Casa Giubileo sul Montemaggio

Sulla traversa Monteriggioni-Casole d’Elsa, in direzione di quest’ultima, all’altezza di Abbadia Isola, si apre una strada bianca che si inerpica tra le pendici boscose del Montemaggio lambendo di quando in quando dei casolari. Soltanto di recente è stata apposta una segnaletica a ricodare che quel tracciato conduce ad uno dei luoghi simbolo della Seconda Guerra Mondiale sul territorio senese, ossia Casa Giubileo.

Presso questo casolare, il 28 marzo 1944, un contingente di oltre trecento militari fascisti repubblicani ingaggiò battaglia contro un gruppo di combattenti per la libertà, che avevano con loro dei prigionieri, un capitano della forestale e un tenente tedesco. Alcuni partigiani riuscirono a darsi alla fuga durante le concitate fasi dello scontro a fuoco, uno rimase ucciso quasi subito, un altro rimasto a terra, dopo che gli assediati si furono arresi, venne trascinato dietro un muretto e finito a colpi di pistola.

Rimasero nelle mani dei fascisti diciotto ragazzi, tutti di età intorno ai vent’anni, e qui avvenne l’eccidio più famigerato che i militi della Guardia Repubblicana di Mussolini abbiano perpetrato sul territorio senese. In un primo momento i superstiti vennero portati presso un altro podere, Campo ai Meli, distante circa un chilometro dal luogo dello scontro. Le intenzioni dei fascisti furono immediatamente chiare ad una vecchia contadina del posto, Maria Barbato, che con il proprio energico e coraggioso intervento (Son mamma anch’io! Andate a farli da un’altra parte queste lavori! Le parole pronunciate dalla donna) convinse i militi a ripartire per un’altra destinazione.

img_1260aIl luogo prescelto, questa volta, fu la Porcareccia, uno spiazzo posto esattamente a metà tra Abbadia Isola e Casa Giubileo. Qui i partigiani vennero fatti schierare contro un muretto ed iniziò il triste rituale dei preparativi per l’esecuzione. Uno dei prigionieri, Vittorio Meoni (oggi Presidente dell’Istituto Storico della resistenza Senese e dell’età Contemporanea) con la forza della disperazione, riuscì a slanciarsi in un sentiero nella boscaglia, venne gravemente ferito ma riuscì a trascinarsi per un chilometro fino ad una casa di contadini che gli salvarono la vita. Per i suoi diciassette compagni non ci fu scampo. Vennero massacrati e abbandonati sul posto dell’esecuzione. Soltanto molte ore più tardi i corpi vennero raccolti, riconosciuti dai familiari e inumati provvisoriamente nel piccolo camposanto di Abbadia Isola.

Nel dopoguerra i comuni di provenienza dei caduti traslarono le salme nei loro cimiteri, tuttavia la Porcareccia, dov’era avvenuto l’eccidio, divenne un luogo di ricordo e commemorazione, dove venne apposta un’epigrafe con i nomi dei caduti ed un monumento realizzato dallo scultore Nelson Salvestrini.

A tutt’oggi, Il 28 marzo, anniversario dell’eccidio, i rappresentanti delle Amministrazioni Comunali della Valdelsa e non solo, insieme a centinaia di semplici cittadini, salgono a piedi alla Porcareccia ed a Casa Giubileo per ricordare chi morì combattendo per la Libertà e la Democrazia. Da alcuni anni la stessa Casa Giubileo è stata trasformata in centro didattico e documentaristico gestito dall’A.N.P.I. Valdelsa, dall’U.I.S.P. E dall’Istituto Storico della Resistenza Senese e dell’Età Contemporanea.

Articolo pubblicato nel settembre del 2016.




Leonetto Amadei, uno spirito gentile

Figura di primissimo piano del panorama giuridico italiano del secondo dopoguerra, l’avvocato versiliese Leonetto Amadei, in ogni frangente della sua vita intensa, seppe conciliare competenza professionale e sensibilità d’animo, ardente passione politica ed integerrima coerenza morale.

Nato a Seravezza (Lucca) il 7 agosto 1911, figlio di uno scultore e di una maestra elementare, il giovane Amadei rivelò fin da ragazzo una mente acuta e brillante negli studi, arricchita da un temperamento comprensivo e generoso. Diplomatosi al Liceo classico “Pellegrino Rossi” di Massa, si iscrisse quindi alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Pisa: bruciando le tappe, nel 1931 risultò a soli venti anni il più giovane laureato d’Italia nella sua sessione accademica.

Mentre cominciava la propria carriera di penalista frequentando come tirocinante lo studio dell’avvocato seravezzino Luigi Salvatori (1881-1946), già deputato socialista per la Versilia negli anni 1919-1920 e figura di elevatissimo spessore morale, aveva inizio per Leonetto un altro importantissimo capitolo della vita: quello del servizio militare, che avrebbe contribuito in maniera decisiva alla formazione del suo carattere carismatico e coscienzioso, coraggioso e leale, tenendolo impegnato, alla fine, per quasi quindici anni.

Richiamato una prima volta nel 1931, come allievo ufficiale ed ufficiale di prima nomina dovette in seguito affrontare numerosi periodi lontano da casa, sperimentando in prima persona gli effetti della politica estera aggressiva che il regime fascista veniva sempre più affilando: fra una pausa e l’altra, Leonetto faceva ritorno in Versilia e tirava avanti la formazione giuridica. Proprio nei mesi in cui studiava per diventare procuratore, conobbe Nora Cancogni, cugina del celebre scrittore e giornalista Manlio (1916-2015): i due si sposarono nel 1938.

1931: Leonetto Amadei, fresco di laurea in giurisprudenza all'Università di Pisa, ritratto al tempo del servizio di leva.

1931: Leonetto Amadei,  secondo in piedi da sinistra, fresco di laurea in giurisprudenza all’Università di Pisa, ritratto al tempo del servizio di leva. (Leonetto Amadei. L’esemplare linearità, Mauro Baroni, 2000)

Mentre sviluppava una crescente sensibilità professionale in difesa degli umili e degli oppressi, Amadei dovette partire per la guerra: in un primo tempo, come capitano di artiglieria, fu destinato al comando di alcune batterie costiere del distretto militare della Spezia, dapprima sull’isola Palmaria, quindi a Lerici. Nell’aprile 1943, tuttavia, fu trasferito a Lero, nell’Egeo meridionale.

Al sopraggiungere dell’8 settembre, assieme a tutti gli altri militari italiani presenti sull’isola greca, Leonetto scelse di rispondere armi in pugno alle pressioni dei nazisti che intimavano la resa: nonostante i volantini tedeschi minacciassero di scatenare contro i ribelli una seconda Cefalonia, pur scontando una gravissima inferiorità di mezzi e materiali, Lero resistette per più di due mesi, fino al 18 novembre 1943. Alla fine, tuttavia, giunse la capitolazione, e, assieme ad essa, per Leonetto come per le migliaia di suoi commilitoni, la prigionia: per il coraggio e lo spirito combattivo dimostrato in battaglia, il giovane seravezzino fu comunque decorato di Medaglia d’Argento e di Bronzo al Valor Militare sul campo e ricevette un encomio solenne.

Arrestato dai tedeschi, condotto sulla terra ferma, Amadei fu caricato su un carro-bestiame diretto verso nord, che, dopo un trasferimento lungo e sfibrante attraverso i Balcani, lo portò allo Stammlager 328 di Siedlce, in Polonia. Anche nei mesi della prigionia, Leonetto avrebbe mantenuto un comportamento esemplare, pronto ad animare i compagni e a sostenerli nelle difficoltà, in attesa di tempi migliori. Di fronte alle continue lusinghe dei carcerieri, poi, disposti a liberarlo in cambio della sua adesione alla Repubblica Sociale Italiana, non esitò mai, confermando sempre con fierezza ed orgoglio il valore della propria scelta, compiuta nel nome della dignità umana e dell’onore nazionale. Ecco come avrebbe ricordato quei giorni, mettendo in relazione il sacrificio degli internati militari italiani e i contenuti della futura carta costituzionale democratica, nello scritto Internati e Costituzione del 1996:

È così che la nostra Costituzione è una conquista di grande valore democratico, favorita dal coraggio degli italiani dei campi di concentra-mento.»

Dopo un altro, estenuante spostamento su treno, il 17 marzo 1944 Amadei fu tradotto nel campo di concentramento per ufficiali Oflag XB di Sandbostel, in Bassa Sassonia, dove ebbe modo d’incontrare personaggi eccellenti, oltre a numerosi compaesani. Nonostante il rigore della sorveglianza tedesca e le terribili condizioni ambientali in cui erano costretti a vivere, i prigionieri italiani non si dettero affatto per vinti, promuovendo numerose iniziative culturali clandestine. Adibita una baracca a cappella, infatti, dedicata a Maria Mater Captivorum (“Maria Madre dei Prigionieri”), vi tennero incontri e piccole esposizioni d’arte: addirittura, gli internati furono in grado di costruire una radio portatile e facilmente smontabile in caso di perquisizioni, la cosiddetta “Caterina”, con cui captare Radio Londra e sentirsi un po’ meno fuori dal mondo. Oltre a periodici incontri con ufficiali informati dei fatti per illustrare ai compagni la situazione politico-militare, come riferisce anche il giornalista ed umorista Giovannino Guerreschi (1908-1968), altro “prigioniero d’eccellenza” del lager, nel suo Diario clandestino, i deportati organizzarono la “Regia Università di Sandbostel”, in cui docenti di valore tenevano lezioni delle materie più diverse, per mantenere alto il morale dei compagni, superare lo sconforto e conservare un certo grado di dignità personale ed autostima: dietro la “Baracca Y”, l’onegliese Alessandro Natta (1918-2001) parlava di letteratura, mentre poco lontano il bresciano Guido Carli (1914-1993) disquisiva di economia e commercio. Incessante animatore della resistenza interiore contro i carcerieri, Leonetto intratteneva invece i compatrioti dietro la “Baracca X”, discutendo dei principi fondamentali della giurisprudenza e di diritto penale. Nel gennaio 1945, l’avvocato seravezzino dovette subire l’ennesimo trasferimento, stavolta nel vicino campo per ufficiali Oflag 83 di Wietzendorf, dove, nonostante gli espliciti divieti in tal senso della Convenzione di Ginevra, i prigionieri italiani furono obbligati a lavorare per conto del Reich: Leonetto, in particolare, fu spedito nei campi, sfruttato come manodopera gratuita presso alcune fattorie della zona.

Fu proprio nei mesi della prigionia che Amadei decise che, a Liberazione avvenuta e guerra finita, sarebbe entrato in politica, anche se non aveva ancora ben chiaro in quale partito. E la Liberazione arrivò, il 16 aprile 1945, per mano del XXX Corpo britannico del generale Brian Horrocks: prima di rivedere casa, ad ogni modo, il giurista versiliese dovette attendere fino all’agosto successivo.

Rientrato in Italia, Leonetto cominciò subito a muoversi per contribuire attivamente alla costruzione dell’Italia nuova, che voleva repubblicana, libera e democratica, generosa e pacifista, rinsaldata nei valori umanitari della Resistenza per i quali aveva tanto combattuto e sofferto nei mesi della prigionia. Considerandosi a tutti gli effetti un membro del movimento di Liberazione nazionale, entrò nell’ANPI ed in altre associazioni reducistiche dello stesso genere, sostenendone con passione le attività fino al resto dei suoi giorni. Iscrittosi al Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, forte di un’altissima reputazione popolare e di una notevole capacità oratoria, venne ripetutamente eletto consigliere comunale a Seravezza e Pietrasanta nelle prime amministrazioni postbelliche, divenendo perfino consigliere provinciale a Lucca.

L'avvocato seravezzino Leonetto Amadei (1911-1997), padre costituente, deputato socialista eletto nelle prime sei legislature ed infine giudice e Presidente della Corte Costituzionale. (Archivio fotografico Camera dei Deputati)

L’avvocato seravezzino Leonetto Amadei (1911-1997), padre costituente, deputato socialista eletto nelle prime sei legislature ed infine giudice e Presidente della Corte Costituzionale. (Archivio fotografico Camera dei Deputati)

L’onore più grande, tuttavia, giunse per Amadei con le elezioni del 2 giugno 1946, quando, contestualmente al referendum istituzionale, si tenne il voto per l’Assemblea Costituente: con sua immensa gioia, Leonetto venne infatti eletto deputato socialista per la circoscrizione di Pisa, che, all’epoca, riuniva le province di Pisa, Livorno, Lucca e Massa-Carrara. Giunto a Roma, per via della sua specifica preparazione giuridica fu chiamato a far parte della Commissione per la Costituzione, nota anche come “Commissione dei Settantacinque”, ovvero dell’organo che, all’interno della Costituente, aveva il particolare compito di redigere la nuova carta costituzionale: più nel dettaglio, Amadei partecipò attivamente ai lavori della Prima Sottocommissione, che, presieduta dall’avvocato democristiano Umberto Tupini (1889-1973), ebbe l’incarico di stendere la Parte prima del documento, riguardante i Diritti e Doveri dei cittadini. Per Leonetto, reduce dalla guerra e dalla prigionia, fu l’occasione per contribuire, con il proprio ingegno e le proprie energie, a condensare in articoli ampi ed autorevoli i principi che erano sempre stati alla guida della sua esistenza di avvocato, militare ed uomo civile, principi che da quel momento in avanti avrebbero dovuto ispirare ed innervare la quotidianità della comunità nazionale, valorizzandone le ricchezze fisiche e spirituali, armonizzandone le diversità e temperandone gli inevitabili conflitti: libertà personale, inviolabilità del domicilio e della corrispondenza, libertà di appartenenza religiosa e di manifestazione del pensiero, parità dei diritti nell’accesso alle cariche, libertà d’iniziativa economica, pur nel rispetto del bene comune, e carattere personale della responsabilità. Per Amadei, in altre parole, la Costituzione della Repubblica fu il risultato più alto di un’opera di ricostruzione morale del Paese, un’opera, con le sue parole, tratte ancora da Internati e Costituzione del 1996, di

»

Cessato l’impegno alla Costituente, Leonetto, stimato per la cortesia personale e l’altissimo senso di responsabilità della propria funzione pubblica, circondato dall’affetto dei propri elettori, ebbe modo di proseguire la propria carriera politica entrando in Parlamento. Scelto come deputato socialista alle elezioni del 18 aprile 1948, già nel corso della prima legislatura (1948-1953) dette prova di una straordinaria sensibilità nel dar voce ai bisogni locali della propria circoscrizione, senza tuttavia dimenticare le proprie aspirazioni ad un’ampia ed equilibrata legislazione nazionale: spesso relatore di importanti richieste di autorizzazione a procedere e membro di numerose commissioni speciali, si batté per ottenere aiuti d’emergenza per alcuni comuni della Versilia e della Lunigiana devastati dalla guerra, si pronunciò sul disegno di legge sulla protezione della popolazione civile in caso di calamità ed intervenne di frequente sul tema dell’amministrazione della giustizia, presentando anche numerose mozioni su casi di denunciato arbitrio della polizia giudiziaria in indagini su gravi delitti.

Apprezzato anche dalle formazioni politiche avversarie per l’equilibrio e la fermezza morale con cui svolgeva il proprio dovere, Amadei venne riconfermato nel suo seggio alle elezioni del 1953: nel corso della seconda legislatura (1953-1958), intervenne spesso in materia di lavoro e svecchiamento del codice di procedura penale, al tempo ancora contenente larghe sezioni di eredità fascista. Rieletto nel 1958, durante la terza legislatura (1958-1963), oltre a proseguire il proprio impegno in campo giudiziario, operò soprattutto in merito alla riforma della circolazione stradale e alla revisione delle regole dei concorsi per l’accesso alle cariche pubbliche. Parallelamente, proseguiva la sua attività professionale, proteggendo i soggetti più deboli e difendendo la causa della Resistenza in occasione dei numerosi processi che furono intentati contro i partigiani in vari parti d’Italia a partire dai primi anni ’50.

Il deputato socialista Leonetto Amadei fotografato negli anni del sottosegretariato di Stato all'Interno dei primi tre governi Moro (1963-1968) e del sottosegretariato alla Giustizia del primo governo Rumor (1968).

Il deputato socialista Amadei fotografato negli anni del sottosegretariato di Stato all’Interno dei primi tre governi Moro (1963-1968) e del sottosegretariato alla Giustizia del primo governo Rumor (1968). (Leonetto Amadei. L’esemplare linearità, Mauro Baroni, 2000)

Nel corso della quarta legislatura (1963-1968), l’attività parlamentare di Leonetto fu caratterizzata dalla presenza nella Commissione Affari costituzionali, nella Commissione Interni e nella Commissione giustizia, di cui, per breve tempo, fu anche presidente: fatto di particolare rilevanza, Amadei venne nominato sottosegretario di Stato all’Interno nei primi tre governi di Aldo Moro. Caratterizzato da una grande presenza di spirito e da un’oratoria efficace e convincente, l’avvocato versiliese, europeista convinto, fu protagonista di una carriera politica straordinariamente lunga e feconda: eletto ancora una volta nel turbolento 1968, nel corso della quinta legislatura (1968-1972) fu dapprima sottosegretario alla Giustizia del governo Rumor, quindi ancora deputato socialista – prima per il gruppo unificato PSI-PSDI, poi, dopo la nuova scissione del luglio 1969, di nuovo per il PSI – autorevole ed attivissimo, soprattutto in merito all’ordinamento della giustizia.

Riconfermato deputato con moltissimi voti anche alle consultazioni politiche del 1972, a poche settimane dall’inizio delle attività della sesta legislatura (1972-1976), grazie al suo eccellente curriculum di giurista e rappresentante popolare di specchiata onestà, fu candidato dal Parlamento a giudice della Corte Costituzionale: accettata la candidatura, Leonetto venne eletto il 27 giugno 1972 a Camere riunite, con ben 733 voti su 833 votanti. Nei successivi nove anni di durata del mandato (1972-1981), Amadei avrebbe partecipato a tutte le attività del prestigioso organo dello Stato, dapprima come giudice, quindi come vicepresidente, infine, negli ultimi due anni della carica, come presidente (1979-1981) della Corte: per Leonetto, si trattò dell’incarico più autorevole della vita, del coronamento più alto cui potesse aspirare per concludere la propria carriera di uomo politico al servizio del diritto e dell’umanità. Fu estensore di molte sentenze di rilevanza storica, fra cui la n. 204 del 1974, con cui il potere di concedere la liberazione condizionale ai condannati fu sottratto al ministro della giustizia ed affidato alla magistratura, e la n. 290 dello stesso anno, che, annullando l’art. 503 del codice penale Rocco, dichiarava la legittimità anche dello sciopero politico, purché non diretto a sovvertire l’ordinamento costituzionale o ad ostacolare il libero esercizio dei poteri in cui si esprime la sovranità popolare.

1977: Leonetto ritratto assieme al nipotino Pietro sulla spiaggia della Versilia. (Leonetto Amadei. L'esemplare linearità, Mauro Baroni, 2000)

1977: Leonetto ritratto assieme al nipotino Pietro sulla spiaggia della Versilia. (Leonetto Amadei. L’esemplare linearità, Mauro Baroni, 2000)

Raggiunti i limiti di legge, nel 1981 Amadei lasciò la Corte Costituzionale e si ritirò a vita privata nella sua amata Versilia, anche se continuò a partecipare alle attività delle associazioni di cui era membro e a tenere appassionati interventi pubblici, in cui spronava i giovani ad assolvere con onestà le proprie funzioni nella società e a credere fermamente nei valori sanciti e protetti dalla Costituzione democratica. Rattristato osservatore degli scandali di Tangentopoli, non smise di credere nelle grandi potenzialità della politica vera, conservando fino all’ultimo quell’ottimismo autorevole e composto che l’aveva sempre contraddistinto, fin dagli anni della vita militare e della prigionia. Mirabile esempio di trasparenza solidale e coerenza morale, dapprima resistente nei lager nazisti in nome della libertà, della giustizia sociale e della dignità umana che già ne avevano ispirato la vocazione di avvocato, quindi estensore di tali diritti in Assemblea Costituente e infine vigile custode di quelle stesse conquiste in Corte Costituzionale, Leonetto Amadei si spense a Marina di Pietrasanta (Lucca) il 10 novembre 1997.

A due anni dalla sua morte, i familiari vollero omaggiarne la memoria istituendo, di comune accordo con l’amministrazione comunale di Seravezza e l’Università di Pisa, la Fondazione “Leonetto Amadei”, ente culturale «che ha come scopo principale la promozione dello studio, della ricerca e della conoscenza del diritto costituzionale»: oltre a progettare ed organizzare mostre e convegni, la Fondazione assegna borse di studio e contribuisce al finanziamento di corsi di dottorato di ricerca in diritto costituzionale.

Articolo pubblicato nel settembre del 2016.




Le donne della famiglia Castelli

È una consapevolezza diffusa, basata anche sulle ricerche e i dati ricavabili dai censimenti, che il livello di alfabetizzazione all’interno delle comunità ebraiche italiane sia stato sempre assai più significativo di quello presente nelle altre componenti della popolazione italiana. Essere in grado di leggere, scrivere e far di conto era una condizione preliminare per chiunque per poter accedere a un qualsiasi livello di emancipazione. Questo presupposto imprescindibile dentro la componente ebrea della popolazione era posseduto da tutti, dai maschi e dalle femmine, ma non era sufficiente affinché si aprissero, per le donne, percorsi di vita migliorativi.

Cercherò qui di seguito di illustrare questa mia convinzione attraverso una fonte particolare, quella di un deposito di lettere private assai significativa: si tratta dell’archivio privato della famiglia Castelli, oltre ottocento tra lettere e cartoline postali, consegnate all’Istoreco di Livorno da un’erede della famiglia che le aveva miracolosamente salvate. Su questo carteggio, insieme ad altre scritture private, alcune già pubblicate da tempo, e ad alcuni lavori storiografici sulle famiglie livornesi, sto lavorando da oltre un anno per estrapolarne una monografia. Grazie a tutto questo materiale sono venuta costruendo queste riflessioni che porgo all’attenzione del lettore.

Occorre precisare che nella stragrande maggioranza dei casi sono scritture e testimonianze femminili che permettono di delineare un quadro di genere sulla condizione della donna all’interno della comunità ebraica, ancora osservabile negli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso: soprattutto l’epistolario che raccoglie le lettere, in grande maggioranza indirizzate da Livorno ad Asmara, scritte nella quasi totalità dalla componente femminile della famiglia. Le mittenti sono la madre Emma De Rossi e le sorelle Anna, Ada, Ilda, che intrattengono con la sorella minore, Rita, trasferitasi in Eritrea, una corrispondenza quasi quotidiana per circa vent’anni. Le prime lettere sono del dicembre del 1937, le ultime sono degli anni Cinquanta.

L’autrice più interessante per questa riflessione è Ilda, per la cui biografia possiamo utilizzare anche quello che lei stessa scrisse in occasione di una pubblicazione promossa dal Comune di Livorno. In quel volume, Ebrei tra due censimenti, Ilda racconta che il padre di fronte al suo desiderio espresso di studiare Medicina, rispose:

La vecchia sinagoga di Livorno

La vecchia sinagoga di Livorno

“Per me le donne fanno meglio a stare a casa ad imparare a far le polpette ma, se vuoi studiare, studia. Io non ti aiuto. Se ci riesci, riesci, se non riesci, non riesci.”

La frase rievocata da Ilda Castelli può darsi che non sia stata espressa precisamente in questo modo. Del resto il ricordo si colloca alla fine degli anni Ottanta e la discussione con il padre Ilda l’aveva avuta nella prima metà degli anni Trenta. Curiosamente, ma non troppo però, ne troviamo conferma in alcune lettere dell’epistolario antecedenti un quarantennio la pubblicazione della Labronica. La memoria vicina a quella discussione ripete in modo quasi omogeneo quanto poi ricorda Ilda ormai avanti negli anni. Evidentemente fu una discussione che si fissò nella sua memoria e gli anni non furono sufficienti a scalfirla. È evidente dalla rievocazione come Ugo Castelli, il padre, ritenesse una scelta inutile, quasi uno spreco, mandare la figlia all’Università. Le figlie femmine, lui ne ha quattro (Anna, Ada, Ilda e Rita) devono imparare a diventare delle buone casalinghe, delle brave cuoche, delle buone madri. Egli non ritiene di avere tra i suoi doveri di padre, istruito e benestante, quello di aiutare le figlie ad emanciparsi attraverso una facoltà universitaria che avrebbe permesso loro autonomia economica e decisionale. Per chiarirsi meglio aggiunge che se la figlia Ilda ce la farà a laurearsi, a lui questo non interesserà alcunché. Avere una figlia laureata, giunta cioè all’apice dell’istruzione allora possibile, era più un fastidio da giustificare davanti agli altri che un motivo di orgoglio da rivendicare.

Eppure il milieu familiare avrebbe potuto aiutare. La famiglia Castelli è un nucleo medio-borghese, in cui sia il padre che il figlio primogenito Carlo, sono proprietari di farmacie cittadine. Anche il genero di Ugo, Aleardo Lattes, è coinvolto direttamente nella gestione di questa attività. Ai nostri occhi questo dovrebbe permettere una visione più aperta nell’educazione delle figlie. Tuttavia la scelta che Ugo Castelli cercherà di ribadire con tutte e quattro le figlie, sarà quella di mantenersi nel solco delle consuetudini, delle tradizioni accettate e praticate anche da famiglie più abbienti della sua. Tradizioni che prevedono, come nella maggior parte dei borghesi del tempo, anche non ebrei, una divisone dei ruoli rigida e invalicabile. I maschi a lavorare per mantenere il ménage domestico, le donne ad accudire la casa, sorvegliare la servitù, occuparsi dei figli. Quella di Ugo è una famiglia che riserva alle donne un’educazione che si colloca pienamente nel solco delle tradizioni ebraiche, comuni sia alle ragazze figlie della piccola e media borghesia, che a quelle delle grandi famiglie imprenditoriali. Queste dovevano frequentare le scuole, magari anche le superiori, imparare una lingua straniera, per lo più il francese ma non solo, e se ne avevano l’estro anche un po’ di musica. Ma l’accesso agli studi universitari e professionalizzanti non era contemplato. Spesso poi l’insegnamento non era acquisito dentro un percorso regolare di studi perché si preferiva il precettore privato o l’iscrizione a scuole private. A Livorno ne erano attive due, gestite da ebrei, laiche ed aperte anche alle altre confessioni: la scuola dei coniugi Coen e la scuola delle sorelle Garcin. Per i più abbienti poi c’era la possibilità di utilizzare le lezioni private di Rodolfo Mondolfi, dantista di valore e padre di Umberto, primo sindaco socialista di Livorno, così come per le lingue chi ne aveva le possibilità poteva usufruire della rete di relazioni familiari e amicali con l’estero, oltre che di istitutrici private. Una volta però entrate nell’età adulta, e dopo aver preso marito, tutte dovevano dedicarsi alla casa, a partire dalla madre Emma fino ad arrivare alla figlia più piccola, Rita, sposata e residente in Africa.

La nostra Ilda si ribella a questo destino e ce la farà a trovare la sua collocazione, collocazione molto lontana per certi aspetti dalla tradizione. Essa incarna un personaggio di grande interesse storiografico poiché racchiude in sé molte delle contraddizioni che riguardano le donne ebree del secolo passato. La sua forte personalità e il suo forte dinamismo le permetteranno, pur in contrasto con il vecchio padre, di frequentare Medicina a Pisa con successo (l’anno della sua laurea furono solo due le donne laureate), e di specializzarsi in Pediatria divenendo la prima donna pediatra di Livorno; e quando, dopo la promulgazione delle leggi razziali, un altro pediatra, ebreo pure lui, Roberto Funaro, sceglierà di partire subito per gli USA senza aspettare che la situazione divenga drammatica, Ilda Castelli avrà la possibilità di avere tutta la sua numerosa e ricca clientela.

Foto 3

Riproduzione di una lettera di Ilda Castelli, in Archivio privato di Lydia Levi.

Ma Ilda diventa una pediatra apprezzata anche nel nucleo familiare. Lo dimostrano le lettere ricche di prescrizioni mediche che invia alla sorella lontana e madre di tre bambini piccoli. Ilda è la più emancipata tra le quattro sorelle, l’unica che guida l’auto e che si muove tra la città di Livorno e quella di Pisa e dintorni per tenere conferenze sulla puericultura a nome del Fascio pisano al quale appartiene, ed è sempre intenta a scrivere pezzi entusiasti della guerra d’Africa sui giornali. Eppure quando deve suggerire qualcosa alla sorella più giovane riguardo il suo ruolo di moglie, le suggerisce di “assecondare il maritino, tenere in ordine la casa, farsi trovare sempre in ordine, civettuola” e via di seguito. Come si coniuga da una parte la donna medico che con pochi fronzoli impartisce ordini sicuri e terapie e sconsiglia di ascoltare qualsiasi suggerimento che non provenga da una fonte autorevole e professionale, con queste indicazioni così bamboleggianti che sembrano così poco confacenti con la sua personalità? L’impressione che se ne ricava è quella di una emancipazione a metà. La sua incapacità di assumere atteggiamenti più autonomi, meno conformisti, nei confronti del ruolo della moglie all’interno del gruppo familiare e sociale di appartenenza può essere compreso, a mio parere, come una reazione quasi di paura rispetto al salto in avanti compiuto, salto tutto consumato nella dimensione pubblica, ma non solo. Ilda si trova a suo agio dentro le liturgie del regime come gran parte della sua famiglia, e la maggioranza degli ebrei del tempo. Ci si trova così a suo agio che sposa un fascista molto convinto, ma anche cattolico. E sicuramente per questo Ilda si era in seguito convertita alla religione del marito, al quale, a suo giudizio, occorre che la donna porti sempre obbedienza. Con lo stesso spirito Ilda diventa nel secondo dopoguerra una delle più accese protagoniste della Democrazia Cristiana più clericale e anticomunista. Colpisce molto che questa donna fuori dal comune nella dimensione pubblica, nella dimensione privata riproponga per intero, e senza incrinature, gli stereotipi della sua generazione. Io penso che il suo percorso sia anche la testimonianza di come sia difficile, irto e contraddittorio ribellarsi ed emanciparsi dall’autorità del padre-patriarca. Accade, e la vicenda di Ilda ne dà testimonianza, che talvolta persino quelle donne che pure ci sono riuscite, abbiano poi mantenuto forme di subordinazione all’autorità sia paterna che maritale tipica della tradizione. Solo verso la fine della vita, raccontano i parenti, Ilda ormai vedova ritorna alla religione dei padri, e su di essa comporrà anche un libro. Di sicuro il suo è un personaggio interessantissimo perché interno totalmente a tutta la tragedia del secolo scorso, perché dinamico e reattivo su molti fronti e ligio e obbediente alla religione del “capofamiglia” per altri.

Foto 1Ilda rimane il personaggio meno classificabile all’interno di questa numerosa famiglia. Famiglia che aveva già conosciuto un matrimonio misto, quello del primogenito Carlo, e che aveva già visto la conversione della giovane nipote Elena al cattolicesimo e il suo successivo matrimonio. Questi comportamenti, le lettere ne danno estesa testimonianza, avevano provocato dolori e tensioni ma alla fine erano stati tutti faticosamente metabolizzativ. All’interno di questo gruppo familiare, il padre Ugo esercita il potere tramite anche l’organizzazione di matrimoni combinati, pratica ancora molto frequente negli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso, come del resto era stato il suo con la giovane Emma De Rossi.

Ma il carteggio a mia disposizione fa intravedere anche altre storie di donne, a cominciare proprio dalla madre Emma che proviene da una grande famiglia alto-borghese imparentata con Benjamin Disraeli e che è la prima autrice dell’epistolario. È una donna severa, asciutta, controllata e con una precisa condivisone della ripartizione dei ruoli all’interno della famiglia. Anche se è lei, nei fatti, a tenere unita la trama di questi rapporti con la giovane figlia lontana, ogni qualvolta che si presentano delle discussioni più spinose e argomenti più delicati da trattare, fa un passo indietro e cede la penna al marito-padre. Ugo, padre e nonno amorevolissimo quando si tratta di aggiungere i “salutoni” in fondo alle lettere per Asmara, diviene, quando affronta argomenti più difficili, l’autorità indiscussa.  Come tale usa un linguaggio chiaro, senza nessun infingimento retorico, e più che cercare di dialogare con la figlia lontana, impartisce ordini e disposizioni che non si devono discutere.

Poi ci sono le altre sorelle: Anna e Ada. Entrambe più anziane, mogli e madri. Entrambe parlano il francese e Ada sa anche suonare il pianoforte. I loro argomenti, anche dopo la promulgazione delle leggi razziali, sono incentrati sulla casa, la famiglia, le ricette, i vestiti, i figli: insomma la vita quotidiana. Probabilmente le aiuta a sostenersi a vicenda dentro una tragedia imprevista e terribile dalla quale però tutti riescono, sia per fortuna, sia per relazioni, che per ragioni di classe, a uscire indenni e a ritrovarsi, a guerra finita, ancora tutti in piedi. Delle due Ada è quella meno presente, perché convive con i genitori insieme al suo nucleo familiare e per lei in qualche modo, scrive la madre. Invece Anna, moglie di Giorgio Orefice, anche lei madre di Gastone e Vittorio, gioca un altro ruolo. Spesso vive nella casa dei vecchi genitori ma spesso è anche via. Suo marito, Giorgio, è un antifascista perseguitato anche prima delle leggi razziali che cercherà la sua via di fuga in Francia. Pare dal tono delle sue missive la più solare, quella con più risorse per far fronte alle difficoltà, anche se poi le idee che si prospettano non avranno mai buon esito. Da un piccolo numero di lettere da Anna a Rita (da Livorno ad Asmara) si capisce che Anna aveva partorito l’idea, per raggranellare un po’ di denaro, di mettere su un commercio di abiti e biancheria confezionati in Italia da rivendere alle ricche signore italiane di Asmara. L’idea forse poteva anche essere buona ma le difficoltà erano troppe e così tutto naufragò in un niente di fatto. L’aspetto più interessante, dentro questa riflessione, è che si comprende come di questa idea siano stati tenuti all’oscuro proprio i maschi di casa. Prima si vedrà se funziona. Questa è la tipica strategia di difesa femminile: ricorrere al silenzio, anche all’inganno, pur di far marciare una propria idea – perché se venisse manifestata alla luce del sole, sarebbe eliminata sul nascere.

GastoneOreficeBD

Il volume-intervista di Catia Sonetti a Gastone Orefice

Sempre dall’epistolario in nostro possesso scopriamo che, tra le due, sarà proprio Rita la minore, a lavorare e a guadagnare per sé e per la famiglia. Prima in Africa con l’arrivo degli inglesi e poi grazie alla sua conoscenza della lingua, dopo la guerra, tornata a Livorno, con gli Americani. Anna invece rimarrà tutta la vita moglie e madre. Ma dopo la liberazione e la fine della guerra il quadro cambia per tutti e quella diventa un’altra storia.

Eppure queste donne passeranno tra i drammi della guerra e della persecuzione incolumi adottando varie strategie di sopravvivenza. La più anziana, la vecchia madre Emma, racconta in un diario che poi il nipote Gastone contribuirà a rendere pubblico, le peripezie degli ultimi mesi. È un testo interessante che messo a confronto con i testi delle lettere fa emergere con chiarezza come la prosa epistolare sia una prosa familiare, più sciolta, più colloquiale, mentre il diario scritto con l’intenzione di lasciare una testimonianza per i nipoti e per i posteri in genere, è più strutturato, propone scelte lessicali più meditate e dà maggiore spazio al tema della religiosità ebraica e delle tradizioni, così minacciate in un contesto di fuga.

A nessuna di loro capitò quello che accadde a un’altra Emma, omonima della nostra, Emma Castelli (sorella di Ugo e moglie di Salomone Giulio Belforte) che negli anni della Grande Guerra fu strappata alle sue occupazioni domestiche e si dovette occupare a tutto tondo dell’azienda di famiglia, sia della cartoleria che della casa editrice. Il figlio Gino racconterà che “se fino ad allora era stata del tutto ignara di ogni attività commerciale, seppe assumere con energia le redini dell’azienda, sì da conservare soldi fino al ritorno dei figli. E fino all’estremo delle sue forze non volle più abbandonare il lavoro e ne fece, insieme all’affetto per la famiglia, lo scopo della sua vita.” (M. Luzzati, 1990). In sostanza da donna risoluta qual era si rifiutò di essere di nuovo relegata alle faccende domestiche riuscendo a trasformare quello che le si era prospettato come dovere in un diritto a cui non volle più rinunciare. Furono però poche le donne ebree alle quali capitò quest’occasione. Peccato.

Articolo pubblicato nell’agosto del 2016.




La canzone popolare non morirà

Alcuni anni fa ebbi modo di intervistare Caterina Bueno (1943-2007) per Azione sindacale, il periodico della CGIL di Prato. Per realizzare l’intervista avevo, al massimo, dieci giorni. Ci misi più di tre mesi (Caterina non era facilmente contenibile nello schema domanda/risposta), però nacque un’amicizia. L’intervista uscì nel numero del 1° maggio 1992. La ripubblico oggi su ToscanaNovecento come affettuoso omaggio ad una donna di eccezionale intelligenza e sensibilità che ho avuto la fortuna di conoscere.

Esiste anche in Italia una musica indipendente da quella “ufficiale”: è la musica popolare che si suona con strumenti, scale e modi diversi.
Caterina Bueno è una delle massime esponenti di questo genere musicale che ha fatto conoscere anche all’estero. Interprete e ricercatrice appassionata di canti popolari, ha girato in lungo ed in largo la Toscana raccogliendo dalla viva voce di contadini e di operai centinaia di ore di registrazione: il suo repertorio spazia dalle melodie medievali ai canti del dopoguerra, e la sua nastroteca costituisce un patrimonio di grande valore culturale.
Con Caterina abbiamo avuto un interessante colloquio. Ne proponiamo il testo ai lettori.

Qual è, a tuo avviso, la definizione più corretta di canzone popolare? Quali sono gli elementi che la caratterizzano (e che permettono di separarla nettamente da certa paccottiglia folcloristica), quali ne sono i contenuti?

La canzone popolare è innanzitutto l’espressione di un modo di concepire l’esistenza ed il mondo, è l’espressione di una cultura che si è sviluppata in maniera autonoma rispetto alla cultura egemone. E questo è un punto da tenere ben fermo se si vuole distinguere la vera canzone popolare dal cosiddetto “folk”, un termine che io non amo perché molto spesso è sinonimo di insincerità e di edulcorazione. Poi è essenziale il modo in cui la musica viene tramandata ed utilizzata: le canzoni popolari si tramandano di regola oralmente e non devono essere mercificate, trasformate in prodotti di consumo. Quanto ai contenuti della canzone popolare, essi sono estremamente vari: la canzone popolare, infatti, è stata in pratica, diciamo fino all’epoca della grande guerra, il giornale degli analfabeti, l’unica fonte di informazione per migliaia di persone sparse in tutta la Penisola. Molto spesso il suo contenuto è legato ad avvenimenti politico-sociali di carattere locale o nazionale, ma accanto a questo filone, che è poi quello della protesta e della lotta, ve ne sono molti altri, per esempio quello dei canti di lavoro (basti pensare ai canti della mietitura) o quello di carattere intimistico che comprende svariati motivi, fra i quali spiccano alcune bellissime ninnenanne, nel contempo semplici e poetiche.

Come è avvenuto il tuo incontro con la musica popolare?

È avvenuto nell’ambiente in cui sono cresciuta, un ambiente che mi permetteva di essere in contatto con il mondo contadino. Essendo di origini spagnole, quindi “straniera” fra i miei compagni di scuola, ero molto affascinata da quelle sfumature della lingua che allora permettevano al bambino di un quartiere di riconoscere quello di un altro. Il mio primo incontro fu dunque col dialetto, anzi con la lingua toscana, poi nacque in me un interesse specifico per la musica popolare: i primi motivi li ho ascoltati dalla voce della mia tata, una balia asciutta mugellana che sapeva cantare da donna e da uomo.

La tua attività di cantante si fonda su un lungo lavoro di ricerca sul campo. Quali sono gli strumenti culturali indispensabili perché tale lavoro risulti proficuo?

Certamente bisogna essere mossi da una reale curiosità ed avere le idee ben chiare sull’oggetto della ricerca, sui motivi che è interessante (e possibile) rintracciare. A questo scopo io ho lavorato a lungo in biblioteca, sulle raccolte di canti popolari conservate in Marucelliana, per costruire gli itinerari delle mie indagini, ma soprattutto mi sono basata sul sentito dire. Poi mi sono procurata un registratore ed ho cominciato a setacciare le nostre campagne. All’inizio questo lavoro di ricerca è stato tutt’altro che facile: c’era da vincere la mia timidezza e la comprensibile ritrosia delle persone alle quali chiedevo di cantare, specialmente delle donne. Spesso mi sono fatta presentare dal sindaco di questo o di quel comune, altre volte ho dovuto inventare dei pretesti per giustificare le mie richieste. Ma, a parte queste difficoltà, il lavoro che ho svolto è stato proficuo, sia perché ho trovato molte canzoni sia perché ho potuto conoscere delle realtà talora insospettabili, della gente che spesso aveva storie lunghe e difficili alle spalle. E questo è stato per me un grande arricchimento interiore.

I canti popolari sono una testimonianza estremamente significativa della concezione della vita delle classi subalterne. Sarebbe quindi molto interessante sapere, ad esempio, quale immagine essi danno del lavoro, della religione, del potere…

Il lavoro è sentito come un peso, perché gli operai ed i contadini sanno di lavorare per il profitto altrui. Nei canti di lotta c’è una precisa consapevolezza della natura classista della società, consapevolezza che non è evidentemente frutto di studi, ma di vita vissuta. Molto significativo è in questo senso un contrasto (che ho raccolto a Vingone) dove una contadina dice ad una marchesina queste precise parole: “Se le sue vesti valgono un tesoro / se vive in festa tra cavalli e cani / quel che mangia o consuma, o mia signora / gli è il prodotto di noi che si lavora”. Qui non c’è ombra di timore reverenziale: c’è la coscienza di essere sfruttati e c’è il coraggio di manifestare apertamente il proprio pensiero. Quanto alla religione, ciò che balza subito agli occhi è il fatto che nella campagna toscana una religiosità popolare radicata convive con un forte spirito anticlericale: Cristo è dalla parte dei poveri, i suoi rappresentanti no. Ai preti viene rimproverato di predicare la rassegnazione e di tradire lo spirito del Vangelo. Un altro punto da sottolineare è l’umanizzazione dei santi, della Madonna e di Cristo stesso. La Toscana è insomma molto più laica delle regioni vicine, segnatamente dell’Umbria. Il potere, infine, viene identificato con lo stato, e quest’ultimo è visto come un’entità lontana ed ostile che si fa viva con la povera gente solo quando si tratta di spremerla o di mandarla a morire in guerra. Qualcuno parlerà di pessimismo, dirà che la canzone popolare dà un’immagine tragica della vita, ma a chi parla così sfugge il fatto che la canzone popolare non fa altro che riflettere delle esperienze di vita e che queste esperienze di vita sono state spesso realmente tragiche.

Tra le tue canzoni più famose vi sono gli stornelli di Italia bella mostrati gentile ed il rispetto intitolato Maremma. Puoi parlarci di questi due brani?

Gli stornelli di Italia bella li ho raccolti nel Casentino, a Stia e nel castello di Porciano. La loro origine va ricercata nelle tensioni innescate dall’emigrazione di fine secolo, un fenomeno che interessò in una certa misura anche la Toscana. A Stia una fabbrica molto importante per il paese era entrata in crisi ed aveva dovuto chiudere. Alla chiusura seguirono i licenziamenti e l’esodo verso l’America. Nacquero così questi stornelli che si segnalano per spontaneità, per assenza di retorica. Il rispetto cui accennavi è invece legato alle migrazioni stagionali verso la Maremma ed è di incerta datazione. Forse risale all’Ottocento e si deve alla poetessa pastora Beatrice del Pian degli Ontani, una ragazza della montagna pistoiese che, nel giorno dello sposalizio, fu colta da uno stato di esaltazione e cominciò ad improvvisare dei bellissimi versi. Chissà, forse aveva bevuto un bicchiere di troppo. Sta di fatto che lei, analfabeta, ci ha lasciato delle cose straordinarie che le diedero una grande notorietà, tant’è vero che ricevette la visita di personaggi illustri dell’epoca, fra cui Giuseppe Giusti e Niccolò Tommaseo. Ma la persona a lei più vicina fu la moglie del conte Cini di San Marcello Pistoiese, Francesca Alexander. Entrambe erano infatti molto religiose.

Nella tua carriera è stata certamente molto importante la partecipazione agli spettacoli Bella ciao (presentato al Festival dei Due Mondi di Spoleto nel ’64, con la regia di Filippo Crivelli) e Ci ragiono e canto (rappresentato per la prima volta nel ’66 al Teatro Carignano di Torino, con la regia di Dario Fo). Che cosa volevano comunicare al pubblico questi spettacoli?

Ambedue si proponevano, in sostanza, di ricordare e di difendere il patrimonio politico e culturale delle classi popolari diffondendolo fra la gente, ed avevano alle spalle un lavoro di preparazione molto serio, anche da parte dei vari interpreti. Per Bella ciao fu utilizzato in parte il materiale impiegato per uno spettacolo che avevo presentato nel ’63 alla Casa del popolo Andrea del Sarto, qui a Firenze. Lo spettacolo (cui presero parte anche due grandi attori oggi scomparsi, Giorgio Naddi e Roberto Vezzosi) si chiamava Sottostoria d’Italia e, partendo dall’Unità, arrivava fino all’epoca di De Gasperi. Si trattava di un mélange di canzoni e di brani teatrali cui si accompagnavano notizie ricavate dai giornali. Ci ragiono e canto aveva dentro di sé una ricerca ancora più vasta e, rispetto a Bella ciao, era caratterizzato da un maggior approfondimento musicale e gestuale.

Si sa che Luigi Tenco aveva l’intenzione di incidere un disco di canti popolari. Francesco De Gregori è stato tuo chitarrista e ti ha dedicato una delle canzoni dell’album Titanic. Ciò induce a pensare che la musica popolare abbia contribuito al formarsi di una coscienza politica nell’ambito della canzone d’autore italiana. Qual è la tua opinione a questo riguardo?

La musica popolare ha certamente svolto una funzione di codesto genere. I cantautori intendevano infatti svecchiare la canzone italiana e, da questo punto di vista, i canti popolari hanno offerto loro una molteplicità di spunti musicali e contenutistici. Per quanto riguarda Francesco, credo che la familiarità con i temi popolari gli sia stata molto utile per acquistare quell’immediatezza di espressione che oggi tutti gli riconoscono. Si potrebbero fare i nomi di Jannacci, di Gaber, di Paoli, di De André, per arrivare fino a Gianna Nannini, che sulla musica popolare sta preparando la sua tesi di laurea.

La nostra canzone d’autore si è ispirata in larga parte alla chanson à texte francese. Che cosa ne pensi di artisti come Jacques Brel, Georges Brassens e Léo Ferré?

Penso che abbiano contribuito al rinnovamento della società francese e che abbiano cantato l’amore in maniera poetica e personale. E penso anche che queste cose siano tutt’altro che facili. Brassens, in particolare, era molto sensibile alla canzone popolare mediterranea. In una delle sue poesie (Supplique pour être enterré à la plage de Sète) ricorda la villanella, il fandango, la tarantella, la sardana e ciò è indice di un interesse sincero e di una ricerca non superficiale. Peccato che autori come quelli che ricordavi siano praticamente sconosciuti in Italia. C’è un problema di lingua, certo, però non si può fare a meno di osservare che questo problema esiste anche per l’inglese e che mentre le cose meno belle ed interessanti hanno sempre un pubblico pronto ad ascoltarle, le altre, quelle più valide, un pubblico se lo devono faticosamente costruire. Senza contare le responsabilità dei discografici, che promuovono in genere le canzoni più insulse e volgari.

La musica popolare italiana affonda le sue radici nella società contadina. Ma i movimenti migratori dell’epoca del boom hanno sconvolto in pochi anni strutture sociali secolari, inurbando con violenza le masse rurali. A questo fenomeno è seguita la nascita di una musica popolare nelle borgate e nelle periferie delle grandi città?

Secondo alcuni studiosi, senz’altro sì. Io però credo che (pur essendo emerso qualcosa di valido nelle grandi metropoli industriali nel campo della canzone di protesta) sia ancora troppo presto per esprimere dei giudizi. Il maturare di una reale capacità espressiva da parte di gruppi sociali sradicati dalla loro terra è un processo che richiede tempi lunghi. Bisogna superare la smania dell’integrazione che porta a nascondere la propria cultura, poi bisogna socializzare con persone che hanno le stesse origini e gli stessi problemi per rendersi conto del contrasto esistente col mondo in cui si è stati proiettati. E solo a questo punto si può acquisire quella capacità espressiva di cui parlavo. Le cose, quindi, non sono tanto semplici.

Quali sono oggi i filoni più interessanti e le prospettive della nostra musica popolare?

I filoni più interessanti sono senza dubbio quelli che stanno scomparendo, che rischiano di andar perduti per sempre: il ricercatore ne è attratto perché vuole impedire che ciò accada ed è felice quando riesce a raggiungere questo scopo. Quanto alle prospettive, tutto dipende dal modo in cui verrà utilizzato il materiale disponibile, dalla capacità di rendere una certa atmosfera e di suscitare un’emozione in chi ascolta. Lavorare su del materiale nuovo ed originale non è facile, questo è sicuro, ma la canzone popolare esiste da sempre e non è quindi il caso di recitarle il de profundis: non credo che vorrà morire proprio ora.

Articolo pubblicato nell’agosto del 2016.




“Caterina la Santa”. Il film “fascista” che non vide mai la luce

Nelle ultime settimane del 1934, poco tempo dopo il suo approdo alla Direzione generale della cinematografia fascista, Luigi  Freddi, scrisse a Galeazzo Ciano, allora sottosegretario di Stato per la stampa e la propaganda, prospettandogli la realizzazione di un nuovo film. «Il tema per un film su Caterina la Santa, – spiegava Freddi – […] è enormemente suggestivo. Si è in piena atmosfera di italianità, di poesia, di sacrificio, di passione, di fede. Un soggetto cinematografico di tal natura porterebbe sullo schermo un magnifico materiale, universalmente ammirato (Siena e tutta la pittura religiosa dei primitivi italiani) ed esprimerebbe sentimenti di alta portata spirituale, oltre a mettere in particolare rilievo la coscienza di italianità professata dalla Santa e ad elevare il sentimento della massa in un’atmosfera di bontà e di volontà». Freddi completava il quadro, aggiungendo dettagli tesi a esaltare col film il patrimonio artistico italiano e il ruolo di Siena come custode d’arte. «Alle opere d’arte figurative dei primitivi (di cui la Pinacoteca di Siena può fornire gli spunti più impensati e commoventi) – scriveva il “gerarca di celluloide” – dovrebbe essere unito, quale commento fonico, il patrimonio dell’arte musicale della nostra Rinascenza, tipica creazione della nostra razza che dal canto gregoriano si umanizza attraverso il Palestrina per giungere poi alle melodie inarrivabili del Carissimi, fornendo quindi tutti gli elementi intimi e poetici necessari ad un commento musicale adeguato».

patrona giovani

Immaginetta devozionale di Santa Caterina, patrona delle Giovani italiane (foto tratta da www.biagiogamba.it)

Tra i molti risvolti della Conciliazione del 1929 tra l’Italia fascista e la Santa Sede, tra i meno conosciuti c’è probabilmente il processo che portò all’affermarsi di una santità nazionale al servizio della ritualità di regime. Un processo composito, articolato in momenti di osmosi, ma anche di competizioni e concorrenze tra le forme di costruzione degli apparati simbolici e rituali di cattolici e fascisti. L’idea di una santità italiana, già comparsa nel cattolicesimo liberale di metà Ottocento, aveva trovato nel periodo fascista l’humus più adatto per proliferare, sull’onda lunga del suo rilancio col nazionalismo di inizio Novecento. Forte di potenti gruppi di pressione Caterina da Siena occupò il posto più alto nella gerarchia della santità nazionale nell’Italia fascista, insieme a Francesco d’Assisi e Giovanni Bosco. Non a caso per Francesco e Caterina, la parabola di santi nazionali per eccellenza doveva suggellarsi con la proclamazione a patroni d’Italia nel giugno 1939. In questo quadro non stupisce che proprio su queste tre figure si fossero concentrati fino a quel momento i più reiterati progetti di narrazione agiografica a mezzo cinema. Ma se per il santo assisiate, col film Frate Francesco di Giulio Antamoro uscito nel 1927, e per il santo di Valdocco, portato sugli schermi da Goffredo Alessandrini col Don Bosco del 1935, i progetti cinematografici trovarono uno sbocco, per la santa senese le idee di trasposizione sul grande schermo si fermarono alle battute iniziali.

Eppure Luigi Freddi, che più di tutti lavorò ad una fascistizzazione del cinema, aveva puntato molto sull’operazione agiografica legata alla santa di Fontebranda. Nelle sue intenzioni il progetto si prestava a convalidare esplicitamente l’abbraccio della cinematografia fascista con il mondo cattolico avviatosi col suo arrivo alla testa della Direzione generale per il cinema. Freddi del resto non aveva nascosto agli emissari pontifici la volontà di inserire i cattolici nel suo piano di “rivoluzione” della cinematografia di regime, incardinato su un nuovo slancio per una produzione che fosse «prettamente italiana e profondamente morale». Ai suoi occhi, santa Caterina – come rivela nelle sue memorie postbelliche – rappresentava il modello perfetto per inaugurare il nuovo corso. La svolta del Concordato aveva d’altra parte fornito anche al culto di santa Caterina – fino ad allora legato a doppio filo al papato – l’occasione per diventare un culto nazionale, di cui il fascismo fosse non solo spettatore, ma promotore attivo.

Luigi Freddi (foto tratta da: www.wolfsoniana.it)

Luigi Freddi (foto tratta da: www.wolfsoniana.it)

L’iniziativa di Freddi si inseriva in un solco già ben avviato: nel febbraio 1930 l’anniversario della Conciliazione era stata occasione per l’Ordine domenicano e per la Corporazione dei caterinati di rinvigorire la campagna per la proclamazione di Caterina patrona d’Italia, processo che avrebbe avuto un nuovo impulso in occasione dell’Anno Santo straordinario del 1933 quando a questo scopo la Società di Studi Cateriniani si fece promotrice di un voto della città di Siena. Freddi provò a dare ali al suo progetto coinvolgendo Piero Misciattelli che nella città del Palio era stato tra i promotori più ferventi di una cattedra di Studi cateriniani all’Università locale e tra i primi a intravedere le potenzialità nazionaliste del misticismo cateriniano.

Ma il vero salto di qualità culturale dell’operazione doveva essere il coinvolgimento del poliedrico intellettuale fiorentino Giovanni Papini, che, dopo la Grande Guerra, con la sua fertile penna era divenuto uno degli alfieri più intransigenti del progetto ierocratico di restaurazione della societas christiana. Come molti della sua generazione, il dirigente fascista era rimasto impressionato dalla “giravolta” di Papini consumatasi nell’arco di un decennio. L’autore blasfemo delle Memorie d’Iddio (1911), divenuto il convertito di grande successo editoriale della Storia di Cristo (1921), agli occhi di Freddi aveva il giusto profilo per partorire la sceneggiatura perfetta che ponesse il sigillo all’«italianità» della santa di Fontebranda e che, nel contempo, potesse divenire simbolica rappresentazione dell’abbraccio cattolico-fascista. Pur se Papini non rimase estraneo al fascino dell’“ideologia italiana” adottata e promossa dal fascismo, è difficile credere che si prestasse a sposare in pieno un progetto con connotati così smaccatamente ideologici. Motivi politici che influirono probabilmente anche sul fallimento definitivo dell’operazione del film su Santa Caterina nella sua fase di decollo: il primo interlocutorio contatto preso da Freddi nel novembre 1934 con Ruffo della Scaletta e Corazzin, i rappresentanti meno filofascisti dell’Ecer e della Lux Christiana —  i due enti cinematografici cattolici al centro allora di una complessa operazione di restyling  — non avrebbe avuto alcun seguito.

Giovanni Papini (foto tratta da Wikipedia)

Giovanni Papini (foto tratta da Wikipedia)

È certo però che l’idea della pellicola sulla Senese, tramite la «Minerva Film», nei mesi successivi passò nelle mani del grande regista del realismo francese Julien Duvivier, perdendo sempre più i contenuti ideologici con cui era stata battezzata, ma senza mai trovare uno sbocco produttivo. Papini continuò a rivedere il soggetto almeno fino al 1937, avendo modo di parlarne in diverse occasioni attraverso interviste concesse a giornali e riviste. In esse l’intellettuale toccava i temi al centro del delicato dibattito sulla rappresentabilità dei soggetti religiosi, tutti interni alla cultura cattolica. «Un film che abbia a protagonista santa Caterina da Siena – dichiarò Papini, nel febbraio 1937, all’intervistatore de “L’Osservatore Romano della Domenica” – non può essere concepito come uno dei moderni film di fantasia e d’avventura. La ragione d’essere della Vergine senese è la santità, e per conseguenza, ogni spettacolo che intenda rappresentare la sua vita, deve in qualche modo ricordare e arieggiare una sacra rappresentazione».

Solo nel dopoguerra l’idea di trasporre la vita della santa senese poté trovare una concretizzazione. Niente a che vedere però con le raffinate elaborazioni culturali e artistiche che avevano accompagnato i progetti Duvivier-Papini. A raccogliere il testimone fu infatti il regista Oreste Palella che in ben due film prodotti a distanza di circa dieci anni, non riuscì ad incontrare i favori di critica e pubblico. Se Caterina da Siena del 1947 fu apertamente mal giudicato dalla rivista «Intermezzo» («A certi argomenti – così la recensione – e a certi personaggi bisognerebbe accostarsi con maggiore preparazione, con mezzi meno limitati ed anche con una buona dose di rispetto. […] a vedere il film si ha l’impressione che ad un certo momento sia sorta la necessità di condurlo rapidamente a termine, bene o male»), non miglior sorte toccò a Io Caterina del 1956 stroncato senza mezzi termini dalle Segnalazioni Cinematografiche, elaborate dal Centro cattolico cinematografico che era una diretta emanazione dell’Azione cattolica italiana: «E’ un film di modesta fattura, semplicistico nel suo svolgimento, interpretato con scarsa convinzione. Ambientazione di maniera».

*Gianluca della Maggiore è dottore di ricerca in Storia. Collabora con l’Università degli studi di Milano nell’ambito del PRIN “I cattolici e il cinema in Italia tra gli anni ’40 e gli anni ’70”. E’ membro del coordinamento di redazione di ToscanaNovecento e collabora con l’Istoreco di Livorno. Autore di studi sul mondo cattolico, si occupa di cinema, Resistenza e movimenti politici. Tra i suoi ultimi saggi Il Don Bosco di Alessandrini tra fascismo e universalismo cristiano, in “Immagine. Note di storia del cinema”, 10, luglio-dicembre 2014.

Articolo pubblicato nel luglio del 2016.




CONFINI DIFFICILI

«Il “Giorno del Ricordo” in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale…» come recita il titolo della legge istitutiva del marzo 2004, fa parte di quel calendario civile della nostra Repubblica che ormai si è consolidato all’interno dell’insegnamento della storia contemporanea nella scuola, calendario che nel suo insieme, si pensi anche al “Giorno della memoria”, racchiude in sé temi e problemi sia di carattere storiografico che di didattica della storia.

La rete degli istituti storici della resistenza non si è sottratta all’impegno che l’istituzione del Giorno del Ricordo richiedeva e tutt’ora richiede in termini di ricerca storica, di approfondimento dei canoni interpretativi e di mediazione didattica. Di conseguenza,un approccio alle vicende del Confine orientale non celebrativo ma la costruzione di una tappa di conoscenza che, depurata dall’insidiosa tendenza all’assolutizzazione di chiavi emotive e a semplificatorie focalizzazioni chiuse in ambiti cronologici ristretti, si avvalga di modelli esegetici e di ricostruzioni storiche di lungo periodo dove le drammatiche e dolorose vicende delle foibe e degli esodi siano inserite in un contesto di storia dell’Europa, prima, durante e dopo la seconda guerra mondiale. Non è un caso se, nell’ottobre dell’anno successivo all’entrata in vigore della legge, si svolgeva a Torino un Corso di formazione per insegnanti e formatori sulla Storia della Frontiera Orientale, promosso dall’Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia con l’Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione nel Friuli Venezia Giulia di Trieste e con l’Istituto piemontese per la Storia della Resistenza e della Società contemporanea di Torino, primo momento di messa a punto e di verifica di un approccio di lungo periodo come si evince dal titolo del volume che ha raccolto gli atti di quell’evento (Dall’impero austro-ungarico alle foibe. Conflitti nell’area alto adriatica, Torino, Bollati Boringhieri, 2009). Ma il Confine orientale come laboratorio per la storia del Novecento con tutte quelle implicazioni sulla formazione dei docenti e di didattica sul campo che lo strumento laboratorio comporta, non può essere compreso senza far riferimento al lavoro pionieristico dell’Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione nel Friuli Venezia Giulia che ben prima del 2004 si è impegnato sul terreno della promozione della ricerca, dell’attività editoriale nonché del rapporto con la scuola coniugando sul proprio territorio il nesso tra memoria, conoscenza storica e i luoghi che ne contengono le tracce (si veda il sito http://www.irsml.eu/ e per completezza dell’informazione anche il sito dell’Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione, Udine: http://www.ifsml.it/blog2/ ).

La condivisione di iniziative e di contenuti, tratto peculiare della rete degli istituti, è stato il presupposto che ha generato l’impegno dell’Istituto Storico della Resistenza in Toscana su queste tematiche, impegno stimolato dall’Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’età contemporanea che nella nostra regione ha svolto un ruolo di apripista con un viaggio di studio ‘intorno al confine orientale’ nel 2009, preceduto da un intenso lavoro di preparazione iniziato nel 2005 (cfr.:Luciana Rocchi, La nostra storia e la storia degli altri: viaggio intorno al Confine Orientale, in Senza più tornare. L’esodo istriano, fiumano, dalmata e gli esodi nell’Europa del Novecento, Torino, Edizioni SEB 27, 2012).

Il Progetto Confini difficili. Storia e memorie del ‘900. Da Trieste a Sarajevo – partito, per la prima volta, nell’anno scolastico 2011-2012, proseguito negli anni successivi e tuttora in corso – non può essere compreso se non si tiene conto dell’esperienza maturata e del patrimonio comune prodotti dalla rete degli istituti attraverso una molteplicità di iniziative, di progetti, di strumenti didattici in circa un decennio e nasce dall’incontro tra l’ISRT e l’associazione culturale “pAssaggi di Storia” con lo scopo di proporre un percorso tematico e didattico per gli insegnanti delle scuole superiori del territorio fiorentino e toscano sulla storia e le memorie di alcuni confini difficili del secolo scorso per sostenere una cultura di pace e di dialogo. Si articola in un ciclo di lezioni, di cui per comprenderne l’importanza si elencano i titoli delle lezioni previste per marzo, aprile, maggio 2015: Balcani, stratificazioni storiche: lingue, religioni, nazioni; Proposte didattiche oltre i confini identitari aestovest; La seconda guerra mondiale tra Italia e Jugoslavia; La questione nazionale nella Jugoslavia socialista 1945–1991; Le guerre jugoslave 1991-1995, e in un viaggio-studio come riflessione e approfondimento della storia del territorio che va da Trieste a Sarajevo con particolare accento sulla questione delle memorie divise presenti nelle narrazioni del ‘900. Il prossimo viaggio, nel settembre 2015, toccherà, i seguenti luoghi: Gonars, Gorizia, Basovizza (Friuli Venezia Giulia); Lubiana (Slovenia); Jasenovac-Donja Gradina (Croazia e Bosnia Erzegovina); Prijedor, Kozara, Sarajevo (Bosnia Erzegovina).

La possibilità di conoscere direttamente i partner in Slovenia, Croazia e Bosnia-Erzegovina rappresenta un’opportunità per l’ISRT intenzionato ad allargare le collaborazioni anche a livello internazionale e per le scuole coinvolte interessate a conoscere queste realtà; quindi entra in gioco anche una valenza di scambio e cooperazione internazionale tra istituti di ricerca e associazioni che si occupano di storia e memorie.

Dopo il viaggio è previsto un convegno storico-didattico – si riportano i temi oggetto di quelli degli anni passati: Gli esodi forzati di popolazione in Europa centrale e in alto Adriatico alla metà del XX secolo (2012); Confini, identità, violenze in alto Adriatico e nei Balcani nel lungo XX secolo (2013); Nazioni in guerra, guerra in Europa. Da Sarajevo a Sarajevo: tra alto Adriatico e Balcani occidentali 1914-2014 (2014); L’alto Adriatico tra guerra e pace nel Novecento europeo (2015), destinato alla scuole e aperto alla cittadinanza. che rappresenta l’occasione per i docenti partecipanti al progetto di riportare, attraverso i materiali raccolti e rielaborati, le proprie riflessioni sulle tematiche affrontate e con il coinvolgimento attivo degli studenti delle proprie classi. L’incontro si caratterizza, infatti, non solo per la presenza di storici specialistici di queste tematiche che approfondiscono ulteriormente i temi già affrontati nel ciclo di lezioni ma per la presentazione dei lavori da parte degli studenti stessi ed è anche occasione per informare e coinvolgere nel progetto altri insegnanti.

Articolo pubblicato nel febbraio del 2016.




La memoria della Shoah e la costruzione dell’Europa: percorsi e sfide dal dopoguerra ad oggi

Gentili signore e signori, consiglieri, autorità presenti, Rabbino Levi, sono molto onorato di essere stato invitato come relatore in occasione di questa importante ricorrenza e vorrei esprimere per ciò un sentito ringraziamento al Consiglio regionale, al suo Presidente Eugenio Giani e al Presidente della Regione Toscana Enrico Rossi.

Lo scorso anno le celebrazioni della Giornata della Memoria furono contrassegnate dal forte impatto emotivo suscitato dagli attentati terroristici di matrice islamista condotti a Parigi contro la sede del giornale Charlie Hebdo e un supermercato di prodotti Kosher. Nel cuore dell’Europa era stato lanciato un attacco omicida ai valori della laicità e della democrazia. E quell’attacco aveva assunto anche le vesti di un virulento antisemitismo. Dodici mesi dopo il clima purtroppo non è cambiato, anzi – dopo i tragici episodi avvenuti nella capitale francese lo scorso novembre, l’emergenza profughi, i fatti di Colonia, lo stillicidio di minacce e atti terroristici riconducibili al cosiddetto Stato islamico (ISIS) – la situazione appare ai nostri occhi ancora più allarmante. Come allarmante, per altri aspetti, risulta il fenomeno correlato, ben evidente da tempo in ogni paese europeo, rappresentato dall’erompere di movimenti nazionalisti xenofobi, non privi – soprattutto ad est – di un imprinting antisemita. Un fenomeno che rischia di far saltare i cardini su cui poggia la nostra civiltà democratica.
Dunque, anche quest’anno, qui a Firenze, come in tutta Europa, celebrare la Giornata della memoria ha un sapore particolare; ci chiama ad un compito particolare. Infatti, fare memoria della Shoah non significa semplicemente ricordare lo sterminio degli ebrei e delle altre vittime del nazismo, non significa rievocare il passato, ma implica attribuire al passato – a quel passato – un significato capace di illuminare l’oggi, per aiutarci a compiere le nostre scelte in una situazione difficile.

Ma come si può svolgere questo compito? Da storico ritengo sia utile – direi necessario – riflettere sul significato della memoria della Shoah collocandola nell’ambito più ampio della memoria europea della seconda guerra mondiale, che rappresenta ancora un punto di riferimento fondamentale per la nostra memoria collettiva.
Vorrei dunque provare a tracciare, molto sinteticamente, il percorso evolutivo di questa memoria europea. Lo farò appoggiandomi alle considerazioni di un brillante storico britannico purtroppo prematuramente scomparso, Tony Judt.
Judt ha indicato due grandi fasi della memoria europea del secondo dopoguerra: la prima che ha preso forma dopo il 1945, la seconda dopo il 1989. A suo giudizio, subito dopo il crollo del Terzo Reich, l’Europa è stata ricostruita – ad ovest come ad est – su una memoria fortemente selettiva imperniata su due pilastri comuni: da un lato, il mito della Resistenza come epica e corale lotta di liberazione nazionale contro i nazisti; dall’altro, l’attribuzione alla Germania e ai tedeschi dell’esclusività della colpa per le sofferenze e i crimini della guerra. They did it! Loro l’hanno fatto!
Naturalmente dietro tale raffigurazione stava un corposo nucleo di verità: in tutti i paesi che avevano subito l’occupazione nazista (e dovremmo aggiungere anche fascista) – dalla Norvegia alla Jugoslavia, dalla Francia alla Polonia – erano sorti movimenti di resistenza che avevano coraggiosamente lottato contro l’occupante pagando un prezzo altissimo e non c’è dubbio che sulle spalle dei tedeschi gravasse la responsabilità predominante per lo scatenamento della guerra e i crimini commessi. La “soluzione finale” porta un indelebile marchio germanico. Tuttavia, la glorificazione della Resistenza e la stigmatizzazione dei tedeschi hanno finito per oscurare altri aspetti importanti: la presenza ovunque nell’Europa occupata di forze collaborazioniste che avevano attivamente spalleggiato il nazismo e il fascismo, nonché il fatto che gravi crimini di guerra erano stati commessi da tutti i belligeranti, compresi i vincitori. Basti pensare – solo per fare degli esempi – alle uccisioni di migliaia di ufficiali polacchi perpetrate dall’Armata Rossa (le cosiddette fosse di Katyn), agli stupri compiuti dal Corpo di spedizione francese in Italia (le “marocchinate”), alle foibe (per restare al caso italiano) o alla serie di bombardamenti sui civili di natura terroristica condotti dagli anglo-americani culminati nelle due atomiche lanciate su Hiroshima e Nagasaki. Secondo Judt, la rimozione dalla memoria ufficiale di questi aspetti ha marchiato il Vecchio continente con quella che egli ha definito a vicious legacy – una “eredità maledetta” – caratterizzata da “una deliberata distorsione della memoria”, dall’”oblio come stile di vita”. Oblio del collaborazionismo filo-fascista, non riducibile ad un fenomeno di pochi invasati, e oblio dei crimini compiuti dagli altri, dai non tedeschi.
Il 1989, con la fine della guerra fredda e il ricongiungimento delle due Europee, è stato contrassegnato all’opposto da un “eccesso compensativo di memoria” che le istituzioni hanno promosso in ogni paese per fondare, o rifondare, nuove identità collettive dopo il crollo del Muro di Berlino. Il processo si è indirizzato lungo due nuove direttrici. A ovest, a partire dagli anni Novanta è emersa al centro della scena la memoria della Shoah. Il ricordo dello sterminio degli ebrei era stato certamente presente anche prima, ma – potremmo dire – solo come uno degli aspetti della memoria antifascista. Gli ebrei erano stati considerati una delle tante categorie di vittime del nazismo. Solo col passare degli anni la memoria della Shoah ha guadagnato autonomia e propulsione fino a diventare “mito fondante negativo” della memoria europea. Essa rimanda infatti ad una vera e propria “frattura di civiltà”, rappresenta il “crimine per eccellenza”: “il tentativo di un gruppo di europei di sterminare tutti i membri di un altro gruppo di europei”. In una Europa scossa dal riapparire di manifestazioni di odio antisemita e razzista e dal ripetersi nei suoi confini, dopo l’implosione della Jugoslavia, di crimini atroci contro i civili (si pensi a Sebrenica), la memoria della Shoah è assurta a “narrazione unificante” con valore di monito contro il rischio del ripetersi del Male. “Mai più!”
A est, invece, i paesi usciti da oltre quarant’anni di regimi comunisti sotto il controllo dell’Unione sovietica hanno proceduto a riedificare memorie nazionali rimaste a lungo congelate e hanno coltivato la memoria ancora scottante del comunismo. Essi hanno mostrato alcune differenze fra loro ma anche alcuni importanti tratti comuni: la tendenza a esternalizzare il comunismo come mero frutto dell’imposizione attuata dall’Armata rossa; la conseguente raffigurazione delle società nazionali nei panni di vittime innocenti e l’esaltazione dell’ostinata resistenza popolare – attiva e passiva – ai regimi comunisti; la rivendicazione infine dell’assimilazione dei crimini del comunismo ai crimini del nazismo.

A partire soprattutto dalla seconda metà degli anni Novanta, nel pieno dell’accelerazione del processo unitario dopo Maastricht, anche le istituzioni dell’Unione europea sono intervenute sul terreno della memoria attraverso politiche del ricordo sempre più incisive. Alla tradizionale narrativa europea della riconciliazione e della pace fra i paesi che si erano scannati nella prima e nella seconda guerra mondiale si è presto affiancata un’azione istituzionale – promossa soprattutto dal Parlamento di Strasburgo – per la costruzione di una comune memoria europea. Questa è stata fondata su due cardini: la Shoah e l’antitotalitarismo.
Dopo la dichiarazione del Forum internazionale di Stoccolma sull’Olocausto nel 2000, l’Unione europea ha trasformato progressivamente la memoria della Shoah in una sorta di religione civile alla base dei suoi valori fondamentali di democrazia, pace e difesa dei diritti umani. Come già fatto da numerosi Stati membri, anche a livello europeo il 27 gennaio è stato scelto dieci anni fa come Giornata europea della Shoah e nel novembre 2008 il Consiglio dell’Unione europea ha approvato la Decisione quadro sulla lotta contro il razzismo e la xenofobia volta ad uniformare la legislazione comunitaria attraverso l’adozione di una normativa antinegazionista.
All’allargamento dell’Unione europea ad est nel 2004 e nel 2007 ha fatto seguito una spinta crescente dei nuovi membri dell’Europa centrale ed orientale per l’adozione a livello comunitario di politiche della memoria incentrate sull’antitotalitarismo attraverso l’equiparazione fra nazismo e comunismo. A questo ha puntato la Dichiarazione di Praga del giugno 2008, primo firmatario l’ex leader del dissenso e Presidente cecoslovacco Vaclav Havel. Il documento chiedeva di riconoscere comunismo e nazismo come “eredità comune” dei paesi europei, definiva i crimini del comunismo come crimini contro l’umanità, perorava l’istituzione di una specifica giornata europea in ricordo delle vittime dei due totalitarismi, auspicava la revisione dei manuali di storia europei e la nascita a livello comunitario di un istituto scientifico e di un museo dedicati ai totalitarismi. Molte di queste proposte sono state recepite dalle istituzioni europee. Già nel settembre 2008 il Parlamento europeo ha istituito una “Giornata europea di commemorazione delle vittime dello stalinismo e del nazismo” scegliendo come data il 23 agosto, giorno della firma nel 1939 del Patto Ribbentrop-Molotov, letto come un accordo per la spartizione dell’Europa fra la Germania nazista e l’Unione sovietica. L’anno successivo (aprile 2009) il Parlamento ha votato la risoluzione su “Coscienza europea e totalitarismo” che pone al centro della memoria europea il ricordo dei due totalitarismi. Nel 2011 è nata la Piattaforma della memoria e della coscienza europea, un progetto educativo dell’UE per la diffusione della conoscenza dei regimi totalitari. Inoltre, ricordiamo che già dal 2007 l’Azione 4 del Progetto “Europa per i cittadini”, istituito dal Parlamento e dal Consiglio per promuovere la “cittadinanza europea attiva”, ha previsto un cospicuo finanziamento destinato alla memoria delle vittime del nazismo e dello stalinismo.
Dalla prospettiva delle istituzioni europee, questo intenso investimento economico e culturale indirizzato alla creazione di una memoria comune dovrebbe rafforzare se non creare quei legami di appartenenza e di identità fra i paesi membri indeboliti dal fallimento del trattato costituzionale dopo l’esito negativo dei referendum in Francia e in Olanda (2005). Legami che sono stati messi ancor più a repentaglio dagli effetti della crisi economica dopo il 2008, segnata da una contrapposizione interna all’Europa lungo l’asse nord-sud, dal diffondersi di movimenti populisti antieuropei, nonché dalla reviviscenza generalizzata di sentimenti e stereotipi antitedeschi.
Ma che effetti ha avuto la politica della memoria promossa da Bruxelles? Sul piano generale, essa ha ripreso e rafforzato alcuni indirizzi di fondo che, come abbiamo visto, si erano già manifestati nel contesto europeo post-89: una raffigurazione molto semplificata del Novecento come secolo della violenza, dei crimini e dei genocidi scatenati dalle opposte ideologie totalitarie, nazista e comunista, con i rispettivi apparati del terrore; una veloce erosione (radicale nei paesi ex-comunisti) del paradigma antifascista rimpiazzato da quello fondato sull’antitotalitarismo; la sostituzione come figura centrale dell’eroe partigiano con quella della vittima, la vittima innocente delle stragi naziste e delle violenze comuniste; l’arrivo sulla scena memoriale dei cosiddetti “giusti”, ovvero uomini e donne comuni che si sono distinti in azioni di solidarietà e protezione nei confronti dei perseguitati dai regimi totalitari. Si veda a questo proposito l’istituzione della “Giornata dei giusti” votata dal Parlamento europeo nel 2012.
Nel tentativo di abbinare la Shoah e il paradigma antitotalitario, la UE ha assunto con ogni evidenza come proprio modello la Vergangenheitsbewältigung tedesca, prima messa in atto da Bonn e, dopo la riunificazione, da Berlino. Nel caso della Germania, non vi è dubbio che si possa parlare di un percorso virtuoso che ha mantenuto al centro della memoria nazionale la resa dei conti con i crimini del nazismo culminati nello sterminio degli ebrei d’Europa e ha poi integrato tale memoria con quella del regime comunista nella DDR, la Germania orientale. Il più importante monumento tedesco è quello dedicato agli Ebrei d’Europa assassinati che sorge a Berlino, a due passi dal Bundestag,
Ma il modello tedesco, legato alle esperienze storiche vissute dalla Germania, può essere “europeizzato”? In verità, quel che funziona bene nella vigile democrazia tedesca non sembra funzionare altrettanto bene a livello europeo, dove sono emerse varie ombre. Innanzitutto, persiste una frizione memoriale fra est e ovest caratterizzata da una persistente concorrenza fra le “vittime del Gulag” e le “vittime del Lager”. Dietro la forte insistenza da est sul paradigma antitotalitario è poi apparso in molti casi un atteggiamento asimmetrico, tutto sbilanciato nella condanna del comunismo, che ha finito per riabilitare in maniera indiscriminata come eroi della patria tutti i nemici del comunismo, compresi noti – o meglio famigerati – esponenti di spicco del collaborazionismo filonazista degli anni della seconda guerra mondiale, come ad esempio Ante Pavelic in Croazia, il maresciallo Antonescu in Romania, Josef Tiso in Slovacchia; per non dire dei giovani volontari lettoni delle Waffen-SS cui gli ex-commilitoni hanno dedicato alcuni anni fa a Tallin una targa commemorativa come “combattenti della libertà”. É giusto che i paesi dell’Europa occidentale prendano coscienza di cosa hanno rappresentato per l’altra metà d’Europa i decenni di dominio comunista, ma non al prezzo di riabilitare collaborazionisti che molto spesso hanno avuto parte attiva nella persecuzione degli ebrei.
L’Italia non è immune da rischi di questo genere. Solo pochi anni fa, ad esempio, è stata realizzata con soldi pubblici ad Affile, un paesino vicino a Roma, la costruzione di un mausoleo dedicato al Maresciallo Rodolfo Graziani, capo delle forze armate della Repubblica sociale italiana e responsabile di numerosi crimini di guerra nelle colonie africane. Persiste poi l’attitudine a scaricare su altri le nostre responsabilità. Questo è particolarmente evidente proprio osservando la memoria della Shoah. Le leggi razziste del 1938 contro gli ebrei, volute da Mussolini e firmate dal Re, sono state – per riprendere un’espressione usata lo scorso anno dal presidente Rossi – “una vergogna assoluta che pesa ancora sulla storia dell’Italia, del nostro amato Paese”. Ebbene, non sono pochi in Italia coloro che continuano a credere che quelle leggi siano state imposte al Duce riluttante dallo spietato Führer di Berlino. Un’autentica frottola che nasconde le responsabilità del governo fascista che agì invece in piena autonomia. Ma c’è anche un altro aspetto importante. La celebrazione mediatica dei “giusti”, dei generosi “salvatori di ebrei”, come l’abile e coraggioso Giorgio Perlasca, ha finito per oscurare le responsabilità avute da tanti italiani nella persecuzione dei loro concittadini ebrei. Come ha scritto Simon Levis Sullam, l’Italia sembra essere passata dall’”era del testimone” – imperniata sulla memoria delle vittime – all’”era del salvatore” senza passare per alcuna “era del carnefice”. Un “colpevole oblio” sembra sceso sui tanti italiani che furono attori e complici della Shoah, coloro che parteciparono all’arresto degli ebrei (poco meno della metà degli arresti fu compiuto da italiani), i delatori che li denunciarono, coloro che si appropriarono dei loro beni e dei loro posti di lavoro, quanti semplicemente stettero a guardare o rivolsero lo sguardo altrove. Figure di salvatori di ebrei, come Perlasca, sono giustamente molto famose, ma quanti in Italia conoscono ad esempio il commissario prefettizio Giovanni Francesco Martelloni capo dell’Ufficio Affari ebraici di Firenze, uno spietato cacciatore di ebrei responsabile di decine di arresti di uomini, donne e bambini finiti ad Auschwitz? Basta dare un’occhiata a Google per farsi un’idea: per Perlasca risultano 139 mila contatti; per Martelloni 150!
Anche in Italia, infine, come in Europa, si è assistito negli ultimi quindici anni ad una competizione fra memorie diverse della seconda guerra mondiale, tutte riconosciute e promosse dalle istituzioni statali. Mi riferisco alle principali di esse: la memoria appunto della Shoah, che stiamo celebrando oggi, la memoria delle foibe legata alla celebrazione del Giorno del ricordo il 10 febbraio, la memoria della Resistenza incentrata sul 25 aprile. Secondo alcuni storici come Giovanni De Luna e Sergio Luzzatto, la memoria della Shoah avrebbe eroso se non scalzato la memoria della Resistenza. Ora, la memoria della Shoah ha sicuramente – e per fortuna – guadagnato spazio nella coscienza pubblica, ma la memoria della Resistenza – grazie soprattutto all’impegno del Quirinale, da Ciampi a Mattarella – è rimasta un punto di riferimento fondamentale. Non sono due memorie in conflitto. Anzi, per certi aspetti sono complementari: infatti, se la memoria della Shoah può essere vista come strumento di salvaguardia dei diritti umani contro ogni tipo di discriminazione, la memoria della Resistenza – col suo forte vincolo alla Costituzione – resta una base di riferimento per i diritti di cittadinanza, il diritto al lavoro, alla salute, all’educazione, ad un ambiente sano… Entrambe sono vitali per la salute della nostra democrazia.
Introdotta dal Parlamento nel 2004, la memoria delle foibe ha avuto nei primi anni un carattere antagonistico rispetto a quella della Resistenza e competitivo rispetto a quella della Shoah. Restano impulsi in questa direzione, ma è importante – a mio avviso – che negli ultimi anni del suo mandato l’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano abbia fatto molto per trasformarla da una memoria di matrice nazionalista con venature antislave in una memoria europea riconciliata basata su un impegno comune fra Italia, Slovenia e Croazia. Un impegno a riconoscere i torti che storicamente un paese ha inflitto all’altro (prima delle foibe ci sono stati i crimini italiani in Jugoslavia) per collaborare attivamente da ora in poi, senza il peso di un passato conflittuale, come membri dell’Unione europea. Questo quadro europeo è del resto la corretta cornice di riferimento in cui agisce nella sua azione memoriale la Regione Toscana, grazie anche all’impegno dell’Istituto storico della Resistenza in Toscana e della rete degli istituti collegati.
Sono dunque tornato al contesto europeo da cui ero partito. E vorrei qui concludere con alcune considerazioni finali.
All’indomani dei sanguinosi attacchi jihadisti a Parigi dello scorso 13 novembre, una delle firme di punta del Sole24Ore, Alberto Negri, ha dedicato un articolo lucido e appassionato alla lotta cui siamo chiamati oggi per sconfiggere la minaccia dell’ISIS. E Negri ha esordito citando quello che secondo Sartre era (e potremmo dire – è) il più bel romanzo dedicato alla Resistenza: “Educazione europea”, opera del grande scrittore Romain Gary, ebreo lituano – eroe della resistenza francese. “Come va la battaglia di Stalingrado dei russi contro i nazisti?”, si chiedono i partigiani polacchi nel romanzo.
“Come va la battaglia contro il Califfato? Se avessimo ancora un’educazione europea – scrive Alberto Negri – questa è la domanda che dovremmo farci tutti i giorni e che forse si faranno adesso (…) i francesi. Rispondere al terrore con la solidarietà e le bandiere a mezz’asta va bene ma se avessimo ancora un’educazione europea dovremmo replicare colpo su colpo al terrorismo e alla sua minaccia, entrata nella nostra vita quotidiana con una strage di innocenti”.
Di fronte alla minaccia e alla sfida del terrorismo dunque Negri, e insieme a lui molti altri, si richiamano – in molti casi riscoprono – l’eredità della Resistenza, un’eredità che era sembrata molto appannata dopo il 1989. Ma attenzione: alla Resistenza contro il pericolo islamico si sono appellati e si appellano anche i movimenti xenofobi europei. “Widerstand, Widerstand!” (Resistenza! Resistenza!) hanno gridato i sostenitori di Pegida (i cosiddetti Patrioti europei contro l’islamizzazione dell’Occidente) dopo i gravi fatti di Colonia fomentando la caccia agli immigrati. Dobbiamo dunque fare attenzione e tenere assieme l’eredità della Resistenza con quella della Shoah. La prima ci sprona ad una difesa attiva della democrazia, la seconda ci ricorda di essere vigili contro ogni forma di razzismo e di xenofobia, inclusa l’islamofobia. É questa la nostra “educazione europea”.
Vi ringrazio dell’attenzione.

Articolo pubblicato nel gennaio del 2016.




Le sirene della grande fabbrica nell’Alta Maremma

Ancora negli anni Settanta, andare a Suvereto, era considerato dagli abitanti della vicina città industriale: Piombino, un viaggio quasi a ritroso nel tempo, dentro una zona povera contrassegnata paesaggisticamente da un’abbondanza di macchia mediterranea. Per i giovani che vi abitavano il desiderio più forte era quello di sfuggire da quei luoghi, da quei boschi ricchi di cinghiali e di istrici ma poco, anzi pochissimo, di prospettive di vita allettanti.

E vicino a quel comune rurale c’era la presenza di una realtà industriale forte e consolidata che attirava con le sue sirene, sia quelle vere e proprie, sia quelle più metaforiche, ma anche forse più avvincenti, che raccontavano un inserimento diverso dentro la “modernità”: la casa in città, la centralità nel dibattito politico e culturale del tema dei “metalmeccanici”, il lavoro nella grande industria a capitale pubblico, la sicurezza del salario mese dopo mese, anno dopo anno. Non erano certo quelli i decenni del lavoro interinale, a termine o a progetto. Il lavoro alle Acciaierie, così come alla Dalmine o alla Magona, sembrava senza fine, senza scosse, dava inquadramento alla propria vita e permetteva la costituzione di un nucleo familiare appoggiato su solide premesse.

Occorre però ricordare che quell’attrazione verso i grandi stabilimenti della costa si esercitava già da molti decenni e si realizzava soprattutto tramite le donne presenti nella casa contadina mezzadrile che, quando si profilava loro la possibilità, cercavano di scappare dalla fatica dei lavori in campagna, sposando un lavoratore dell’industria. Una scelta di vita che diventava anche un vero e proprio strumento di emancipazione dalla vecchia famiglia patriarcale.

denigris

Fonte: L. De Nigris, “Suberetum, Sughereto, Suvereto”, Comitato di Valorizzazione e Comune di Suvereto.

Questa tradizioni di “partenza verso la città industriale” che talvolta oltre ad essere quella vicina di Piombino, poteva essere anche quella un po’ più distante di Rosignano con il polo chimico della Solvay, si erano mantenute e consolidate ma erano in qualche modo soprattutto partenza di donne. Gli uomini rimanevano in casa magari aggiungevano mogli provenienti talvolta da fuori e mandavano avanti il podere.

Ma la maggiore scolarizzazione seguita alla riforma della media, l’istituto professionale legato alla siderurgia pubblica, comportò per tutto il decennio Sessanta il richiamo e la partenza anche di elementi maschili dalle campagne vicine verso un destino urbano e industriale. E questo processo si sviluppa più o meno senza fratture fino alla seconda metà degli anni Settanta.

Ma verso la fine di quel decennio, qualcosa cominciò a scricchiolare. Da una parte il tema del “rifiuto del lavoro” e del movimento degli “indiani metropolitani”, dall’altra una maggiore coscienza ecologista si irrobustì, la magia del richiamo per il lavoro senza scadenza, a tempo indeterminato, cominciò ad essere percepita come una gabbia, una gabbia dalla quale uscire. Si cominciarono a cercare soluzioni fuori dal perimetro industriale, talvolta guardando ad un turismo improbabile come quello raccontato anni dopo da Paolo Virzì nel film La bella vita, talvolta provando a fare un viaggio a ritroso, un ritorno alla campagna e da lì reinventarsi una vita, un lavoro, un’attività.

Cominciarono i primi autolicenziamenti dalla grande fabbrica (i primi casi datano 1978-79), che lasciavano soprattutto senza parole l’allora addetto all’Ufficio personale delle Acciaierie. Non c’era memoria di una tale impudenza in nessuno dei decenni precedenti.

Eppure in qualche modo, anche se sicuramente non tutti, furono percorsi a lieto fine, quei giovani che scappavano dalla siderurgia, dal mondo industriale, fecero la scelta giusta. Il tempo gli avrebbe dato ragione. Oggi, abitare a Suvereto, magari all’interno di una azienda agricola proiettata nel mondo col suo sito internet, con il suo pacchetto di relazioni, significa prima di tutto stare dentro un contesto che privilegia la qualità della vita, ma dà anche la possibilità di ricavare reddito da questa.

Non ci fu però, come talvolta si cerca di far passare, una sostituzione di un’attività con un’altra. I numeri che l’agricoltura, anche quella di qualità, mettono in gioco come possibilità di lavoro, sono assolutamente irrisori rispetto all’occupazione offerta dalle attività industriali. E questo resta il problema aperto per tutti noi.

Articolo pubblicato nel dicembre del 2015.