza di poteri. Il giorno 8 settembre l’occupazione del capoluogo era ultimata e il servizio di ordine pubblico disimpegnato in modo egregio dai patrioti, mentre nelle località periferiche continuava la lotta fra pattuglie partigiane in esplorazione avanzata e retroguardie tedesche».

brigata bozziIl passaggio del fronte interessò la provincia per tutto il mese, con sequenze di eventi quasi quotidiane. Il 2 settembre una prima pattuglia Alleata raggiungeva Monsummano, ritirandosi subito, mentre altre Ponte Buggianese e poi Chiesina Uzzanese, quest’ultima insieme ai partigiani. Il 3 settembre era la volta di Larciano. Il 3 e 4 settembre Borgo a Buggiano veniva prima liberata, poi rioccupata, infine liberata di nuovo dai partigiani e dalla truppe Alleate (secondo alcune fonti è il 7). Tra il 4 e il 7 settembre gli Alleati si attestavano sul Montalbano, mentre i partigiani presidiavano la zona di Quarrata. Il 5 settembre una pattuglia toccava Cantagrillo. Il 6 settembre fu constatato che il ponte sull’Ombrone a Bonelle era stato distrutto. Pieve a Nievole e Montecatini vennero raggiunte tra il 7 e l’8 settembre, ma Montecatini Terme era già stata liberata dai partigiani il 6 e Serravalle il 7. L’8 settembre veniva presa Ramini ed i partigiani sostenevano uno scontro a fuoco con i tedeschi a Marliana.
Il 12 i reparti sudafricani arrivarono a Pistoia, che era ancora sotto il fuoco delle artiglierie tedesche stanziate sugli appennini. Il fronte avanzato della Linea Gotica – Castello di Cireglio, il passo della Collina e Femminamorta – era in grado di tenere sotto tiro la piana. I tedeschi nell’approntarlo non si risparmiarono la distruzione di paesi e tratti di bosco, per avere visuale o per bloccare le strade. Questa sorte toccò a Cireglio (14 luglio) e a Croce a Uzzo. Il viadotto di Piteccio, paese già distrutto dai bombardamenti Alleati, fu fatto saltare dai tedeschi il 24 luglio. Nei pressi del ponte alla Svolte, sopra la valle della Brana, fu sistemato un cannone montato su materiale ferroviario che veniva riparato all’interno di una galleria della ferrovia e in grado di colpire la città.

alleati in piazza del duomo pistoiaIntorno al 10 di settembre la Liberazione delle zone di pianura era cosa fatta, si cominciava a risalire gli appennini. Cominciava l’esperienza di retrovia del fronte che si prolungò fino all’aprile ’45. Frattanto, l’11 settembre si toccava Marliana e si cominciava la scalata dell’appennino anche da Candeglia, scontrandosi con i tedeschi a Valdibure. Un primo tentativo di gettare un ponte sull’Ombrone a nord di Pistoia falliva. Scontri avvenivano all’inizio dell’appennino appena sopra Pistoia, intorno a Villa Philipson e alla torre di Catilina. Il 13 settembre i britannici riuscivano ad arrivare a Piazza e il 14 a Tobbiana. Ancora al 18 settembre i tedeschi erano in grado di colpire con i cannoni i ponti sull’Ombrone, come avvenne a Calcaiola. Serra fu presa il 22 e Femminamorta il 24. Il 26 era la volta del passo della Collina, Pracchia e San Marcello, mentre Maresca e Campotizzoro, sede della SMI, erano state liberate dai partigiani il 22. Il 1° ottobre gli americani arrivavano a Cutigliano e Piteglio. La zone più alte dell’Abetone e Pianosinatico rimasero invece in mano ai tedeschi. Il fronte si fermava.

I CLN si occuparono di gestire la transizione. A Pistoia l’AMG si insediò solo il 24 settembre,. Nella relazione del Comitato troviamo: «in questo lasso di tempo il CLN, che aveva funzioni di Governo, provvide alla riorganizzazione delle amministrazioni locali, attuandola nel rispetto del fondamentale canone democratico: la separazione dei poteri. La magistratura entrò immediatamente in funzione con la più completa indipendenza. La Giunta Comunale agì nella sua sfera con la massima autonomia, per quanto fosse espressione del CLN, e così la Deputazione provinciale. Tutti gli Enti Pubblici, dalla Questura alle Guardie di Finanza e i Carabinieri, dall’Intendenza di Finanza e il Consorzio Agrario e alla SEPRAL, dalla Camera di Commercio all’Ospedale, alla Camera del Lavoro, al Provveditorato agli studi, ripresero la loro normale attività». Le attività dei CLN continuarono nei mesi successivi, non solo a Pistoia ma anche in molti comuni, avviando la fase di transizione alla democrazia.

Stefano Bartolini è ricercatore presso l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia e coordina le attività di ricerca storica, archivistiche e bibliotecarie della Fondazione Valore Lavoro. Ha partecipato al recupero dell’archivio Andrea Devoto ed attualmente si occupa di storia sociale, del lavoro e del sindacato. Tra le sue pubblicazioni: Fascismo antislavo. Il tentativo di bonifica etnica al confine nord orientale; Una passione violenta. Storia dello squadrismo fascista a Pistoia 1919-1923; Vivere nel call center, in La lotta perfetta. 102 giorni all’Answers.

Articolo pubblicato nel settembre 2014.