Il riscatto della bellezza

ll 6 novembre 1966, appena due giorni dopo l’Alluvione, pochi trattennero le lacrime davanti all’imponente Crocifisso di Cimabue sfigurato nella sua quasi totalità.
Sicuramente non le trattennero Ugo Procacci, allora soprintendente di Firenze ed eroico monument man civile durante la II Guerra Mondiale, e Umberto Baldini, direttore del Gabinetto dei Restauri. Accorso in Santa Croce all’alba del 6, dopo una segnalazione dei gravi danni che avevano colpito la Basilica e il suo Museo, Procacci registrò che “la rovina della grande opera d’arte era ancora maggiore di ogni più infausta previsione; e fu questo forse per me il più tragico di questi tragici giorni”. Non un’ora ancora poteva essere ancora rimandata per tentare di salvare l’enorme tavola, capolavoro di ebanisteria e di pittura, opera simbolo di tutta l’arte medievale italiana. Fu così che, come come continuò a registrare Procacci nella relazione stilata per il Ministero della Pubblica Istruzione il 30 novembre 1966, “chiesto invano l’intervento e l’aiuto dei vigili del fuoco, la cui opera era invocata ovunque, si dové operare da soli”, come lo “smontaggio della smisurata croce dal supporto, eseguito in condizioni veramente disastrose, tra il fango altissimo con il solo aiuto di alcuni operai delle ditta Mugelli”.
il-crocifisso-di-cimabue-irrimediabilmente-danneggiatoIl Crocifisso di Cimabue fu sicuramente uno dei simboli della devastazione che colpì una quantità incredibile di opere d’arte, danneggiate sia dalla violenza dell’acqua che travolse oggetti anche pesantissimi, sia dall’azione chimica dovuta alla prolungata immersione e al conseguente deposito di fango, detriti, nafta, olio combustibile. Secondo i dati riportati da “Il Corriere UNESCO” del 1967 15 furono i musei colpiti, fra cui il Museo Nazionale del Bargello, il Museo dell’Opera del Duomo, il Museo dell’Opera di Santa Croce, i Chiostri monumentali di Santa Maria Novella, il Museo Horne, il Museo Bardini, il Museo Mediceo, Casa Buonarroti, il Museo di San Salvi, il Museo di Storia della Scienza; 18 le chiese monumentali invase dalle acque con conseguente danneggiamento di tutti gli oggetti artistici ivi conservati; un migliaio circa le opere d’arte complessivamente colpite, tra le quali 321 dipinti su tavola, 413 dipinti su tela, 3000 metri quadri di cicli di affreschi, 14 complessi di sculture, 144 sculture singole. Un complesso imponente, tra cui si ricordano la porte bronzee del Battistero, con le cornici spezzate e le formelle cadute, e la Maddalena lignea di Donatello.
Gli stessi Uffizi, così vicini all’Arno e fin da subito assediati dalle acque, avevano vissuto momenti di grande drammaticità; solo la presenza in loco del personale e la repentina messa in sicurezza delle opere collocate al piano terra impedì perdite ancora più ingenti. Verso le nove e mezzo di mattina del 4 novembre il museo era già diventato irraggiungibile da parte di chiunque; rimasero isolati e arroccati tra la furia delle acque Procacci e una quindicina di dipendenti, tra cui la direttrice degli Uffizi Luisa Becherucci e Umberto Baldini, “tagliati fuori da ogni comunicazione anche telefonica, e uniti solo attraverso il soprapassaggio con Palazzo Vecchio, dove erano assediati come noi il Sindaco e diverse altre persone”, ricorda il Soprintendente. Fin dalle prime ore della mattina si cercò di contrastare i danni della velocissima inondazione dei locali posti al piano terra degli Uffizi, adibiti a deposito di opere in attesa di restauro, per cui “senza perdere neanche un minuto furono incominciati a trasportare subito ai piani superiori numerosissimi quadri che si trovavano al piano terreno della Vecchia Posta. Questo intervento, fatto affannosamente, mentre l’acqua già invadeva i locali, crescendo poi con notevole velocità, valse la salvezza di un gran numero di dipinti di eccezionale importanza, ed evitò quindi una catastrofe di immense proporzioni: basti citare tra i tanti quadri posti in salvo il polittico di Giotto della Badia, la Incoronazione di Filippino Lippi degli Uffizi, la tavola centrale del trittico di Masaccio della Chiesa di San Giovenale a Cascia”. Mentre alcuni uomini trasportavano a mano, per le scale, tali opere (in alcuni casi di ingenti dimensioni), altri si precipitarono nel Corridoio Vasariano per rimuovere, in una lotta contro il tempo, tutta la collezione -unica al mondo- degli Autoritratti di artista. Il terrore di quei momenti fu infatti che la furia delle acque potesse travolgere, da un momento all’altro, il Ponte Vecchio e il loggiato. Solo nel tardo pomeriggio del 4 novembre, con il defluire delle acque, i colleghi della soprintendenza da Palazzo Pitti si avventurarono con coraggio lungo il Corridoio Vasariano per portare i primi viveri a coloro che erano rimasti agli Uffizi.
Alla devastazione delle opere d’arte si era quindi aggiunto il danneggiamento dei luoghi della conservazione: il Laboratorio della Vecchia Posta presso gli Uffizi era stato inondato e oramai impraticabile e i relativi macchinari completamente fuori uso.
5-13-gli-angeli-del-fango-alla-biblioteca-nazionaleNonostante la mancanza di luoghi e strumenti, Procacci decise con repentina lucidità che il grande cantiere per il salvataggio delle opere d’arte dovesse essere allestito a Firenze e non altrove. In una Firenze che, già moralmente colpita, non avrebbe visto la partenza di tutte le opere d’arte alluvionate, con l’ulteriore rischio di danneggiamenti dovuti ai trasferimenti in laboratori di restauro italiani ed europei. I luoghi di ricovero allestiti in tempi record furono Villa Petraia e alcuni ambienti di Palazzo Pitti per i mobili, il salone grande della Galleria dell’Accademia per le tele, il Forte Belvedere per la maggioranza dei libri, Palazzo Davanzati per le sculture e le arti minori e la Limonaia di Boboli per le tavole. Quest’ultime, appena conclusa la prima fase di deumidificazione, furono trasferite nel nuovo Laboratorio di restauro costruito appositamente alla Fortezza in un capannone militare in disuso.
Superati i primissimi giorni di emergenza, arrivarono immediatamente contributi economici e scientifici dai più importanti centri e istituti italiani e mondiali. Fu così, che, come auspicato da Ugo Procacci, la città riuscì, grazie anche agli uomini e agli strumenti messi a disposizione da pioneristici istituti e laboratori- a curare i propri malati e sfruttare la grande tragedia da cui era stata colpita per risollevarsi e crescere, per diventare un polo d’avanguardia del restauro e della cultura, per riscattarsi nuovamente in nome della bellezza e di un patrimonio artistico amato e aiutato da tutta la comunità internazionale.

Le immagini qui sono tratte da M. Carniani, P. Paoletti, Firenze. Guerra e Alluvione, Firenze, Becocci Editore, 1991.

Articolo pubblicato nel novembre del 2016.




L’ALTRA ALLUVIONE

«Ognuno ricorderà come nei giorni dell’alluvione si facessero le cose che erano necessarie con l’unico criterio del fare subito, del fare presto, dell’intervenire immediatamente».

Dopo la devastazione che ha colpito il centro di Firenze fin dalle primissime ore del mattino, alle 5.00 a Lastra a Signa, i torrenti Rimaggio, Guardiana e Vingone, affluenti in riva sinistra dell’Arno, rompono gli argini e inondano Ponte a Signa, lungo via di Sotto, le zone di Stagno e Tripetetolo, oltre al centro storico, dove si registrano picchi di inondazione di cinque metri. Quasi contemporaneamente il Bisenzio rompe a San Piero a Ponti, per un tratto di circa ottanta metri, riversando le proprie acque su San Mauro a Signa e Campi Bisenzio. Poco dopo, alle prime luci dell’alba, sotto una pioggia ancora incessante, l’Ombrone Pistoiese rompe l’argine sinistro prima a Ponte a Tigliano, per un tratto di quasi cento metri, inondando la campagna meridionale di Prato (Tavola, Cascine Medicee di Tavola, Castelnuovo, San Giorgio a Colonica, Le Fontanelle) poi a Castelletti, nel comune di Signa. Unendosi a quelle del Bisenzio, le acque dell’Ombrone sommergono Lecore, Sant’Angelo (dove si registrerà una delle situazioni più difficili da gestire per il totale isolamento in cui la frazione si verrà a trovare) e Le Miccine. Più a ovest i torrenti Stella e Quadrelli sommergono Caserana e l’area della Querciola, nel comune di Quarrata, oltre a Valenzatico e Olmi. Il Fosso di Iolo e il Torrente Calice peggiorano la situazione pratese. Infine, l’Arno, rompe a San Donnino. Il reticolo è completamente collassato: l’Arno, è al massimo della sua portata, e i suoi due affluenti principali nella zona, Bisenzio e Ombrone, sono costretti a “tornare indietro” perché il fiume non riceve e così fanno gli affluenti minori e tutto il reticolo di canali e gore, causando rotte e tracimazioni. La tempesta perfetta.

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San Mauro

A metà mattina il cielo si rischiara, tutto intorno un’unica, luccicante distesa d’acqua, a perdita d’occhio. Ma non si tratta di un “mare della tranquillità” bensì di un’inondazione senza precedenti, improvvisa e furibonda, che in alcuni punti ha raggiunto oltre cinque metri e spazzato via tutto ciò che ha trovato sul suo cammino: case, negozi, fondi artigianali, automobili, mezzi da lavoro, fattorie, animali. Chi abita in quelle zone è abituato alle piccole inondazioni, venti, trenta centimetri, ma nessuno si aspetta niente del genere e le precauzioni, quindi si sono limitate a paratoie alle porte e qualche suppellettile riparata sopra un tavolo o su un mobile. Tutto inutile.

La macchina dei soccorsi si organizza, spontanea, in ogni frazione colpita, e le testimonianze qui si assomigliano un po’ tutte: grande spirito di solidarietà, coraggio, intraprendenza: zattere di fortuna costruite con assi e bidoni, i cosiddetti “brusini”, per portare in salvo parenti, amici, vicini o far arrivare loro da mangiare. Beni di prima necessità, come acqua, pane e latte, per chi ha ancora la fortuna di averli, passati di casa in casa sui fili dei panni o con canne di bambù; mezzi privati a disposizione dei comuni, che in brevissimo tempo si organizzano in centri operativi (piccole unità di protezione civile ante litteram) di raccolta e smistamento di aiuti e interventi. Un’unica grande comunità riunita, oltre ogni distinzione culturale, sociale e politica, in un’unità d’intenti che non si vedeva, forse, dal secondo Dopoguerra. Gli aiuti organizzati arriveranno pochi giorni dopo e, fra i contadini che non erano mai stati al mare, in molti ricordano i patini di Viareggio, che vedevano per la prima volta.

In tutto questo va ricordata la straordinaria opera del Comune di Prato, “un’isola in un mare di disperazione”, come fu definita più volte nelle cronache di quei giorni, il cui centro rimase all’asciutto, sommersa la sua parte meridionale, prestata con grandissima generosità sul suo fronte cittadino e su tutti quelli circostanti, fino a Fiesole, Empoli, Castelfiorentino. Come scrisse il sindaco di Firenze Piero Bargellini in un telegramma al sindaco di Prato Giorgio Vestri del 21 novembre: “Firenze ancora col fango alla gola rivolge a lei e alla sua generosa città un primo fervido ringraziamento per l’opera di soccorso”.
Con il deflusso delle acque arrivò il grande problema della ripulitura dalla nafta e dal fango e l’amara constatazione che molto era irrimediabilmente perduto, soprattutto nelle zone agricole, che saranno in gran parte abbandonate a favore di piccola imprenditoria tessile e artigiana. Ma erano gli anni Sessanta e a Natale di quell’anno il peggio sembrava davvero già superato.

*estratto dal libro di Aurora Castellani “L’altra alluvione – Il 4 novembre 1966 a Prato, Campi Bisenzio, Signa, Lastra a Signa e Quarrata” – Edizioni Medicea Firenze – www.edizionimediceafirenze.it

“L’altra alluvione” racconta, con materiale fotografico e documenti inediti, il 4 novembre 1966 fuori Firenze: Prato, Campi Bisenzio, Signa, Lastra a Signa e Quarrata. Una calamità quasi sconosciuta ma non meno dolorosa per chi subì la furia improvvisa di Arno, Bisenzio, Ombrone pistoiese e di molti torrenti, in molti casi perdendo tutto; di certo non lo spirito, il coraggio e la generosità. Si reagisce e ci si rimboccano subito le maniche per ripartire e aiutare parenti e amici, offrendo quel che si ha per distribuirlo ai meno fortunati. E i comuni, Prato in testa, si fanno trovare pronti ad accogliere questo grande slancio, la mobilitazione spontanea di una comunità intera che si riunisce per portare aiuto ovunque ci sia bisogno.

Aurora Castellani (Prato, 1980), editor e traduttrice, lavora nel mondo dell’editoria dal 2007, curando pubblicazioni di vario genere. È stata assessore alla Cultura e Pubblica Istruzione del Comune di Vaiano dal 2009 al 2014 e attualmente è Presidente del Museo della Deportazione e Resistenza di Prato. Dal 2015 è direttore editoriale di Edizioni Medicea Firenze. Questo è il primo lavoro a sua firma, frutto di una lunga ricerca d’archivio e interviste inedite.

Articolo pubblicato nell’ottobre del 2016.




La “Caffettiera del Chianti”

La storia della Tramvia del Chianti ha origine negli anni di Firenze capitale. Il problema dei trasporti pubblici divenne di primo piano per la città, centro di nuove e importanti attività. Il servizio di trasporto pubblico svolto con gli omnibus, grosse carrozze pubbliche a cavalli che circolavano su rotaie metalliche, conducendo i passeggeri dalle porte della città fino al capolinea di Piazza della Signoria e viceversa si rilevò inadeguato con il trasferimento della corte, del governo, del parlamento, di funzionari prima residenti a Torino. Nel 1873 il Consiglio comunale nominò una commissione per studiare i problemi, dei collegamenti tra le varie zone. La soluzione migliore venne individuata nell’introduzione di una linea tramviaria, costituita da carrozze che circolavano su rotaie metalliche, trainate da cavalli. Negli anni Ottanta dell’Ottocento fu approvato l’uso del vapore al posto dei cavalli introdotto, a partire dal 23 novembre del 1879, nella linea Firenze- Prato. La tramvia ebbe un successo immediato, tanto che il Comune approvò il progetto di congiungere a Firenze, tramite tram, le località del circondario, la cui popolazione dipendeva sempre più dal capoluogo per le attività amministrative, economiche e commerciali. La Société Générale des Tramways, una delle più importanti imprese belghe operanti nel settore, richiese un nuovo capitolato al Comune per le linee extraurbane. Tra il 1881 e il 1892 furono così realizzate la linea tramviaria dei Viali, e quelle per Rovezzano, Bagno a Ripoli, Sesto Fiorentino, Ponte di Mezzo e Settignano. Nel 1884 i Tramways Florentins, dai fiorentini nominata “la belga”, ragione sociale dell’impresa facente capo alla Société Générale des Tramways, acquistarono le linee di Prato, Poggio a Caiano e Cascine. La diffusione di questo nuovo mezzo di trasporto suscitò nella cittadinanza reazioni molto contrastanti, suscitando nello stesso tempo paure e speranze, sollevando tematiche ancora attuali. In particolare l’ambizioso progetto per la realizzazione delle due linee per Fiesole e per il Chianti promosso da Emanuele Orazio Fenzi, figlio del famoso banchiere fiorentino e costruttore della Leopolda, pose l’imprenditore di fronte a diverse difficoltà.
«Da Firenze a S. Casciano: esiste fino dal decorso 1891 una linea di tram costruita dalla Società dei Tramvia del Chianti e dei Colli Fiorentini. Da Firenze le partenze del tram di S. Casciano avvengono da Piazza della Signoria e dal Piazzale della Porta Romana…». Viene così descritta nel volume Il Comune di San Casciano del 1892 del Carocci la linea che collegò Firenze con San Casciano e Greve in Chianti dal 1891 al 1935.
Alla fine dell’Ottocento, il territorio di San Casciano si presentava suddiviso in quattro frazioni principali: San Casciano, Mercatale, la Romola e San Pancrazio. La popolazione ammontava complessivamente a circa 11.000 abitanti nel 1861, aumentando progressivamente fino ad arrivare a poco più di 15.000 abitanti nei censimenti del 1911 e del 1921. L’economia di questo territorio ruotava intorno all’agricoltura, al commercio del bestiame, alla produzione del vino e dell’olio. I collegamenti tra Firenze e Siena erano affidati alle diligenze e nel 1887 fu accolto con favore il progetto di congiungere il Chianti con Firenze attraverso una linea tramviaria che prevedeva il servizio trasporto merci. La linea fu strumento di miglioramento economico e sociale per la comunità. Pochi mesi dopo l’inaugurazione del tratto Firenze-San Casciano, Francesco Stianti, trasferì la sua tipografia e casa editrice in una bottega in Piazza dell’Orologio, con una piccola succursale in un locale al primo piano in Borgo Sarchiani. Nel 1898 la famiglia Antinori costruì le cantine di San Casciano in Val di Pesa

Emanuele Orazio Fenzi, rappresentante la “Ditta Bancaria Emanuele Orazio Fenzi e C.” di Firenze, su Progetto dell’ing. Giuseppe Lenci, presentò domanda al Comune di San Casciano per «l’attivazione di una tramvia a trazione meccanica tra Firenze e San Casciano». L’adunanza del Consiglio comunale, in data 22 marzo del 1887, stanziò 110.000 lire in favore della società fiorentina per la realizzazione dell’opera. Nell’aprile 1887 la ditta Fenzi e C. presentò la domanda di concessione al Municipio di Firenze e al Consiglio Provinciale di Firenze:
«Questa linea muoverebbe necessariamente dalla Stazione Merci del Campo di Marte, e provvisoriamente da quella di Porta alla Croce, ed attraversando il territorio comunale di Firenze giungerebbe sulla Via Provinciale Senese nel luogo detto <le due strade> o <il Gelsomino> proseguendo quindi sulla detta Via fino al Ponte detto <dei Falciani> dove si biforcherebbe facendo capo, sempre percorrendo la Via Provinciale a S. Casciano da una parte e a Greve dall’altra».
La concessione a Province e Comuni per la costruzione e l’esercizio delle tranvie, concesse poi all’industria privata, era accordata dal Governo per Decreto Reale. Prima del definitivo decreto, furono vivaci le discussioni sull’opportunità della costruzione della tramvia del Chianti. Il progetto difatti si rivelò il più ardito e imponente del regno in quanto si sviluppava per 42 chilometri e prevedeva opere e infrastrutture ingenti: l’apertura di una nuova strada nella valle del Gelsomino, la ricostruzione del ponte San Nicolò e di nuovi ponti a Testi e Rimaggio, il consolidamento e la ricostruzione di opere a Mulino del Diavolo, a Ponte degli Scopeti, al Ponte dei Falciani, alla Colombaia, alla Casellina, al ponte San Angelo sulla Greve. Il preventivo di massima era di Lire 1.632.000.
Le discussioni sull’opportunità della costruzione della linea tramviaria del Chianti coinvolsero i maggiori protagonisti della vita politica toscana fra il 1887 e il 1888. Le linee tramviarie del Chianti e di Fiesole, attraversando zone residenziali o di rilevante interesse artistico e paesaggistico, posero agli amministratori problemi di varia natura, non ultima l’esigenza di confrontarsi anche con un primo embrionale concetto di tutela dell’ambiente. Giuseppe Poggi fu uno dei maggiori detrattori della tramvia del Chianti. Nella memoria diretta alle autorità cittadine fiorentine scriveva l’ingegnere:
«Una tramvia destinata a portare da Firenze al Chianti, e viceversa, mercanzie, bestiami, passeggeri, operai […] sarà utile, ma non sarà conveniente al Viale dei Colli, quale si è voluto che fosse e quale ne piace che sia. Il passeggio dei cittadini e dei forestieri perde le migliori attrattive, e l’opera viene necessariamente a subire alterazioni in quelle che sono le parti costitutive della sua bellezza».
Alla memoria del Poggi fece seguito la riposta di Emanuele Fenzi:
«non si può seriamente classificare come passeggiata pubblica tutto il tratto di Viale dalla Barriera di S.Niccolò fino al Piazzale Michelangiolo, lungo nientemeno che m. 2200. Non ci si trova mai anima viva e il Municipio lo sa, e per le annaffiature non vi spende mai un soldo, e in fatto di illuminazione vi si vede collocato un lume a petrolio a 500 metri. … Par poi proprio un gran male se qualche forestiero, andando a visitare il Viale dei Colli, vedrà per un momento passare un treno di fiaschi di buon vino del Chianti?»
Angiolo Pucci, Sovrintendente ai Pubblici Giardini e Passeggi, paventava danni agli alberi, ai marciapiedi e alle panchine del viale e ancora Giuseppe Poggi che, perso il primo assalto, sposò la causa ambientalista con queste parole:
«Le emanazioni del vapore noceranno certamente alle piante prossime alla rotaia e a lungo andare intristiranno anche le più discoste; e così il passeggio, lieto di ombre e di riposi, diverrà una strada come tutte le altre.»
Emanuele Fenzi, invocò a sostegno della tesi contraria la sua pluriennale esperienza di membro della Regia Società Toscana di Orticoltura:
«Fra i 250 platani o pochi più che si trovano piantati fra le cure e S.Gervasio sai tu quale è di gran lunga il più grosso, il più alto, il più forzuto, il più bello di tutti? Precisamente quello sotto al quale sta ferma (nota bene) per almeno 15 minuti ogni ora la locomotiva del tram di San Domenico».
Una serie di clausole del Comune di Firenze per alleviare le proteste, l’appoggio determinante al progetto di Sidney Sonnino e la netta presa di posizione di Ubaldino Peruzzi a favore della realizzazione della linea, chiusero le discussioni. Il 23 marzo 1888 la Provincia di Firenze approvò la concessione per la costruzione della Tramvia del Chianti. Il 12 maggio 1888 la giunta comunale di San Casciano, deliberò il contributo finale, destinato alla realizzazione dell’opera, in 140.000 lire. Il 18 dicembre 1888 il Decreto Ministeriale dava l’autorizzazione alla Ditta Emanuele Fenzi e C. a costruire ed esercitare con trazione a vapore una tranvia dalla stazione Ferroviaria di Firenze-Porta alla Croce a Greve e a San Casciano in base al progetto dell’Ingegnere Giuseppe Lenci. Decreto del Ministero dei trasporti, 18 dicembre 1888.
foto 3bLa linea fu inaugurata per tronchi successivi tra il 1890 e il 1893. Il tratto di San Casciano fu aperto il 24 maggio del 1891. L’inaugurazione fu una grande giornata di festa per tutto il paese alla presenza delle massime autorità, come racconta il periodico dell’ epoca “Il Chianti” il 31 maggio 1891:
«Per la nostra collina, su per una linea tortuosa serpeggia la vaporiera; saluta col suo fischio lungo, ripetuto dalle convalli, il bel paese che siede sulla cima del monte, ed a lui reca le più belle speranze di un lieto avvenire. Il nostro vecchio castello, a cui neppure sulle ali del vento, potea giungere il fischio della locomotiva, oggi esulta, perché, così bello, così ameno, non meritava di rimaner per sempre sconosciuto. Il 21 maggio è per noi epoca memoranda, in cui l’Illustre Cav. E. Fenzi, raggiunto il suo ideale, univa alla bella Firenze il nostro paese [… ] Alle 10, al teatro Niccolini, vennero estratti alcuni premi a vantaggio dei componenti la Società Operaia e Fratellanza Militare […] la banda suonò l’inno reale, e, mentre il popolo applaudiva al Cav. Emaule Orazio Fenzi ad alla di Lui famiglia, furono presentati mazzi sceltissimi di fiori alla Signora Cristina Fenzi, accompagnata dall’Onorevole Sidney Sonnino, a cui pure non mancarono i mille complimenti dei mille amici che lo amano e lo stimano. I nostri ospiti, ricevuti dagli assessori Levantini e Giunti, si recarono al palazzo municipale, dove vennero salutati dal Sindaco signor Antonio Sandrucci e da molti consiglieri e indi si recarono alla Società Operaia, alla Fratellanza Militare ed ebbero sempre festosa e cordiale accoglienza. Alle 6 ebbe luogo la corsa, dopo fu estratta la tombola, e la banda della Romola, durante questo trattenimento, prestò lodevolissimo servizio. Sull’imbrunire la folla si riversò tutta in piazza dell’Esposizione per assistere ai fuochi preparati dall’abile pirotecnico Tazzi di Calenzano. L’illuminazione del paese riuscì molto bella, e non poteva essere altrimenti, perché preparata dal rinomato Fantappiè. La banda locale, diretta dal distinto Maestro Giovan Battista Frosali, terminò la festa con svariati concerti e fu applauditissima. La famiglia Fenzi e l’Onorevole Sonnino tornarono alla villa entusiasmati per l’accoglienza ricevuta e soddisfatti della festa così.»

Dopo l’inaugurazione di questo tratto l’attività commerciale e bancaria di Fenzi risentì della crisi economica europea degli anni 1889-90 e si aggravò al punto che il Banco Fenzi fallì alla fine del 1891. Nel 1896 la società belga, Société Générale des Tramways, acquisì la società della tramvia del Chianti e dei Colli Fiorentini, che con il fallimento del banco Fenzi era stata ceduta a Ferdinando Cesaroni. Il 26 luglio 1899 si iniziò ad elettrificare la linea; il primo tratto in cui venne eliminata la trazione a vapore fu quello da Porta alla Croce al Gelsomino. In seguito la nuova trazione fu estesa fino a Tavarnuzze, raggiunta il 16 settembre 1907.

La tramvia del Chianti, che da Firenze a Greve in Chianti transitava per 6.887 metri su strade comunali, per 23.594 metri su strade provinciali e per 5.766 metri in sede propria. La diramazione per San Casciano in Val di Pesa transitava per 3.388 metri su strade provinciali e per 1.002 metri in sede propria con una pendenza contenuta sempre entro il 60 per mille. Da Firenze a San Casciano correvano mediamente 28 corse, mentre nel tratto opposto le corse erano 24. Il capolinea principale era in piazza Beccaria, allora conosciuta come porta alla Croce; sempre da piazza Beccaria iniziava la diramazione per la stazione ferroviaria del Campo di Marte ad uso esclusivo dei convogli merci, mentre i passeggeri dovevano compiere il tragitto a piedi. Lasciato il capolinea principale la tramvia si dirigeva verso l’Arno. La prima fermata era nell’allora piazza della Zecca Vecchia (la zona oggi compresa tra piazza Piave e lungarno Pecori-Giraldi) da cui ripartiva per poi attraversare il fiume sul nuovo ponte in ferro di San Niccolò. Passato il ponte, nell’attuale piazza Francesco Ferrucci, si trovava la Barriera daziaria di San Niccolò che la tramvia superava sulla destra attraverso un valico fatto nella cinta muraria. Da qui in poi la tramvia percorreva il Viale dei Colli: da viale Michelangelo fino al piazzale, poi il viale Galileo fino al piazzale Galileo, quindi la tramvia svoltava a sinistra per viale Torricelli fino all’incrocio con il viale del Poggio Imperiale dove si ricongiungeva con il tronco iniziato al piazzale di porta Romana (secondo capolinea fiorentino). Poi la tramvia percorreva via del Gelsomino, una via costruita appositamente per il servizio tranviario dove era situata la stazione omonima. La linea proseguiva poi lungo la via Romana, attuale via Senese, attraversando il borgo delle Due Strade fino al bivio con via di Malavolta dove era il confine con l’allora comune del Galluzzo e dove si trovava un’altra barriera daziaria; superata la barriera la tramvia proseguiva attraversando il Galluzzo, sfiorando la Certosa, attraversando i Bottai e il bivio per Le Rose, dopodiché entrava a Tavarnuzze dove si trovava un’altra stazione. I convogli passavano in località Mulino del Diavolo, poi in località ponte degli Scopeti e quindi nella piana formata dal fiume Greve. Infine raggiungeva i Falciani dove aveva sede una stazione dotata di deposito di materiali e dove era posta una biforcazione: rimanendo sul binario principale proseguiva per Greve in Chianti mentre con l’altro ramo raggiungeva San Casciano in Val di Pesa.
I treni merci avevano l’obbligo di circolare solo di notte e su carri chiusi con l’obbligo di un solo carro merci per convoglio. Venne imposto alla tramvia di avere due capolinea: uno a Porta alla Croce ed uno a Porta Romana. Gli orari del servizio dovevano essere divisi in invernali ed estivi ed essere approvati dalla Prefettura. Fu imposto l’obbligo di collocare i binari al centro della carreggiata dei viali per permettere il pubblico passeggio ed il transito delle carrozze. La linea doveva essere dotata di un servizio telegrafico ed in seguito del servizio telefonico, poi installato per volontà della società esercente; ogni carro doveva avere un vano riservato al servizio postale. Lungo la linea le distanze progressive dovevano essere segnalate mediante segnali posti ogni 500 e ogni 1000 metri ed inoltre, per il tratto in sede propria, venne chiesto di far sorvegliare la linea da due guardiani i quali avevano l’obbligo di abitare nelle località servite. Infine il comune di Firenze si riservò il diritto di concedere più autorizzazioni per l’uso della linea anche ad altri concessionari, ma riconoscendo un rimborso spese per la manutenzione che rimaneva a carico del costruttore.

Foto 2Sono gli scrittori dell’epoca a lasciare i passi più significativi per la memoria storica del trenino. I macchiaioli della letteratura popolare tratteggiarono con pennellate più di memoria che di vero realismo i loro personaggi, i loro quadri di vita popolare nella San Casciano dell’epoca: «Alla punta estrema del paese si San Casciano in Val di Pesa, un colle amenissimo circondato da uno scenario di montagne superbe e punteggiato da volle splendide, là proprio dove le ultime case finiscono, e comincia a snodarsi la ripida via maestra ferrata da una linea di tranvai, c’è un caffè piccino piccino, ma sempre affollato di gente che arriva. Costì, in un bel pomeriggio, mi pare di settembre, il signor Aurelio Frattigiani sostò un momento, invitato da alcuni amici a sorbire una bibita, prima di montare su carrozzone che stava per partire… Sonò la campanella del tranvai, il signor Aurelio bevve in fretta, si congedò, e salì su una vettura. Contemporaneamente un altro carrozzone infilava il binario doppio, e si fermava, mentre il convoglio partente scompariva con un cigolio di freni tremendo. Gli avventori si fecero sulla porta del caffeuccio; alle finestre comparve qualche testa tra i vasi di basilico; un monello sgambettò, cantando. Dal tranvai scesero quattro persone solamente, lasciando delusi gli spettatori, per i quali gli arrivi e le partenze costituivano il lecito ed economico divertimento della giornata: un frate, una contadina, con un ragazzo e un fagotto più grande del ragazzo, e la guardia comunale Ferdinando Paolieri» (Novelle toscane , Il fico, 1914).

Già ad inizio 900 la linea tramviaria del Chianti necessitava di maggiori manutenzione, tanto che i comuni di San Casciano e Greve in Chianti erano stati costretti alle vie legali contro il gestore. I biglietti aumentavano, gli orari non venivano rispettati e le condizioni della linea peggioravano causando numerosi incidenti come riporta la cronaca de “Il Chianti”. La prima guerra mondiale aggravò la situazione ed ebbe conseguenze gravissime sulla società belga e sulla qualità del servizio. Ci fu un’enorme crescita del costo delle materie prime: carbone, energia elettrica, e materiale rotabile. I disservizi erano dovuti anche all’uso della lignite del Valdarno al posto del carbone, impiegato per scopi bellici, e al poco personale, richiamato in guerra. Alla fine della guerra la situazione economica della Società dei Tramways era disperata e tutti gli interventi migliorativi vennero rimandati a data futura.
Negli anni che precedettero la prima guerra mondiale, la SITA era riuscita a ottenere, in via sperimentale, di esercitare un servizio sulla linea Firenze-Siena passando per Greve. Nel 1917 la SITA iniziò a svolgere delle regolari corse di autobus sulle linee Firenze-Siena e Firenze-Volterra con passaggio per San Casciano in Val di Pesa via Falciani. Con l’autobus, San Casciano in Val di Pesa veniva collegato con il centro di Firenze in circa trentacinque-quaranta minuti. Nel ‘21 l’obbligo di cambiare a Tavarnuzze a causa del diverso sistema di trazione (da elettrico a vapore e viceversa) allungò i tempi di percorrenza: da Greve in Chianti a Porta Romana si impiegavano circa due ore (1 ora e mezza da San Casciano in Val di Pesa). Per tutelare la tramvia, l’Ispettorato delle Ferrovie-Tramvie di Firenze impose alla SITA di far passare i suoi autobus non più dai Falciani, ma dalla via Volterrana, con un allungamento dei tempi enorme. Questa decisione causò un lungo contenzioso tra l’amministrazione comunale di San Casciano in Val di Pesa e l’Ispettorato. Tale situazione durava ancora nel 1928, quando il Podestà di San Casciano in Val di Pesa, il generale Michele Polito, inviò un accorato appello al Ministero:
«Il servizio SITA per il tratto Firenze-Falciani-San Casciano, supplisce modestamente alla tanto reclamata deficienza del servizio tranviario. E’ lecito oggi dunque che un paese come San Casciano, che dista da Firenze appena 16 km, pieno di vita agricola e commerciale, debba contentarsi di tre sole partenze del tram al giorno, eseguite con due vecchie carrozze e qualche volta con una sola, mista, per servizio merci viaggiatori? …La variante apportata all’itinerario dei servizi automobilistici nel tratto San Casciano-Firenze e viceversa, e il disservizio tranviario hanno messo questa regione nelle condizioni di doversi porre a paragone di un paese qualunque nei riguardi dei mezzi di comunicazione: prova evidente ne sono l’orario deficiente ed impossibile delle partenze del tram ed il vizioso itinerario del servizio automobilistico col quale si impiegano spesso due ore per raggiungere la città, mentre 30 minuti dovrebbero essere più che sufficienti».

Nel 1932 fu annunciata la chiusura della linea tramviaria. Nel 1934 la società avvio il fallimento ed il 25 aprile 1935 venne deliberata la soppressione del servizio. Dopo la cessazione del servizio negli anni 30 il personale venne riassorbito dalle tramvie fiorentine, gli impianti smantellati, le rotaie divelte per farne dono alla Patria. Una delle vecchie motrici terminò la propria attività nelle cave di Carrara, adibita al trasporto del marmo. Per quasi cinquant’anni la vecchia stazione a strisce bianche e marroni continuò però a segnare il paesaggio urbano di San Casciano. Solo il 6 dicembre del 1983 iniziò la demolizione della Stazione in Piazza Zannoni che ancora oggi, per i sancascianesi, resta “Piazza della Stazione”.

Sara Gremoli è laureata in Storia contemporanea presso l’università di Firenze e presidente dell’associazione culturale Sgabuzzini storici, con sede a San Casciano in val di Pesa.

L’associazione Sgabuzzini Storici, con sede a San Casciano in Val di Pesa si occupa di promozione culturale e organizzazione di eventi. In particolare l’associazione promuove la valorizzazione del patrimonio documentale e la diffusione della memoria storico-culturale del Chianti attraverso l’organizzazione di conferenze, mostre, letture e spettacoli teatrali in collaborazione con le associazioni del territorio.

Le ricerche sulla Tramvia del Chianti curate dall’Associazione in collaborazione con Gruppo “La Porticciola” e del loro prezioso archivio fotografico si sono concretizzate nella realizzazione di una mostra foto–documentaria. Documenti, testimonianze raccolte, periodici dell’epoca, e fotografie sono state fonte d’ispirazione per lo spettacolo teatrale La Caffettiera del Chianti, parole, immagini e musica per ripercorrere la storia della Tramvia del Chianti, andato in scena al Teatro Comunale Niccolini di San Casciano in Val di Pesa, drammaturgia e regia di Tiziana Giuliani.

Articolo pubblicato nell’agosto del 2016.




Contro ebrei, barbari, traditori e rinnegati!

All’indomani della proclamazione dell’armistizio, l’8 settembre 1943, in un Paese già duramente provato dal conflitto ed adesso diviso fra contrapposti eserciti stranieri e in gran parte occupato dalle truppe nazisti, i fascisti, facendosi forti proprio della presenza di questi ultimi, tornano ad assumere il governo dei territori e intendono riaffermare il proprio dominio e controllo sugli italiani sotto la guida del proprio Duce. Ex squadristi emarginati nel Ventennio ed in cerca di riscatto, giovani forgiati dalla retorica del regime, funzionari dello Stato, militari e civili, uomini spinti da interessi, condizionati da paure, mossi da passioni e ideali formano le leve del partito fascista repubblicano e del nuovo stato: la Repubblica sociale italiana (RSI).
Uno degli obiettivi immediati diviene la conquista del consenso degli italiani e la stampa e gli altri strumenti di propaganda affidati al Ministero della Cultura popolare ne sono lo strumento principali, dimostrando che la RSI rappresenta l’unica possibilità di salvezza per l’Italia, di riscatto dell’onore perduto con il “tradimento” dell’armistizio, di vittoria della guerra a fianco dei nazisti. Si tratta di una propaganda di guerra tesa a contrastare quella degli Alleati e degli antifascisti, che si esprime in una vera e propria guerra di parole dai toni sempre più duri e truci. Una sfida difficile per gli eredi del regime che aveva portato il Paese alla sconfitta, resa di fatto impossibile, con il passare dei mesi, dall’andamento della guerra. Anche in Toscana, già culla del fascismo delle origini, così come in tutto il territorio della repubblica, si assiste ad una fioritura di testate: quotidiani, periodici, numeri unici che danno voce a tutte le anime della RSI, da quelle nazionaliste a quelle più radicali, espresse dai “fogli” delle federazioni del partito (come “Repubblica” di Firenze, “L’Artiglio” di Lucca, “Il Ferruccio” di Pistoia, “Giovinezza repubblicana”), tutte comunque circoscritte nell’identità del fascismo repubblicano e nell’alleanza con il nazismo.

Per cercare di acquisire i consensi degli italiani, uno dei temi essenziali trattai e usati dalla propaganda repubblichina è la rappresentazione dei nemici. Per i fascisti la descrizione degli avversari è funzionale, per contrasto, a delineare e chiarire la propria identità di “puri” ed eroici combattenti e per mobilitare attorno alla repubblica tutti coloro che intendano difendere la Patria. La propaganda deve quindi recuperare stereotipi e slogan del regime, suscitare dubbi e paure, motivare rabbia e risentimento, toccare interessi ed emozioni.

WP_20160705_09_45_27_ProL’idea centrale è che i fascisti, unici veri italiani, siano contrastai da una vera e propria congiura che unendo nemici diversi sotto la regia degli ebrei, quali nemico n. 1, come scrive “Repubblica” il 18 novembre ’43, da contrastare con ogni mezzo, definiti “razza nemica” nel Manifesto di Verona del Partito, carta di identità del fascismo repubblicano. Per “La Nazione” le potenze straniere troverebbero il loro comun denominatore proprio “nel giudaismo unico e vero despota delle cosidette democrazie liberali e di quel regime barbaro e mostruoso che si chiama Unione delle Repubbliche sovietiche” [Inghilterra, bolscevismo e imperialismo americano, “la Nazione”, 3 novembre 1943]; Inghilterra, USA e URSS sarebbero così al servizio dell’oro giudaico. Questa denuncia serve da un lato a sottolineare l’esistenza di una “razza italiana” minacciata da quella ebraica, che tutti devono mobilitarsi per difendere, dall’altra a promuovere e giustificare qualsiasi forma di violenza contro un nemico tanto pericoloso che viene definito “malattia ereditaria dell’umanità” su “la Nazione” del 20-21 febbraio, microbo maligno sul periodico fiorentino “italia e civiltà” e “tumore maligno” da eliminare su “Repubblica”.

Ma il nemico reale con cui fare i conti sono certamente gli eserciti Alleati. Consapevoli della loro forza e dell’appeal che hanno fra la popolazione italiana, la propaganda di Salò cerca di rovesciarne l’immagine da quella di “liberatori” a quella di “oppressori”. Così li descrive il periodico fiorentino “Rinascita”: i “liberatori sarebbero quei barbari volanti che distruggono le nostre città e i nostri villaggi, quei mercenari che depredano le nostre popolazioni dell’Italia meridionale, quei negri che violentano le nostre donne” [27 novembre 1943], recuperando tutti gli stereotipi propri del razzismo coloniale. Tanto che per “Repubblica” i “negri non sono esseri civili” [22 gennaio 1944]. Allo stesso tempo si denuncia che gli angloamericani avrebbero consegnato l’Italia a Stalin in caso di vittoria e per rafforzare questa ipotesi viene diffusa la falsa notizia della partenza dai porti del Mezzogiorno di navi cariche di bambini strappati alle proprie famiglie per essere condotti in Russia e trasformati in perfetti comunisti, automi nelle mani del dittatore bolscevico che li avrebbe poi rimandati in Italia controllare il Paese. Si usa lo spettro del comunismo per mobilitare attorno alla RSI tutti coloro si riconoscono nei valori tradizionali della patria, della religione e della famiglia. Abile nello sfruttare fatti reali (dai bombardamenti alle violenze sulle donne delle truppe coloniali, alle difficili condizioni di vita nell’Italia meridionale “occupata” dagli angloamericani) e nell’alimentare paure ataviche e diffuse, questa propaganda si scontra tuttavia da un lato con il reale andamento del conflitto, dall’altro con la presenza opprimente dei nazisti. L’aspirazione per la fine del conflitto e l’ostilità nei confronti del nazismo pare prevalere su ogni altra considerazione fra la popolazione.

Tuttavia sono i “traditori” i nemici contro cui la propaganda fascista si scaglia con maggiore ferocia. In primo luogo i fascisti che non hanno seguito il nuovo corso, simboleggiati da Galeazzo Ciano e dagli altri gerarchi che avevano votato contro Mussolini nella riunione del Gran Consiglio del 25 luglio. Quindi il re Vittorio Emanuele III e il generale Badoglio che avrebbero venduto l’Italia al nemico con l’armistizio. Infine i partigiani: i “rinnegati” che combattono contro la propria Patria. Figure private di qualsiasi dignità e qualificate infatti come criminali, assassini, vigliacchi, sicari. Ma incredibilmente agli occhi dei repubblichini ottengono consenso e sostegno da parte della popolazione.
E così la categoria dei traditori tende ad estendersi coinvolgendo categorie diverse di persone, considerati prima come sostenitori “naturali” o potenziali, ma poi guardate con sempre maggiore diffidenza e quindi con rabbia, per esser infine identificati come “nemici” particolarmente odiosi proprio perché inattesi. Infatti, come scrive “Repubblica” il 26 febbraio 1944: “oltre i sabotatori, i sobillatori, i sicari prezzolati del nemico attenta alla vita della nazione, anche chi in questo momento, non assolve in modo preciso e concreto il compito assegnatoli”, come i giovani che non rispondono alla chiamata di leva, e i loro genitori e parenti che li nascondono, come i disertori e coloro che proteggono gli ebrei, i soldati “alleati”, i partigiani. Particolarmente dure sono le condanne degli intellettuali che si sono ritirati nel silenzio e non sostengono la Rsi, del clero che non segue le direttive della repubblica ed anzi svolge “attività antinazionali”, delle donne che sono invitate ad andare “al di là del Volturno a sollazzare le ore meditative del filosofo Croce o le fatiche guerresche delle truppe angloamericane” [Repubblica, 18 dicembre 1943].

Ma proprio la denuncia di questa crescita esponenziale del numero e della varietà dei nemici rivela emblematicamente l’isolamento dei fascisti di Salò e il fallimento della loro stessa propaganda sconfitta inesorabilmente dalla realtà nella sua disperata guerra di parole condotta con tenacia dalle testate toscane fino al giugno-luglio del ’44 nell’imminenza dell’avanzata nemica e nel dilagare delle azioni partigiane in una regione provata dalla durezza dell’occupazione, della guerra ai civili e del passaggio del fronte, che attende con impazienza i giorni della Liberazione.

Matteo Mazzoni, dal settembre 2014 direttore dell’Istituto Storico della Resistenza in Toscana, è dottore di ricerca in Studi storici dell’età moderna e contemporanea. Ideatore e coordinatore di progetti didattici e culturali per la divulgazione scientifica della storia. Consigliere dell’Istituto Gramsci Toscano. Membro della Redazione del Portale di Storia di Firenze, oltre che Responsabile di redazione di ToscanaNovecento. Autore di pubblicazioni e volumi fra cui si ricordano: Livorno all’ombra del fascio, Olschki 2009, vincitore del Premio ANCI-Sissco 2010 e Il passaggio del fronte tra Val di Pesa e Val d’Elsa, Polistampa 2014.

Articolo pubblicato nel luglio del 2016.




“Sognavo una vita romantica e felice”

Quale effetto un conflitto esercita sulla psiche infantile? Quali le conseguenze, i traumi, le ricadute successive?
Queste domande, così frequenti nei reportage che di recente si sono soffermati sulle “infanzie rubate” dalle guerre, sono poco presenti nei saggi di storia sociale sulla seconda guerra mondiale. Ma uno studio sull’argomento, oltre ad aiutare a comprendere le sofferenze dell’oggi, servirebbe anche a cogliere i nessi tra quel vissuto e i successivi eventi della Prima Repubblica. Lungi dal colmare questa lacuna, questo contributo vuole gettare una luce su un argomento – la memoria infantile della Resistenza – tanto più importante quanto necessario da ricordare in una regione – la Toscana – dove il numero di vittime è stato inferiore alla sola Emilia.

Innanzitutto: quali fonti usare? La più parte delle testimonianze è stata raccolta anni dopo la guerra, quando non solo il tempo trascorso aveva affievolito il ricordo, ma quando i bambini di allora si erano ormai trasformati in adulti con il proprio vissuto e con altre esperienze alle spalle. Mediata già in tempo di pace dagli adulti, la voce infantile diventa perciò più flebile nei tempi convulsi di guerra. Gli appunti che il quattordicenne aretino Almo Fanciullini raccoglie sistematicamente tra l’8 settembre e la liberazione di Arezzo appaiono quindi come una particolare eccezione.

Tracciare alcune linee comuni nelle esperienze belliche di bambini e adolescenti toscani è però possibile. La prima è l’avvento della precarietà, di luoghi e di persone. Il conflitto, prima colto vagamente dalle conversazioni degli adulti, irrompe con il primo bombardamento o la carestia. «Anche se si sentiva parlare di guerra» ricorda Feralda Giovannetti di San Martino ad Empoli, dove nel ’43 frequentava la seconda elementare «per la giovane età, non ci rendevamo conto di quello che poteva essere. Cominciammo ad accorgercene quando iniziò la carestia dei viveri». «Sognavo una vita romantica e felice: gli orrori della guerra mondiale mi distolsero da questi sogni» scrive ad esempio Anna Taiuti, che dopo il bombardamento di Milano sfollò dai nonni in Toscana.
Alla devastazione dei luoghi familiari succede spesso lo sfollamento in campagna per i cittadini o, per chi vi abitava, l’arrivo di nuove persone – spesso più colte, più ricche o semplicemente più informate sugli ultimi avvenimenti – rivoluzionava la routine quotidiana, apriva nuovi orizzonti. La novità è ad esempio sottolineata da Luciana Franceschini, nata nel 1935 nelle campagne del pistoiese: «ricordo molto bene gli sfollati perché … vedevo gente nuova … per me era tutto una sorpresa e anche un divertimento quando mi invitavano a giocare».

La crescita precoce che la guerra induce nei bambini e negli adolescenti è però il tratto che maggiormente accomuna queste testimonianze. Il processo è però difforme, e varia a seconda della classe sociale di provenienza. È la fine precoce dell’infanzia per i bambini delle classi popolari, che, mentre gli adulti si asserragliano in casa per sfuggire ai rastrellamenti, lavorano nei campi e nelle officine, svolgono commissioni, girano armati. «[Noi ragazzini] andavamo a prendere il grano perché i contadini avevano paura dei tedeschi… Noi eravamo piccoli e avevamo più possibilità di stare allo scoperto» riporta Sergio Capecchi, nato a Cantagrillo (Serravalle P.se) nel 1930. Ed è invece una scoperta della libertà per i giovani delle classi sociali superiori, che, grazie alle preoccupazioni di genitori altrimenti indotti a una stretta sorveglianza, si scoprono liberi di gestire il proprio tempo. «Eppure» riassume infatti Isabella Dauphinè, sfollata da Firenze, «ricordo quel lontano 1943 come un anno veramente straordinario. Là in campagna eravamo molti ragazzi:… e ci sentivamo veramente liberi, perché le donne adulte presenti… piene di ansie e preoccupazioni, avevano ben altro da fare che occuparsi di noi».

Articolo pubblicato nel luglio 2016.




Tristano Codignola: un azionista fiorentino all’Assemblea Costituente

Uomo di grande carattere e di elevato profilo morale, Tristano Codignola rappresenta una figura di estremo interesse e di indubbia levatura all’interno della complessa vicenda della sinistra italiana novecentesca, non foss’altro che per la tenacia e l’assoluta coerenza con le quali, pur in contesti e momenti diversi della storia politica nazionale, operò sempre a favore di un rinnovamento del socialismo italiano e di una sua affermazione come forza riformista e di governo capace di suscitare nell’Italia postbellica un’alternativa democratica e indirizzare il paese verso il conseguimento di una profonda e concreta trasformazione politica e sociale.

Un intendimento questo mai rimosso, che anzi accompagna con continuità tutta la vicenda politica di Codignola, muovendo dall’antifascismo delle origini e attraverso la successiva stagione azionista, per progredire poi nell’Italia repubblicana con la ricerca di un socialismo autonomista inteso come una “terza forza” realmente alternativa e libera da qualsiasi condizionamento. Un intento questo al quale egli cercherà sempre di mantenersi fedele, prima puntando, dopo la scissione del 1947 del Partito d’Azione, ad unificare entro formazioni minori le sparute frange socialiste liberali esterne al PSI e poi portando nel 1957 questa minoranza “eretica” entro lo stesso Partito Socialista, storico soggetto politico riformatore della società al quale Codignola rimarrà legato sino al 1981, anno della sua morte.

In questo articolato percorso, risaltano e non si perdono mai in Codignola alcuni tratti fondanti del suo pensiero politico, quali tra tutti il tema della libertà, della giustizia sociale, di una concezione laica della vita, che certo gli provengono da varie e composite frequentazioni culturali ma soprattutto dall’influsso del socialismo liberale volontaristico e aclassista dei fratelli Rosselli, che non per nulla caratterizza il gruppo azionista fiorentino di cui Codignola, nella transizione dal fascismo alla Repubblica, diventa l’indiscusso leader politico. È Firenze non per nulla il luogo, spaziale e al contempo ideologico, nel quale affondano le fondamenta del pensiero e della lunga militanza politica di Codignola, benché per la verità di natali non toscani.

Nato ad Assisi il 23 ottobre 1913 e figlio del grande pedagogista Ernesto, Tristano Abelardo Codignola (“Pippo” per gli amici e per i compagni di lotta) cresce però in Toscana, prima a Pisa e poi a Firenze, città nelle quali la famiglia si trasferisce a seguito degli incarichi di insegnamento del padre Ernesto. È nel capoluogo toscano che quest’ultimo, allievo e collaboratore di Giovanni Gentile, ottiene nel 1923 la cattedra di pedagogia alla facoltà di Magistero e vi dirige poi a partire dal 1930 la casa editrice La Nuova Italia. Ed è sempre a Firenze che Tristano completa i suoi studi, prima diplomandosi al Liceo Michelangelo e poi laureandosi in giurisprudenza nel 1935 con una tesi in Storia del Diritto Italiano (relatore Francesco Calasso), cattedra della quale Codignola sino al 1942 sarà peraltro assistente. Dopo la laurea, Tristano comincia a lavorare nella casa editrice del padre, impresa di cui poi sarà a capo per circa quarant’anni, dalla Liberazione sino alla sua morte. Già di sentimenti antifascisti, nel 1936 Tristano aderisce al movimento clandestino liberalsocialista di Calogero e Capitini, attività per la quale è segnalato agli organi di polizia e più tardi arrestato nella propria abitazione fiorentina il 27 gennaio 1942. Dopo alcuni mesi difficili di confino scontati a Lanciano, Tristano torna sul finire dell’anno a Firenze, dove riprende subito l’attività clandestina, divenendo nei mesi dell’occupazione tedesca protagonista indiscusso della Resistenza cittadina nelle file del Partito d’Azione. Della sezione fiorentina Codignola è infatti eletto segretario nel 1945, mantenendo a partire dallo stesso anno e sino al 1947 anche il ruolo di direttore dell’organo politico del partito, il settimanale Non mollare! che riprende il nome della testata fondata a Firenze nel 1925 dal gruppo antifascista di Italia Libera.

È appunto al Partito d’Azione che, nella sua coeva riflessione politica, Codignola riconosce nel quadro dell’Italia postbellica il ruolo di forza socialista di tipo nuovo, a cui spetta attuare una rivoluzione democratica e un rinnovamento di tutti gli istituti fondamentali della vita italiana. Una missione questa per la quale Codignola cerca di lavorare spingendo il partito, dopo la caduta del governo Parri e la fine della stagione ciellenista, verso un’impostazione di sinistra di tipo rivoluzionario che è quella propria dell’interpretazione fiorentina dell’azionismo, legata cioè ancora una volta al socialismo liberale dei Rosselli: “per noi toscani il partito non può avere che un senso rivoluzionario, perché vuole cambiare tutta l’organizzazione statale italiana” afferma Codignola parlando al I Congresso nazionale del PdA che si tiene a Roma nel febbraio del 1946 e che sancisce appunto la vittoria della sua mozione sull’indirizzo politico del partito.

"Non Mollare!", Firenze, 6 febbraio 1946

“Non Mollare!”, Firenze, 6 febbraio 1946

A muovere Codignola su questa strada è anche la preoccupazione di ricondurre ad unità ideologica e politica il partito a fronte dei vari dissidi interni e di dotarlo così di una posizione autonoma e di equilibrio rispetto alle tentazioni trasformiste che nel nuovo quadro politico che anticipa il doppio voto del 2 giugno 1946 animano anche il campo delle sinistre. Già in previsione di questo passaggio fondamentale, discutendo dei possibili e futuri schieramenti interni all’Assemblea Costituente, Codignola, mentre riconosce nel PdA la “punta avanzata della democrazia progressista” e il solo “partito intimamente ed essenzialmente democratico”, gli attribuisce al contempo il compito di “creare il terreno di equilibrio fra socialisti e comunisti, impedire ai primi una politica di trasformismo, impedire ai secondi una prevalenza di motivi classisti (creatori di privilegi) su motivi democratici” imponendo al contempo “il chiarimento delle posizioni conservatrici della democrazia cristiana” (T. Codignola, Al di là della Costituente, «Non Mollare!» 18 aprile 1946).

In modo non dissimile, mentre egli riafferma a seguito dell’esito del voto del 2 giugno il valore della scelta repubblicana come “l’unica soluzione logicamente democratica”, ravvisa nuovamente la pericolosità della “tendenza di comunisti e socialisti a varare con la Democrazia Cristiana un accordo di condomino governativo” rivendicando invece per il PdA la scelta coerente di rimanere all’opposizione; un’opposizione tuttavia costruttiva che “come funzione essenziale della vita democratica e della dialettica parlamentare, si risolve in effettiva collaborazione da svolgersi attraverso il libero contrasto anziché attraverso la corresponsabilità di governo” (T. Codignola, Dalla monarchia alla repubblica, «Non Mollare!» 8 giugno 1946). Emergono già da queste posizioni il riconoscimento più tardo che Codignola avrà modo di fare del Parlamento come luogo preposto al libero e democratico confronto, nonché la sua peculiare natura di deputato e politico disposto a ricercare il compromesso nella concretezza dell’agire politico, senza mai però scendere a patti su questioni di principio.

Breve profilo biografico del candidato Codignola ("L'Italia Libera", Roma, 4 maggio 1946)

Breve profilo biografico del candidato Codignola (“L’Italia Libera”, Roma, 4 maggio 1946)

Alle elezioni del 2 giugno per l’Assemblea Costituente, Codignola si candida per il PdA nel XV Collegio elettorale di Firenze-Pistoia, nonché contemporaneamente nel XVI di Pisa-Livorno-Lucca-Apuania. Nella prima circoscrizione è presentato al quarto posto della lista azionista dopo Piero Calamandrei, capolista, Max Boris e Carlo Campolmi ed ottiene il terzo miglior piazzamento con 566 preferenze a fronte dei 1.941 voti del Calamandrei e dei 756 di Carlo Furno. Nella seconda circoscrizione Codignola appare invece in terza posizione dopo Guido Calogero e Amato Mati, piazzandosi al secondo posto con 588 voti di preferenza alle spalle di Calogero che ne ottiene 1.266. Il responso che il suo nome ottiene alle urne è quindi positivo, benché in realtà l’esiguo risultato elettorale riportato complessivamente dal PdA (334.784 voti, di cui 28.364 in Toscana) non consente al partito l’ottenimento di alcun quoziente pieno, di modo che i propri candidati potranno esser eletti solo tramite il Collegio Unico Nazionale. Tra i sette deputati azionisti eletti così nella lista nazionale all’Assemblea, Codignola risulta il settimo, alle spalle di Alberto Cianca, Riccardo Lombardi, Piero Calamandrei, Fernando Schiavetti, Leo Valiani e Vittorio Foa. Questi, entrati in Assemblea, costituiscono il gruppo parlamentare definitosi “autonomista” unendosi a Ferruccio Parri e a Ugo La Malfa, fuoriusciti dal PdA nel febbraio ed eletti nella lista di Concentrazione Democratica Repubblicana.

Nonostante Codignola sia tra i deputati più giovani, la sua attività all’Assemblea si distingue per la quantità e qualità degli interventi che vi svolge, nonché per l’evidente capacità dialettica e critica che contraddistingue il suo interloquire. Due sono soprattutto gli ambiti di discussione nei quali egli fa sentire con autorevolezza la propria voce. Da un lato vi è la questione dell’ordinamento autonomistico della Repubblica, tema non nuovo in Codignola che già della necessità di uno Stato a base autonomistica aveva parlato nelle Direttive programmatiche al PdA fiorentino del giugno 1944, quando aveva inteso l’autonomia come “autogoverno e autocontrollo del cittadino che ha il diritto e il dovere (…) di gestire direttamente la cosa pubblica insieme con gli altri consociati”. Più tardi, nell’ambito dei lavori della Costituente, Codignola auspica una riforma autonomistica ispirata alla necessità “di ravvicinare la rappresentanza alla base del Paese, e di affidare a questa rappresentanza i più ampi poteri di autogoverno e di legislazione locale nell’ambito della legislazione generale”. Colpisce in tal senso come in Codignola la difesa delle autonomie di cui si fa proponente sia però sempre intesa nel pieno rispetto dei principi generali dello Stato come pure a difesa della sua stessa unità: “una effettiva e radicale riforma autonomistica non è quella che indebolisce la unità dello Stato, ma quella che la rafforza” (T. Codignola, Chiarificazione sulle autonomie, «Italia Libera» 2 agosto 1946). Si capisce anche da questo passaggio, come egli, pur facendosi garante più volte della difesa delle autonomie regionali e in particolare della necessità di garantire costituzionalmente le minoranze etniche e linguistiche delle zone di confine, avesse però ritenuto discutibile il sistema col quale si stava dotando alcune regioni italiane di statuti speciali, che a suo giudizio si erano rivelati in alcuni casi incompatibili con il principio di unità dello Stato. Per questo, nel luglio del 1947 aveva proposto con un emendamento all’articolo 108 del Titolo V del Progetto di Costituzione della Repubblica (poi non approvato) la necessità di formulare una dichiarazione che, nel rispetto dell’ordinamento regionale, garantisse però al contempo il mantenimento delle libertà fondamentali garantite ai cittadini dalla Costituzione.

T. Codignola, "Chiarificazione sulle autonomie" ("Italia Libera" 2 agosto 1946)

T. Codignola, “Chiarificazione sulle autonomie” (“Italia Libera” 2 agosto 1946)

A fianco del problema delle autonomie, è però il tema della scuola che in sede di Costituente suscita più di altri la vis critica di Codignola e l’appassionata difesa dei suoi principi. Sicuramente, l’impegno di Codignola su questo aspetto è da ricondursi in buona parte al peso che la questione dell’insegnamento esercita su di lui per il tramite del padre e dei suoi interessi pedagogici, interessi che peraltro egli condivide e che nel prosieguo della sua carriera parlamentare lo spingeranno in fatto di istruzione a divenire uno dei principali riformatori dell’Italia repubblicana. La battaglia che nell’aprile del 1947 Codignola porta avanti entro l’Assemblea Costituente soprattutto sugli articoli 27 e 28 del progetto (poi divenuti gli articoli 33 e 34 della carta costituzionale) è anzitutto una battaglia combattuta per la formazione di coscienze libere all’interno di una società laica e democratica. La matrice libertaria della pedagogia del Codignola si scontra in questa sede con l’impostazione dogmatica delle forze cattoliche, sullo sfondo di una accesa battaglia per la difesa della scuola pubblica.

T. Codignola, "La scuola resta allo Stato" ("L'Italia Libera" 1 maggio 1947)

T. Codignola, “La scuola resta allo Stato” (“L’Italia Libera” 1 maggio 1947)

Secondo Codignola, anzitutto, il progetto di Costituzione avrebbe dovuto limitarsi a indicare qualche breve dichiarazione generale, lasciando alla legislazione ordinaria il compito di affrontare i problemi particolari dell’ordinamento scolastico. In tal senso, i principi generali da affermare entro la carta costituzionale sarebbero dovuti essere quelli della libertà di insegnamento, del diritto di controllo dello Stato sull’insegnamento, e del riconoscimento della gratuità dell’istruzione almeno fino al 14° anno di età. Sul primo dei tre, tuttavia, è in atto un pericoloso equivoco dietro al quale, rivela Codignola nel suo appassionato intervento in aula del 21 aprile 1947, si cela la contrapposizione tra il principio laico di “libertà nella scuola” e quello cattolico di “libertà della scuola”. I cattolici e le forze democristiane, con libertà di insegnamento intendono soprattutto affermare la “libertà della scuola”, cioè il dovere dello Stato di garantire a chiunque – ad istituti ed enti privati quindi – la piena libertà di organizzare ed esercitare la funzione educativa, dice Codignola, “fino alle estreme conseguenze che siano loro consentite”. Ciò significa però che la scelta dei contenuti, delle idee e dei comportamenti da trasmettere nell’insegnamento rischia di essere ispirata a principi di parte e diventare nel caso della scuola cattolica un’educazione autoritaria all’accettazione di una verità rivelata che è una Verità sola. La scuola della Repubblica deve invece educare al pensiero libero e critico, perché se suo scopo è quello di assicurare un’educazione democratica del cittadino l’unico modo è che si faccia portatrice di un principio di libertà di insegnamento che promuova la convivenza e il confronto di diverse posizioni culturali e ideologiche. Soltanto la scuola pubblica, come palestra di confronto tra verità diverse, può assicurare questo principio di libertà. C’è in questa convinzione la consapevolezza, che è propria di Codignola e che non a caso era stata pure alla base della pedagogia del padre, che un’educazione autoritaria rischi di trasmettere un’attitudine autoritaria, laddove invece un insegnamento veramente libero può divenire un propulsore dello sviluppo democratico del paese.

"L'Italia Libera", 22 aprile 1947

“L’Italia Libera”, 22 aprile 1947

Il laicismo di Codignola, sempre presente nella sua attività parlamentare (non a caso egli vota contro l’accettazione nella carta costituzionale del Concordato del 1929) è particolarmente evidente nella difesa che egli fa in aula della scuola pubblica contro gli assalti democristiani e nei riguardi soprattutto del Dc Guido Gonella, il “ministro dell’istruzione privata” come lo apostrofa Codignola, intento a preparare “una riforma clandestina della scuola”. Un argine a simili progetti viene posto soprattutto grazie alla battaglia combattuta dal PdA e dalle altre forze laiche attorno ad un emendamento al comma 1° dell’art. 27 del progetto, firmato assieme ad altri deputati dallo stesso Codignola. Ribaltando il senso di un precedente emendamento democristiano che proponeva la norma del sovvenzionamento da parte dello Stato delle scuole non statali, la controproposta firmata da Codignola – che poi si affermò nella votazione per appello nominale con uno scarto di circa quaranta voti – riconosceva che la piena libertà di istituzione di scuole da parte di enti e di privati fosse però senza oneri per lo Stato. Il tentativo democristiano di porre a carico dello Stato la “libertà della scuola”, nel senso dato dai cattolici, fu in questo modo respinto.

L’impegno profuso in sede di Costituente da Codignola per una scuola pubblica laica e democratica diverrà poi una costante della sua successiva attività politica e parlamentare, sia come responsabile dal 1958 della Commissione scuola del Psi, che come deputato socialista protagonista di numerose battaglie (come quella sostenuta contro il piano decennale per lo sviluppo della scuola presentato nel 1958 dal governo Fanfani)  nel farsi anche di importanti riforme quali l’istituzione della scuola media dell’obbligo (1962), della nuova scuola materna di Stato (1968), nonché della liberalizzazione agli accessi universitari e dei piani di studio sancita dalla legge n. 910 del 10 dicembre 1969, ricordata ancora oggi come “legge Codignola” dal nome del suo ideatore.

Un impegno coerente, quello di Codignola nei riguardi della scuola, che richiama la più generale coerenza con la quale egli portò avanti nella lotta politica i suoi principi fondamentali, spesi sempre a vantaggio dell’affermazione di una compiuta democrazia laica e socialista.

Articolo pubblicato nel maggio del 2016.




“Una indifferenza in politica non è concepibile”

Con le riconquistate libertà il popolo torna infine ad avere il diritto di esprimersi, di denunciare le vere cause delle proprie sofferenze e di suggerire quei rimedi tendenti a migliorare una situazione oltremodo grave”. Come sottolineano queste parole scritte su “La Martinella” del 10 settembre 1944, numero unico dei socialisti senesi, che nel titolo si richiamano al loro periodico pubblicato fra il 1896 e il 1915, la ripresa e la diffusione legale, di una stampa libera e democratica è uno dei segni dell’avvento di una nuova fase nella storia del paese, ancora segnato dalle rovine lasciate dalla guerra e dal regime fascista, ma pronto ad aprirsi alle speranze connesse alla liberazione.

Il biennio 1944-’46 costituisce una fase cruciale negli snodi delle vicende nazionali, un momento di peculiare impegno e sfida per le forze politiche e per le rinate istituzioni per ricostruire non solo materialmente il Paese, ma anche moralmente e civilmente stabilendo i principi democratici su cui fondare la convivenza civile, una rinnovata concezione di cittadinanza.
Proprio i giornali sono così una fonte significativa per cogliere il difficile processo con cui le diverse forze politiche cercano di comunicare e diffondere regole e principi di una convivenza civile, provano a operare i primi passi di una “rieducazione” alla democrazia degli italiani. Si tratta di un processo dialettico complesso e dagli esiti incerti, tra questa volontà e le strategie con cui ogni singolo partito cerca di affermare se stesso nel consenso popolare. Tuttavia, pur di fronte alle rovine lasciate dal fascismo e dalla guerra, in un contesto di nuove emergenze, aggravate da un clima di diffusa abitudine alla violenza e all’illegalità e dalle alle tragiche eredità e consuetudini del “fare politica” sotto il fascismo, le forze antifasciste seppero esprimere un linguaggio comune, un medesimo impegno per educare gli italiani alla democrazia, fondato sul valore della partecipazione attiva dei cittadini alla vita politica, la sottolineatura dell’importanza del voto, il rifiuto della violenza, l’invito al rispetto della legalità, il riconoscimento del valore identitario della Resistenza.

La Toscana mostra in questi anni un tessuto particolarmente favorevole alla costruzione di una nuova identità democratica e nazionale che trova espressione nell’opera del Comitato Toscano di Liberazione nazionale (CTLN) che aveva guidato la Resistenza e la Liberazione di Firenze, delle tante giunte dei CLN locali, nei partiti, nelle nascenti strutture del sindacato e dell’associazionismo, come emerge dalla lettura di una stampa particolarmente ricca e varia che, dopo la fine della guerra nella primavera del ’45, pur nella pluralità delle linee espresse, mostra sulle proprie pagine un’attenzione costante all’educazione democratica dei cittadini.
Su periodico azionista “Non mollare” del 2 novembre del ’45, Tristano Codignola scrive infatti: serve “un metodo di educazione di lento travaglio, di ripensamento e rifacimento di molti dei nostri istituti e caratteri fondamentali di popolo, di ricostruzione degli spiriti e delle cose. […] Questa strada è quella, come dicevo dianzi, della rivoluzione democratica, della ricostruzione, anzi della costruzione degli istituti della democrazia in un paese – e per questo è una rivoluzione – che democratico non fu mai”. Il fiorentino “L’azione comunista” dichiara: “i comunisti vogliono oggi che si realizzino le condizioni elementari della democrazia italiana e vorranno domani lavorare per il progresso costante di questa democrazia” (28 ottobre 1945). Il periodico della DC fiorentina “Il popolo libero” indica come compito principale “educare il nostro popolo a pensare ed acquisire con ciò consapevolezza dei propri doveri e diritti” (16 novembre ’45). Nel “dovere della partecipazione politica e dell’interesse alla cosa pubblica”, dietro cui coglie l’antica lezione mazziniana, “La Voce del Popolo” periodico della sezione del Pri fiorentino individua l’unico strumento per migliorare le coscienze individuali ed affrontare e risolvere la miseria e le distruzioni che attanagliano il paese (10 marzo 1946).

La legittimazione della prassi elettorale è una componente essenziale del processo di concreta educazione alla democrazia che questi periodici portano avanti, un punto comune, e non scontato, in cui tutti si riconoscono. Si legge sul giornale della DC fiorentina “Il popolo libero”: “Quello che urge quindi è proprio questa rieducazione del popolo, questo interessarlo ai problemi politici, questa preparazione alla sua partecipazione elettorale. Bisogna convincerlo che il voto non è da considerarsi come un diritto più o meno rinunciabile ma come un dovere. […] Perché una indifferenza in politica non è concepibile” (5 ottobre 1945); “La Difesa”, periodico socialista, sottolinea le difficoltà dopo il Ventennio fascista: “da oltre un ventennio in Italia non si facevano più le libere consultazioni popolari, qualche generazione d’Italiani non conosce neppure i vari sistemi elettorali ed alcuni ignorano perfino l’importanza e l’alto significato che in questo momento assume da parte del cittadino l’esercizio del voto. Questa pratica di uno dei più importanti diritti che competono ai cittadini della democrazia era stata nel ventennio fascista, non solo soppressa, ma addirittura resa impopolare.” (6 febbraio 1946). Anche la stampa liberale esalta il ritorno al voto: “torna il giorno in cui potremo tornare alle urne, rivestiti dalla nostra dignità, ed introdurre una scheda che sarà soltanto l’espressione delle nostre libere convinzioni” (“L’Ombrone“, 24 gennaio’46). Per i comunisti il momento elettorale segna il compimento del processo iniziato con la lotta di liberazione dal nazifascismo: “Il popolo italiano ingaggiò la lotta contro il fascismo non solo per distruggere tutte quelle brutture che aveva generato e per cancellare l’onta della schiavitù, ma per risorgere a nuova vita, […e] duramente combattendo, ha vinto la prima fase della lotta – quella armata- ma non ha ancora vinto quella legale.” (“L’azione comunista” 6 aprile 1946). In numerosi articoli, i periodici di tutti i partiti dal liberale “La provincia”, al “Popolo libero” democristiano, a quelli socialisti, si dilungano in accurate spiegazioni delle modalità del voto, descrivendo con certosina precisione tutti i passaggi che l’elettore deve fare dall’ingresso nel seggio elettorale all’inserimento delle schede nelle urne, con la riconsegna delle matite copiative, certo in primo luogo per evitare errori che possano compromettere il voto alle proprie liste (“Popolo libero”, 6 febbraio ’46), ma allo stesso tempo diffondendo e consolidando fra la popolazione le prassi e i riti del meccanismo elettorale dopo ventennale assenza.

Quest’opera di educazione alla convivenza e di definizione di una nuova cittadinanza fondata sui principi democratici è importante perché non si limita al solo momento elettorale, ma è parte di un impegno a consolidare le basi delle nuove istituzioni e della convivenza ristabilita mostrando l’importanza dei partiti e l’opera delle amministrazioni locali per il processo della ricostruzione e per la vita della comunità, così si sottolinea che “Funzione dei partiti è quella di destare i dormienti, di chiamarli alla lotta politica, interessarli ai problemi sociali, è quella di dar loro coscienza e volontà di cittadini” (“La Nazione del Popolo” suppl. a cura PSIUP del 1 luglio ’45).
Infine, in questa fase, nel contesto toscano non si può non notare che, pur con accenti diversi da parte dei vari partiti, la Resistenza è l’elemento di comune legittimazione, tanto che, per esempio, il periodico fiorentino della DC dichiara che “i CLN hanno scritto nella storia d’Italia una pagina che non dovrà essere rinnegata” (“Il popolo libero” 5 ottobre ’45) tanto da divenire fattore costitutivo dell’identità regionale, nonostante la durezza della contrapposizione politica ed ideologica che si innesta rapidamente con l’incipiente “guerra fredda” e l’azione di delegittimazione svolta dalle forze qualunquiste già nella seconda metà del ’45, e il riferimento ideale che conferisce senso e prospettiva allo stesso processo di educazione alla democrazia, quale sistema di valori su cui fondare la ricostruzione del Paese.

Articolo pubblicato nel maggio del 2016.




Leda Rafanelli, libertaria e musulmana, giornalista e scrittrice

Della lunga vita (Pistoia, 1880-Genova,1971) di Leda Rafanelli, dedita fin dalla prima giovinezza non solo alla militanza nel movimento anarchico, ma anche all’attività di pubblicista e scrittrice, è impossibile dare in poco spazio una sintesi sia pure estrema. Ci si limiterà, qui, a concentrare l’attenzione sul periodo della sua formazione giovanile, in cui già si incontrano realizzati esempi della sua vulcanica poliedricità.

Leda si stabilisce a Firenze nei primissimi anni del ‘900, secondo la ‘vulgata’ (trasmessa dalla maggioranza di suoi biografi e critici) dopo essere rientrata da un soggiorno in Egitto, dove si sarebbe convertita contemporaneamente all’anarchismo e alla fede musulmana. Peraltro non vi è certezza che tale soggiorno sia effettivamente avvenuto e tanto meno che ad Alessandria d’Egitto la giovane Leda abbia avuto contatti con l’ambiente anarchico de “La Baracca Rossa” fondata da Enrico Pea. Se Leda rimase sempre molto sul vago a proposito di quel viaggio, fu lo studioso Pier Carlo Masini, a lungo suo amico, ad accreditare tale narrativa (si vedano: Iréos e Djali, in Luigi Fabbri, Studi e documenti sull’anarchismo tra Otto e Novecento, Pisa, BFS edizioni, 2005 e l’introduzione a Una donna e Mussolini, Milano, Rizzoli, 1946). Lo stesso Masini riporta la descrizione fatta da Leda (nell’inedito Pensieri del 1897) del proprio incontro, che sarebbe avvenuto in questa circostanza, con Luigi Polli.

Quello che invece è certo è che Leda incontrerà (nuovamente o per la prima volta) Luigi Polli, che sposerà nel 1902, nell’ambiente della Camera del Lavoro di Firenze. In questo stesso contesto Leda incontra e stringe amicizia con gli “ultimi internazionalisti” (‘reduci’ della Prima Internazionale antiautoritaria) Giuseppe Scarlatti, Francesco Pezzi e la sua compagna Luisa Minguzzi, fondatrice della prima sezione femminile dell’Internazionale.

untitledA Firenze Leda, la cui scolarizzazione si era fermata alla seconda elementare, lavora come tipografa e pubblica il suo primo opuscolo “di propaganda”, Alle madri italiane (1901) con la Libreria editrice G. Nerbini. Qui Leda si riferisce ancora a se stessa come “socialista” e rivolge alle madri il messaggio di “noi socialisti”, propugnando l’idea seppure non del rifiuto totale della religione da parte delle madri credenti, di una religione spogliata dalle sovrastrutture ecclesiastiche.

Nel 1903 inizia la lunga e intensa collaborazione (che durerà fino al 1906) di Leda a «La Pace», il quindicinale antimilitarista di Genova diretto da Ezio Bartalini, giovane socialista dissidente. In quello stesso anno suoi versi e bozzetti in prosa che hanno per oggetto le ingiustizie della società e la persecuzione nei confronti degli anarchici, appaiono su «L’Agitazione», “periodico socialista anarchico” pubblicato a Roma. Dal 1904 in poi la sua firma è frequente su vari altri giornali: «Il Libertario» di La Spezia (dove molti degli articoli appaiono a firma del “Comitato pro-vittime politiche”, costituito nel 1904 insieme a Scarlatti e ai coniugi Pezzi), «La Voce della donna», «L’Allarme», «Il Grido della folla», «L’Aurora», «Energia»: periodico dei giovani socialisti, «La Donna socialista», «In Marcia», «La Protesta umana».

Lo stile giornalistico di Leda si distingue fin da ora per la sua versatilità: i temi che le stanno più a cuore, in particolare quelli dell’antimilitarismo e della lotta per la giustizia e la libertà, vengono affrontati non solo in articoli polemici, ma anche attraverso l’uso di versi e ‘bozzetti’.

Sempre degli anni fiorentini è l’incontro di Leda con importanti esponenti libertari: nel dicembre 1905, al convegno dei sindacalisti rivoluzionari di Bologna a cui partecipano Leda e Luigi Polli, sono presenti, tra gli altri, Luigi Fabbri, Oberdan Gigli, Armando Borghi e Pietro Gori. E del credito che Leda ormai godeva in campo libertario fa fede il fatto che proprio lei firma la prefazione allo scritto di Borghi del 1907, Il nostro e l’altrui individualismo.

È del 1906, poi, la fondazione da parte di Leda e di Luigi Polli (con la collaborazione di Scarlatti) del giornale «La Blouse», realizzato “da autentici lavoratori del braccio” per i “tipi Rafanelli-Polli”.

L’attività di collaborazione e fondazione di giornali non la porta a trascurare la scrittura di opuscoli di propaganda, come pure quella di racconti e romanzi: il 1907 è un anno di intensa produzione di pamphlet, stampati inizialmente dalla “Tipografia Ugo Polli” e poi dalla “Libreria editrice Rafanelli-Polli”. Di tale prolificità e varietà di generi dà conto il lungo elenco che si trova al fondo A l’Eva schiava di scritti precedenti “e che possono essere ordinati della stessa autrice”. Si tratta di: Un sogno d’amore; Le memorie di un prete; La caserma … scuola della nazione (dal diario di un soldato); Amando e combattendo; La bastarda del principe; Contro la scuola; Dal ‘Dio’ alla libertà; Società presente e società avvenire.

Nei pamphlet del 1907 è ormai chiaro il passaggio all’ideologia anarchica, dichiarata con orgoglio nell’enfatizzato “noi libertari”, insieme ad un accentuarsi dell’antimilitarismo e della critica della religione, con l’appello alle madri per richiamarle al loro dovere di educare i figli agli ideali di giustizia e libertà.

Il lungo e fecondo periodo fiorentino, insieme al matrimonio e sodalizio con Luigi Polli, si avviano a conclusione quando Leda incontra Giuseppe Monanni, un anarchico aretino che si era trasferito a Firenze nel 1907 e qui aveva fondato la rivista «Vir». A metà del 1908 la coppia si trasferisce a Milano dove inizia la collaborazione a «La Protesta umana» edita da Ettore Molinari e Nella Giacomelli.

A Milano inizia il successivo lunghissimo e sempre intensissimo capitolo della vita, militanza e attività di giornalista e scrittrice di Leda. E se dall’attività politica Leda si ritirerà progressivamente a partire dal 1919, quella di scrittrice prosegue invece fin quasi all’ultimo della sua lunga vita che si conclude a 91 anni, nel 1971, a Genova.

Articolo pubblicato nel marzo del 2016.