“Caterina la Santa”. Il film “fascista” che non vide mai la luce

Nelle ultime settimane del 1934, poco tempo dopo il suo approdo alla Direzione generale della cinematografia fascista, Luigi  Freddi, scrisse a Galeazzo Ciano, allora sottosegretario di Stato per la stampa e la propaganda, prospettandogli la realizzazione di un nuovo film. «Il tema per un film su Caterina la Santa, – spiegava Freddi – […] è enormemente suggestivo. Si è in piena atmosfera di italianità, di poesia, di sacrificio, di passione, di fede. Un soggetto cinematografico di tal natura porterebbe sullo schermo un magnifico materiale, universalmente ammirato (Siena e tutta la pittura religiosa dei primitivi italiani) ed esprimerebbe sentimenti di alta portata spirituale, oltre a mettere in particolare rilievo la coscienza di italianità professata dalla Santa e ad elevare il sentimento della massa in un’atmosfera di bontà e di volontà». Freddi completava il quadro, aggiungendo dettagli tesi a esaltare col film il patrimonio artistico italiano e il ruolo di Siena come custode d’arte. «Alle opere d’arte figurative dei primitivi (di cui la Pinacoteca di Siena può fornire gli spunti più impensati e commoventi) – scriveva il “gerarca di celluloide” – dovrebbe essere unito, quale commento fonico, il patrimonio dell’arte musicale della nostra Rinascenza, tipica creazione della nostra razza che dal canto gregoriano si umanizza attraverso il Palestrina per giungere poi alle melodie inarrivabili del Carissimi, fornendo quindi tutti gli elementi intimi e poetici necessari ad un commento musicale adeguato».

patrona giovani

Immaginetta devozionale di Santa Caterina, patrona delle Giovani italiane (foto tratta da www.biagiogamba.it)

Tra i molti risvolti della Conciliazione del 1929 tra l’Italia fascista e la Santa Sede, tra i meno conosciuti c’è probabilmente il processo che portò all’affermarsi di una santità nazionale al servizio della ritualità di regime. Un processo composito, articolato in momenti di osmosi, ma anche di competizioni e concorrenze tra le forme di costruzione degli apparati simbolici e rituali di cattolici e fascisti. L’idea di una santità italiana, già comparsa nel cattolicesimo liberale di metà Ottocento, aveva trovato nel periodo fascista l’humus più adatto per proliferare, sull’onda lunga del suo rilancio col nazionalismo di inizio Novecento. Forte di potenti gruppi di pressione Caterina da Siena occupò il posto più alto nella gerarchia della santità nazionale nell’Italia fascista, insieme a Francesco d’Assisi e Giovanni Bosco. Non a caso per Francesco e Caterina, la parabola di santi nazionali per eccellenza doveva suggellarsi con la proclamazione a patroni d’Italia nel giugno 1939. In questo quadro non stupisce che proprio su queste tre figure si fossero concentrati fino a quel momento i più reiterati progetti di narrazione agiografica a mezzo cinema. Ma se per il santo assisiate, col film Frate Francesco di Giulio Antamoro uscito nel 1927, e per il santo di Valdocco, portato sugli schermi da Goffredo Alessandrini col Don Bosco del 1935, i progetti cinematografici trovarono uno sbocco, per la santa senese le idee di trasposizione sul grande schermo si fermarono alle battute iniziali.

Eppure Luigi Freddi, che più di tutti lavorò ad una fascistizzazione del cinema, aveva puntato molto sull’operazione agiografica legata alla santa di Fontebranda. Nelle sue intenzioni il progetto si prestava a convalidare esplicitamente l’abbraccio della cinematografia fascista con il mondo cattolico avviatosi col suo arrivo alla testa della Direzione generale per il cinema. Freddi del resto non aveva nascosto agli emissari pontifici la volontà di inserire i cattolici nel suo piano di “rivoluzione” della cinematografia di regime, incardinato su un nuovo slancio per una produzione che fosse «prettamente italiana e profondamente morale». Ai suoi occhi, santa Caterina – come rivela nelle sue memorie postbelliche – rappresentava il modello perfetto per inaugurare il nuovo corso. La svolta del Concordato aveva d’altra parte fornito anche al culto di santa Caterina – fino ad allora legato a doppio filo al papato – l’occasione per diventare un culto nazionale, di cui il fascismo fosse non solo spettatore, ma promotore attivo.

Luigi Freddi (foto tratta da: www.wolfsoniana.it)

Luigi Freddi (foto tratta da: www.wolfsoniana.it)

L’iniziativa di Freddi si inseriva in un solco già ben avviato: nel febbraio 1930 l’anniversario della Conciliazione era stata occasione per l’Ordine domenicano e per la Corporazione dei caterinati di rinvigorire la campagna per la proclamazione di Caterina patrona d’Italia, processo che avrebbe avuto un nuovo impulso in occasione dell’Anno Santo straordinario del 1933 quando a questo scopo la Società di Studi Cateriniani si fece promotrice di un voto della città di Siena. Freddi provò a dare ali al suo progetto coinvolgendo Piero Misciattelli che nella città del Palio era stato tra i promotori più ferventi di una cattedra di Studi cateriniani all’Università locale e tra i primi a intravedere le potenzialità nazionaliste del misticismo cateriniano.

Ma il vero salto di qualità culturale dell’operazione doveva essere il coinvolgimento del poliedrico intellettuale fiorentino Giovanni Papini, che, dopo la Grande Guerra, con la sua fertile penna era divenuto uno degli alfieri più intransigenti del progetto ierocratico di restaurazione della societas christiana. Come molti della sua generazione, il dirigente fascista era rimasto impressionato dalla “giravolta” di Papini consumatasi nell’arco di un decennio. L’autore blasfemo delle Memorie d’Iddio (1911), divenuto il convertito di grande successo editoriale della Storia di Cristo (1921), agli occhi di Freddi aveva il giusto profilo per partorire la sceneggiatura perfetta che ponesse il sigillo all’«italianità» della santa di Fontebranda e che, nel contempo, potesse divenire simbolica rappresentazione dell’abbraccio cattolico-fascista. Pur se Papini non rimase estraneo al fascino dell’“ideologia italiana” adottata e promossa dal fascismo, è difficile credere che si prestasse a sposare in pieno un progetto con connotati così smaccatamente ideologici. Motivi politici che influirono probabilmente anche sul fallimento definitivo dell’operazione del film su Santa Caterina nella sua fase di decollo: il primo interlocutorio contatto preso da Freddi nel novembre 1934 con Ruffo della Scaletta e Corazzin, i rappresentanti meno filofascisti dell’Ecer e della Lux Christiana —  i due enti cinematografici cattolici al centro allora di una complessa operazione di restyling  — non avrebbe avuto alcun seguito.

Giovanni Papini (foto tratta da Wikipedia)

Giovanni Papini (foto tratta da Wikipedia)

È certo però che l’idea della pellicola sulla Senese, tramite la «Minerva Film», nei mesi successivi passò nelle mani del grande regista del realismo francese Julien Duvivier, perdendo sempre più i contenuti ideologici con cui era stata battezzata, ma senza mai trovare uno sbocco produttivo. Papini continuò a rivedere il soggetto almeno fino al 1937, avendo modo di parlarne in diverse occasioni attraverso interviste concesse a giornali e riviste. In esse l’intellettuale toccava i temi al centro del delicato dibattito sulla rappresentabilità dei soggetti religiosi, tutti interni alla cultura cattolica. «Un film che abbia a protagonista santa Caterina da Siena – dichiarò Papini, nel febbraio 1937, all’intervistatore de “L’Osservatore Romano della Domenica” – non può essere concepito come uno dei moderni film di fantasia e d’avventura. La ragione d’essere della Vergine senese è la santità, e per conseguenza, ogni spettacolo che intenda rappresentare la sua vita, deve in qualche modo ricordare e arieggiare una sacra rappresentazione».

Solo nel dopoguerra l’idea di trasporre la vita della santa senese poté trovare una concretizzazione. Niente a che vedere però con le raffinate elaborazioni culturali e artistiche che avevano accompagnato i progetti Duvivier-Papini. A raccogliere il testimone fu infatti il regista Oreste Palella che in ben due film prodotti a distanza di circa dieci anni, non riuscì ad incontrare i favori di critica e pubblico. Se Caterina da Siena del 1947 fu apertamente mal giudicato dalla rivista «Intermezzo» («A certi argomenti – così la recensione – e a certi personaggi bisognerebbe accostarsi con maggiore preparazione, con mezzi meno limitati ed anche con una buona dose di rispetto. […] a vedere il film si ha l’impressione che ad un certo momento sia sorta la necessità di condurlo rapidamente a termine, bene o male»), non miglior sorte toccò a Io Caterina del 1956 stroncato senza mezzi termini dalle Segnalazioni Cinematografiche, elaborate dal Centro cattolico cinematografico che era una diretta emanazione dell’Azione cattolica italiana: «E’ un film di modesta fattura, semplicistico nel suo svolgimento, interpretato con scarsa convinzione. Ambientazione di maniera».

*Gianluca della Maggiore è dottore di ricerca in Storia. Collabora con l’Università degli studi di Milano nell’ambito del PRIN “I cattolici e il cinema in Italia tra gli anni ’40 e gli anni ’70”. E’ membro del coordinamento di redazione di ToscanaNovecento e collabora con l’Istoreco di Livorno. Autore di studi sul mondo cattolico, si occupa di cinema, Resistenza e movimenti politici. Tra i suoi ultimi saggi Il Don Bosco di Alessandrini tra fascismo e universalismo cristiano, in “Immagine. Note di storia del cinema”, 10, luglio-dicembre 2014.

Articolo pubblicato nel luglio del 2016.




CONFINI DIFFICILI

«Il “Giorno del Ricordo” in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale…» come recita il titolo della legge istitutiva del marzo 2004, fa parte di quel calendario civile della nostra Repubblica che ormai si è consolidato all’interno dell’insegnamento della storia contemporanea nella scuola, calendario che nel suo insieme, si pensi anche al “Giorno della memoria”, racchiude in sé temi e problemi sia di carattere storiografico che di didattica della storia.

La rete degli istituti storici della resistenza non si è sottratta all’impegno che l’istituzione del Giorno del Ricordo richiedeva e tutt’ora richiede in termini di ricerca storica, di approfondimento dei canoni interpretativi e di mediazione didattica. Di conseguenza,un approccio alle vicende del Confine orientale non celebrativo ma la costruzione di una tappa di conoscenza che, depurata dall’insidiosa tendenza all’assolutizzazione di chiavi emotive e a semplificatorie focalizzazioni chiuse in ambiti cronologici ristretti, si avvalga di modelli esegetici e di ricostruzioni storiche di lungo periodo dove le drammatiche e dolorose vicende delle foibe e degli esodi siano inserite in un contesto di storia dell’Europa, prima, durante e dopo la seconda guerra mondiale. Non è un caso se, nell’ottobre dell’anno successivo all’entrata in vigore della legge, si svolgeva a Torino un Corso di formazione per insegnanti e formatori sulla Storia della Frontiera Orientale, promosso dall’Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia con l’Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione nel Friuli Venezia Giulia di Trieste e con l’Istituto piemontese per la Storia della Resistenza e della Società contemporanea di Torino, primo momento di messa a punto e di verifica di un approccio di lungo periodo come si evince dal titolo del volume che ha raccolto gli atti di quell’evento (Dall’impero austro-ungarico alle foibe. Conflitti nell’area alto adriatica, Torino, Bollati Boringhieri, 2009). Ma il Confine orientale come laboratorio per la storia del Novecento con tutte quelle implicazioni sulla formazione dei docenti e di didattica sul campo che lo strumento laboratorio comporta, non può essere compreso senza far riferimento al lavoro pionieristico dell’Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione nel Friuli Venezia Giulia che ben prima del 2004 si è impegnato sul terreno della promozione della ricerca, dell’attività editoriale nonché del rapporto con la scuola coniugando sul proprio territorio il nesso tra memoria, conoscenza storica e i luoghi che ne contengono le tracce (si veda il sito http://www.irsml.eu/ e per completezza dell’informazione anche il sito dell’Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione, Udine: http://www.ifsml.it/blog2/ ).

La condivisione di iniziative e di contenuti, tratto peculiare della rete degli istituti, è stato il presupposto che ha generato l’impegno dell’Istituto Storico della Resistenza in Toscana su queste tematiche, impegno stimolato dall’Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’età contemporanea che nella nostra regione ha svolto un ruolo di apripista con un viaggio di studio ‘intorno al confine orientale’ nel 2009, preceduto da un intenso lavoro di preparazione iniziato nel 2005 (cfr.:Luciana Rocchi, La nostra storia e la storia degli altri: viaggio intorno al Confine Orientale, in Senza più tornare. L’esodo istriano, fiumano, dalmata e gli esodi nell’Europa del Novecento, Torino, Edizioni SEB 27, 2012).

Il Progetto Confini difficili. Storia e memorie del ‘900. Da Trieste a Sarajevo – partito, per la prima volta, nell’anno scolastico 2011-2012, proseguito negli anni successivi e tuttora in corso – non può essere compreso se non si tiene conto dell’esperienza maturata e del patrimonio comune prodotti dalla rete degli istituti attraverso una molteplicità di iniziative, di progetti, di strumenti didattici in circa un decennio e nasce dall’incontro tra l’ISRT e l’associazione culturale “pAssaggi di Storia” con lo scopo di proporre un percorso tematico e didattico per gli insegnanti delle scuole superiori del territorio fiorentino e toscano sulla storia e le memorie di alcuni confini difficili del secolo scorso per sostenere una cultura di pace e di dialogo. Si articola in un ciclo di lezioni, di cui per comprenderne l’importanza si elencano i titoli delle lezioni previste per marzo, aprile, maggio 2015: Balcani, stratificazioni storiche: lingue, religioni, nazioni; Proposte didattiche oltre i confini identitari aestovest; La seconda guerra mondiale tra Italia e Jugoslavia; La questione nazionale nella Jugoslavia socialista 1945–1991; Le guerre jugoslave 1991-1995, e in un viaggio-studio come riflessione e approfondimento della storia del territorio che va da Trieste a Sarajevo con particolare accento sulla questione delle memorie divise presenti nelle narrazioni del ‘900. Il prossimo viaggio, nel settembre 2015, toccherà, i seguenti luoghi: Gonars, Gorizia, Basovizza (Friuli Venezia Giulia); Lubiana (Slovenia); Jasenovac-Donja Gradina (Croazia e Bosnia Erzegovina); Prijedor, Kozara, Sarajevo (Bosnia Erzegovina).

La possibilità di conoscere direttamente i partner in Slovenia, Croazia e Bosnia-Erzegovina rappresenta un’opportunità per l’ISRT intenzionato ad allargare le collaborazioni anche a livello internazionale e per le scuole coinvolte interessate a conoscere queste realtà; quindi entra in gioco anche una valenza di scambio e cooperazione internazionale tra istituti di ricerca e associazioni che si occupano di storia e memorie.

Dopo il viaggio è previsto un convegno storico-didattico – si riportano i temi oggetto di quelli degli anni passati: Gli esodi forzati di popolazione in Europa centrale e in alto Adriatico alla metà del XX secolo (2012); Confini, identità, violenze in alto Adriatico e nei Balcani nel lungo XX secolo (2013); Nazioni in guerra, guerra in Europa. Da Sarajevo a Sarajevo: tra alto Adriatico e Balcani occidentali 1914-2014 (2014); L’alto Adriatico tra guerra e pace nel Novecento europeo (2015), destinato alla scuole e aperto alla cittadinanza. che rappresenta l’occasione per i docenti partecipanti al progetto di riportare, attraverso i materiali raccolti e rielaborati, le proprie riflessioni sulle tematiche affrontate e con il coinvolgimento attivo degli studenti delle proprie classi. L’incontro si caratterizza, infatti, non solo per la presenza di storici specialistici di queste tematiche che approfondiscono ulteriormente i temi già affrontati nel ciclo di lezioni ma per la presentazione dei lavori da parte degli studenti stessi ed è anche occasione per informare e coinvolgere nel progetto altri insegnanti.

Articolo pubblicato nel febbraio del 2016.




La memoria della Shoah e la costruzione dell’Europa: percorsi e sfide dal dopoguerra ad oggi

Gentili signore e signori, consiglieri, autorità presenti, Rabbino Levi, sono molto onorato di essere stato invitato come relatore in occasione di questa importante ricorrenza e vorrei esprimere per ciò un sentito ringraziamento al Consiglio regionale, al suo Presidente Eugenio Giani e al Presidente della Regione Toscana Enrico Rossi.

Lo scorso anno le celebrazioni della Giornata della Memoria furono contrassegnate dal forte impatto emotivo suscitato dagli attentati terroristici di matrice islamista condotti a Parigi contro la sede del giornale Charlie Hebdo e un supermercato di prodotti Kosher. Nel cuore dell’Europa era stato lanciato un attacco omicida ai valori della laicità e della democrazia. E quell’attacco aveva assunto anche le vesti di un virulento antisemitismo. Dodici mesi dopo il clima purtroppo non è cambiato, anzi – dopo i tragici episodi avvenuti nella capitale francese lo scorso novembre, l’emergenza profughi, i fatti di Colonia, lo stillicidio di minacce e atti terroristici riconducibili al cosiddetto Stato islamico (ISIS) – la situazione appare ai nostri occhi ancora più allarmante. Come allarmante, per altri aspetti, risulta il fenomeno correlato, ben evidente da tempo in ogni paese europeo, rappresentato dall’erompere di movimenti nazionalisti xenofobi, non privi – soprattutto ad est – di un imprinting antisemita. Un fenomeno che rischia di far saltare i cardini su cui poggia la nostra civiltà democratica.
Dunque, anche quest’anno, qui a Firenze, come in tutta Europa, celebrare la Giornata della memoria ha un sapore particolare; ci chiama ad un compito particolare. Infatti, fare memoria della Shoah non significa semplicemente ricordare lo sterminio degli ebrei e delle altre vittime del nazismo, non significa rievocare il passato, ma implica attribuire al passato – a quel passato – un significato capace di illuminare l’oggi, per aiutarci a compiere le nostre scelte in una situazione difficile.

Ma come si può svolgere questo compito? Da storico ritengo sia utile – direi necessario – riflettere sul significato della memoria della Shoah collocandola nell’ambito più ampio della memoria europea della seconda guerra mondiale, che rappresenta ancora un punto di riferimento fondamentale per la nostra memoria collettiva.
Vorrei dunque provare a tracciare, molto sinteticamente, il percorso evolutivo di questa memoria europea. Lo farò appoggiandomi alle considerazioni di un brillante storico britannico purtroppo prematuramente scomparso, Tony Judt.
Judt ha indicato due grandi fasi della memoria europea del secondo dopoguerra: la prima che ha preso forma dopo il 1945, la seconda dopo il 1989. A suo giudizio, subito dopo il crollo del Terzo Reich, l’Europa è stata ricostruita – ad ovest come ad est – su una memoria fortemente selettiva imperniata su due pilastri comuni: da un lato, il mito della Resistenza come epica e corale lotta di liberazione nazionale contro i nazisti; dall’altro, l’attribuzione alla Germania e ai tedeschi dell’esclusività della colpa per le sofferenze e i crimini della guerra. They did it! Loro l’hanno fatto!
Naturalmente dietro tale raffigurazione stava un corposo nucleo di verità: in tutti i paesi che avevano subito l’occupazione nazista (e dovremmo aggiungere anche fascista) – dalla Norvegia alla Jugoslavia, dalla Francia alla Polonia – erano sorti movimenti di resistenza che avevano coraggiosamente lottato contro l’occupante pagando un prezzo altissimo e non c’è dubbio che sulle spalle dei tedeschi gravasse la responsabilità predominante per lo scatenamento della guerra e i crimini commessi. La “soluzione finale” porta un indelebile marchio germanico. Tuttavia, la glorificazione della Resistenza e la stigmatizzazione dei tedeschi hanno finito per oscurare altri aspetti importanti: la presenza ovunque nell’Europa occupata di forze collaborazioniste che avevano attivamente spalleggiato il nazismo e il fascismo, nonché il fatto che gravi crimini di guerra erano stati commessi da tutti i belligeranti, compresi i vincitori. Basti pensare – solo per fare degli esempi – alle uccisioni di migliaia di ufficiali polacchi perpetrate dall’Armata Rossa (le cosiddette fosse di Katyn), agli stupri compiuti dal Corpo di spedizione francese in Italia (le “marocchinate”), alle foibe (per restare al caso italiano) o alla serie di bombardamenti sui civili di natura terroristica condotti dagli anglo-americani culminati nelle due atomiche lanciate su Hiroshima e Nagasaki. Secondo Judt, la rimozione dalla memoria ufficiale di questi aspetti ha marchiato il Vecchio continente con quella che egli ha definito a vicious legacy – una “eredità maledetta” – caratterizzata da “una deliberata distorsione della memoria”, dall’”oblio come stile di vita”. Oblio del collaborazionismo filo-fascista, non riducibile ad un fenomeno di pochi invasati, e oblio dei crimini compiuti dagli altri, dai non tedeschi.
Il 1989, con la fine della guerra fredda e il ricongiungimento delle due Europee, è stato contrassegnato all’opposto da un “eccesso compensativo di memoria” che le istituzioni hanno promosso in ogni paese per fondare, o rifondare, nuove identità collettive dopo il crollo del Muro di Berlino. Il processo si è indirizzato lungo due nuove direttrici. A ovest, a partire dagli anni Novanta è emersa al centro della scena la memoria della Shoah. Il ricordo dello sterminio degli ebrei era stato certamente presente anche prima, ma – potremmo dire – solo come uno degli aspetti della memoria antifascista. Gli ebrei erano stati considerati una delle tante categorie di vittime del nazismo. Solo col passare degli anni la memoria della Shoah ha guadagnato autonomia e propulsione fino a diventare “mito fondante negativo” della memoria europea. Essa rimanda infatti ad una vera e propria “frattura di civiltà”, rappresenta il “crimine per eccellenza”: “il tentativo di un gruppo di europei di sterminare tutti i membri di un altro gruppo di europei”. In una Europa scossa dal riapparire di manifestazioni di odio antisemita e razzista e dal ripetersi nei suoi confini, dopo l’implosione della Jugoslavia, di crimini atroci contro i civili (si pensi a Sebrenica), la memoria della Shoah è assurta a “narrazione unificante” con valore di monito contro il rischio del ripetersi del Male. “Mai più!”
A est, invece, i paesi usciti da oltre quarant’anni di regimi comunisti sotto il controllo dell’Unione sovietica hanno proceduto a riedificare memorie nazionali rimaste a lungo congelate e hanno coltivato la memoria ancora scottante del comunismo. Essi hanno mostrato alcune differenze fra loro ma anche alcuni importanti tratti comuni: la tendenza a esternalizzare il comunismo come mero frutto dell’imposizione attuata dall’Armata rossa; la conseguente raffigurazione delle società nazionali nei panni di vittime innocenti e l’esaltazione dell’ostinata resistenza popolare – attiva e passiva – ai regimi comunisti; la rivendicazione infine dell’assimilazione dei crimini del comunismo ai crimini del nazismo.

A partire soprattutto dalla seconda metà degli anni Novanta, nel pieno dell’accelerazione del processo unitario dopo Maastricht, anche le istituzioni dell’Unione europea sono intervenute sul terreno della memoria attraverso politiche del ricordo sempre più incisive. Alla tradizionale narrativa europea della riconciliazione e della pace fra i paesi che si erano scannati nella prima e nella seconda guerra mondiale si è presto affiancata un’azione istituzionale – promossa soprattutto dal Parlamento di Strasburgo – per la costruzione di una comune memoria europea. Questa è stata fondata su due cardini: la Shoah e l’antitotalitarismo.
Dopo la dichiarazione del Forum internazionale di Stoccolma sull’Olocausto nel 2000, l’Unione europea ha trasformato progressivamente la memoria della Shoah in una sorta di religione civile alla base dei suoi valori fondamentali di democrazia, pace e difesa dei diritti umani. Come già fatto da numerosi Stati membri, anche a livello europeo il 27 gennaio è stato scelto dieci anni fa come Giornata europea della Shoah e nel novembre 2008 il Consiglio dell’Unione europea ha approvato la Decisione quadro sulla lotta contro il razzismo e la xenofobia volta ad uniformare la legislazione comunitaria attraverso l’adozione di una normativa antinegazionista.
All’allargamento dell’Unione europea ad est nel 2004 e nel 2007 ha fatto seguito una spinta crescente dei nuovi membri dell’Europa centrale ed orientale per l’adozione a livello comunitario di politiche della memoria incentrate sull’antitotalitarismo attraverso l’equiparazione fra nazismo e comunismo. A questo ha puntato la Dichiarazione di Praga del giugno 2008, primo firmatario l’ex leader del dissenso e Presidente cecoslovacco Vaclav Havel. Il documento chiedeva di riconoscere comunismo e nazismo come “eredità comune” dei paesi europei, definiva i crimini del comunismo come crimini contro l’umanità, perorava l’istituzione di una specifica giornata europea in ricordo delle vittime dei due totalitarismi, auspicava la revisione dei manuali di storia europei e la nascita a livello comunitario di un istituto scientifico e di un museo dedicati ai totalitarismi. Molte di queste proposte sono state recepite dalle istituzioni europee. Già nel settembre 2008 il Parlamento europeo ha istituito una “Giornata europea di commemorazione delle vittime dello stalinismo e del nazismo” scegliendo come data il 23 agosto, giorno della firma nel 1939 del Patto Ribbentrop-Molotov, letto come un accordo per la spartizione dell’Europa fra la Germania nazista e l’Unione sovietica. L’anno successivo (aprile 2009) il Parlamento ha votato la risoluzione su “Coscienza europea e totalitarismo” che pone al centro della memoria europea il ricordo dei due totalitarismi. Nel 2011 è nata la Piattaforma della memoria e della coscienza europea, un progetto educativo dell’UE per la diffusione della conoscenza dei regimi totalitari. Inoltre, ricordiamo che già dal 2007 l’Azione 4 del Progetto “Europa per i cittadini”, istituito dal Parlamento e dal Consiglio per promuovere la “cittadinanza europea attiva”, ha previsto un cospicuo finanziamento destinato alla memoria delle vittime del nazismo e dello stalinismo.
Dalla prospettiva delle istituzioni europee, questo intenso investimento economico e culturale indirizzato alla creazione di una memoria comune dovrebbe rafforzare se non creare quei legami di appartenenza e di identità fra i paesi membri indeboliti dal fallimento del trattato costituzionale dopo l’esito negativo dei referendum in Francia e in Olanda (2005). Legami che sono stati messi ancor più a repentaglio dagli effetti della crisi economica dopo il 2008, segnata da una contrapposizione interna all’Europa lungo l’asse nord-sud, dal diffondersi di movimenti populisti antieuropei, nonché dalla reviviscenza generalizzata di sentimenti e stereotipi antitedeschi.
Ma che effetti ha avuto la politica della memoria promossa da Bruxelles? Sul piano generale, essa ha ripreso e rafforzato alcuni indirizzi di fondo che, come abbiamo visto, si erano già manifestati nel contesto europeo post-89: una raffigurazione molto semplificata del Novecento come secolo della violenza, dei crimini e dei genocidi scatenati dalle opposte ideologie totalitarie, nazista e comunista, con i rispettivi apparati del terrore; una veloce erosione (radicale nei paesi ex-comunisti) del paradigma antifascista rimpiazzato da quello fondato sull’antitotalitarismo; la sostituzione come figura centrale dell’eroe partigiano con quella della vittima, la vittima innocente delle stragi naziste e delle violenze comuniste; l’arrivo sulla scena memoriale dei cosiddetti “giusti”, ovvero uomini e donne comuni che si sono distinti in azioni di solidarietà e protezione nei confronti dei perseguitati dai regimi totalitari. Si veda a questo proposito l’istituzione della “Giornata dei giusti” votata dal Parlamento europeo nel 2012.
Nel tentativo di abbinare la Shoah e il paradigma antitotalitario, la UE ha assunto con ogni evidenza come proprio modello la Vergangenheitsbewältigung tedesca, prima messa in atto da Bonn e, dopo la riunificazione, da Berlino. Nel caso della Germania, non vi è dubbio che si possa parlare di un percorso virtuoso che ha mantenuto al centro della memoria nazionale la resa dei conti con i crimini del nazismo culminati nello sterminio degli ebrei d’Europa e ha poi integrato tale memoria con quella del regime comunista nella DDR, la Germania orientale. Il più importante monumento tedesco è quello dedicato agli Ebrei d’Europa assassinati che sorge a Berlino, a due passi dal Bundestag,
Ma il modello tedesco, legato alle esperienze storiche vissute dalla Germania, può essere “europeizzato”? In verità, quel che funziona bene nella vigile democrazia tedesca non sembra funzionare altrettanto bene a livello europeo, dove sono emerse varie ombre. Innanzitutto, persiste una frizione memoriale fra est e ovest caratterizzata da una persistente concorrenza fra le “vittime del Gulag” e le “vittime del Lager”. Dietro la forte insistenza da est sul paradigma antitotalitario è poi apparso in molti casi un atteggiamento asimmetrico, tutto sbilanciato nella condanna del comunismo, che ha finito per riabilitare in maniera indiscriminata come eroi della patria tutti i nemici del comunismo, compresi noti – o meglio famigerati – esponenti di spicco del collaborazionismo filonazista degli anni della seconda guerra mondiale, come ad esempio Ante Pavelic in Croazia, il maresciallo Antonescu in Romania, Josef Tiso in Slovacchia; per non dire dei giovani volontari lettoni delle Waffen-SS cui gli ex-commilitoni hanno dedicato alcuni anni fa a Tallin una targa commemorativa come “combattenti della libertà”. É giusto che i paesi dell’Europa occidentale prendano coscienza di cosa hanno rappresentato per l’altra metà d’Europa i decenni di dominio comunista, ma non al prezzo di riabilitare collaborazionisti che molto spesso hanno avuto parte attiva nella persecuzione degli ebrei.
L’Italia non è immune da rischi di questo genere. Solo pochi anni fa, ad esempio, è stata realizzata con soldi pubblici ad Affile, un paesino vicino a Roma, la costruzione di un mausoleo dedicato al Maresciallo Rodolfo Graziani, capo delle forze armate della Repubblica sociale italiana e responsabile di numerosi crimini di guerra nelle colonie africane. Persiste poi l’attitudine a scaricare su altri le nostre responsabilità. Questo è particolarmente evidente proprio osservando la memoria della Shoah. Le leggi razziste del 1938 contro gli ebrei, volute da Mussolini e firmate dal Re, sono state – per riprendere un’espressione usata lo scorso anno dal presidente Rossi – “una vergogna assoluta che pesa ancora sulla storia dell’Italia, del nostro amato Paese”. Ebbene, non sono pochi in Italia coloro che continuano a credere che quelle leggi siano state imposte al Duce riluttante dallo spietato Führer di Berlino. Un’autentica frottola che nasconde le responsabilità del governo fascista che agì invece in piena autonomia. Ma c’è anche un altro aspetto importante. La celebrazione mediatica dei “giusti”, dei generosi “salvatori di ebrei”, come l’abile e coraggioso Giorgio Perlasca, ha finito per oscurare le responsabilità avute da tanti italiani nella persecuzione dei loro concittadini ebrei. Come ha scritto Simon Levis Sullam, l’Italia sembra essere passata dall’”era del testimone” – imperniata sulla memoria delle vittime – all’”era del salvatore” senza passare per alcuna “era del carnefice”. Un “colpevole oblio” sembra sceso sui tanti italiani che furono attori e complici della Shoah, coloro che parteciparono all’arresto degli ebrei (poco meno della metà degli arresti fu compiuto da italiani), i delatori che li denunciarono, coloro che si appropriarono dei loro beni e dei loro posti di lavoro, quanti semplicemente stettero a guardare o rivolsero lo sguardo altrove. Figure di salvatori di ebrei, come Perlasca, sono giustamente molto famose, ma quanti in Italia conoscono ad esempio il commissario prefettizio Giovanni Francesco Martelloni capo dell’Ufficio Affari ebraici di Firenze, uno spietato cacciatore di ebrei responsabile di decine di arresti di uomini, donne e bambini finiti ad Auschwitz? Basta dare un’occhiata a Google per farsi un’idea: per Perlasca risultano 139 mila contatti; per Martelloni 150!
Anche in Italia, infine, come in Europa, si è assistito negli ultimi quindici anni ad una competizione fra memorie diverse della seconda guerra mondiale, tutte riconosciute e promosse dalle istituzioni statali. Mi riferisco alle principali di esse: la memoria appunto della Shoah, che stiamo celebrando oggi, la memoria delle foibe legata alla celebrazione del Giorno del ricordo il 10 febbraio, la memoria della Resistenza incentrata sul 25 aprile. Secondo alcuni storici come Giovanni De Luna e Sergio Luzzatto, la memoria della Shoah avrebbe eroso se non scalzato la memoria della Resistenza. Ora, la memoria della Shoah ha sicuramente – e per fortuna – guadagnato spazio nella coscienza pubblica, ma la memoria della Resistenza – grazie soprattutto all’impegno del Quirinale, da Ciampi a Mattarella – è rimasta un punto di riferimento fondamentale. Non sono due memorie in conflitto. Anzi, per certi aspetti sono complementari: infatti, se la memoria della Shoah può essere vista come strumento di salvaguardia dei diritti umani contro ogni tipo di discriminazione, la memoria della Resistenza – col suo forte vincolo alla Costituzione – resta una base di riferimento per i diritti di cittadinanza, il diritto al lavoro, alla salute, all’educazione, ad un ambiente sano… Entrambe sono vitali per la salute della nostra democrazia.
Introdotta dal Parlamento nel 2004, la memoria delle foibe ha avuto nei primi anni un carattere antagonistico rispetto a quella della Resistenza e competitivo rispetto a quella della Shoah. Restano impulsi in questa direzione, ma è importante – a mio avviso – che negli ultimi anni del suo mandato l’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano abbia fatto molto per trasformarla da una memoria di matrice nazionalista con venature antislave in una memoria europea riconciliata basata su un impegno comune fra Italia, Slovenia e Croazia. Un impegno a riconoscere i torti che storicamente un paese ha inflitto all’altro (prima delle foibe ci sono stati i crimini italiani in Jugoslavia) per collaborare attivamente da ora in poi, senza il peso di un passato conflittuale, come membri dell’Unione europea. Questo quadro europeo è del resto la corretta cornice di riferimento in cui agisce nella sua azione memoriale la Regione Toscana, grazie anche all’impegno dell’Istituto storico della Resistenza in Toscana e della rete degli istituti collegati.
Sono dunque tornato al contesto europeo da cui ero partito. E vorrei qui concludere con alcune considerazioni finali.
All’indomani dei sanguinosi attacchi jihadisti a Parigi dello scorso 13 novembre, una delle firme di punta del Sole24Ore, Alberto Negri, ha dedicato un articolo lucido e appassionato alla lotta cui siamo chiamati oggi per sconfiggere la minaccia dell’ISIS. E Negri ha esordito citando quello che secondo Sartre era (e potremmo dire – è) il più bel romanzo dedicato alla Resistenza: “Educazione europea”, opera del grande scrittore Romain Gary, ebreo lituano – eroe della resistenza francese. “Come va la battaglia di Stalingrado dei russi contro i nazisti?”, si chiedono i partigiani polacchi nel romanzo.
“Come va la battaglia contro il Califfato? Se avessimo ancora un’educazione europea – scrive Alberto Negri – questa è la domanda che dovremmo farci tutti i giorni e che forse si faranno adesso (…) i francesi. Rispondere al terrore con la solidarietà e le bandiere a mezz’asta va bene ma se avessimo ancora un’educazione europea dovremmo replicare colpo su colpo al terrorismo e alla sua minaccia, entrata nella nostra vita quotidiana con una strage di innocenti”.
Di fronte alla minaccia e alla sfida del terrorismo dunque Negri, e insieme a lui molti altri, si richiamano – in molti casi riscoprono – l’eredità della Resistenza, un’eredità che era sembrata molto appannata dopo il 1989. Ma attenzione: alla Resistenza contro il pericolo islamico si sono appellati e si appellano anche i movimenti xenofobi europei. “Widerstand, Widerstand!” (Resistenza! Resistenza!) hanno gridato i sostenitori di Pegida (i cosiddetti Patrioti europei contro l’islamizzazione dell’Occidente) dopo i gravi fatti di Colonia fomentando la caccia agli immigrati. Dobbiamo dunque fare attenzione e tenere assieme l’eredità della Resistenza con quella della Shoah. La prima ci sprona ad una difesa attiva della democrazia, la seconda ci ricorda di essere vigili contro ogni forma di razzismo e di xenofobia, inclusa l’islamofobia. É questa la nostra “educazione europea”.
Vi ringrazio dell’attenzione.

Articolo pubblicato nel gennaio del 2016.




Le sirene della grande fabbrica nell’Alta Maremma

Ancora negli anni Settanta, andare a Suvereto, era considerato dagli abitanti della vicina città industriale: Piombino, un viaggio quasi a ritroso nel tempo, dentro una zona povera contrassegnata paesaggisticamente da un’abbondanza di macchia mediterranea. Per i giovani che vi abitavano il desiderio più forte era quello di sfuggire da quei luoghi, da quei boschi ricchi di cinghiali e di istrici ma poco, anzi pochissimo, di prospettive di vita allettanti.

E vicino a quel comune rurale c’era la presenza di una realtà industriale forte e consolidata che attirava con le sue sirene, sia quelle vere e proprie, sia quelle più metaforiche, ma anche forse più avvincenti, che raccontavano un inserimento diverso dentro la “modernità”: la casa in città, la centralità nel dibattito politico e culturale del tema dei “metalmeccanici”, il lavoro nella grande industria a capitale pubblico, la sicurezza del salario mese dopo mese, anno dopo anno. Non erano certo quelli i decenni del lavoro interinale, a termine o a progetto. Il lavoro alle Acciaierie, così come alla Dalmine o alla Magona, sembrava senza fine, senza scosse, dava inquadramento alla propria vita e permetteva la costituzione di un nucleo familiare appoggiato su solide premesse.

Occorre però ricordare che quell’attrazione verso i grandi stabilimenti della costa si esercitava già da molti decenni e si realizzava soprattutto tramite le donne presenti nella casa contadina mezzadrile che, quando si profilava loro la possibilità, cercavano di scappare dalla fatica dei lavori in campagna, sposando un lavoratore dell’industria. Una scelta di vita che diventava anche un vero e proprio strumento di emancipazione dalla vecchia famiglia patriarcale.

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Fonte: L. De Nigris, “Suberetum, Sughereto, Suvereto”, Comitato di Valorizzazione e Comune di Suvereto.

Questa tradizioni di “partenza verso la città industriale” che talvolta oltre ad essere quella vicina di Piombino, poteva essere anche quella un po’ più distante di Rosignano con il polo chimico della Solvay, si erano mantenute e consolidate ma erano in qualche modo soprattutto partenza di donne. Gli uomini rimanevano in casa magari aggiungevano mogli provenienti talvolta da fuori e mandavano avanti il podere.

Ma la maggiore scolarizzazione seguita alla riforma della media, l’istituto professionale legato alla siderurgia pubblica, comportò per tutto il decennio Sessanta il richiamo e la partenza anche di elementi maschili dalle campagne vicine verso un destino urbano e industriale. E questo processo si sviluppa più o meno senza fratture fino alla seconda metà degli anni Settanta.

Ma verso la fine di quel decennio, qualcosa cominciò a scricchiolare. Da una parte il tema del “rifiuto del lavoro” e del movimento degli “indiani metropolitani”, dall’altra una maggiore coscienza ecologista si irrobustì, la magia del richiamo per il lavoro senza scadenza, a tempo indeterminato, cominciò ad essere percepita come una gabbia, una gabbia dalla quale uscire. Si cominciarono a cercare soluzioni fuori dal perimetro industriale, talvolta guardando ad un turismo improbabile come quello raccontato anni dopo da Paolo Virzì nel film La bella vita, talvolta provando a fare un viaggio a ritroso, un ritorno alla campagna e da lì reinventarsi una vita, un lavoro, un’attività.

Cominciarono i primi autolicenziamenti dalla grande fabbrica (i primi casi datano 1978-79), che lasciavano soprattutto senza parole l’allora addetto all’Ufficio personale delle Acciaierie. Non c’era memoria di una tale impudenza in nessuno dei decenni precedenti.

Eppure in qualche modo, anche se sicuramente non tutti, furono percorsi a lieto fine, quei giovani che scappavano dalla siderurgia, dal mondo industriale, fecero la scelta giusta. Il tempo gli avrebbe dato ragione. Oggi, abitare a Suvereto, magari all’interno di una azienda agricola proiettata nel mondo col suo sito internet, con il suo pacchetto di relazioni, significa prima di tutto stare dentro un contesto che privilegia la qualità della vita, ma dà anche la possibilità di ricavare reddito da questa.

Non ci fu però, come talvolta si cerca di far passare, una sostituzione di un’attività con un’altra. I numeri che l’agricoltura, anche quella di qualità, mettono in gioco come possibilità di lavoro, sono assolutamente irrisori rispetto all’occupazione offerta dalle attività industriali. E questo resta il problema aperto per tutti noi.

Articolo pubblicato nel dicembre del 2015.




Egemonia e potere: 40 anni di governo comunista in provincia di Grosseto.

Grosseto e la sua provincia sono stati governati per tutto il secondo dopoguerra dal PCI; un governo egemonico, protagonista della modernizzazione e autore delle più importanti scelte politiche, economiche e sociali che ancora oggi caratterizzano questa provincia. Sin dalle prime consultazioni elettorali post-Liberazioe il PCI risultò partito di maggioranza relativa nel capoluogo e in molti comuni della  provincia di Grosseto. Amministrò con giunte di coalizione, mantenendo un’alleanza con il Partito Socialista che, al di là di brevi parentesi di cui si dirà più avanti, non venne rotta dall’inaugurazione dei governi nazionali e in qualche caso locali di centro-sinistra. Caso che ha una sua singolarità, l’ inaugurazione del  sostegno a una giunta a guida repubblicana già nei primi anni ‘70. Tema rilevante è il rapporto con la Democrazia Cristiana, partito egemone a livello nazionale, soggetto localmente rilevante in certi momenti storici, soprattutto nella fase di attuazione della Riforma Fondiaria.

Osservando la società grossetana tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900 è facile notare una fitta trama di associazioni e di gruppi fortemente connotati da una più antica tradizione repubblicana, garibaldina, anarchica che mostra chiaramente un carattere identitario ribelle e sovversivo.

In questo contesto si svilupparono facilmente le idee socialiste e soprattutto quelle comuniste. Nel 1921 quando la frazione comunista decise la scissione dal Partito Socialista Italiano anche a Grosseto vennero immediatamente fondate numerose sezioni comuniste. Una sentita tradizione sovversiva della zona rendeva ancora forte l’attaccamento ideologico delle masse operaie e contadine locali al partito socialista; i comunisti non erano invece riusciti né a fare proselitismo né a strutturare il partito e nelle elezioni politiche del maggio 1921 i socialisti risultarono il primo partito in provincia; i comunisti non riuscirono a eleggere nessun deputato. Da lì a poco, sotto la spinta delle violenze fasciste, le sezioni comuniste si svuotarono velocemente e i pochi militanti rimasti si organizzarono in partito clandestino.

Dunque, da cosa deriva il consenso dei comunisti nel secondo dopoguerra?

È sicuramente fondamentale il periodo clandestino durante il regime, in cui il partito assume un ruolo dominante nella compagine antifascista. I comunisti grossetani, infatti continuarono sotto il fascismo la propria attività politica, tanto che un protagonista dell’epoca, Aristeo Banchi, detto Ganna, così descriveva la fortuna che i comunisti raccolgono in quegli anni:

“Il fatto che molti comunisti fossero arrestati e continuamente perseguitati nelle forme più diverse, attirò l’attenzione e la simpatia di molti, per lo più giovani, di tendenze politiche diverse e appartenenti alla media borghesia cittadina: studenti, impiegati, artigiani e commercianti. Il comportamento di questi uomini, tenaci, entusiasti della loro attività antifascista, onesti nel lavoro e nella vita, li fece riflettere e cominciarono ad interessarsi della loro attività e vollero conoscere questo Partito Comunista, che era riuscito, a differenza degli altri partiti che erano spariti, a dare speranza per periodi migliori” (Aristeo Banchi, Si va pel mondo).

Ma il consenso verso i comunisti si accrebbe senza dubbio durante i difficili anni della Resistenza, quando il Partito comunista ebbe un ruolo predominante nella guerra partigiana; è in quei pochi mesi che vanno dall’8 settembre 1943 alla Liberazione nel giugno del 1944 che il Partito Comunista iniziò a costruire la propria egemonia nella provincia di Grosseto.

Una volta liberata, la provincia visse un periodo di grande fermento sociale ed economico con le numerose proteste dei contadini che chiedevano la terra e quelle dei minatori che volevano migliorare le proprie condizioni di lavoro ed economiche. È in questo contesto che il partito comunista locale riesce a legarsi con le masse popolari del territorio creando una solida e indissolubile base elettorale e di consenso per il futuro. Per i comunisti grossetani le lotte ebbero una duplice importanza, poiché, da una parte, furono il luogo dove si formò politicamente ed umanamente la classe dirigente che dopo pochi anni prenderà in mano il partito, e dall’altra, le lotte rappresentarono un’opportunità di crescita di consenso. Grazie ad un attento e duro lavoro di propaganda i comunisti grossetani riuscirono a mettersi alla guida di quelle battaglie; era grazie al lavoro di massa, come si diceva all’epoca, che il PCI riuscì a guidare le proteste e a condurle, attraverso le parole d’ordine che il partito stesso decideva, verso il voto comunista.

È necessario sottolineare che le lotte sociali in quei primi anni della Repubblica rappresentarono per un partito di massa come il PCI la vera e propria ragione d’essere: grazie a queste il PCI aumentava la propria forza e il proprio radicamento sociale. Ma non bisogna dimenticare che il PCI a Grosseto era anche un partito di governo che, fin dalla Liberazione, iniziò ad amministrare la quasi totalità degli enti locali. Non potendo prescindere dalle masse popolari e dalle proteste, questi due aspetti costringevano il PCI ad avere un duplice e parallelo modus operandi: da una parte, dovendo governare localmente il territorio, era obbligato a mantenere basso lo scontro sociale verso gli enti locali ma dall’altra parte, continuava a dirigere i movimenti di protesta e il conflitto sociale convogliando il malcontento contro il governo nazionale democristiano. La vera sfida che il PCI dovette affrontare nelle province come Grosseto, dove aveva un ruolo di governo, era quella di riuscire ad avere il monopolio della critica sociale subordinata alla propria idea politica.

Ma la costruzione del consenso comunista nel grossetano doveva passare anche da una capillare organizzazione territoriale e da una forte militanza.

Il PCI, fin dal primo congresso di Lione, aveva scelto una forma di organizzazione non verticistica ma basata su un forte rapporto con il territorio attraverso le federazioni, le sezioni e le cellule. Quest’ultime rappresentavano una vera e propria novità del movimento operaio italiano ed avevano lo scopo di propagare e diffondere le idee del partito sul territorio; con le cellule il partito poteva riuscire a conquistare e a coinvolgere le masse popolari. Il segretario della Federazione comunista Grossetana Guglielmo Nencini, nel Comitato Federale del 28 ottobre 1944 (uno dei primi dopo la liberazione di Grosseto) così riassumeva l’importanza dell’organizzazione cellulare del partito:

“La cellula è il tipo di organizzazione che più di ogni altro permette una intensa vita di partito, una più facile e continua opera di chiarificazione ideologica ed è quella che permette una maggiore tutela del partito contro ogni frazionismo o scissionismo. Ma non basta: la cellula è lo strumento più perfetto e potente di penetrazione politica nella massa popolare, è l’organismo che meglio di ogni altro permette al partito di orientare, guidare le classi popolari e quindi di stringerle attorno alla classe operaia in un blocco unitario veramente inscindibile” (Fondo Nencini, Isgrec).

Fin dalla Liberazione, nella provincia di Grosseto furono aperte numerose sezioni comuniste tanto che il PCI ben presto ottenne una enorme e capillare diffusione territoriale. Ogni paese, ogni città, aveva una sezione; soltanto a Grosseto fino alla prima metà degli anni ’80 si contavano ben 5 sezioni cittadine e altre 15 sparse per tutto il territorio comunale; mentre in provincia si contavano all’incirca altre 135 sezioni per un totale di circa 155 in tutta la Federazione. La nascita, e spesso la costruzione, delle sezioni comuniste era possibile grazie alle sottoscrizioni dei militanti che raccoglievano denaro o che spesso mettevano a disposizione del partito le proprie competenze o il proprio lavoro per la costruzione materiale delle sedi. sottoscrizione sedeLa vecchia sede della Federazione provinciale di Grosseto venne realizzata grazie alla sottoscrizione e al lavoro volontario dei militanti comunisti; una volta ultimata, venne inaugurata nel 1957 da Palmiro Togliatti. Stessa cosa avvenne per la Casa del Popolo di Bagno di Gavorrano che venne inaugurata nel 1973 da Pietro Ingrao.

Ovviamente l’organizzazione e la diffusione sul territorio non poteva reggere senza la militanza di migliaia di grossetani che accrebbero e favorirono l’egemonia comunista in provincia. I militanti comunisti, nei loro luoghi di lavoro e nei loro paesi di residenza donavano volontariamente e con passione il proprio tempo libero al partito, per migliorarne l’organizzazione, per le campagne elettorali e per le Feste de l’Unità.

La rigida morale comunista del primo dopoguerra obbligava i militanti ad una vita sobria e completamente donata alla causa comunista. Questi avevano il dovere, come si legge nell’articolo 9 dello Statuto del PCI del 1951, oltre a “partecipare regolarmente alle riunioni e a svolgere attività di partito secondo le direttive dell’organizzazione”, ad avere rapporti di lealtà e fratellanza con gli altri militanti; vigilare sulle buone sorti del partito e mantenere una “vita privata onesta, esemplare”. Il militante comunista, quindi, doveva dare l’esempio morale anche nella propria vita privata e aveva l’obbligo di “esercitare la critica e l’autocritica per il miglioramento della sua attività e di quella del partito” attraverso anche una continuo miglioramento della propria “conoscenza della linea politica e la propria capacità di lavorare per la sua applicazione”.

Purtroppo non è possibile descrivere uno scenario organico per quanto riguarda le iscrizioni dei militanti poiché mancano molti dati nell’archivio della Federazione comunista, conservato presso l’Istituto Storico Grossetano della Resistenza e dell’Età Contemporanea; tuttavia è possibile affermare che il numero degli iscritti in provincia di Grosseto rispecchiava le medie delle altre province toscane.

L’egemonia comunista non aveva bisogno solo di una forte base sociale su cui fondare la propria organizzazione, ma necessitava anche di rapporti stabili con le altre forze politiche locali. Infatti, senza una solida politica delle alleanze, il partito non avrebbe potuto mantenere la propria posizione.

Manifestazione comunista a ribolla (anni '50)

Manifestazione comunista a ribolla (anni ’50)

Osservando i risultati elettorali del PCI nelle varie elezioni amministrative, si notano due tendenze distinte. La prima mostra, dagli anni ’50 fino alle elezioni regionali del 1970, un sostanziale consolidamento del consenso elettorale del PCI, a scapito chiaramente sia delle opposizioni (DC, Psdi, Pli, Pri), che del principale alleato di sinistra ovvero il PSI. La seconda tendenza, che riguarda il periodo dal 70 fino alle fine del 90, mostra invece una lenta e parziale erosione del consenso elettorale comunista a favore degli alleati socialisti. Questa perdita di voti però non si traduce in una diminuzione di consenso e l’egemonia comunista rimane ben salda; piuttosto la lieve crisi elettorale va imputata alla crescente fortuna politica che il PSI vive in quegli anni.

Il PCI, quindi, costruì il proprio potere locale sull’alleanza strategica con il PSI, creando una sostanziale continuità di governo e dando alle istituzioni locali una forte stabilità politica. Questa alleanza non solo aveva radici ideologiche, ma si basava su un preciso accordo elettorale politico e programmatico che tra le altre cose prevedeva una ferrea e rigida distribuzione, sia delle cariche politiche elettive, che delle cariche di nomina politica nei vari enti locali e collaterali. Nella distribuzione di questi vari incarichi il PCI, forte del suo peso elettorale, faceva valere la propria egemonia ed aveva la meglio sugli alleati socialisti, creando così non pochi malcontenti. Leggendo i verbali dei Comitati federali comunisti di quegli anni è facile trovare numerose notizie a riguardo ma bisogna tenere ben presente che le nomine politiche all’interno degli Enti Locali erano una pratica diffusa, considerata normale ed erano soprattutto permesse dalla legge.

Spesso però le alleanze politiche locali venivano influenzate dalla politica nazionale, come nel caso dell’unificazione socialista del 1966 che portò all’allontanamento del PSI dalle giunte locali. Nel 1967, i socialisti uscirono dalla Giunta provinciale e i comunisti dettero vita ad monocolore con il Presidente Palandri; stessa dinamica avvenne nelle altre amministrazioni locali compreso il Comune di Grosseto. Nel comunicato stampa che i comunisti grossetani diffusero in quell’occasione si legge della grande preoccupazione comunista nel constatare che

“la gravità di questa decisione che avviene con motivi estranei ai problemi e agli impegni programmatici di quelle assemblee elettive nelle quali, da 20 anni e con un sensibile lavoro unitario, la collaborazione tra PCI e PSI ha consentito il conseguimento di estesi successi nell’interesse della città e delle masse popolari” (Archivio PCI-PDS, Isgrec).

Per i comunisti grossetani la crisi dell’alleanza con il PSI era palesemente influenzata dalla politica nazionale ma metteva in serio pericolo la stabilità stessa dei governi locali:

“il disimpegno del PSI-PSDI unificati non è altro che il primo passo di una politica che obbiettivamente può portare le amministrazioni pubbliche grossetane a serie difficoltà, con la conseguenza immediata di sacrificare e ritardare soluzioni urgenti ed inderogabili e con il pericolo di aprire la via a gestioni commissariali in ossequio agli obbiettivi e alla volontà della DC di cancellare la posizione di potere delle forze di sinistra” (Archivio PCI-PDS, Isgrec).

Il PCI, nonostante l’unificazione socialista e la crisi che ne scaturì, rimase al governo con le proprie forze e quando nel 1970 la riunificazione naufragò, i socialisti grossetani rientrarono in tutte le amministrazioni locali e la crisi poté dirsi conclusa. Se il rapporto con i socialisti fu continuo e costruttivo, ben diverso fu il rapporto politico con le altre formazioni democratiche locali.

X Congresso Provinciale del PCI (1972)

X Congresso Provinciale del PCI (1972)

Con il Partito repubblicano italiano, ad esempio, non ci fu mai una vera e propria alleanza politica-elettorale, nonostante il dialogo portato avanti dai comunisti dagli anni ’70 e che vide l’entrata dei repubblicani nell’amministrazione Valentini del Comune di Grosseto negli anni ’80.

Nonostante questo, il massimo punto di avvicinamento politico tra PCI e PRI, sia a livello politico, ma soprattutto mediatico, si ebbe nel 1974, durante le elezioni amministrative del Comune di Monte Argentario, quando Susanna Agnelli, eletta consigliera comunale per il PRI, ottenne l’astensione dei comunisti per varare la propria giunta. Quella di Monte Argentario, con l’astensione comunista a favore dell’amministrazione Agnelli, fu la prima esperienza di maggioranza alternativa all’alleanza social-comunista.

La crisi a livello nazionale che si andò a creare tra la fine degli anni ’70 e gli inizi degli anni ’80 tra il PCI e il PSI ebbe degli echi anche in provincia. Nel 1976 Aldo Tonini, Segretario provinciale del PSI, nel suo discorso durante il XXXI Congresso Provinciale descriveva i rapporti tra il PSI e il PCI “sempre tranquilli e senza problemi” pur tuttavia sottolineando un malcontento:

“in virtù della politica del compromesso storico che il PCI persegue ad ogni livello, nella ricerca costante di un rapporto privilegiato con la DC si verificano contrasti e tensioni all’interno della maggioranza di sinistra. In tempi anche recenti autorevoli esponenti comunisti locali hanno affermato che le difficoltà che di volta in volta sorgono nei rapporti tra PSI e PCI all’interno delle maggioranze sono dovute alla riottosità dei socialisti di fronte ad ogni ipotesi di allargamento delle maggioranze stesse e persino alla chiusura ed agli ostacoli verso ogni tentativo di realizzare un rapporto nuovo con le minoranze” (Archivio PCI-PDS, Isgrec).

Quando poi, sulla scia dei successi elettorali nazionali, il PSI migliorò i propri risultati elettorali locali, la crisi tra i due alleati si fece ancora più palese soprattutto perché il PSI iniziò a chiedere sempre più peso e potere politico. A riguardo può essere utile la posizione democristiana che, dopo anni di isolamento, negli anni ’80 iniziò a cercare di scalzare il potere comunista, proponendo un accordo con i socialisti. Hubert Corsi, durante il Congresso provinciale della Democrazia Cristiana del 22 febbraio 1981, nel suo discorso da Segretario provinciale lamentava l’atteggiamento frontista e la chiusura politica del PCI, affermando che il PCI “è stato abile a cedere certe posizioni [al PSI], talora anche contro la logica elettorale, pur di coinvolgerlo in un’alleanza di carattere generale” in modo da soddisfare “le crescenti aspettative di potere” ottenendo in cambio “certezze e potere”; il PSI di contro, nella lettura democristiana “è stato abile a cercare di trarre dalle difficoltà del tradizionale alleato, il maggiore vantaggio; assicurandosi posizioni di forza superiore alla propria forza elettorale”.

Tra minacce di maggioranze alternative e miraggi pentapartitici, la crisi tra PCI e PSI si rese ancora più palese quando nel 1988 problemi di natura giudiziaria coinvolsero membri socialisti della giunta comunale.

In quella situazione però furono chiari almeno due aspetti: da una parte le opposizioni e i socialisti non avevano una forza tale per rappresentare una vera alternativa al governo comunista; dall’altra invece, ancora una volta, risultò evidente, a Grosseto e in provincia, come il PCI fosse l’unica forza egemonica.

Articolo pubblicato nell’ottobre del 2015.




Sulle tracce della memoria

La guida pubblicata nel 2015 dall’Istituto Storico della Resistenza di Pistoia e curata dagli storici Matteo Grasso, Michela Innocenti, Chiara Martinelli e Francesca Perugi, è dedicata ai percorsi della memoria novecenteschi nella provincia di Pistoia.
Pubblicata in occasione del 70° anniversario della Liberazione, con il finanziamento della Regione Toscana, propone a turisti, scuole e appassionati alcuni itinerari da percorrere per conoscere i luoghi e le vicende della seconda guerra mondiale e della Resistenza. Un grande museo all’aperto per valorizzare il territorio pistoiese con particolare attenzione al valore didattico ed educativo, oltre che utile strumento di promozione turistica del territorio. Sono presentati una serie di luoghi simbolo che fanno parte della memoria storica locale tramite un pratico volume di consultazione per cittadini, storici e studenti, utilizzabile anche come supporto per varie realtà associative, enti pubblici e uffici scolastici regionali presenti nel territorio e segnalati all’interno di ogni percorso.
La Fortezza Santa Barbara a PistoiaL’opera è suddivisa in cinque itinerari ideali, percorribili in alcuni casi a piedi, in bicicletta o con altri mezzi di trasporto, e toccano monumenti, lapidi, targhe, cippi disseminati in provincia di Pistoia. A colori, corredata di mappe e fotografie, unisce notizie sul contesto storico e naturalistico della zona.
Punto di partenza la città capoluogo, oggetto del primo itinerario, spostandosi poi verso la Montagna pistoiese (secondo itinerario), la Valdinievole, la Svizzera pesciatina e il Padule di Fucecchio (terzo e quarto itinerario), fino alla Piana pistoiese, comune di Montale e dintorni (quinto itinerario).
Nel corso degli ultimi anni, gli Istituti storici della Resistenza in Toscana hanno realizzato studi, siti web, pubblicazioni e ricerche riguardo i luoghi della memoria dall’antifascismo alla Resistenza. La guida pistoiese s’inserisce in questo percorso memorialistico e si evidenzia come strumento utile per legare storia e territorio: l’obiettivo principale è quello di avere una visione d’insieme della regione e conservarne il ricordo del passato per le future generazioni.
A tal proposito possiamo ricordare il progetto avviato dall’Istituto Storico della Resistenza di Livorno attraverso il sito “Luoghi della Memoria”: in ogni luogo è stato collocato un cartello riconoscibile per la sua grafica; a ogni cartello è collegata una sezione del sito; in ogni sezione è possibile trovare materiali aggiuntivi per approfondire i temi affrontati. Si tratta di una pratica guida per chi voglia andare a visitare fisicamente i luoghi dove sono conservate le tracce lasciate dagli uomini e dalle donne dell’antifascismo e della Resistenza. Tutti i cittadini, gli studenti e i visitatori possono lasciare i loro commenti e inviare dei materiali aggiuntivi: “Luoghi della Memoria” è un sito aperto e vivo, come aperta e viva deve rimanere la memoria dei fatti narrati.
Oltre all’Istituto livornese, anche quello lucchese ha avviato un importante percorso che potremmo definire di “memoria condivisa” con la mappatura dei luoghi più significativi in cui rimangono tracce lasciate dagli uomini e dalle donne che hanno partecipato alla Resistenza antifascista. Si tratta di un percorso multimediale: una piccola targa lasciata su questi “luoghi della memoria”, grazie a uno smartphone o a un tablet puntato su un QR Code, introduce a una pagina web con le principali informazioni e approfondimenti su quanto avvenuto in quel luogo negli anni della seconda guerra mondiale. Oppure, al contrario, partendo da un luogo indicato sulla cartina geografica scoprire la storia e la memoria celati dietro quel luogo.
Riguardo all’eccidio del Padule di Fucecchio è inoltre presente online un’utile mappa interattiva con l’indicazione di ogni luogo connesso alla strage: targhe, lapidi, cippi, giardini, parchi e musei (www.eccidiopadulefucecchio.it/mappa).

Matteo Grasso, laureato in storia, svolge quotidianamente attività di ricerca archivistica, orale e bibliografica finalizzata all’approfondimento locale e nazionale di particolari momenti storici legati al periodo contemporaneo.
Attualmente collabora con l’Istituto Storico della Resistenza di Pistoia sia attraverso la partecipazione a progetti sia come membro del consiglio direttivo e come membro del comitato di redazione della casa editrice.
Lavora inoltre per l’Associazione Culturale Orizzonti di Lamporecchio che pubblica il mensile Orizzonti. Precedentemente ha svolto un tirocinio annuale per la valorizzazione storico-artistica di Villa La Quiete a Firenze.
Fra le pubblicazioni ricordiamo Guerra e Resistenza. Vicende partigiane per uno della «Bozzi», la storia personale di Doriano Monfardini e alcuni saggi riguardanti la resistenza europea sui Quaderni di Farestoria, periodico quadrimestrale dell’ISRPt. Ha altresì partecipato a presentazioni di libri, tra i quali La gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto, a conferenze e a incontri su temi riguardanti la storia locale.

Articolo pubblicato nel settembre del 2015.




Da vicino nessuno è normale. Appunti su una storia dei Manicomi Criminali in Italia

Tra gli Ospedali Pischiatrici Giudiziari (OPG) che dal 1 aprile di questo anno sono in fase di graduale dismissione e saranno sostituiti dalle Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza Detentive (REMS) vi è quello di Montelupo Fiorentino in provincia di Firenze. L’OPG si trova nella Villa Medicea dell’Ambrogiana, costruita alla fine del cinquecento come residenza di caccia dei Medici; nell’ottocento, una volta abbandonata dai Medici e dagli Asburgo-Lorena, l’imponente struttura divenne prima una struttura sanitaria per “dementi acuti”, poi uno stabilimento di correzione femminile, per poi passare nel 1886 a Manicomio Criminale. Quello di Montelupo fu la seconda struttura di questo tipo nata in Italia dopo l’unità. Molti furono i rei folli che scontarono la loro pena nella struttura, alcuni famosi come Giovanni Passannante, l’anarchico che tentò di attentare alla vita di Umberto I di Savoia nel 1878. In questo articolo Valerio Entani tratteggia le fasi salienti di una storia dei manicomi criminali italiani.

La stultifera navis.

Racconta Michel Foucault nel suo celebre Storia della follia nell’età classica che fino al Rinascimento il lebbroso aveva un ruolo fondamentale nella società, poiché incarnava il prototipo del malato; ma soprattutto era il simbolo di tutto il male nella società e fungeva da memento mori per chi era ancora sano. L’allontanamento e la segregazione dei malati in luoghi di cura lontani dalle città non solo era necessario per motivi sanitari, ma soprattutto aveva una valenza rituale nell’allontanare dalla società il male come paura atavica dell’uomo. Dal rinascimento in poi la lebbra inizia ad essere debellata come malattia endemica, le strutture sanitarie di cura rimangono inattive e nella società rimane vacante un ruolo fondamentale. Per Foucault è il folle che prende progressivamente questo ruolo nella società moderna.

Simbolo di questo processo è una immagine letteraria che ancora oggi viene citata: la stultifera navis. Nella tradizione letteraria, questa nave attraversava i fiumi della Renania e i canali fiamminghi carica di folli che venivano scacciati dalle città. Questo loro vagabondare era un vero e proprio processo di esclusione sociale e Foucault spiega che “il gesto che li scaccia, la loro partenza e il loro imbarco non possono venire spiegati solo con l’utilità sociale o con la sicurezza dei cittadini. Altri significati più vicini al rito erano certamente presenti (…)”. Nella lettura antropologica foucoltiana il folle è il simbolo delle paure più ataviche dell’uomo, dalla morte fino alla paura del diverso; la nave dei folli quindi “simbolizza tutta un’inquietudine, apparsa improvvisamente all’orizzonte della cultura europea verso la fine del medioevo. La follia e il folle diventano personaggi importanti nella loro ambiguità: minaccia e derisione, vertiginosa irragionevolezza del mondo e meschino ridicolo degli uomini”.

Foucault ci insegna che la categoria del folle ha racchiuso dentro di sé una molteplicità di declinazioni che andavano dal malato mentale tout court, al povero, al dissociato sociale fino al ribelle, ovvero tutte quelle categorie sociali che andavano contro il progetto di buon governo della società.

È per questo motivo e per la necessità di esclusione che nacquero i manicomi che ebbero, in alcuni casi, lo stesso ruolo anche i carceri.

Erving Goffman nel suo Asylums chiama questi luoghi istituzioni totali ovvero “luoghi di residenza e di lavoro di gruppi di persone che, tagliate fuori dalla società per un considerevole periodo di tempo, si trovano a dividere una situazione comune, trascorrendo parte della loro vita in un regime chiuso e formalmente amministrato”. Le istituzioni si impadroniscono delle vite dei loro ospiti e ne amministrano il tempo in una sorta di “azione inglobante” che viene rappresentata dall’impedimento concreto dello scambio sociale e dell’uscita verso il mondo esterno. Chi vive dentro le istituzioni totali viene risucchiato in una specie di non-luogo al di fuori del mondo, dove lo spazio e il tempo seguono percorsi indipendenti e paralleli e dove soprattutto, viene negato il diritto di esistere come essere umano.

In questo contesto, il rapporto tra chi ospita e chi viene ospitato, ovvero tra carceriere e carcerato o tra psichiatra e malato, diventa un vero e proprio rapporto di potere tra governatore e governato, dove l’uso della forza e della violenza diventano prassi. La pratica e l’uso della violenza non solo, sono alla base dei rapporti di forza all’interno delle istituzioni totali ma, riescono a distruggere il degli internati i quali si ritrovano assoggettati totalmente al potere dell’istituzione stessa.

Franco Basaglia nella postfazione al libro di Goffman, scrive che nei manicomi “la violenza è drammaticamente palese, dato che la malattia è essa stessa giustificazione in atto di ogni sopraffazione ed arbitrio: se il malato è incurabile e incomprensibile, l’unica azione possibile è oggettivarlo nella realtà istituzionale, nella cui azione distruttiva egli dovrà identificarsi”.

La chiusura degli Ospedali Psichiatrici.

La lettura dei testi di Foucault e di Goffman influenza a partire dagli anni ’60 il movimento antistituzionale che si sviluppa in Italia a favore della chiusura dei manicomi. Franco Basaglia con il suo esperimento dell’ospedale psichiatrico di Gorizia e di Trieste diventa il capofila di questo movimento che vede l’appoggio di intellettuali e politici. Basaglia è il primo ad abbattere il muro che circonda il manicomio sia concretamente che idealmente. Seguendo il filone interpretativo di Foucault e di Goffman, lo psichiatra accentua l’aspetto più prettamente sociale e quindi più politico della malattia mentale. Gli ospedali psichiatrici per Basaglia sono “istituzioni della violenza” dove tra malato e psichiatra si instaura un “rapporto di sopraffazione e di violenza fra potere e non potere, che si tramuta nell’esclusione da parte del potere del non potere: la violenza e l’esclusione sono alla base di ogni rapporto che si instauri nella nostra società” (L’ istituzione negata, 1968). Il movimento antistituzionale in questo è molto simile ai movimenti di contestazione giovanili che si sviluppano attorno al 1968; il vero nemico da combattere è l’autorità ovvero, l’autorità del padre, del potere, della scuola e in questo caso dello psichiatra e dell’Ospedale Psichiatrico. L’autorità era per Basaglia la vera causa dell’annientamento umano del malato mentale: “una organizzazione basata sul solo principio di autorità, il cui scopo primo sia l’ordine e l’efficienza, deve scegliere tra la libertà del malato ed il buon andamento del ricovero. È stata sempre l’efficienza e il malato è stato sacrificato in suo nome” (L’istituzione negata, 1968). Basaglia definisce rivoluzionario l’uso dei nuovi farmaci psichiatrici che hanno “concretamente reso evidente allo psichiatra di non trovarsi di fronte ad una malattia, ma ad un uomo malato, egli non può continuare a considerarlo come un elemento da cui la società deve essere protetta” (L’istituzione negata, 1968), e che hanno mostrato alla psichiatria questa contraddizione. Lo psichiatra veneto è ancora più chiaro nell’affermare che “questa società tenderà sempre a difendersi da ciò che le fa paura e ad imporre il suo sistema di restrizioni e di limiti alle organizzazioni delegate a curare i malati mentali: ma lo psichiatra non può continuare ad assistere alla distruzione del malato a lui affidato, reso oggetto, ridotto a cosa […]” (L’istituzione negata, 1968).

Questa visione politicizzata, dalla spiccata interpretazione sociologica, riesce a permeare tra gli anni ’60 e gli anni ’70 grossi strati dell’opinione pubblica e della classe dirigente. Ed è in questo clima di rivolta contro il sistema e l’autorità che l’ospedale psichiatrico diventa un simbolo dello sfruttamento e per questo deve essere abbattuto ed annientato.

Nel 1978, per la prima volta nel mondo, uno Stato decide per legge la chiusura degli Ospedali Psichiatrici; è l’Italia con la legge 180 del 1978 che porta il nome di Orsini, suo primo firmatario ma che è conosciuta con il nome del suo ispiratore morale ovvero Legge Basaglia.

Il cono d’ombra tra follia e criminalità.

La Legge 180 chiude quindi gli Ospedali Psichiatrici in Italia ma lascia aperte diverse problematiche sia culturali (il rapporto tra società e malattia mentale) che strutturali ed organizzative (le leggi attuative regionali tardano ad arrivare). La180 però presenta anche un vero e proprio cono d’ombra poiché non tocca il problema dei malati mentali che hanno commesso un reato, i rei folli.

Si tratta di una questione complessa perché mette insieme il concetto di follia con quello di reato e deve fare i conti sia con le pratiche di cura che con la giustizia. Nel corso del tempo, il problema è stato risolto con il dare più importanza alla pena o alla pericolosità del reo invece che alla cura del malato mentale; ne è la prova il fatto che la gestione dei rei folli è sempre stata di competenza delle varie Amministrazioni Penitenziarie e non degli enti preposti alla cura dei malati.

La storia dei rei folli è quindi una storia di esclusione totale, esclusione dalla società, esclusione dal sistema penitenziario consono ed esclusione dal sistema sanitario. Questo, nel corso del tempo, ha portato a conseguenze drammatiche che hanno costruito un sistema di cura e di detenzione spesso inadeguato con strutture fatiscenti e atteggiamenti disumani: un vero e proprio cono d’ombra organizzativo, legislativo ed umano dove i rei folli una volta entrati affogavano nell’oscurità.

Ma il problema dei rei folli ha radici ben più lontane. Nella seconda metà dell’Ottocento in Italia si sviluppa un vivace dibattito sul diritto penale. Si formano due scuole di pensiero: la prima, quella classica con Francesco Carrara e, la seconda, quella positiva con Cesare Lombroso. La prima adottava il concetto del libero arbitrio e quindi ogni uomo colpevole di un reato era responsabile in prima persona delle proprie azioni; il grado di colpevolezza e la misura della pena erano così proporzionalmente determinati dalla gravità del reato compiuto. La seconda scuola di pensiero invece, seguendo le teorie di Lombroso, credeva che alcuni condizionamenti esterni (come la fisiognomica o cause sociali) potessero influenzare un soggetto nel compiere un reato; la responsabilità individuale del reato non esisteva e la pena aveva una funzione prettamente rieducativa e di prevenzione sociale.

È da questo ultimo tipo di approccio che nasce il primo Manicomio Criminale, quello di Aversa nel 1876. L’istituzione accoglieva i cosiddetti rei folli e di fatto sanciva la nascita del binomio tra follia e pericolosità sociale, nel quale persone colpevoli di reato e mentalmente disturbate, venivano isolate dalla società per la loro cura ma soprattutto per preservare gli altri carcerati e la società stessa. Il codice Zanardelli del 1889, per la prima volta dall’unità, mise ordine nel caos giuridico italiano. Pur non parlando mai di manicomio criminale il codice introdusse il concetto della non imputabilità per vizio totale di mente (in questo caso il reo se considerato pericoloso era affidato ad un manicomio provinciale) e stabilì inoltre, nel caso di seminfermità di mente, una diminuzione della pena. Anche se con il nuovo “Regolamento generale degli Stabilimenti carcerari e dei riformatori” (Regio Decreto numero 260 del 1 febbraio 1891) venne formalizzata la nascita dei manicomi giudiziari, nel mondo penitenziario rimaneva molta confusione poiché queste strutture che raccoglievano i rei folli non riuscivano ad essere troppo diversi dai carceri comuni. Nascono così gli altri Manicomi Giudiziari in Italia: nel 1886 nasce il Manicomio di Montelupo Fiorentino, nel 1892 quello di Reggio Emilia, nel 1923 quello di Napoli e infine nel 1925 quello di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina).

La prima vera svolta per quanto riguarda la gestione della malattia mentale si ha nel 1904 con la legge numero 36 “Disposizione sui manicomi e sugli alienati”. Venne infatti istituito sia il manicomio comune sia quello criminale ma soprattutto venne introdotto il concetto di pericolosità sociale del malato di mente comune e soprattutto del malato mentale criminale. Nel primo articolo infatti si legge:

debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose a sé o agli altri e riescano di pubblico scandalo e non siano e non possano essere convenientemente custodite e curate fuorché nei manicomi. Sono compresi sotto questa denominazione, agli effetti della presente Legge, tutti quegli Istituti, comunque denominati, nei quali vengono ricoverati gli alienati di qualunque genere”.

Il considerare la malattia mentale pericolosa per la società porta a diverse conseguenze sul piano culturale e pratico. Se il folle, in quanto tale, diventa pericoloso per la società è lecito e moralmente giustificabile, applicare tutti quei meccanismi di esclusione che portano il malato fuori dalla società stessa; nel caso in cui il folle sia anche reo questo processo è ancora più facile perché la colpa criminale offre una giustificazione ancora più forte. Questa nuova concezione però induce le istituzioni manicomiali a porre in secondo piano tutti quegli aspetti medici e psichiatrici atti alla cura del malato per dare maggiore importanza alle pratiche di costrizione e di isolamento, utili appunto a rendere il malato meno pericoloso. Questa nuova concezione del malato mentale pericoloso per la società si traduce nell’obbligo da parte delle autorità preposte di trascrivere sul casellario giudiziario del malato i trattamenti medico-psichiatrici; questi così valgono come una condanna a vita, allo stigma perpetuo e al difficile reinserimento del malato nella società una volta dimesso.

Con il fascismo venne nuovamente aggiornato il diritto penale. Nel 1930 il cosiddetto Codice Rocco, introdusse per la prima volta il concetto (ancora in uso) del doppio binario, caratterizzato dalla presenza di due sanzioni distinte tra di loro: la pena e la misura di sicurezza. La pena è commisurata alla gravità del reato commesso, mentre la misura di sicurezza si basa sul concetto di pericolosità sociale del soggetto. Le due categorie vengono così parallelamente applicate. Per quanto riguarda la gestione dei rei folli il Codice Rocco decise che il ricovero nel manicomio giudiziario dovesse essere applicato solo se l’infermo di mente era considerato pericoloso per la società. Questo significò principalmente due cose: da una parte, ancora una volta la malattia mentale era considerata pericolosa per la società e quindi era giustificabile isolare il malato di mente; dall’altra il codice sottolineava che la tutela della collettività e della società stessa fosse ben più importante della salute e della cura del malato mentale. A riguardo infatti, il codice penale legalizzava un vero e proprio paradosso che dava più importanza alla misura di sicurezza rispetto alla pena; questo spesso creava un prolungamento della misura di sicurezza in manicomio anche una volta terminata la pena detentiva.

La situazione dei carceri e quindi dei manicomi criminali rimane praticamente invariata fino al secondo dopoguerra quando a partire dagli anni ’60, sotto l’influenza del movimento anti manicomiale, si sviluppò nell’opinione pubblica la necessità di riformare e rendere più umane le carceri e quindi anche i manicomi criminali.

La prima vera svolta che toccò il mondo della psichiatria fu la legge Mariotti, la numero 431 del 18 marzo 1968, che cercò di riformare il sistema di cura della malattia mentale ma che non toccò il mondo dei rei folli. La vera novità di questa legge era la cancellazione definitivamente dell’obbligo di annotare su casellario giudiziario il ricovero psichiatrico; la legge Mariotti così, distrusse per sempre il binomio tra malattia mentale e delinquenza ma non riuscì a cancellare l’idea della pericolosità sociale della malattia mentale.

A partire dagli anni ’70 l’opinione pubblica iniziò però ad interessarsi ai problemi dei malati mentali anche nelle carceri italiane; alcuni ex detenuti psichiatrici denunciarono le condizioni disumane dei manicomi criminali e soprattutto la popolazione fu fortemente colpita da un tragico fatto di cronaca. Nel dicembre 1974 nel Manicomio Criminale di Pozzuoli, Antonietta Bernardini legata nel suo letto di contenimento morì a causa di un incendio scoppiato nella sua cella. La tragedia fu l’occasione per riaccendere un forte dibattito sulla riforma dei manicomi criminali in Italia.

Questo nuovo clima di critica verso il sistema carcerario psichiatrico aveva tuttavia già portato ad un significativo cambiamento, infatti, il 23 aprile del 1974 la Corte Costituzionale con la sentenza numero 110 si esprimeva a favore della revoca della misura di sicurezza prima del periodo minimo stabilito per legge. Questo significava non permettere la permanenza nel manicomio criminale oltre la pena, come spesso era consuetudine succedere. Era un primo passo verso la demolizione del binomio tra malattia mentale e pericolosità sociale che tuttavia cessò definitivamente solo con la Legge Gozzini nel 1986.

Ma l’attenzione creata sulla malattia mentale in generale e sul mondo dei rei folli in particolare, portò al varo nel 1975 della legge 354 che pose le basi, anche se non in maniera così determinante, ad una riforma dei Manicomi Criminali. Infatti, la legge oltre a cambiare il nome alle strutture in OPG (Ospedali Psichiatrici Giudiziari) obbligava tali strutture ad avere almeno uno psichiatra nel proprio organico. Questo stava a significare che dopo decenni, il malato mentale che doveva scontare una pena detentiva, iniziava ad essere anche curato e non solo custodito.

Chiaramente la legge 354 non pose fine agli innumerevoli problemi all’interno del mondo carcerario psichiatrico; ne sono la prova le innumerevoli leggi mai approvate per la chiusura degli OPG e le commissioni di inchiesta che denunciavano le condizioni disumane di queste strutture.

L’attuale chiusura degli OPG è stata preceduta da una importante commissione parlamentare d’inchiesta sulle “condizioni di vita e di cura all’interno degli OPG” del 2011. La relazione a cura dei senatori Saccomanno e Bosone è molto chiara e decisa nel giudizio: gli OPG sono strutture fatiscenti e inadatte alla cura del malato mentale criminale. Si legge infatti che sono “gravi e inaccettabili le carenze strutturali e igienico-sanitarie rilevate in tutti gli OPG” anche perché tutte le strutture “presentano un assetto strutturale assimilabile al carcere o all’istituzione manicomiale, totalmente diverso da quello riscontrabile nei servizi psichiatrici italiani”. Una vera e propria isola anacronistica dove ancora vengono mantenuti i meccanismi e le problematiche tipiche degli ospedali psichiatrici. In effetti la commissione continua nel descrivere la carenza numerica del personale incaricato dell’assistenza socio-sanitaria ma soprattutto sottolinea la presenza di pratiche di contenzione fisica ed ambientale:

[…] se da un punto di vista giudico, la coercizione o contenzione fisica in psichiatria viene da taluni giustificata da una rigorosa interpretazione dello stato di necessità […], le modalità di attuazione osservate negli Opg lasciano intravedere pratiche cliniche inadeguate e, in alcuni casi, lesive della dignità della persona, sia per quanto attiene alle azioni meccaniche, sia talora per i presidi psicofarmacologici di uso improprio […]”.

La relazione della commissione continua nel descrivere numerose scene di degrado trovate nei vari OPG italiani e per questo auspica la chiusura di quelle strutture inadatte e fatiscenti e propone un’alternativa e un vero e proprio superamento delle strutture.

Solo tre anni dopo le conclusioni di quella Commissione di inchiesta il Parlamento licenzierà la legge 81 che sancisce la definitiva chiusura degli OPG.

La chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari.

Lo scorso 31 marzo quindi sono stati chiusi definitivamente tutti gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari in Italia e con essi si è chiuso idealmente un percorso iniziato nel 1978 con quella riforma Basaglia.

Attualmente la legge prevede di sostituire gli OPG con le Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza Detentive, i cosiddetti REMS, ovvero strutture che ospiteranno al massimo 20 detenuti, provviste di particolari misure contro l’evasione e dove gli ospiti potranno essere seguiti dal punto di vista psichiatrico; inoltre la legge prevede che siano presentati dalle Regioni e dalle USL progetti individuali di cura e di riabilitazione dei malati per ottenere misure alternative al REMS stesso

Il problema è che oggi la situazione in Italia è ancora incerta: gli OPG ancora ospitano pazienti, poche sono le REMS già attive e molte sono già sovraffollate.

La decisione di chiudere gli OPG viene certamente da lontano ed ha scopi senza dubbio positivi, tuttavia, questo processo, se non governato in modo adeguato, rischia di aprire nuove problematiche invece di risolverne. Il problema infatti è di cadere, come avvenne con l’applicazione della 180, in soluzioni ideologizzate o di riproporre una lunga transizione prima di creare una vera e concreta alternativa.

E’ chiaro che in questo momento è prevista una fase di transizione, così come è chiaro che sia giusto chiudere gli OPG, in quanto strutture che ledono i diritti delle persone ospitate; tuttavia rimangono molti dubbi ed è pertinente e necessario trovare una soluzione adeguata sia dal punto di vista psichiatrico che giudiziario e sociale.

E’ evidente che la questione meriterebbe un dibattito approfondito da parte della politica e della cultura di questo Paese, perché il rischio di stigmatizzazione e di pregiudizio è ancora forte; solo con un approccio multidisciplinare e concreto è possibile trovare una soluzione che rappresenti il bene del detenuto psichiatrico e della società.

Articolo pubblicato nell’agosto del 2015.




Il Palio e la Liberazione di Siena

Se a Siena c’è un modo per rendere omaggio ad una persona o ad evento è dedicargli un Palio. Fra tutte le dediche, quella più ricorrente, dal 1945 fino a quest’anno, è stata la Liberazione della città dal nazifascismo, avvenuta il 3 luglio 1944 ad opera delle truppe del Corpo di spedizione francese. L’iconografia del drappellone, chiamato comunemente Palio, cioè allo stesso modo della corsa di cavalli di cui è il premio, ha subito notevoli cambiamenti nel corso dei secoli. Ha tuttavia mantenuto una costante. Poiché i Palii si svolgono in onore della Madonna di Provenzano (2 luglio) e della Madonna Assunta (16 agosto), l’immagine della Vergine non può mancare e deve essere raffigurata in alto.

Fatta questa premessa, superflua per i senesi, ma non per tutti gli altri, vediamo la rassegna dei Palii dedicati alla Liberazione.

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Il sindaco Ciampolini con gli Alleati

Il 2 luglio del 1945 si tornò a far correre il Palio dopo un’ interruzione quinquennale causata dagli eventi bellici. Vinse la Lupa con Mughetto e Lorenzo Provvedi detto Renzino. Il drappellone non aveva una dedica, ma il pittore Bruno Marzi, probabilmente anche su consiglio del sindaco Carlo Ciampolini, nominato dal Cln e dalle autorità militari alleate, non poté sottrarsi ad un esplicito riferimento alla nuova stagione politica in cui cavalli e fantini tornavano a percorrere i tre giri di Piazza del Campo. Nella parte bassa del dipinto appare un drago, dalle unghie intrise di sangue e dal corpo cosparso di croci uncinate, che striscia fuori da una delle porte di Siena, trafitto a morte da una lancia con i colori francesi e statunitensi. Al di sopra, nel cielo del campanile del Duomo, sventolano le bandiere delle potenze vincitrici e il tricolore italiano. Da notare la mancanza di riferimenti al fascismo da poco abbattuto, così come alla Resistenza. Assenze che diverranno una costante nell’iconografia successiva, quasi che la dittatura, la Repubblica di Salò e la lotta partigiana contro di esse non fossero esistite.

Il 20 agosto dello stesso anno, sotto una pressione popolare che portarono alla dimissioni della giunta poi rientrate, venne organizzato un Palio straordinario per celebrare la pace. Vinse il Drago con Folco e Gioacchino Calabrò detto Rubacuori. Il pittore Dino Rofi riprese il tema delle bandiere dei vincitori a fare da sfondo e rappresentò una Nike classicheggiante che incede sicura sul globo terrestre recando in mano ramoscelli d’olivo. Come è noto ad ogni senese, mai dedica fu meno azzeccata dal punto di vista della storia paliesca. Alla fine della corsa i contradaioli del Bruco, inveleniti per non aver vinto, si impadronirono a forza di cazzotti del drappellone e lo fecero a pezzi. Poi, per riparazione, ne fecero dipingere una copia a loro spese, che finalmente venne consegnata al Drago.

Il 2 luglio del 1954 la realizzazione del drappellone fu affidata ad Enea Marroni. Vinse l’Onda con Gaudenzia e Giorgio Terzi detto Vittorino. Il pittore offrì una rappresentazione della Liberazione che qualcuno definì disneyana per la sua gioiosità un po’ fumettistica. Un sorridente vessillifero con la Balzana, stemma della città, si affaccia fra i merli del Palazzo Pubblico gettando di sotto la bandiera con la croce uncinata. In secondo piano il solito motivo delle bandiere delle potenze vincitrici, dispiegate dall’allegoria della Libertà che vola fra il Duomo, la basilica di S. Domenico e la Torre del Magia.

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Il drappellone del 2 luglio 1954

Il 2 luglio del 1964 il Palio della Liberazione lo vinse il Drago con Arianna e Giuseppe Vincenzio detto Peppinello. La realizzazione era stata affidata ad un tandem di artisti, Plinio Tammaro ed Ezio Pallai, i quali, forse memori delle critiche ricevute dal drappellone di dieci anni prima, scelsero un’interpretazione drammatica dell’evento. A simboleggiare il sangue e la sofferenza che aveva richiesto, una figura umana vista di spalle, collocata di fronte ad una porta cittadina e ad una barricata, alza le braccia verso l’immagine della Madonna, spezzando così la fitta rete metallica che la imprigiona.

Il 2 luglio del 1974, il pittore del drappellone, Enzo Bianciardi, decise di raffigurare alcuni momenti del Palio, dal corteo storico, alla corsa, all’esultanza dei contradaioli vittoriosi. Proprio quest’esultanza trascolora, in secondo piano, nella gioia dei senesi liberati dagli Alleati, come si comprende dalla data 1944 scritta su di loro. A vincere fu il Valdimontone con Pancho e Ettore Alessandri detto Bazzino.

Nel 1984 non ci fu dedica, probabilmente sotto l’influenza della cultura politica del Psi craxiano che guardava con un certo fastidio alle celebrazioni resistenziali, considerate vuote, ripetitive, lontane dallo spirito di innovazione politica e costituzionale di cui il partito si faceva interprete, e comunque troppo ad appannaggio degli alleati-concorrenti del Pci nel governo della città.

La dedica alla Liberazione tornò il 2 luglio 1994 nel palio vinto dalla Pantera con Uberto e con Massimo Coghe detto Massimino. Il pittore Leo Lionni scelse di nuovo, come tema centrale, la folla festante per la vittoria, assiepata intorno al cavallo vittorioso. La folla si confonde, sullo sfondo, con un’altra che manifesta gioiosamente per la fine della guerra, fra bandiere francesi e uno striscione rosso recante la data 1944.

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Il drappellano del 2 luglio 2014

Nel drappellone del 2 luglio del 2004, vinto dalla Giraffa con Donosu Tou (scosso) e Alberto Ricceri detto Salasso, il pittore Emanuele Luzzati realizzò invece una grande costruzione fantastica , una sorta di totem di animali tratti dagli stemmi delle Contrade e che culmina con l’immagine della Madonna circondata da teste di cavallo. In questo sogno di figure che rimandano al mondo fantastico dell’infanzia, l’unico riferimento alla Liberazione è affidato ad una scritta sull’aureola della Vergine.

Ed infine il Palio del 2 luglio 2014, vinto da Drago con Oppio e con Alberto Ricceri detto Salasso. La pittrice Rosalba Parrini ha rappresentato la Torre del Mangia, inserita da un lato fra teste di cavallo, colte nella concitazione dell’attesa fra i canapi, e dall’altro lato da un lungo nastro rosso che sostiene l’immagine della Madonna. Vicino alla Vergine una colomba, simbolo della riconquistata libertà, vola via da una gabbietta aperta. Il nastro rosso nasce in basso, da una Piazza del Campo in parte coperta dalla mappa della provincia di Siena. Sulla mappa, anch’essa di colore rosso, campeggiano alcune stelle gialle che indicano le zone in cui combatterono le formazioni partigiane. Dopo settanta anni, è il primo riferimento esplicito alla Resistenza e al suo ruolo nella Liberazione che si può leggere in un drappellone.

Articolo pubblicato nel giugno 2015.