Le Scuole Leopoldine, scenario di violenze e anticamera della deportazione nei lager nazisti.

Nei resoconti che parlano della secolare storia delle Scuole Leopoldine di piazza Santa Maria Novella a Firenze, dove oggi si trova il Museo Novecento, difficilmente si scopre ciò che vi accadde nel 1944, quando l’edificio fu requisito dalle truppe germaniche di occupazione. Pochi sanno che qui, come reazione furente allo sciopero generale dei primi di marzo del 1944 indetto dal Comitato di Liberazione nazionale, furono concentrati, interrogati, registrati e quindi deportati nel lager nazista di Mauthausen le lavoratrici e i lavoratori scioperanti, arrestati dai militi della Repubblica Sociale Italiana insieme a persone rastrellate per strada in modo indiscriminato a Firenze e in provincia, in particolare nel pratese e nell’empolese[1].
Prima esplicita opposizione di massa al fascismo, questo sciopero è considerato dagli storici, per le sue dimensioni e ripercussioni, uno degli eventi più straordinari della resistenza civile europea. Alcune fonti stimano circa 500.000 aderenti. Gli organizzatori parlarono di un milione di partecipanti, le autorità nazifasciste di circa 200.000[2]. Le reazioni dei nazisti e dei fascisti repubblicani furono immediate. Nonostante la rinuncia ad eseguire l’ordine di Hitler di deportare il 20% degli scioperanti, derivante dalle condizioni in cui si trovavano le forze occupanti e dalla volontà di evitare azioni che avrebbero prodotto sollevazioni popolari ancora maggiori[3], i costi umani furono elevati, anche a causa della complicità e fattiva collaborazione della milizia fascista e di una parte dei dirigenti d’azienda.
Per i nazisti, ogni occasione di repressione e pretesto di rappresaglia era utile per deportare in massa uomini e donne in grado di lavorare a favore dell’industria bellica del Reich. Oltre a costituire un forte deterrente da possibili ulteriori azioni di lotta o resistenza civile, le deportazioni avevano infatti anche l’obiettivo di trasferire in massa manodopera da ridurre in schiavitù.
In Toscana[4], come nel resto dell’Italia centro-settentrionale, la repressione fu dura: i rastrellamenti furono indiscriminati, si arrestarono gli operai che avevano scioperato ma anche quelli che non avevano scioperato, nonché impiegati, professionisti e perfino ignari passanti[5]. I fascisti effettuarono i rastrellamenti a Empoli, a Prato e nel centro di Firenze, soprattutto nel rione di San Frediano. Del rastrellamento e «invio in Germania di alcune centinaia» troviamo traccia nel rapporto della Militärkommandantur (Comando militare) di Firenze del 13 marzo 1944, in cui si parla dell’arresto di «elementi perturbatori pericolosi» e si sottolinea «l’energico intervento delle autorità italiane». Inquietante è inoltre il riferimento alla preparazione di «liste»[6], che furono in effetti messe a punto da molte aziende in cui erano avvenute astensioni dal lavoro[7].
Centinaia furono i fermati in provincia, arrestati per strada, prelevati da casa o direttamente dalle fabbriche e rinchiusi in luoghi di raccolta (spesso nelle caserme dei Carabinieri o nelle Case del Fascio, a Prato nella Fortezza medievale del Castello dell’Imperatore, sede della Guardia Nazionale Repubblicana), dove avvennero le prime selezioni. Gli arrestati in provincia furono poi portati a Firenze con i pullman o con degli autocarri, e «scaricati» davanti al grande edificio delle Scuole Leopoldine in Piazza Santa Maria Novella, centro di raccolta regionale dove erano state già condotte le persone rastrellate in città. Molti sopravvissuti al loro ritorno dai lager hanno riferito del grande beffardo cartello che era affisso sul palazzo: «Operai volontari per la Germania».
Documenti originali che si trovano all’Archivio Storico del Comune di Firenze, emersi solo molto recentemente grazie alla collaborazione dell’Archivio stesso, attestano che le autorità tedesche di occupazione che avevano requisito l’edificio, lo avevano classificato come «Sammellager», cioè letteralmente ‘campo di raccolta’[8], facendo sì che anche questo edificio entrasse a far parte dell’articolato sistema concentrazionario nazista. Alle Scuole Leopoldine si svolsero nei giorni 7 e 8 marzo 1944 le prime schedature e i primi interrogatori da parte delle SS, aiutati da un interprete. Ebbe un ruolo importante anche il Reparto Servizi Speciali della RSI comandato dal criminale fascista Mario Carità, che molti testimoni dicono di aver visto in quei giorni nei corridoi e nelle aule dell’edificio. Alcuni fermati furono rilasciati grazie ad interventi vari, altri ancora riuscirono a fuggire. La mattina dell’8 marzo 1944 la piazza era gremita di persone alla ricerca di notizie dei propri familiari. Le donne, pur avendo partecipato in gran numero allo sciopero, vennero escluse dalla deportazione[9] e rilasciate, mentre 338 uomini furono portati nel pomeriggio alla stazione ferroviaria di Santa Maria Novella poco distante e, stipati nei vagoni piombati già predisposti, deportati nel lager di Mauthausen (dove arrivarono l’11 marzo) e nei suoi sottocampi, tra i più terribili dell’intero sistema concentrazionario nazista. Sopravvissero in 64, cioè il 19%.
Poco è pubblicato nei libri di storia locale sull’argomento delle Scuole Leopoldine come centro di raccolta degli arrestati nel marzo 1944, la cui vicenda è documentata al Museo della Deportazione e Resistenza di Prato[10]. Molto si trova però nella memorialistica, in particolare all’interno del corpus di interviste ad ex-deportati raccolte dal Prof. Andrea Devoto alla fine degli anni ’80 in collaborazione con l’ANED[11], l’Associazione Nazionale Ex-Deportati nei campi nazisti, nelle sezioni di Firenze, Prato, Empoli e Pisa, che si adopera da decenni per conservare la memoria della deportazione politica.
Il 6 marzo 2017, la Fondazione Museo della Deportazione e Resistenza di Prato, in collaborazione con l’ANED Toscana, l’Istituto Storico della Resistenza in Toscana, il Comune di Firenze/Museo Novecento e la Regione Toscana, ha realizzato per la prima volta negli spazi del Museo Novecento (Ex Scuole Leopoldine) un evento di approfondimento storico dal titolo La memoria di un luogo: marzo 1944, arresti e deportazione, cui è seguita la lettura teatrale, a cura del Teatro d’Almaviva, di brani di interviste a testimoni sopravvissuti ai lager. Tra queste si ricorda quella di Roberto Castellani, per molti anni presidente della sezione ANED di Prato:

Noi (di Prato) ci presero e ci portarono in Fortezza, lì dai repubblichini, poi ci prese un pullman e ci portarono in piazza Santa Maria Novella alle Scuole Leopoldine, la sera; s’arrivò lì e trovai altre persone che erano già state prese a Prato e tra questi ci trovai anche il Pitigliani, che lui era ebreo, pensi che situazione! Lo conoscevo. Disse «Oh Castellani, ci sei anche te?» E io ebbi un po’ di paura e dissi: «Icché ci fanno?» «Eh, non ci fanno nulla, stai tranquillo domani ci mandano via tutti, o forse, dice, ci manderanno a fare dei fossati a fare delle trincee». Viene la mattina presto un maresciallo delle SS e ci fanno un interrogatorio, persona per persona. Mi chiamano, e mi domandano «Te che hai fatto lo sciopero?» «Sì», I’avevo fatto, non avevo mica nulla da nascondere, dice «Che mestiere tu fai?» «Lavoro alle filande» «Va bene, lo sai, dice, che è proibito fare lo sciopero?» «Mah, io non lo so, mi dissero di fare festa e feci festa, ecco», e basta. Mi dissero «Vai via» e mi mandonno via; suppergiù le solite domande le fecero a tutti. La mattina dell’8 marzo arrivarono tanti altri, tanti tanti, più che la sera, furono presi nelle fabbriche…[12] .

Fiorello Consorti, altro testimone, ricorda:

E invece la mattina dissero: «Mettetevi lì!» Ci si mise lì, ce n’era degli altri: s’aspettò e poi ci portarono via. Fui uno degli ultimi ad essere preso, e ci portarono in fortezza … poi ci portarono a Firenze, in questa scuola qui, c’era scritto «Lavoratori volontari», un cartellone di propaganda … fanno come tutti, vede: loro fanno uguale: mettono i cartelli per far credere quello che vogliono ma invece non è in quella maniera. Ci scaricarono tutti lì, perché gli autobus li appoggiarono a quegli scalini, aprivano gli sportelli, un repubblichino fuori col mitra, e ci scaricarono tutti sul sagrato e ci misero dentro, e dentro c’era un cortile col loggiato[13].

Anche Alberto Ducci, per molti anni presidente della sezione ANED di Firenze, era stato portato alle Scuole Leopoldine. Questi i suoi ricordi:

E così la mattina ci han fermato in piazza Dalmazia a Firenze e ci hanno chiesto i documenti a tutti e tre: gli altri due li hanno rimandati, e me mi hanno detto che dovevo seguirli perché il prefetto mi doveva parlare. Questi documenti li han controllati in un elenco che avevano questi repubblichini, dopo di che mi han fatto salire su un camion militare, dove ho trovato altri repubblichini con tanto di mitra, e altri sventurati, una decina o 12, ci hanno portato giù alle Scuole Leopoldine in piazza Santa Maria Novella. C’erano tantissime persone, mi ricordo questo: di un certo Ballerini, di Campi, che fin dall’inizio cercò di farci un po’ di coraggio. Ricordo ci trovai un repubblichino di Bagno a Ripoli, un certo Calosi, e mi permisi di dirgli, «Guardi, la mi conosce, io non ho fatto nulla» e lui mi gridò che ero un traditore, insomma, e roba del genere, e quindi non ci fu nulla da fare: anzi, poi dissero che ci avevano messo nel gruppo delle facce sospette, giù, mentre si scendeva dalle aule che eravamo ai piani superiori, ci sistemarono a gruppi giù in questa specie di giardino al piano terra, e di lì dissero che eravamo delle facce sospette, ci fecero partire a gruppi, non mi ricordo, di 15, di 20, per farci salire sui camion, e quando passavamo davanti ci sputavano addosso, insomma, ce ne facevano di tutte[14].

Questo invece il racconto di un altro presidente della sezione ANED di Firenze, Mario Piccioli:

Fui preso, perché il giorno avanti presero mia madre che lavorava alla cartiera Cini in via Arnolfo. Lì c’era una grande fabbrica di cartotecnica e grafica, e appunto per gli scioperi che fecero furono prese diverse, che erano quasi tutte donne. E difatti la sera noi s’era a casa, e questa donna la ‘un tornava. E allora, che si fa, che non si fa? Dopo la mia zia ci avvisò che queste donne erano state portate alle Scuole Leopoldine in Piazza Santa Maria Novella. […] Quando siamo dentro alle scuole (un repubblichino) mi porta su; queste donne l’erano tutte in un’aula, no? e quelle altre erano piene di uomini che avevano preso da Prato, da Empoli, dalle fabbriche. Mi buttarono dentro un’aula con loro. Dopo un poco, gli fo a un carabiniere. «Per piacere, sento piangere, c’è una stanza dove ci sono delle donne, ci deve essere anche la mi’ mamma, sicché già che sono qui …». M’accompagnò. Difatti c’erano tutte le donne della fabbrica e c’era anche mia madre ma passarono solo due minuti perché mi sentii riacchiappare per il colletto e portare via. Poi mi portarono da una signorina a una macchina da scrivere, era tedesca, ma parlava un poco d’italiano, e ci chiedeva i connotati e scriveva. Verso mezzogiorno ci dettero, a quell’epoca c’era i filoncini lustri di 300 grammi, un filoncino per uno e un pochino di formaggio. Allora si cominciò a dire, non ci lasciano andare, perché ci danno da mangiare! E difatti dopo un po’ venne uno della milizia: «Voi traditori della patria pagherete caro!». Chiamarono 20 di noi, io non c’entrai fra questi, loro andarono via e noi si aspettò. Dopo quello della milizia ritorna, la solita musica: altri 20 e io entrai in questa mandata. La piazza era piena e c’era preparato un camion con quattro Tedeschi, uno per lato, e noi 20 ci buttarono sopra; imboccarono da piazza Santa Maria Novella, quella stradina lì, Via degli Avelli, poi al bagagliaio della stazione dalla parte di dietro, di via Alamanni. Salirono su con questo camion e s’andette proprio dentro alla stazione. E lì c’era un mare di Tedeschi, una tradotta bell’e preparata, tutto il convoglio, e ci buttarono dentro un vagone bestiame[15].

Tra gli arrestati c’era inoltre Piero Scaffei, che a proposito delle vicende del marzo 1944 ricorda:

Ecco, una volta entrato nelle Scuole Leopoldine, dove c’è gli archi, dove ora c’è la nostra lapide, non si riuscì più. Mi presentai lì, c’era una signorina a un tavolo, tedesca, non so, o italiana che parlava il tedesco, questo non lo so. Dalle Scuole Leopoldine montai sul camion anch’io e mi portarono alla stazione di Santa Maria Novella […]. C’era i carri bestiame già tutti pronti, brum. Carri bestiame, niente, nudi e crudi. Tutti s’aspettava, tutti pensavano, «Ci manderanno a Cassino a fare trincee” perché il fronte era a Cassino in quel momento. Poi quando vidi che si andava verso Prato dissi “ma qui si va in su, si va al nord»[16].

È importante che cittadini, turisti e studenti conoscano questo luogo della memoria, poco noto come tale. Nonostante una piccola targa, posta sulla parete interna del loggiato, renda il giusto omaggio alle vittime, occorre spiegare cosa avvenne al suo interno. La memoria passa infatti anche attraverso la conoscenza di edifici che, come questo, furono scenario di persecuzione e anticamera dell’estrema violenza e della morte nei lager.

 

Note

1. Si veda sul tema il saggio da cui sono tratte parti del presente contributo: C. Brunelli e G. Nocentini, La deportazione politica dall’area Firenze, Prato ed Empoli, in Il libro dei deportati. Volume II. Deportati, deportatori, tempi, luoghi, a cura di B. Mantelli, Mursia, Milano 2010, pp. 620-658.
2. L’importanza dello sciopero fu compresa già allora dalla stampa statunitense. Il 9 marzo 1944 il “New York Times” (che parlò di svariati milioni di scioperanti) scrive: «In fatto di dimostrazioni di massa non è mai avvenuto nulla di simile nell’Europa occupata che possa somigliare alla rivolta degli operai italiani». Anche il giudizio degli storici dei nostri tempi non differisce molto da questa analisi: «Come dimostrazione politica, lo sciopero generale ebbe una grandissima importanza. Fu la più grande protesta di massa con la quale dovette confrontarsi la potenza occupante: attuata dimostrativamente senza aiuti dall’esterno, senza armi ma con grande energia e sacrifici. Fu il più grande sciopero generale compiuto nell’Europa occupata dai nazionalsocialisti». Si veda L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia 1943-1945, Bollati Boringhieri, Torino 1996, p. 225.
3. Ivi, pp.221-222. Si veda anche, a questo proposito E. Collotti, L’occupazione tedesca in Toscana, in Storia della Resistenza in Toscana, vol. I., a cura di M. Palla, Carocci, Roma 2006, pp. 85-146.
4. Per maggiori informazioni sugli scioperi in Toscana si rinvia a: F. Taddei, Il Pignone di Firenze 1944/1954, La Nuova Italia Editrice (Toscana Sindacato), Firenze 1980; in particolare L. Malgalaviti, Il Pignone tra Resistenza e ricostruzione, pp.119-144, che a p.128 testimonia come alle famiglie dei deportati il Pignone avesse inviato il 27 marzo 1944 lettere di licenziamento per «assenza arbitraria dal lavoro». Si vedano inoltre: L. Mancini, Le sigaraie: lavoro e organizzazione produttiva nella Manifattura tabacchi di Firenze fra Resistenza e dopoguerra, in Ricerche storiche, Edizioni Polistampa, Firenze gennaio-aprile 2004; Era la Resistenza. Il contributo di Empoli alla lotta contro il fascismo e per la liberazione, a cura di P. L. Niccolai e S. Terreni, Giampiero Pagnini Editore, Firenze 1995; M. Carrai, Lotte sindacali e democrazia: 1919-1948, p. 122, in La tradizione antifascista ad Empoli 1919-1948, atti del convegno (Empoli, 23 aprile 2004), a cura di P. Pezzino, Pacini Editore, Pisa 2005; M. Di Sabato, Il sacrificio di Prato sull’ara del Terzo Reich, Editrice Nuova Fortezza, Livorno 1987.
5. Gli stessi occupanti, nel rapporto della Militärkommandantur di Firenze del 13 aprile 1944 a poco più di un mese dal giorno della deportazione, ammisero che «un notevole numero (…) di italiani, del tutto innocenti, è stato deportato in Germania senza ragione». Toscana Occupata. Rapporti delle Militärkommandanturen, introduzione di M. Palla, Leo S. Olschki, Firenze 1997, p.143.
6. «Incitati dalla propaganda nemica e inaspriti dalla penuria di generi alimentari i lavoratori hanno tentato di scioperare anche nella provincia di Firenze, particolarmente a Prato, ad Empoli e nella stessa Firenze in diverse fabbriche. L’energico intervento delle autorità italiane, sollecitate dal Comando militare, e in particolar modo l’invio in Germania di alcune centinaia tra gli elementi perturbatori più pericolosi hanno fatto sì che l’agitazione ben presto rientrasse e il lavoro venisse ripreso. Attualmente nelle aziende nelle quali si è scioperato si preparano liste di nominativi degli scioperanti e tra questi si segnalano in particolar modo i sobillatori, allo scopo di poter disporre di materiale per arresti per future occasioni». Ivi, p. 116.
7. Esempi di liste con nomi di operai scioperanti sono conservate in copia al Museo e Centro di documentazione della Deportazione e Resistenza di Figline di Prato.
8. Si veda presso l’Archivio Storico del Comune di Firenze (ASCFi), Fondo Scuole Leopoldine, Affari spediti 1944, coll. SL 91, in particolare il documento a firma del tenente colonnello della Wehrmacht Gieseke del Comando germanico di Piazza di Firenze riguardante la «Requisizione di edifici per scopi di impiego nel lavoro» (Arbeitseinsatzzwecke). Di seguito la traduzione testuale della lettera datata 2 marzo 1944: «Le Scuole Leopoldine a Firenze Piazza Santa Maria Novella n. 10 sono da subito requisite per la Wehrmacht tedesca. La scuola è a disposizione della sezione amministrativa militare del lavoro come campo di raccolta (Sammellager) per manodopera italiana destinata al trasferimento in Germania».
9. Si veda il racconto di Mario Piccioli, contenuto in M. Piccioli, Da San Frediano a Mauthausen, a cura di B. Confortini, comune network, Firenze 2007.
10. Il museo, voluto fortemente dai sopravvissuti pratesi ai lager di Mauthausen ed Ebensee e inaugurato il 10 aprile 2002, è una delle poche strutture in Italia ad essere dedicata in modo specifico alla memoria della deportazione nei campi di concentramento e di sterminio nazisti.
11. cfr. La Speranza Tradita. Antologia della deportazione politica toscana, a cura di I. Verri Melo, Pacini Editore, Giunta regionale Toscana, Firenze 1992, con un’appendice inserita nella seconda edizione del febbraio 2014, a cura della Fondazione Museo della Deportazione e Resistenza di Prato con le biografie dei testimoni intervistati, tra cui quelle che seguono nelle note.
12. Operaio al lanificio San Martino di Prato, fu arrestato in piazza San Francesco a Prato il 7 marzo 1944 nell’ambito di una retata effettuata in seguito agli scioperi. Come molti altri pratesi, Castellani si era recato nel centro cittadino per verificare gli effetti di un bombardamento alleato che si era abbattuto sulla città. Detenuto nella Fortezza di Prato (sede della Guardia Nazionale Repubblicana) e alle Scuole Leopoldine di Firenze, a Mauthausen fu classificato come deportato politico (Schutzhaft), ricevendo il numero di matricola 57.027. Il 25 marzo 1944 venne trasferito al sottocampo di Ebensee dove fu assegnato ad una squadra che curava i giardini delle SS. Successivamente, dopo aver disertato il lavoro per restare accanto ad un amico malato, fu inviato per punizione a lavorare nelle gallerie. Liberato ad Ebensee il 6 maggio 1945 dall’esercito americano, è stato un testimone instancabile, prodigandosi per l’istituzione del gemellaggio della pace tra Prato ed Ebensee e per la creazione del Museo della Deportazione di Prato. R. Castellani, Intervista del 20 aprile 1988, in Fonti, 4. 9. 14. 16. 20. 28.
13. Rivedibile alla visita di leva, Fiorello Consorti lavorava come operaio in una ditta tessile a Prato. Arrestato da un carabiniere e dai militi della Guardia Nazionale Repubblicana l’8 marzo 1944 in via Mazzoni, fu detenuto nella Fortezza di Prato (sede GNR) e alle Scuole Leopoldine di Firenze. Arrivato a Mauthausen, fu classificato come deportato politico (Schutzhaft), ricevendo il numero di matricola 57.076. Trasferito al sottocampo di Ebensee, dove fu assegnato al lavoro nelle gallerie come operaio semplice, fu liberato il 6 maggio 1945 dagli americani. F. Consorti, Intervista del 24 giugno 1988, in Fonti, 4. 9. 14. 16. 20.
14. Ducci, che al momento dell’arresto lavorava come operaio, fu classificato come deportato politico (Schutzhaft) a Mauthausen, dove ricevette il numero di matricola 57.101. Il 25 marzo 1944 venne trasferito ad Ebensee, dove lavorò dapprima all’ampliamento del campo e successivamente nelle gallerie. Liberato il 6 maggio 1945 dall’esercito americano, si è adoperato attivamente per tenere viva la memoria della deportazione. A. Ducci, Intervista del 22 marzo 1988, in Fonti 4. 9. 16. 19. 20.
15. Commesso in una pizzicheria, Piccioli fu arrestato la mattina dell’8 marzo 1944 da un agente in borghese della Guardia Nazionale Repubblicana in piazza Santa Maria Novella, dove si era recato per cercare la madre, arrestata la sera prima per aver partecipato allo sciopero e reclusa nel centro di raccolta alle Scuole Leopoldine. La madre fu rilasciata insieme alle altre donne. Mario invece fu deportato lo stesso giorno nel campo di concentramento di Mauthausen. Numero di matricola 57.344, fu classificato come deportato politico (Schutzhaft). Il 25 marzo 1944 venne trasferito ad Ebensee, dove fu assegnato al lavoro nelle gallerie come operaio semplice. Il 10 settembre 1944 venne trasferito nel sottocampo di Linz III e impiegato in lavori esterni, soprattutto nel trasporto merci. Durante un bombardamento alleato alla fine del 1944 il rifugio della sua squadra di lavoro venne colpito. Di trentadue uomini se ne salvarono solo quattro, tra cui Mario, che, ferito ad una gamba, fu trasferito in infermeria. Liberato il 5 maggio 1945 dall’esercito americano, si è adoperato attivamente per tenere viva la memoria della deportazione. M. Piccioli, Intervista del 28 gennaio 1988, in Fonti 4. 8 n.3-5/2010. 9. 16. 20. 23. 28.
16. Arrestato l’8 marzo 1944 in piazza Santa Maria Novella, Scaffei fu deportato lo stesso giorno. Classificato come deportato politico (Schutzhaft), ricevette il numero di matricola 57.399. Il 25 marzo 1944 venne trasferito ad Ebensee, dove lavorò come manovale all’esterno delle gallerie. Il 16 maggio 1944 fu ricoverato in infermeria in seguito ad un’infezione alla mano e successivamente trasferito nel Sanitätslager (infermeria) di Mauthausen. Probabilmente a metà agosto 1944 venne nuovamente trasferito a Linz III. Liberato il 5 maggio 1945 dall’esercito americano, si è adoperato attivamente per tenere viva la memoria della deportazione. P. Scaffei, Intervista del 21 gennaio 1988, in Fonti 4. 9. 16. 20.

Articolo pubblicato nel marzo 2024.




Monumenti, lapidi, segni e luoghi di memoria della Seconda guerra mondiale e della Resistenza maremmana

La Resistenza rappresentò la fusione tra paesaggio e persone
Italo Calvino

 

Nessuno di questi monumenti parla davvero del passato: sono al contrario tutti espressione di una storia che è ancora viva e che, ci piaccia o no, continua a governare le nostre vite
Keith Lowe

 

A ottant’anni dalla Liberazione dei nostri territori dal nazifascismo è utile riflettere sulla memoria della Resistenza, provando a capire quale sia l’impatto di lungo periodo o, meglio, l’eredità della Resistenza ai nostri giorni. Di fatto, perché l’anniversario di quest’anno rappresenti nel discorso pubblico un momento significativo per porre all’attenzione il tema, come lo sono stati gli anniversari “tondi” che ci hanno preceduto, è necessario accompagnare le celebrazioni della Liberazione toscana e, nello specifico maremmana, a una riflessione profonda sul senso del parlare di Resistenza oggi, sui termini in cui farlo e sulle modalità memoriali che hanno caratterizzato questi ottant’anni trascorsi dall’estate del 1944, che vide la conclusione per la provincia di Grosseto dell’esperienza della lotta armata.

Philip Cooke scrive che c’è ancora il bisogno di colmare quello che lui definisce come “il divario fra l’indagine storica e l’analisi culturale”, per indagare quella doppia elica costituita dalla politica italiana e dalla cultura della Resistenza italiana, “due filamenti legati fra loro […] componenti strutturali del DNA dell’Italia contemporanea” che aiutano a comprendere la natura profonda di un paese che sulla memoria della Resistenza è in parte divisa (L’eredità della Resistenza. Storia, culture, politiche dal dopoguerra a oggi, 2015). Senza poter qui approfondire la questione per gli anni più recenti, come il bel volume di Philip Cooke fa, è necessario però almeno partire da questo ragionamento per evidenziare le diverse fasi nella costruzione della memoria della Resistenza che riguardano direttamente l’argomento di questo articolo (ovvero l’immediato dopoguerra, il decennio successivo che potremmo definire della “canonizzazione” del discorso resistenziale e gli anni Sessanta che sono caratterizzati dalla presenza del tema della “Resistenza tricolore”).

Su tale costruzione memoriale agiscono diversi vettori legati alla storia culturale come la letteratura, le arti figurative, il discorso pubblico e la memoria istituzionale (ad esempio, il calendario civile), la comunicazione politica, i testi giornalistici, le culture popolari, il cinema, la televisione, la musica, la rappresentazione fotografica; si tratta di alcuni dei temi a cui sono state maggiormente dedicati studi specifici, a partire soprattutto dagli anni Ottanta. Scarseggia invece, anche per quanto riguarda la provincia di Grosseto, una specifica attenzione al tema dei monumenti e dei segni di memoria dedicati alla Resistenza e questo nonostante il fatto che, se si considera la Resistenza come religione civile dell’Italia repubblicana, proprio i monumenti condensino di fatto riti, simboli e commemorazioni che fanno parte di questa tradizione memoriale.

Sul perché questo avviene Iara Meloni pone, a partire dal caso piacentino (saggio in Piedistallo della storia, a cura di S.Nannini e E. Pierazzoli, Viella 2022), alcune riflessioni molto interessanti a livello generale, a partire dalla considerazione evidente che rispetto al caso delle “memorie di pietra” della Prima guerra mondiale, su cui invece gli studi abbondano, non ci siano stati per la Resistenza miti unificanti, come ad esempio quello della mater dolorosa, e non esista una figura unica come quella del soldato in armi, richiamata dalle diverse forme di monumentalizzazione legate al milite ignoto: esistono invece una moltitudine di protagonisti e, di conseguenza, anche una moltitudine di atteggiamenti, comportamenti, azioni e quindi narrazioni diverse a cui gli studi sulla memoria della lotta di Liberazione dal nazifascismo devono fare riferimento. Altro aspetto da tenere in considerazione è anche la diffidenza, che in quel momento storico si impose con forza, nei confronti di tutta quella serie di retoriche celebrative e di miti patriottici, che erano stati retaggio del bagaglio culturale fascista e che nel dopoguerra invece si volle nettamente evitare, proprio per segnare una cesura con quell’esperienza. In questo senso, Iara Meloni parla di una vera e propria volontà di “smonumentalizzazione”, evidente sia nella modalità di creazione dei diversi segni di memoria, sia nell’assenza di studi specifici su di essi.

In provincia di Grosseto, negli anni, sono stati tentati progetti di mappatura delle “memorie di pietra” del territorio, facendo interagire monumenti, lapidi e segni di memoria con un approfondimento storico che potesse narrare e approfondire le vicende da essi ricordate (si veda, ad esempio, il progetto Cantieri della memoria. Dalle pietre al digitale). Ma al di là di alcuni tentativi portati avanti da diversi soggetti, fra cui l’Isgrec, non c’è stato un tentativo di contestualizzazione di quei monumenti che abbia coinvolto tutto il quadro provinciale, ovvero non si è guardato a quelle tracce del passato resistenziale con uno sguardo d’insieme che ne indagasse genesi e caratteri specifici.

Altro aspetto che caratterizza i primi anni dopo la fine del conflitto è il concentrarsi dell’asse della narrazione memoriale in località periferiche, in luoghi isolati e poco frequentati che però sono i luoghi che vengono riconosciuti significativi per singole comunità o per specifici gruppi sociali o politici. Si struttura in quei primi anni, insomma, un vero e proprio binomio fra evento e luogo, per cui il monumento – e il ricordo – si colloca nel luogo in cui l’evento avviene. Se teniamo presente che la memoria a livello locale della Resistenza è per lo più innervata in singole comunità[1], il ragionamento che ne deriva è che proprio lo spazio comunitario alla fine della guerra diventa una delle modalità principali attraverso cui la storia della Resistenza inizia a farsi discorso pubblico e a essere narrata, con modalità che ovviamente cambiano nel tempo[2].

In questa fase immediatamente successiva alla Liberazione si vedono chiaramente nascere gli archetipi di quella che sarà la successiva rappresentazione della Resistenza.

Lapide in memoria di Giovanni Pastasio

Cippi e monumenti sorgono numerosi nei luoghi di uccisione di partigiani o, in alcuni casi, di vittime del fascismo; nell’immediato dopoguerra, infatti, la precisa volontà di non dimenticare i caduti del periodo squadrista e di tornare a commemorare persone che non si erano potute commemorare fino ad allora porta alla creazione di alcune targhe e monumenti legati alle vicende degli anni Venti[3]. Già il 17 agosto 1945, ad esempio, a Gavorrano viene apposta una lapide che ricorda il luogo e il giorno in cui nel 1921, Giovanni Pastasio, giovane minatore antifascista, fu ucciso durante un’incursione di squadristi di Follonica, mentre a Scarlino viene collocata una targa in ricordo di Gabriello Dani, capolega dei contadini del territorio, ucciso l’11 settembre 1921 da una spedizione fascista.

Di contrasto, nella toponomastica si evidenzia la necessità impellente di una vera e propria epurazione simbolica rispetto a quel retaggio culturale fascista che aveva segnato profondamente le architetture delle città ma anche appunto i nomi delle strade, in particolare in riferimento al periodo squadrista.

In un documento del Comune di Grosseto dell’agosto 1943 (quindi ancora prima dell’inizio della Resistenza) appare evidente come già a seguito del 25 luglio ci si ponesse immediatamente la problematica di cambiare alcuni di questi toponimi (tornando in questo caso a quelli precedenti): ad esempio, a Grosseto si eliminò Piazza Rino Daus, martire del fascismo, squadrista senese della prima ora che aveva partecipato alla cosiddetta “presa di Grosseto” del giugno 1921; nella stessa logica avvenne la trasformazione in Via Piave di Via Ivo Saletti, squadrista che aveva partecipato alla spedizione punitiva su Roccastrada del luglio 1921, colpito poi sulla strada del ritorno o da un’imboscata o per fuoco amico – secondo due ricostruzioni contrapposte difficilmente verificabili –, alla cui morte seguì l’uccisione per rappresaglia da parte dei fascisti di dieci cittadini del paese.

Cippo di Boccheggiano in ricordo dei partigiani Ghiribelli, Malossi e Tompetrini

Se in merito alla memoria dello squadrismo il centenario della marcia su Roma nel 2022 ha avviato una riflessione complessiva, in questo primo tentativo di indagine è difficile pensare di poter anche solo citare, invece, i moltissimi cippi che a partire dal 1945 vengono dedicati ai caduti partigiani, spesso collocati in località davvero impervie e isolate, per cui si rimanda alla mappatura realizzata sul sito ResistenzaToscana creato della Federazione Regionale Toscana delle Associazioni Antifasciste e della Resistenza di cui fanno parte fra le altre ANPI, ANED e FIAP, a partire dal 2003. Fondamentale, però, è soprattutto sottolineare come questi luoghi diventino centrali nelle prime commemorazioni del 25 aprile o in cerimonie che avvengono nella ricorrenza delle date in cui le persone ricordate sono state uccise: i monumenti in questione diventano fin da subito, insomma, luoghi di ricorrente vivificazione rituale del ricordo, incarnando tutta una serie di rituali commemorativi che li hanno tenuti vivi come luoghi di memoria fino ad oggi.

Lapide a Campo al Bizzi (Monterotorndo Marittimo)

Quello che però è soprattutto utile, in quest’ottica, è guardare ad alcuni luoghi che sono centrali nella narrazione “canonica” della Resistenza maremmana, senza alcuna pretesa di esaustività, ma solo come riflessione di partenza sul tema. Ad esempio, la lapide di campo al Bizzi che ricorda l’Eccidio del Frassine (Monterotondo Marittimo) avvenuto il 16 febbraio 1944: posta sul casale che fu bruciato durante il rastrellamento del gruppo di giovani partigiani, in cui persero la vita Otello Gattoli di Massa Marittima, Silvano Benedici di Volterra, Pio Fidanzi di Prata, Salvatore Mancuso di Catania e Remo Meoni di Montale (Pt), è un esempio lampante di tutte le caratteristiche finora evidenziate perché nonostante il notevole isolamento del luogo la lapide (che oggi è stata spostata dal casale, che sta cadendo a pezzi, e inserita in un monumento scultoreo collocato nelle immediate vicinanze) è tuttora commemorata annualmente alla presenza di moltissime persone che la raggiungono dopo una lunga escursione a piedi organizzata dall’Anpi e dal Comune di Monterotondo Marittimo.

Commemorazione al cippo in memoria del tenente Gino (2021)

Simile per perifericità, anche se più elaborato dal punto di vista stilistico, il monumento commemorativo al Tenente Luigi Canzanelli, noto come “tenente Gino”, caduto insieme al suo attendente, il soldato Giovanni Conti, il 7 maggio 1944, a seguito di un’imboscata tesa da un gruppo di nazifascisti, nei pressi di Murci, frazione di Scansano; in questo caso il ricordo si colloca nell’ambito della Resistenza “con le stellette”, trattandosi di militari che aderiscono alle formazioni partigiane e, in questo caso, le guidano. Interessante è notare come questo monumento, collocato nel luogo dell’imboscata, sia stato restaurato nel 2021 dal Comando dei Carabinieri, un soggetto diverso da quelli che tipicamente agiscono quali vettori di memoria. Del resto, la stessa caserma del Comando provinciale dell’Arma di Grosseto è intitolata proprio a Luigi Canzanelli.

Monumento a Ponte del Ricci

Altro monumento particolarmente precoce in provincia di Grosseto è quello di Ponte del Ricci, nel Comune di Roccastrada. Collocato di fatto a un semplice bivio stradale, lontano dai paesi e isolato, si situa in un luogo che si trovò in prossimità del passaggio del fronte, dove il 17 giugno 1944 persero la vita quattro giovani partigiani della formazione “Gramsci” di Roccastrada, fra cui il comandante del distaccamento dei “Lupi rossi” di Montemassi. La memoria di questo episodio si è modificata nel corso del tempo grazie alla ricostruzione storica: dapprima identificato come una strage di civili, grazie alla ricerca di Cinzia Pieraccini del 2005, è stato riconosciuto come un episodio avvenuto durante un combattimento, legato, quindi, a uno scontro a fuoco tra partigiani e tedeschi in ritirata. Il monumento che oggi è presente, e che ha sostituito un semplice cippo con i nomi dei caduti, è stato realizzato nel 1973 dallo scultore Vittorio Basaglia.

Se lo spontaneismo è spesso all’origine di questi primi luoghi di memoria, con gli anni Cinquanta la monumentalizzazione risente maggiormente del discorso nazionale che si struttura sulla Resistenza.  Nell’Italia del centrismo democristiano e dell’alleanza occidentale la tradizione diviene infatti il serbatoio più rassicurante a cui la politica della memoria può attingere; anche per parlare di Resistenza ci si rifà a nodi narrativi che si legano alla pietas o che si rifanno all’interpretazione della Resistenza come a un secondo Risorgimento e che, quindi, interpretano le figure dei partigiani caduti secondo uno schema narrativo che si richiama alla lettura nazional-patriottica del martirio eroico.

Addirittura, a Grosseto la Chiesa cattolica e in particolare la figura del Vescovo Galeazzi contribuiscono negli anni Cinquanta a sottolineare questo aspetto della pietas cristiana fino al punto di cristallizzare in qualche modo la memoria di una “guerra senza Resistenza”. La costruzione della cripta della Chiesa del Sacro Cuore, infatti, contribuisce a incentrare la narrazione della guerra appena trascorsa sulle vittime civili, ricordando in particolare la “strage delle giostre” del 26 aprile 1943, quando nel corso del primo bombardamento subito da Grosseto, persero la vita 134 cittadini tra cui decine di bambini. [4] La narrazione del bombardamento di Pasquetta si manterrà incardinata al registro della pietas anche successivamente; ritroviamo la stessa impostazione, infatti, anche in monumenti successivi che continuano a fare riferimento a un universo simbolico prettamente religioso.

Cripta della Basilica del Sacro Cuore – Memoriale alle vittime dei bombardamenti (anni Cinquanta)

 

Monumento alle vittime dei bombardamenti di Grosseto (2003)

In merito, invece, al topos della Resistenza come “secondo Risorgimento” va precisato che, sebbene il racconto di taglio patriottico fosse già emerso durante la guerra per narrare la Resistenza come sforzo corale del popolo italiano, si strutturerà soprattutto in seguito in contrasto con la narrazione egemonica da parte comunista. Un’altra delle caratteristiche su cui riflettere nei monumenti della Resistenza del primo dopoguerra e degli anni Cinquanta è, quindi, la tendenza diffusa ad aggiungere (o comunque ad affiancare negli spazi pubblici) i nomi dei caduti del 1940-45 e dei caduti della Resistenza ai monumenti dedicati ai caduti della Prima guerra mondiale.

Memoriale ai caduti di Massa Marittima

In questa logica della Resistenza come secondo Risorgimento, in sostanza, essi vengono in qualche modo inseriti, come evidenzia anche Iara Meloni, in un “patriottico abbraccio cumulativo” (Massimo Baioni, Vedere per credere. Il racconto museale dell’Italia unita, 2020).

 

Per esemplificare in relazione al contesto grossetano, non si può non citare il memoriale dei Caduti di Massa Marittima, luogo chiuso al pubblico (aperto solo in alcune occasioni), che raccoglie i caduti delle guerre di indipendenza, i caduti della Prima guerra mondiale, i caduti della campagna di Russia e i caduti della Seconda guerra mondiale, fra cui alcuni partigiani.

Monumento ai caduti della Resistenza, cimitero di Sterpeto (Grosseto)

Allo stesso modo, si può fare riferimento alla terminologia impiegata nel monumento ai caduti della Resistenza realizzato nel 1954 nel cimitero di Sterpeto a Grosseto. Nelle lapidi laterali che fanno parte di questo monumento è interessante soffermarsi sul linguaggio, sulla retorica: una delle targhe recita “i partigiani caduti non risposero ad alcun bando, non alzarono bandiera, l’Italia li aveva chiamati per il suo tricolore morirono” (entra qui in gioco il tricolore, come simbolo evocativo del patriottismo), mentre sulla seconda lapide viene richiamato il “sangue versato per la patria”, in uno schema discorsivo chiaramente inserito in questa logica.

Il terzo tema cui si accennava, evidentemente collegato, è quello della memoria pubblica, militare e combattentistica, quasi epica, della Resistenza a cui si lega la figura dell’eroe, commemorato attraverso un vero e proprio “culto del martire”. Questa interpretazione martirologica della Resistenza è evocata nelle poche rappresentazioni figurative di quegli anni in Maremma, di cui un esempio fra tutti è il cippo di Potassa (la cui rappresentazione scultorea è in questo senso autoevidente). Fu dedicato al partigiano Flavio Agresti, Medaglia d’Argento al valor militare con la seguente motivazione: “In un tragico periodo della Patria invasa dal nemico, si faceva organizzatore ed animatore del Fronte Clandestino di Liberazione nel paese di Scarlino. Offertosi spontaneamente per una difficile e rischiosa missione di collegamento, tra un gruppo e l’altro di patrioti, veniva catturato dai reparti tedeschi. Sottoposto a stringente interrogatorio e ad ogni specie di sevizia e di tortura, onde rivelare l’entità dei patrioti e la missione a lui affidata, si rifiutava decisamente.

Monumento in memoria del partigiano Flavio Agresti

Legato, poi, dietro a un barroccino con le braccia incatenate dietro la schiena e trascinato per diversi chilometri, non avendo voluto tradire i compagni, veniva barbaramente finito da una raffica di fucile mitragliatore, chiudendo, così gloriosamente, una vita interamente dedicata alla Patria”.

Il rapporto fra i concetti di “eroe” e “martire”, ma anche lo slittamento semantico da “vittima” a “caduto per la lotta di Liberazione”, del resto, variano anch’essi al variare dell’evoluzione del discorso pubblico sulla Resistenza, quindi in base al contesto storico di riferimento. Ad esempio, la spinta a una narrazione eroica della Resistenza può essere interpretata come una reazione al clima della fine degli anni Quaranta con il fallimento dell’epurazione e l’avviarsi dei primi processi ai partigiani. Si rifugge in questo momento dal rischio di una “memoria debole”, sia attribuendo anche alle vittime delle stragi nazifasciste la qualifica di caduti per la lotta di Liberazione, sia ricorrendo al lemma del martirio e quindi quasi imponendo al lutto un senso a posteriori, determinato dalla scelta di donare la vita per la causa della lotta partigiana. Ci troviamo di fronte a una forma di narrazione estremamente ricorrente, che permane significativamente anche in monumenti di molto successivi.

Monumento ai Martiri dell’antifascismo e della Resistenza (Monumento ai deportati), Cittadella dello Studente (Grosseto)

Ad esempio, nel monumento ai Martiri dell’antifascismo e della Resistenza (Monumento ai deportati), che pure è del 1985: una composizione architettonica in cemento e metallo, “tempietto moderno”, costituito da linee strutturali orizzontali e verticali, alternate a linee curve, immerso nel verde. Fu progettato da Maria Paola Mugnaini, allora studentessa del Liceo Artistico di Grosseto, in preparazione dell’esame di maturità, con la guida e la collaborazione dell’architetto Pietro Pettini, già docente del Liceo. La Provincia di Grosseto lo realizzò in occasione del quarantesimo Anniversario della Liberazione e fu collocato nella sede attuale, all’interno della Cittadella degli Studi. Si tratta di un monumento completamente astratto, ma al cui interno una targa recita “La mia giovinezza è spezzata ma sono sicuro che servirà da esempio  – Uno studente fucilato dai nazifascisti il 4 maggio 1944”.

Una riflessione che può essere ampliata grazie agli spunti offerti dallo storico inglese Keith Lowe che, nel 2021, facendo riferimento alle molteplici categorie memoriali di “eroi, martiri, mostri, apocalisse, rinascita”, ha evidenziato che “queste cinque declinazioni della memoria non solo si fanno forza ma si amplificano a vicenda. L’idea dell’Armageddon fornisce il contesto perfetto per l’immaginario condiviso della guerra come scontro titanico intorno all’anima dell’umanità. Gli eroi sono più eroici di fronte al male assoluto contro il quale lottavano; e i mostri sono più mostruosi se ci soffermiamo sull’innocenza dei martiri che hanno torturato. Il fine ultimo è collegare tutte queste immagini, per ottenere la fede in un mondo nuovo, che rinasce dalle ceneri di quello vecchio” (Prigionieri della storia. Che cosa ci insegnano i monumenti della Seconda guerra mondiale sulla memoria di noi stessi, 2021).

Monumento ai martiri d’Istia realizzato dal Comune di Magliano in Toscana a Maiano Lavacchio nel 1964

Un ragionamento estremamente interessante da applicare, in particolare, ai monumenti dedicati ai martiri d’Istia e alle vittime della strage di Niccioleta, su cui ci si soffermerà quindi in conclusione. Nel primo caso, si fa riferimento alla strage fascista avvenuta a Maiano Lavacchio, nel Comune di Magliano in Toscana, il 22 marzo 1944: furono fucilati dai fascisti 11 giovani che avevano rifiutato di arruolarsi nel costituendo esercito della Repubblica sociale italiana, 11 inermi nel sentire popolare, “11 agnelli” nei primissimi canti in ottava rima che diedero forma alla precoce narrazione (strutturata in forme capaci di “passare di bocca in bocca”) di una vicenda che lasciò una cicatrice profondissima nella memoria collettiva grossetana, per la giovane età delle vittime, l’immagine della loro innocenza, per la crudeltà e la barbarie dei carnefici, per il gesto coraggioso del parroco d’Istia d’Ombrone, don Omero Mugnaini, che sfidò le autorità fasciste opponendosi al divieto di dare sepoltura alle vittime.

Successivamente il discorso pubblico che si stava strutturando intorno alla Resistenza trasformerà gli 11 ragazzi giocoforza in partigiani combattenti, partecipi anche da morti dello sforzo corale del popolo maremmano per la Liberazione della provincia. La ricostruzione storica, avviatasi con la raccolta di materiali e fonti documentarie che l’Isgrec ha portato avanti nel corso di ricerche pluriennali (confluite nel volume di Marco Grilli Per noi il tempo s’è fermato all’alba. Storia dei Martiri d’Istia del 2014), ha dimostrato però che sulla possibile scelta partigiana sono possibili solo congetture, mentre di fatto da testimonianze di familiari e amici emerge con forza la scelta di Resistenza civile e non in armi dei ragazzi. Bisogna quindi contestualizzare quella memoria, ricordando che nel dopoguerra la possibilità di una scelta di forte e netta opposizione non in armi al nazifascismo, come quella forse degli 11 “martiri d’Istia”, è preclusa dall’orizzonte del riconoscimento morale: siamo ancora ben lontani da quell’accettazione di una complessità di esperienze e percorsi impostasi poi anche nel senso comune grazie alla feconda categoria interpretativa di Resistenza civile.

La “chiesina” di Maiano Lavacchio

La memoria degli 11 ragazzi di Maiano Lavacchio è impressa in molti luoghi; a Maiano Lavacchio, è presente un tempietto votivo, conosciuto da tutti come “la chiesina”, fatto costruire dalla famiglia Matteini proprio nel punto in cui i ragazzi furono uccisi. Poco distante, il monumento fatto installare dal Comune di Magliano nel 1964, semplice obelisco sormontato da una lanterna funebre. Al suo fianco è presente anche la Casa della memoria al futuro dell’Isgrec, un “progetto partecipato” da cittadini e Istituzioni che ha trasformato un edificio presente sul luogo della strage in uno spazio culturale per la comunità, un laboratorio dove promuovere e produrre arte, cultura e formazione, attraverso l’aggregazione, la coesione e l’inclusione sociale. Un luogo di memoria dove ospitare studenti e stagisti, pensato per custodire una biblioteca ed essere sede di incontri, che è stato inaugurato il 22 marzo 2023 in occasione della 79° commemorazione ufficiale dei Martiri d’Istia.

La Casa della memoria al futuro a Maiano Lavacchio

Altri monumenti e segni di memoria sono dislocati nei paesi di origine delle vittime, a Grosseto, a Cinigiano, a Istia d’Ombrone, ma anche a Ispica in Sicilia e a Serre in provincia di Salerno, da cui provenivano due dei “martiri”, e sono stati mappati e presentati dalla mostra online realizzata dall’Isgrec nel 2021 (https://martiridistia.weebly.com/). Monumento, nel senso più elevato del termine, è anche la lavagna su cui uno dei due giovanissimi fratelli Matteini, nei momenti precedenti la fucilazione, scrisse un messaggio per la mamma, quello straziante “Mamma, Lele e Corrado un bacio” che è diventato uno dei simboli identitari dell’antifascismo grossetano. Oggi la lavagna è conservata nel Municipio di Grosseto, nell’ufficio del primo cittadino, a ricordo indelebile del valore fondante su cui si basa la Costituzione e la convivenza nella civitas.

La lavagna con l’ultimo saluto alla madre dei fratelli Matteini

Come dimostra il caso di Maiano Lavacchio, quella delle stragi è del resto memoria specifica all’interno della più ampia memoria resistenziale dell’intero territorio provinciale. Una memoria che genera un processo di monumentalizzazione estremamente ampio e diffuso a livello territoriale, già evidente nel caso della strage di Maiano Lavacchio e che si riconferma anche nel caso della strage con il più ampio numero di vittime della provincia di Grosseto, quella del villaggio minerario di Niccioleta del 13-14 giugno 1944:[5] in questo episodio le vittime furono 83 minatori, che provenivano dalla provincia intera ed erano arrivati nel piccolo villaggio minerario, soprattutto dal monte Amiata, in cerca di un lavoro, faticoso e pericoloso, ma che potesse garantire vita e sostentamento per sé e per i propri familiari. L’istituzionalizzazione del ricordo si legò di conseguenza ai diversi momenti di traslazione delle salme nei cimiteri di origine[6], in occasione dei quali furono collocati la maggior parte dei monumenti e delle lapidi più antichi.

Tabernacolo dedicato alle vittime di Niccioleta

 

Lastra in memoria di Aurelio Cappelletti, morto a Niccioleta, collocata a Tatti in occasione della traslazione della salma nel 1945

 

Monumento ai caduti di Niccioleta nel Cimitero di Castellazzara, collocato nel dopoguerra in occasione della traslazione delle salme, s.d. (la stele ai caduti di Niccioleta e di tutte le guerre è invece stata collocata nel 1990)

 

Monumento di Giulio Porcinai in memoria dei martiri dell’eccidio di Niccioleta nel Cimitero comunale di Santa Fiora (1951)

 

Lapide a Massa Marittima

 

Lapide a Massa Marittima

La memoria dell’eccidio vide così declinarsi numerose narrazioni su pietra non soltanto a Niccioleta e Castelnuovo Val di Cecina, luoghi delle uccisioni degli 83 minatori, ma in tutta la provincia, sia in monumenti dedicati sia con l’inserimento delle vittime nelle targhe dedicate ai caduti dai differenti Comuni maremmani di origine.

Si tratta inoltre di una monumentalizzazione che si colloca in varie fasi storiche, modificando le sue caratteristiche nel corso del tempo, e che quindi risulta estremamente utile da considerare in relazione al tipo di analisi che si è tentato qui. Un aspetto che si può mettere in evidenza, ad esempio, è quello relativo agli anni Sessanta quando i monumenti, salvo rare eccezioni, si spostano dal luogo degli eccidi nelle piazze principali dei centri abitati, venendo a occupare uno spazio centrale nella narrazione pubblica, come ad esempio succede a Castelnuovo, dove nel ventennale del 1964 oltre al monumento presente nel vallino della fucilazione, viene costruito il Monumento ai Caduti della Niccioleta nella centrale piazza Matteotti. Nello stesso anno a Massa Marittima il carrarese ex partigiano Nardo Duchi realizza il monumento di Parco di Poggio a Massa Marittima: la collocazione è in questo caso simbolica quanto il monumento stesso, che vede i martiri alzare le mani per proteggere la città presente nel panorama immediatamente sottostante.

Massa Marittima (Parco di Poggio), Monumento ai caduti di Niccioleta, scolpito dall’artista carrarese e ex partigiano Nardo Durchi nel 1964

 

Monumento ai Caduti della Niccioleta – Castelnuovo Val di Cecina, piazza Matteotti (1964)

Lo stesso fenomeno di occupazione dello spazio urbano è evidente nel piccolo villaggio di Niccioleta dove alla targa sulla parete prospiciente il cortile dove avvenne la prima fucilazione di sei minatori si sono aggiunti nel corso degli anni a qualche metro di distanza, ma in posizione chiaramente centrata rispetto allo spazio urbano, il cippo commemorativo del 2004 e la targa con i nomi dei minatori uccisi nel 2005, in un processo che satura il luogo simbolico di memorie sovrapposte collocate durante i diversi anniversari.

Lapide a Niccioleta

 

Cippo a Niccioleta

 

Lapide a Niccioleta

Evidente da quest’ultimo esempio è anche come la monumentalizzazione della strage di Niccioleta, dopo una fase di oblio abbastanza prolungato (scrive Paolo Pezzino che nel dopoguerra «la memoria è stata coltivata nelle zone di origine delle famiglie dei minatori, ma il fatto che questi fossero dispersi nell’Amiata, che poi l’eccidio sia avvenuto in un’altra terra ancora, Castelnuovo Val di Cecina, fa sì che la strage di Niccioleta, come altre in Italia, sia stata ben presto dimenticata») abbia ripreso vigore dalla fine degli anni Novanta, con l’avviarsi delle ricerche storiche che portarono a contestualizzare la vicenda nel fenomeno della ritirata aggressiva dell’esercito tedesco (Paolo Pezzino, Storie di guerra civile. L’eccidio di Niccioleta, 2001).

Lapide posta sul teatro-prigione di Castelnuovo Val di Cecina 2016

Segni di memoria sono comparsi quindi anche recentemente, ad esempio nel 2016 è stata apposta una lapide sul teatro-prigione di Castelnuovo Val di Cecina dove i prigionieri trasferiti da Niccioleta furono imprigionati, mentre dal 2022 Niccioleta è stata accolta nella rete dei Paesaggi della memoria.

Il luogo di memoria specifico relativo alla strage è comunque da sempre rappresentato dal Vallino dei Martiri a Castelnuovo Val di Cecina: qui, in mezzo al rumore assordante dei soffioni boraciferi, avvenne il 14 giugno la fucilazione di 77 minatori e qui inizialmente le salme furono seppellite in fosse senza nome. Sul luogo una semplice croce e un cartello individuarono fin da subito lo spazio simbolico della commemorazione; oggi nel Vallino esiste un museo diffuso, realizzato da Isgrec negli anni Duemila con l’apposizione di pannelli esplicativi.

Il vallino subito dopo la strage

 

Il vallino di Castelnuovo Val di Cecina

 

In seguito, in data imprecisata, ma probabilmente già nel 1945, venne costruito subito a monte un monumento che negli anni ha subito una piccola ma significativa trasformazione (emersa grazie al raffronto con le foto storiche, ma non ancora indagata attraverso le fonti d’archivio): sulla facciata del monumento, alla targa originaria, che era molto evocativa ma non faceva riferimento ai fatti, pare sia stata aggiunta in un secondo momento – imprecisato – una parte iniziale descrittiva dell’episodio (mentre sul retro una seconda lapide ricorda i nomi dei 77 minatori uccisi); quasi che il passare del tempo avesse reso necessario un chiarimento rispetto alla vicenda, non più ritenuta autoevidente per chi incappava nel monumento.

Se per luoghi di memoria intendiamo quei luoghi che «sono percepiti dalle popolazioni che li abitano o li conoscono come espressivi di identità legate al loro vissuto, ai racconti dei loro genitori e nonni» è evidente che la capacità di questi luoghi di dialogare con le comunità di riferimento cambia nel tempo, si perde o semplicemente si trasforma con il passare delle generazioni. I segni di pietra della Seconda guerra mondiale e della Resistenza, a ottant’anni dai fatti, paiono sempre più necessitare quindi dell’attenzione degli storici e dell’esercizio attivo di memoria da uomini e donne, singolarmente o in gruppo. Solo così pare possibile preservare ciò che questi monumenti e segni di memoria hanno tutti, quell’aspirazione a raccontare «qualcosa di universale per eccellenza: sia l’opposizione alla tirannia, all’ingiustizia o sia la lotta per i diritti e la libertà, per la liberazione della patria» (Massimo Dadà, Paesaggi della memoria. Dai luoghi alla rete, e viceversa, 2018).

Note
[1] Si veda l’esistenza datata ormai al 2017 dei Paesaggi della memoria, rete di musei e luoghi di memoria dell’Antifascismo, della Deportazione, della Seconda Guerra Mondiale, della Resistenza e della Liberazione in Italia che fa da contraltare all’assenza, fino ad oggi, di un museo a livello nazionale (www.paesaggidellamemoria.it).
[2] Per capire come alla Resistenza del territorio maremmano si è guardato nei diversi momenti storici si possono considerare le diverse opere che al tema si sono approcciate nel contesto locale: ad esempio, I minatori della Maremma di Luciano Bianciardi e Carlo Cassola del 1956; Visi sporchi coscienze pulite. Storia di un piccolo paese minerario della Toscana di Mauro Tognoni, che è del 1975; il racconto autobiografico di Aristeo Banchi, Si va pel mondo. Il partito comunista dalle origini al 1944 che è del 1993. Si tratta di scritti sulla Resistenza o memorialistici che, se comparati, possono ben darci il senso di come è cambiata questa narrazione.
[3] Sui limiti della memoria e della ricostruzione storica dello squadrismo maremmano si veda Ilaria Cansella, L’avvio dello squadrismo in provincia di Grosseto: il 1921 e i fatti di Roccastrada, in Roberto Bianchi (a cura di), 1921. Squadrismo e violenza politica in Toscana, Olschki, 2022.
[4] Cfr. Adolfo Turbanti, Stefano Campagna, Antifascismo, guerra e Resistenze in Maremma, Effigi, Quaderno Isgrec n. 8, 2021.
[5] Cfr. Katia Taddei, Il massacro dei minatori di Niccioleta. 13-14 giugno 1944, su https://www.toscananovecento.it/custom_type/il-massacro-dei-minatori-di-niccioleta-13-14-giugno-1944/.
[6] La prima cerimonia avvenne a Massa Marittima alla fine del settembre 1944. Una grande folla seguì gli autocarri che trasportavano i feretri. In quell’occasione, al parco  della Rimembranza parlò a nome dell’intera cittadinanza il socialista Emilio Zannerini.

Articolo pubblicato nel marzo 2024.




La Repubblica sociale italiana e il primo neofascismo toscano

Il recente convegno «Le fiamme dal basso». Neofascismo e destre estreme in provincia: protagonisti, strutture, prospettive di ricerca, organizzato il 19-20 ottobre 2023 dall’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea “Vittorio Meoni” di Siena, ha riportato al centro del dibattito storiografico l’importanza della dimensione locale nello studio dei neofascismi, evidenziando le potenzialità di questo approccio per meglio indagare, nella loro concretezza, culture, prassi politiche e classi dirigenti dell’estrema destra italiana[1]. Il presente contributo, sintetizzando la relazione discussa in quella sede, cerca quindi di riflettere su come l’esperienza combattentistica ed esistenziale di Salò abbia contribuito a definire, nei primi anni del dopoguerra, i tratti identitari e la cultura politica del neofascismo toscano e, in special modo, del neonato Movimento sociale italiano (MSI), che dell’ultimo fascismo avrebbe raccolto l’eredità materiale oltre che ideale.

Il caso toscano appare in tal senso un terreno d’indagine particolarmente fecondo, tanto per il peso storico assunto dal fascismo nella regione quanto poi per le oggettive difficoltà ambientali che avrebbero caratterizzato la ripresa neofascista in un contesto sociale e politico ben diverso da quello del Centro-Sud Italia, principale bacino di voti e di affermazione del MSI. Un aspetto, quest’ultimo, che ha fortemente condizionato la disponibilità odierna di fonti interne al partito, pressoché assenti per le province toscane, e che ha costretto a rivolgersi primariamente verso fonti di polizia, non prive di limiti e criticità ma rivelatesi, specie in taluni contesti, estremamente preziose e in parte ancora inesplorate (Parlato 2020, pp. 15-21).

Ciò detto, va altresì notato come l’esperienza del fascismo repubblicano abbia assunto nella regione tratti per molti versi peculiari: dettati non solo e non tanto dalla folta presenza di gerarchi toscani nella compagine di governo saloina, capaci a loro volta di mobilitare una fitta rete clientelare locale, quanto piuttosto perché in questo spazio si impongono e sovrappongono, tra il 1943 e il 1944, contesti di occupazione, guerra civile e scontro aperto tra eserciti in lotta, che dilaniarono un tessuto sociale già duramente colpito dallo stragismo fascista e nazista. Lo sfollamento di migliaia di fascisti toscani al di là della linea Gotica, fuggiti nell’estate del 1944 dinanzi all’avanzata alleata, avrebbe infine reso ancor più dolorosa e traumatica la prospettiva di una sconfitta ormai imminente (Mazzoni 2006; Rossi 2000).

All’indomani della Liberazione, lo straniamento per la perdita di ogni riferimento politico e ideale si associava quindi, per molti fascisti di Salò, alla difficile prova del carcere e dell’internamento così come all’apertura di procedimenti giudiziari ed epurativi che avrebbero indelebilmente segnato – al di là degli esiti contradditori di tale processo – il vissuto e la memoria dei vinti. Parallelamente, il brusco rientro alla vita civile verrà poi a caratterizzarsi per l’ostracizzazione delle proprie comunità, talvolta sfociata in forme di giustizia sommaria volte a sfogare la rabbia della popolazione per le privazioni e i lutti subiti durante il conflitto (Dondi 1999, pp. 91 sgg.; Martini 2019, pp. 77-95).

È in questo contesto che maturava quindi l’esigenza quasi istintiva di «ritrovarsi», di «riconoscersi» tra ex-commilitoni, tentando di reagire di fronte a un paese ormai percepito come estraneo. Già nei mesi a cavallo tra il 1945 e il 1946, le carte di polizia testimoniano anche in Toscana l’attivarsi di alcune prime cellule neofasciste, spesso animate da giovani e giovanissimi legati all’esperienza della RSI e impegnate, solitamente, in azioni poco più che dimostrative quali imbrattamenti con scritte murarie, apposizione di emblemi fascisti e diffusione di manifestini esaltanti il fascismo repubblicano – il “vero fascismo” non inquinato dai compromessi imposti dal regime – e prospettanti la punizione verso i “traditori”, padroni ora del campo. Iniziative incapaci di superare la «soglia della testimonianza» ma non per questo prive di significato per la più amplia platea di nostalgici e reduci (Mammone 2005, pp. 263-269, Tonietto 2019, pp. 95 sgg.).

Particolarmente interessante è il ricercato simbolismo che in diversi casi assumono queste prime manifestazioni: colpisce, per fare un esempio, l’operato di una presunta cellula delle Squadra d’Azione Mussolini (SAM) attiva a Firenze, che nella notte tra il 27 e il 28 aprile 1946, primo anniversario della morte del duce, riusciva ad apporre una bandiera tricolore recante il fascio repubblicano sulla torre di Maratona dell’odierno stadio Artemio Franchi – già intitolato al martire fascista Giovanni Berta – laddove nel marzo 1944 erano stati fucilati cinque renitenti alla leva condannati dal tribunale militare di Firenze. Altrettanto esplicite erano le scritte rinvenute nel luogo dell’eccidio, che si richiamavano alla dimensione mitopoietica del martirologio fascista quale esempio per i superstiti e le future generazioni[2].

 

 

Ci muoviamo, com’è evidente, entro un immaginario nel quale la memoria bruciante della guerra civile e della disfatta avrebbe alimentato un pervasivo «culto della vendetta», rappresentando al contempo un tenace strumento identitario per lo sparso universo neofascista, incapace di rassegnarsi alla sconfitta politica e morale patita dal fascismo (Panvini 2017, pp. 156-158). Solo in taluni casi tuttavia, l’attività di questi primi gruppi clandestini avrebbe assunto una qualche consistenza numerica: è il caso di Pisa, dove un gruppo di studenti universitari, diversi dei quali reduci dal campo di prigionia di Coltano, veniva a riunirsi agli inizi del 1946 attorno alla carismatica figura di Rutilio Sermonti, già ufficiale della divisione SS italiana e destinato a una lunga militanza tra le fila del MSI e quindi nelle formazioni dell’estrema destra extra-parlamentare. Interessante soffermarsi sulle dinamiche aggregative del gruppo e sull’autorappresentazione fornita da questi giovani reduci, particolarmente importante per i futuri sviluppi politici dell’organizzazione neofascista.

 

Tutti furono concordi nell’affermare – riferiva il prefetto di Pisa – che, ritornati dopo la liberazione del Nord […], si erano sentiti accumunati nello stesso sentimento di unirsi, considerandosi ormai dei relitti di una società travolta dalla disfatta e che lo scopo delle loro riunioni si concretava nella necessità di sorreggersi scambievolmente, di trovare un partito che […] potesse […] permetter loro di concorrere alla resurrezione del Paese.

 

Posizione ribadita dallo stesso Sermonti, che in sede di interrogatorio chiariva come

 

a Pisa continuai a coltivare le amicizie con i miei compagni d’arme e di fede politica. La nuova politica fatta dai partiti di sinistra contro i fascisti aveva accumunati noialtri che […] ci sentivamo estraniati completamente dalla vita politica italiana. Fu così che sorse in me il proposito di riunire, in qualche […] movimento la maggior parte dei fascisti da me conosciuti[3].

 

Non a caso, i primi tra cui si cerchi di fare proselitismo erano proprio ex-commilitoni già internati a Coltano, sfruttandone poi la rete di conoscenze per tentare di ampliare il raggio d’azione del gruppo nelle province limitrofe. Indizi questi che confermano l’importanza che tanto la traumatica prova della guerra civile quanto quella, altrettanto sofferta, della prigionia o dell’internamento avrebbero rappresentato per i reduci di Salò e, più in generale, per l’immaginario neofascista, rinsaldando il senso di «continuità» con il recente passato e cementando, al contempo, forti sentimenti anticomunisti e antidemocratici (Parlato 2006, pp. 117 sgg.)

In questo scenario, la nascita del MSI verrà quindi a svolgere un importante ruolo di catalizzatore e di aggregazione per gli ex-fascisti, rappresentando in un contesto ambientale particolarmente ostile una nuova prospettiva politica entro cui far coesistere, pur non senza attriti, i diversi volti del neofascismo. Siamo di fronte, anche nel caso toscano, a una comunità inizialmente formata per la gran parte da reduci del conflitto mondiale e dell’esperienza di Salò; un vissuto che avrebbe rappresentato una tappa qualificante nella socializzazione politica dei quadri intermedi e inferiori del MSI, spesso costituiti da uomini relativamente giovani – nuovi quindi a qualche un impegno politico – o, laddove già attivi nelle organizzazioni del fascismo, confinati in posizioni defilate e in tal senso più facilmente spendibili nello scenario politico postbellico (Borri 2013, pp. 83-84).

Si pensi al caso senese, dove il movimento missino si strutturava attorno a Giovanni Viti, già fascista repubblicano fuggito nel Nord Italia e circondatosi da numerosi ex-commilitoni a loro volta attivi tra le schiere del PFR. Ma anche a Livorno i primi «organizzatori» e «aderenti» al MSI erano «tutti ex fascisti ed ex appartenenti alla Repubblica di Salò», nella cui sede, perquisita dagli agenti della Questura, campeggiava accanto all’effige del duce un ritratto del maresciallo Graziani, già ministro delle Forze armate della RSI e tra i “padri nobili” del partito della fiamma. Parallelamente, la sezione pistoiese vedeva tra i suoi primi animatori diversi ex-prigionieri di guerra, tra cui lo stesso segretario Alix Fiaschi, rimpatriato agli inizi del 1947 e spesosi immediatamente per l’organizzazione del nuovo partito. Un’esperienza, quella della prigionia e della “non collaborazione” con gli Alleati che avrebbe segnato – non a caso – il destino politico di altre figure di spicco del MSI toscano, quali Danilo Ravenni, per molti anni ispettore regionale e tra i fondatori del partito in Lucchesia, e Giuseppe Niccolai, dirigente di punta del MSI a Pisa e quindi deputato dal 1968[4].

Nei primi mesi del 1947 muoveva i primi passi anche la federazione fiorentina, inizialmente guidata dal colonnello in congedo Mario Fani. In questo caso, il tentativo di uscire dall’anonimato si concretizzata con l’organizzazione del cosiddetto “giornale parlato”, trasmesso ogni domenica mattina a partire dal 4 maggio 1947 dagli altoparlanti posti presso la sede del MSI, nel centro storico cittadino. Un appuntamento presto trasformatosi in occasione di scontri, anche piuttosto violenti, con gli oppositori e il cui risalto mediatico era abilmente sfruttato dagli organizzatori missini per “rioccupare” un pur marginale spazio politico e testimoniare a un più ampio pubblico i propri sforzi, denunciando al contempo le spinte antidemocratiche e antinazionali del partito comunista. Le trascrizioni degli interventi letti in queste occasioni, conservate nei fascicoli della Questura fiorentina, offrono importanti elementi per indagare l’orizzonte politico-culturale del primo neofascismo toscano. In particolare, nel testo letto in apertura del primo “giornale parlato”, l’oratore esordiva ricordando come «il MSI è nato dopo l’aspra prova della guerra e della disfatta», resa possibile da coloro che «ponendosi contro il proprio Paese in guerra, ne ha sabotato lo sforzo e […] ha voluto assassinare la propria Nazione». All’opposto, i militanti neofascisti si presentavano ribadendo come «noi siamo dei soldati, reduci, ex combattenti dei vari fronti [di guerra]», e dunque «uomini d’onore» che con la propria coerenza ideale avrebbero posto «sopra ogni altra Idea, […] il culto e l’idea di Patria» [5].

Quello che si presenta ai fiorentini ad appena due anni dalla fine del conflitto è dunque un partito dichiaratamente ancorato all’esperienza della guerra e della guerra civile, mosso da un immaginario venuto a radicalizzarsi di fronte al fallimento militare del fascismo, al cedimento del fronte interno e quindi nelle cupe atmosfere della RSI. Una retorica attraverso la quale i confini tra guerra e dopoguerra finivano per annullarsi e che pur rivolgendosi, in prima battuta, a coloro che quella guerra avevano combattuto e perso, tentava al contempo di gettare un ponte tra le diverse anime del neofascismo, difendendo le ragioni della guerra, agitando lo spettro anticomunista e richiamandosi alla «rivoluzione» in campo sociale tentata dal fascismo repubblicano.

Sintomatico inoltre il fatto che di fronte all’offensiva governativa imbastita a partire dal 1950 contro il partito della fiamma, le federazioni toscane tornassero a fare appello a questo patrimonio simbolico e identitario, anche nel tentativo di rinsaldare un’organizzazione partitica segnata da crescenti contrasti interni che – semplificando – vedevano contrapporsi la compagine più “istituzionale” legata alla segreteria di De Marsanich a quella “intransigente”, solitamente rappresentata dalle componenti giovanili e reducistiche (Tonietto 2019, pp. 203-259). In una serie di manifesti affissi in diverse città toscane, i dirigenti missini locali difendevano quindi la legittimità politica del proprio partito, richiamandosi all’eredità del «sangue versato» nella «sfortunata guerra perduta»: nel partito della fiamma, ribadiva con orgoglio il segretario della sezione pratese, militavano infatti «tutti i soldati [dell’]onore, i reduci di tutte le guerre, quindi i Combattenti di Spagna e di Russia» che avevano combattuto per «difende[re] la civiltà occidentale», al contrario di coloro – primi fra tutti gli esponenti della Democrazia Cristiana – che avrebbero «diserta[to] il campo» tradendo così la causa italiana, nel tentativo di «ingraziar[si] le belve scarlatte per avere, in un probabile futuro, […] salva la pellaccia»[6].

La memoria della RSI, della guerra civile e più in generale della sconfitta – di una disfatta militare ma non morale – avrebbe dunque rappresentato nel dopoguerra un collante importantissimo per tenere assieme la comunità politica e umana del MSI, fornendo una risorsa identitaria estremamente tenace e pervasiva cui ancorare la sopravvivenza della comunità dei vinti, specie in quei contesti – quali appunto la Toscana – dove il partito missino avrebbe sperimentato un’esistenza a lungo marginale e certamente precaria. In tal senso, la dimensione locale da modo di scandagliare nuovi percorsi d’indagine capaci di ampliare il nostro sguardo tanto sulle traiettorie di più lungo periodo del neofascismo, durante e dopo la guerra mondiale, ma anche sulla “riproduzione” e gli adattamenti che l’immaginario della RSI avrebbe avuto nella cultura politica dell’estrema destra italiana.

 

Riferimenti bibliografici:

 

– M. Borri, Il movimento sociale italiano in Toscana, dalla nascita al congresso di Viareggio. Appunti per una ricerca, in «Società e storia», (2023), n. 179, pp. 63-89.

 

– M. Dondi, La lunga liberazione. Giustizia e violenza nel dopoguerra italiano, Editori Riuniti, Roma 1999.

 

– A. Mammone, Gli orfani del duce. I fascisti dal 1943 al 1946, in «Italia contemporanea», (2005, b. 239-240, pp. 249-274.

 

– A. Martini, Dopo Mussolini. I processi ai fascisti e ai collaborazionisti (1944-1953), Viella, Roma 2019.

 

– M. Mazzoni, La Repubblica sociale italiana in Toscana, in M. Palla (a cura di), Storia della Resistenza in Toscana, Vol. I, Carocci, Roma 2006, pp. 147-187.

 

– G. Panvini, L’altro dopoguerra: i neofascisti e la legittimazione della violenza politica nell’Italia repubblicana, in E. Acciai, G. Panvini, C. Poesio, T. Rovatti (a cura di), Oltre il 1945. Violenza, conflitto sociale, ordine pubblico nel dopoguerra europeo, Viella, Roma 2017, pp. 153-166.

 

– G. Parlato, Fascisti senza Mussolini. Le origini del neofascismo in Italia, 1943-1948, Il Mulino, Bologna 2006.

 

– G. Parlato, Destra e neofascismo in Italia. Il contributo della storia locale, in L. La Rovere (a cura di), I “neri” in una provincia “rossa”. Destre e neofascismo a Perugia dal dopoguerra agli anni Settanta, Foligno, Editoriale Umbra, 2020, pp. 15-21.

 

– A. Rossi, Fascisti toscani nella Repubblica di Salò 1943-1945, BFS, Pisa 2000.

 

– N. Tonietto, La genesi del neofascismo in Italia. Dal periodo clandestino alle manifestazioni per Trieste italiana. 1943-1953, Le Monnier, Firenze 2019.

 

Note

 

[1] Gli atti del convegno sono in corso di pubblicazione. Per la registrazione dell’evento vedi la sezione “Multimedia” presente in questa pagina.

[2] Sull’episodio vedi la documentazione raccolta in Archivio centrale dello Stato, Ministero dell’Interno (ACS, MI), Gabinetto, 1944-46, b. 188, fasc. 21017.

[3] Ivi, b. 203, fasc. 21856, Relazione del prefetto di Pisa, 10 aprile 1946 e Interrogatorio di Rutilio Sermonti, 14 marzo 1946. Ai primi di marzo 1946, molti dei componenti del gruppo erano individuati e arrestati dalla questura pisana prima di poter intraprendere una qualche concreta attività.

[4] Sulla prima organizzazione del MSI toscano si vedano in particolare i fascicoli raccolti nelle serie annuali del Gabinetto del ministero dell’Interno e della Direzione generale per la Pubblica sicurezza, conservati presso l’Archivio centrale dello Stato.

[5] Archivio di Stato di Firenze, Gabinetto di Questura (vers. 1963), ctg. A4b, b. 54, fasc. Movimento sociale italiano-Manifestazioni varie, Chi siamo e cosa volgiamo, s.d. [ma maggio 1947].

[6] Le citazioni sono tratte da alcuni manifesti affissi nel 1950 a Prato e a Pisa, conservati in ACS, MI, PS 1951, b. 36, fasc. K12-Firenze e Ivi, PS 1953, b. 40, fasc. K12-Pisa.

Articolo pubblicato nel marzo 2024.




Calcio Sovietico in Toscana

Gli studi che dimostrano il valore del calcio nella ricerca storica sono molti. Augé ha evidenziato il valore antropologico del football e come esso permetta un’identificazione o un’opposizione all’altro. In alcune partite svoltesi in Toscana, l’altro è stato l’Unione Sovietica.
Il calcio russo ha avuto una storia complessa; osteggiato in origine, divenne strumento pedagogico, propagandistico e diplomatico. Fu uno dei campi nei quali poteva essere dimostrata la supremazia socialista, secondo la Pravda divenne “un mezzo efficace per spezzare il blocco imposto dai capitalisti” e avrebbe permesso di “issare la bandiera sovietica nelle menti e nei cuori del popolo”.
Dunque, è difficile ignorare il valore storico delle manifestazioni sportive che hanno coinvolto squadre sovietiche in Toscana. I sovietici vennero in Italia più volte per trascorrere il periodo invernale; la Toscana metteva a disposizione il Centro Tecnico Federale di Coverciano, dove era possibile studiare le innovazioni tecnico-tattiche dell’Occidente. Erano pochi i Paesi dell’avanguardia calcistica disposti a ospitarli, mentre l’Italia e la Toscana potevano offrire la propria competenza e la presenza di molte amministrazioni amiche. La comparazione della partecipazione, dell’organizzazione, della rilevanza sociale delle partite nel corso dei decenni, ci dicono molto sulla percezione del valore e della solidità delle radici del simbolo comunista tra la
popolazione locale. Nel settembre 1955 la Dinamo Mosca giocò allo stadio Artemio Franchi di Firenze un’amichevole con la Fiorentina. La Dinamo era la squadra del Ministero dell’Interno, tra i suoi dirigenti vi erano uomini della Čeka, la polizia politica. Alla fine del secondo conflitto mondiale, la Dinamo venne mandata in tournée in Inghilterra e per diversi decenni dominò il calcio sovietico. Inoltre, nella rosa dei moscoviti vi era il leggendario portiere Lev Jašin. La città si mobilitò per accogliere i sovietici in un clima di festa. I giocatori comunisti vennero ricevuti a Santa Maria Novella con mazzi di garofani e fecero un Grand Tour della città, concludendo con una cerimonia in Palazzo Vecchio. L’evento non fu prettamente sportivo ed è chiaro che ebbe una rilevanza il peso politico degli ospiti. La partita si disputò davanti a 60.000 persone circa e vide la mitica Fiorentina del ’56 imporsi per 1 a 0.
Assume connotati diversi la partita che la nazionale sovietica giocò nel febbraio del 1979 a Prato. Secondo quanto riportato da La Nazione, l’amichevole fu voluta dalla dirigenza del Prato per attirare l’attenzione dell’amministrazione cittadina e dei pratesi sul club, in un match che ebbe poco da dire sul piano puramente sportivo. Quindi la presenza dell’11 sovietico funse da cassa di risonanza e venne ritenuto funzionale da parte della dirigenza. In quell’occasione i sovietici fecero un allenamento a Castelnuovo dei Sabbioni (Arezzo), dove nel 1978 era stato inaugurato un parco intitolato al partigiano sovietico Bujanov. Nel 1988 l’URSS era in preparazione per i campionati Europei e divise il suo ritiro tra Coverciano e la Garfagnana. Sotto la guida tecnica di Lobanovskij disputò alcune amichevoli per prepararsi alla competizione che la vedrà cadere soltanto in finale. Le amichevoli furono disputate con squadre dilettantistiche in quanto la FIGC mise il veto sugli incontri con squadre professionistiche prima dell’amichevole clou a Bari con la nazionale italiana. Dunque, la squadra del pallone d’oro Blochin si ritrovò a dover giocare a Pontassieve e fare appello per trovare qualche altro avversario disponibile e dotato di campo. Il Firenze Ovest, squadra della provincia fiorentina, propose il suo campo in terra battuta e con grande sorpresa i sovietici accettarono. Per gli abitanti di Brozzi fu l’occasione incredibile di vedere una nazionale maggiore sotto casa ma «La Nazione» descrisse così: “Clamorosa gaffe della FIGC, l’URSS costretta a giocare a Brozzi”.
Per i sovietici la partecipazione a match internazionali fu una testa di ponte per disgelare e rafforzare alcune relazioni diplomatiche; questo è evidente nei primi due incontri in analisi. La partita con la Dinamo di Mosca è anche una celebrazione della fratellanza che lega Firenze a Mosca, più che un evento calcistico sembra l’inizio di un interscambio che avrà luogo e si affievolirà nei decenni successivi. Lo vediamo già con la partita della nazionale a Prato; l’invito ai sovietici è già ormai mirante ad avere effetti solo sul raggio locale ed il rimando al ruolo di polo di riferimento assunto da Mosca dopo la Seconda guerra mondiale è già molto più tenue. Si celebra il passato, lontani dai centri amministrativi principali e si cerca di ottenere il massimo dalla presenza di quella che rimane una nazionale prestigiosa in grado di smuovere ancora gli entusiasmi. A Brozzi invece il ruolo politico dell’URSS, se percepito, è addirittura d’ostacolo. Una nazionale maggiore osteggiata al punto che parrebbe un’ospite sgradita e lasciata all’attenzione di una piccola polisportiva. Dalla pompa magna del 1955 alla gaffe del 1988 era evidente che l’URSS aveva perso la sua partita più importante col blocco capitalista.

Emanuele Federico Russo è laureato in Scienze Storiche presso l’Università di Firenze, docente di scuola secondaria di secondo grado, consulente storico e ricercatore presso l’Istituto storico della Resistenza di Pistoia. Ha collaborato alla pubblicazione de “Il Mito Sovietico nel PCI in Toscana” curato da Andrea Borelli (Pistoia, 2023) e ha pubblicato “Prima guerra mondiale e videogiochi, il caso di Valiant Hearts” per Farestoria (vol. 1, 2023) a cura di Edoardo Lombardi.

Articolo pubblicato nel marzo 2024.




Passi di storia

«Passi di Storia. Luoghi di memorie del ‘900» è un progetto promosso dall’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea in provincia di Pistoia e finanziato dalla Regione Toscana nell’ambito di un bando finalizzato a promuovere la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico, politico e culturale dell’antifascismo e della Resistenza in occasione dell’ottantesimo anniversario della Liberazione della Toscana.
Il progetto intende fornire una mappa digitale il più possibile precisa di percorsi strutturati attorno mete legate al patrimonio storico e memoriale della Resistenza e della Seconda Guerra Mondiale nella Provincia di Pistoia. Lo scopo ultimo di Passi di Storia è di connettere luoghi e storie al fine di promuovere la diffusione e la divulgazione della Storia contemporanea attraverso un’esplorazione critica del territorio. I primi due itinerari che abbiamo scelto di realizzare riguardano le vicende del partigiano pistoiese Silvano Fedi e dell’eccidio nazifascista del Padule di Fucecchio, che abbiamo ritenuto significati per il peso che hanno nella memoria e nella storia locale.
Nella fase di ricerca è stato raccolto e studiato il materiale bibliografico disponibile; per ogni percorso abbiamo poi individuato alcune tappe caratterizzate dalla presenza di monumenti, cippi, lapidi, ed edifici di interesse storico e memoriale. Per ogni luogo sono state raccolte le coordinate GPS ed è stato realizzato un archivio fotografico; si è quindi proceduto alla compilazione di una scheda descrittiva che riporta geolocalizzazione, il comune di appartenenza, i riferimenti cronologici, una breve descrizione introduttiva e una più approfondita in cui si illustrano le peculiarità del luogo e si contestualizza l’evento specifico all’interno del percorso. Contestualmente è stata realizzata una scheda che fornisce un quadro generale delle caratteristiche dell’itinerario.
In seguito è stato dato incarico ad un professionista la creazione di un portale web dedicato, sul quale sono state caricate le schede. Sono stati poi acquistati e stampati dei pannelli con un QR-code che rimanda alla scheda descrittiva del singolo luogo sul sito www.passidistoria.it. Una volta ottenuti i permessi dalle amministrazioni pubbliche e dai proprietari privati, si è infine provveduto all’installazione in loco dei pannelli. Per quanto riguarda il sito, esso presenta le schede generali dei percorsi tematici (“L’eccidio del Padule di Fucecchio: dalla tragedia al ricordo”, “Silvano Fedi, luoghi e storia di un partigiano”) corredate da una mappa, sulla quale è possibile visualizzare le varie tappe, e da immagini d’epoca e attuali. Dalla scheda generale è possibile accedere alle pagine dedicate alle singole soste del percorso. I due percorsi si configurano come itinerari percorribili interamente in macchina e in alcuni tratti anche a piedi, a seconda della distanza, dell’interesse storico-paesaggistico e della sicurezza per i pedoni.
Il percorso “Silvano Fedi, luoghi e storia di un partigiano” segue i passi dell’omonimo partigiano pistoiese, morto a 24 anni in combattimento contro i tedeschi vicino Vinacciano (Serravalle Pistoiese) il 29 luglio 1944. L’itinerario, che si snoda tra i comuni di Pistoia, Serravalle Pistoiese, Larciano e Lamporecchio, consente di ripercorrere le vicende biografiche del celebre partigiano e di coglierne il lascito nella memoria storica pistoiese. In questo senso il percorso intreccia la storia personale del comandante delle Squadre Franche Libertarie con quella della Resistenza pistoiese nel suo complesso, connettendo luoghi veramente attraversati da Silvano Fedi con altri che simbolicamente ne
condensano il retaggio attraverso monumenti, cippi e targhe.
L’eccidio del Padule di Fucecchio ebbe luogo il 23 agosto del 1944 a opera di elementi della XXVI divisione corazzata della Wermacht, nel contesto della “ritirata aggressiva” e della strategia terroristica adottata dalle forze di occupazione ai danni della popolazione civile nelle aree prossime al fronte durante ultimi mesi del 1944. Restarono uccise 174 persone nei pressi e all’interno della palude: si trattava per lo più di donne, bambini e anziani. Il percorso tocca alcune delle località teatro delle violenze ed altre che, a partire dal secondo dopoguerra, sono state destinate al ricordo e alla commemorazione delle vittime. Sono interessati cinque comuni della Valdinievole fra le province di Pistoia e Firenze. In molte località, come abbiamo cercato di esplicitare nelle schede, l’interesse per la vicenda dell’eccidio si interseca con quello per la storia precedente e successiva di un territorio le cui peculiarità morfologiche, paesaggistiche e naturalistiche ne fanno un unicum nel contesto nazionale ed internazionale.

«Passi di Storia» è quindi uno strumento di educazione alla cittadinanza e al patrimonio, a disposizione delle scuole e delle organizzazioni della società civile, finalizzato a incrementare lo sviluppo di iniziative didattiche e turistiche. Il portale, in continuo aggiornamento, potrà anche essere implementato per ospitare nuovi percorsi.

Emilio Bartolini è dottore in scienze storiche. Collabora con l’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età
Contemporanea in Provincia di Pistoia nella gestione della biblioteca dell’ente e in attività e progetti
inerenti la didattica e la divulgazione storica. Il suo principale interesse di ricerca è la storia ambientale in
età contemporanea.

Luca Cappellini è laureato in Scienze Storiche all’Università di Firenze ed è studioso dell’età contemporanea. È docente presso le scuole superiori Mantellate di Pistoia. Fa parte dell’Istituto Storico della Resistenza di Pistoia, dove è responsabile della biblioteca e con cui collabora come ricercatore e divulgatore. Ha pubblicato “Genova 2001. Una memoria multimediale” in «Farestoria», III, n.1, 2021; ha pubblicato con Stefano Bartolini e Francesco Cutolo Public History: laboratori partecipativi e memoria pubblica”, in «Clionet», Vol. VII, (2023).

Emanuele Vannucci è laureando in Scienze Storiche all’Università degli Studi di Firenze. Collabora con l’Istituto Storico della Resistenza e dell’età Contemporanea in provincia di Pistoia in progetti inerenti la didattica, la ricerca e la divulgazione storica e l’archivio audiovisivo. I suoi interessi di studio sono legati alla Resistenza, l’Antifascismo e la Seconda Guerra Mondiale.

Articolo pubblicato nel febbraio 2024.




La solitaria impresa di Mario Bonacchi

La figura del comandante è spesso decisiva per la vita di una formazione partigiana. Un capo autorevole e carismatico che unisce all’abilità di condurre la guerriglia anche qualità di natura etica come il coraggio e lo spirito di sacrificio può fare la differenza. Un uomo con queste caratteristiche è sicuramente il primo comandante delle squadre armate lucchesi, Roberto Bartolozzi, che però, alla fine di giugno 1944, viene ucciso dai fascisti in un agguato. Proprio la consapevolezza dell’importanza per un capo di dare l’esempio ai suoi uomini, così come per mesi ha fatto Bartolozzi, spingerà il suo successore a essere protagonista di un’iniziativa tra le più audaci nella storia della Resistenza armata a Lucca.

Castelnuovo di Garfagnana, domenica 20 agosto 1944.

Silla Turri, da alcuni giorni a capo del locale distaccamento della XXXVI Brigata nera “B. Mussolini” e commissario prefettizio del Comune, si trova nella sala consiliare della Rocca ariostesca. Non sa che nel corso della notte alcuni partigiani della Brigata garfagnina della Divisione Garibaldi Lunense hanno piazzato una bomba a orologeria sotto la pedana del tavolo riservato al podestà. Tuttavia, Turri non è seduto al suo posto. Così, quando l’ordigno esplode, a rimanere ucciso è il sergente della Brigata nera Giovanni Battaglini. Turri rimane ferito e con lui altre due Camicie nere, Giulio Tamburi e Antonio Broglio detto “Zacchia”, oltre all’impiegato comunale Francesco Simonetti.

Vengono subito arrestate e tradotte al carcere di San Giorgio a Lucca diverse persone, tra cui un manovale quarantunenne appartenente al III Battaglione della Brigata garfagnina della Lunense, Giorgio Giorgi, e un’impiegata del Comune, Luciana Bertolini, accusata di aver dato le chiavi della sala ai partigiani. Il giorno successivo ai due si aggiunge anche Gina Gualtierotti: è fidanzata con Michele Bertagni, fratello di Giovanni Battista comandante proprio del III Battaglione. È in realtà quest’ultimo il vero obiettivo dei fascisti: ventitré anni, di Pieve Fosciana, ha combattuto sul fronte balcanico e dopo l’armistizio è rientrato in Garfagnana. A metà giugno 1944 si aggrega a una neonata formazione armata che si è costituita a Careggine e che sarà l’embrione della futura Garibaldi Lunense. In meno di due mesi, egli trova il modo di portare a termine diverse azioni di sabotaggio e, per la fantasia e il clamore che esse suscitano, il gruppo da lui comandato diventa ben presto noto anche tra la popolazione civile come “Battaglione Casino”. Così, quando c’è da trovare un responsabile dell’attentato a Turri, le indagini puntano subito nella direzione di Giovanni Battista Bertagni.

Lucca, mercoledì 23 agosto 1944

Il CLN di Castelnuovo informa degli arresti Pietro Mori, del Comitato Militare del CLN comunale di Lucca e questi coinvolge il Plotone Questura: già da alcuni mesi si è formato, in seno alla Questura di Lucca, un gruppo di effettivi e ausiliari che partecipa alla lotta partigiana cittadina come una sorta di quinta colonna, soprattutto controllando l’attività delle truppe tedesche e delle autorità repubblicane e informandone il CLN. Ne è a capo il tenente Luigi Giusti che, peraltro, proprio quel giorno sta sostituendo il questore Carlo Alberto Gusmitta: grazie a questa circostanza viene a sapere che Bertolini, Giorgi e Gualtierotti sono in procinto di essere fucilati. Capisce che non c’è tempo da perdere: qualcuno deve agire prima che qualcuno dei tre catturati parli o che la sentenza di morte sia eseguita.

Il Plotone Questura è inquadrato nella formazione partigiana comandata, da un mese e mezzo, da Mario Bonacchi. Ventisette anni, reduce dalla campagna di Russia, dai primi mesi del 1944 guida il gruppo del quartiere di Sant’Anna. Dopo l’uccisione di Roberto Bartolozzi, il CLN lucchese ha affidato a lui la riorganizzazione e il comando dei partigiani lucchesi. Pertanto, Giusti si rivolge a Bonacchi per organizzare in poche ore una spedizione che liberi le persone catturate e a rischio uccisione. Il piano è tanto semplice quanto rischioso e si basa su un finto ordine di scarcerazione a scopo di interrogatorio con tanto di timbro della Brigata nera e firma falsa del tenente Carlo Dinelli. Ci vuole però qualcuno che entri in carcere travestito da milite della Brigata: sarà Bonacchi stesso.

Lucca, giovedì 24 agosto 1944, ore 18

Il capo partigiano, procuratosi una divisa da brigatista, la camuffa sotto una giacca blu, nasconde il mitra e l’elmetto in una borsa di paglia e si avvia in bicicletta verso San Giorgio. Una volta arrivato vicino al carcere, incontra Anna Maria Nardi: le lascia la borsa e la giacca blu e la trasformazione in milite fascista è completata; un’altra partigiana, Wilma Franceschini, è appostata in via San Giorgio, mentre Enzo e Guglielmo Bini (padre e figlio) sono davanti al carcere per segnalare eventuali pericoli.

Bonacchi entra dunque con il suo mitra in carcere e presenta il documento di scarcerazione: il secondino, dopo avergli ordinato di deporre l’arma, lo accompagna nell’ufficio competente. Bonacchi esegue, ma il timore di trovarsi disarmato di fronte a qualche vero milite della Brigata nera è forte. È fortunato: prima che qualcuno si accorga dell’inganno, i tre detenuti vengono portati da lui. Il quartetto si può dirigere ora verso l’esterno, con il capo partigiano che ancora non può svelare la sua vera identtià e sempre con il timore di venire scoperto. Ancora una volta tutto va bene e gli viene restituito il mitra. Una volta fuori dal carcere, Bonacchi svela chi è veramente  raccomandando ai tre liberati di far finta di niente: Bertolini e Gualtierotti vengono affidate a Wilma Franceschini, che le nasconde nel convento di Santa Zita in piazza Sant’Agostino (e lì rimarranno fino all’arrivo degli Alleati), a poche centinaia di metri da San Giorgio, mentre Giorgi fugge con i Bini: il giorno successivo ripartirà per la Garfagnana.

Lucca, venerdì 25 agosto

Dinelli si presenta al carcere e chiede dei prigionieri. Saputo che sono stati liberati dietro presentazione di un documento recante la sua firma, vengono passati in rivista tutti i militi della Brigata nera, quelli veri. Nessuno di loro è quello visto dai secondini del carcere. I sospetti si dirigono su uomini della Questura, perché solo lì possono avere carta intestata e timbri, e tutti sono sottoposti a una prova calligrafica, per capire chi può essere stato a falsificare la firma. Il principale indiziato è Giusti, ma il perito grafologo non avvalora tale ricostruzione.

Lucca, domenica 27 agosto, mattina

Idreno Utimpergher, comandante della XXXVI Brigata nera, è furioso per lo smacco subìto e, nonostante non siano state raccolte prove, ordina l’arresto e la consegna ai tedeschi di Ferdinando Lucchesi, professore di disegno caposquadra del plotone Questura, dello stesso Giusti e di tutti gli ausiliari di polizia. Alcuni di loro verranno deportati in Nord Italia e torneranno a Lucca soltanto a guerra finita, mentre Giusti e altri riescono a sfuggire alla cattura.

 

Il motivo per cui è Bonacchi stesso a eseguire la liberazione in prima persona verrà da lui spiegato in un articolo pubblicato un anno dopo sul quotidiano La Nazione:

Gli Alleati si avvicinavano a Lucca; il giorno dell’insurrezione era prossimo. I componenti le squadre di città dovevano avere la prova definitiva che [il comandante, NdA] non sarebbe rimasto in preda a timori o esitazioni.

Articolo pubblicato nel febbraio 2024.




Una giornata della Tecnica

4 Maggio 1941. É un giorno che cade di domenica, ma le scuole sono aperte, i laboratori funzionanti, i corridoi percorsi da torme di visitatori. Non è una situazione che si verifica dappertutto: chiusi sono i licei, e così le scuole elementari e le nuove scuole medie. Ad aprire le porte sono soltanto istituti tecnici, scuole d’avviamento e scuole tecniche. Così infatti il governo fascista, e soprattutto il Ministro dell’Educazione Nazionale Giuseppe Bottai, avevano programmato di celebrare la ricorrenza della neonata “Giornata della Tecnica”, che varata nel novembre 1939, aveva conosciuto la sua prima celebrazione il 2 Giugno 1940. A sancirne la nascita, un radiodiscorso del Ministro, pronto a evidenziare il ruolo che la manifestazione avrebbe dovuto assumere nel convincere giovani e famiglie a preferire
l’istruzione tecnica e professionale a quella liceale verso cui, asseriva, troppo alto continuava a essere il numero di iscritti.
Se istruzione tecnica e professionale appaiono unite in questa manifestazione, questo non vuol dire che non costituissero, oggi come allora, due percorsi nettamente divisi. Più lunga e consolidata la vicenda temporale dell’Istituto tecnico: sorto con la riforma Casati del 1859, era stato riformato dalla Legge Gentile che aveva previsto, come collegamento tra scuola elementare e Istituto tecnico superiore, un corso intermedio (denominato Istituto tecnico inferiore) di quattro anni dove centrale appare lo studio del latino. Frastagliato appare invece il percorso dell’istruzione professionale, che fino al 1928 fu sempre prerogativa di Ministeri di carattere industriale ed economico: basti qui sapere che le scuole di avviamento propriamente dette sorsero nel 1929 dalla fusione tra il corso post-elementare (sesta, settima, ottava elementare), le scuole complementari e le scuole professionali gestite fino ad allora dal Ministero dell’Economia Nazionale.
Lungi dal rivelarsi come un cruccio di natura esclusivamente fascista, le preoccupazioni ministeriali, così simili a quelle che avevano motivato il varo della riforma Gentile, traevano le proprie radici da un sostrato primo-novecentesco e liberal-conservatore – che, già in età giolittiana, innalzava alti lai contro la pur moderata crescita di iscritti che le scuole post-elementari, allora frequentate da un selezionatissimo numero di studenti (mai più del 7% delle coorti di età corrispondente), registrarono in quegli anni. Erano ansie destinate a saldarsi, e a giustificare, molti punti della “Carta della scuola” che proprio in quei mesi, dopo aver ottenuto l’approvazione del Gran Consiglio, Bottai si stava apprestando a concretizzare – invero con conseguenze assai limitate, se pensiamo che di tutta l’architettura prospettata solo la scuola media vide la luce, con il Regio Decreto 1° luglio 1940. Proprio l’istruzione media, e in particolare quella tecnico-professionale, era il principale oggetto delle attenzioni della “Carta”. Da una parte, infatti, la nuova scuola media avrebbe unificato i primi tre anni del ginnasio, dell’istituto tecnico inferiore e
dell’istituto magistrale; caratterizzata dalla corposa presenza dello studio del latino, si presentava come una scuola destinata alle élite, come dimostrava anche la presenza di un esame di ammissione tutt’altro che formale. Dall’altra, la scuola di avviamento professionale, teoricamente destinata alle fasce socialmente ed economicamente più deboli della società, sarebbe stata “sdoppiata” da due nuove scuole, entrambe di durata triennale: la scuola professionale, da fondarsi nelle città medio-grandi, e la scuola artigiana, che sarebbe stata invece inaugurata in tutti gli altri centri urbani e rurali. Più limitate erano le prospettive che questi due istituti, in confronto alla scuola di avviamento professionale, aprivano: mentre i licenziati dalla scuola professionale potevano proseguire i propri studi soltanto iscrivendosi alla biennale scuola tecnica, gli iscritti alla scuola artigiana non disponevano di ulteriori canali di formazione. Passati, come documentano gli Annuari Statitici Italiani del 1932 e del 1943, da 67224 iscritti nel 1930 (dato comprensivo delle scuole soppresse nel 1929 per dar luogo agli avviamenti) a 288558 iscritti nel 1941, gli avviamenti erano diventati, in quegli anni, l’istituto di istruzione media maggiormente frequentato in terra italica. Proprio per questo motivo, il disegno assumeva una caratura politica e sociale marcatamente conservatrice, che andava a intaccare la (pur ridotte) potenziale mobilità sociale assunta dalla scuola di avviamento professionale, che, attraverso la frequenza di un anno di corso integrativo oppure di un esame, consentiva l’iscrizione all’Istituto tecnico – e, in misura nettamente minoritaria, all’Istituto magistrale e persino al Liceo scientifico.
L’istituzione della “Giornata della Tecnica” coincideva dunque con un periodo delicato per il Ministero, coinvolto, nonostante le contingenze belliche, nell’attuazione di una riforma prima procrastinata, poi accantonata in misura definitiva. È sotto la luce di questa contingenza che possiamo leggere il corposo fondo che, nel 1941, i Provveditorati, dietro impulso governativo, produssero, editando monografie incentrate sullo sviluppo dell’istruzione tecnico-professionale nella propria provincia. Un corpus bibliografico che, nella generale carenza di informazioni disponibili per questo segmento scolastico, si rivela inaspettatamente prezioso: l’intento propagandistico, chiaramente evidente e anzi rimarcato anche dai documenti ufficiali e dalle riviste di Regime, consente infatti di vagliare quali, secondo Provveditori e Presidi, costituivano le caratteristiche più salienti delle scuole professionali da loro dirette, e soprattutto quale ruolo dovevano giocare nell’assetto socio-economico italiano: quello di preservare un ordine sociale da tutelare nella sua fissità? Oppure quello di favorire, nel caso di alunni particolarmente meritevoli, la
prosecuzione degli studi? Non derogano a questa diade le monografie dei Provveditorati toscani. Corsi integrativi di collegamento tra scuole di avviamento e istituti tecnici, innanzitutto, sono segnalati soprattutto negli istituti agrari, spesso privi, a differenza dei loro omologhi, di un corso inferiore: corsi integrativi sono infatti in funzione presso gli Istituti agrari di Pescia e Grosseto. Anche gli episodici accenni al collocamento dei licenziati e alla provenienza sociale degli studenti sembrano tradire un quadro socialmente composito: degli ex- studenti che avevano frequentato negli ultimi dieci anni la scuola di avviamento “Margaritone” di Arezzo, il 20,8% degli studenti continuava gli studi; tra gli iscritti alla scuola di avviamento di Foiano della Chiana, il 20% proviene da famiglie di commercianti e industriali e il 15% da nuclei di impiegati. È un quadro composito che convive con le dissonanti sfaccettature con cui, nel presentare a famiglie e funzionari ministeriali le loro scuole, i Presidi toscani, similmente ai colleghi del resto d’Italia, mostrano di nutrire concezioni differenti, a volte dissonanti, sulle prospettive che le scuole di avviamento avrebbero dovuto aprire ai loro licenziati. Se infatti a Chiusi della Verna il Preside afferma che «Numerosi sono gli alunni usciti da questi tre soli anni di avviamento i quali non interrompono i loro studi, ma li proseguono, frequentando le Scuole Tecniche e gli istituti Tecnici Industriali, animati dal desiderio di perfezionare le loro conoscenze, desiderio sorto in parte accanto alle macchine di questa scuola», per converso, il collega della scuola di avviamento “Giuseppe Giusti” di Pescia rimarca come «tale scuola della durata di tre anni ha carattere eminentemente popolare, ed accoglie, subito dopo la quinta elementare, i figli dei lavoratori e della piccola borghesia per avviarli ad un mestiere o ad un impiego s’intende di natura modesta». Emerge qui, nuovamente, la dimensione di contenimento sociale che l’istruzione professionale, fin dalla metà del XIX secolo, ha assunto negli occhi e nella mente di classi dirigenti per le quali le occasioni di mobilità sociale inducevano a preoccupazione e spavento.

Chiara Martinelli è docente a contratto in Storia dell’educazione presso l’Università degli studi di Firenze, dove collabora con il Laboratorio di Public History of Education. Membro della segreteria editoriale di “Rivista di storia dell’educazione” e della redazione della rivista “Farestoria”, è, dal 2016, parte del direttivo dell’Istituto storico della Resistenza di Pistoia. Ha all’attivo numerose pubblicazioni in storia dell’istruzione professionale, memorie scolastiche e letteratura per l’infanzia. Tra le sue ultime pubblicazioni, segnaliamo “Educare alla Tecnica. Istituti tecnici e professionali alla “Giornata della Tecnica” (McGraw Hill, 2023).

Articolo pubblicato nel febbraio 2024.




Il massacro dei minatori di Niccioleta, 13-14 giugno 1944

Niccioleta è un villaggio minerario nel comune di Massa Marittima, al centro delle Colline Metallifere. La storia di Niccioleta è legata all’attività estrattiva della pirite i cui giacimenti furono acquisiti, agli inizi del secolo scorso, dalla Società Montecatini. Nel 1935 la scoperta di un grosso quantitativo di minerale dette un nuovo impulso alla miniera e la Società iniziò l’edificazione di un villaggio costruito su livelli altimetrici separati per classe sociale: i palazzi occupati dalle famiglie degli operai si trovavano in basso e circondavano la piazza, al livello superiore erano disposte le abitazioni degli impiegati e sulla sommità si ergeva la villa del direttore. I dipendenti provenivano in gran parte dal monte Amiata, dove le miniere di cinabro si erano esaurite, in particolare da Santa Fiora e Castell’Azzara, ma ve ne erano anche provenienti da altre località o regioni come Veneto e Sicilia: forza lavoro specializzata, che si trasferiva da un ambito minerario all’altro, in cerca di occupazione. Al personale impiegato nella miniera non era richiesta l’iscrizione al partito fascista, ma è probabile che i dipendenti vi fossero iscritti d’ufficio al momento dell’assunzione[1]. Le mansioni particolari dei minatori, non così facilmente sostituibili, concedevano loro il vantaggio di conservare le proprie opinioni politiche senza dover necessariamente rischiare la prigione o il confino. Si andava così costituendo sottotraccia, una base di opposizione al fascismo tutt’altro che risibile: «le famiglie contrarie al fascismo erano tante, più del 60% senz’altro, ma gli esponenti diciamo quelli più in vista, saranno stati una dodicina»[2].

La Direzione ne era senz’altro a conoscenza e ad ogni visita da parte delle autorità fasciste, si procedeva all’arresto preventivo dei più facinorosi, rilasciati all’indomani della manifestazione. Dopo l’8 settembre 1943, con la costituzione della Repubblica Sociale, a Niccioleta si contavano circa una quindicina di famiglie di fascisti, su una popolazione di circa ottocento persone. Il direttore Mori Ubaldini che aveva aderito convintamente al PNF, all’affermarsi del secondo fascismo se ne discostò, in particolare quando, dalla primavera del ‘44 nel villaggio si stagliò nettamente una maggioranza antifascista ed i fascisti iniziarono a chiudersi in difesa, nel timore che le forze partigiane potessero prendere il sopravvento e vendicarsi dei loro abusi (alcuni fascisti come Aurelio Nucciotti, segretario politico, avevano partecipato a rastrellamenti di partigiani).

I partigiani dell’area erano in contatto con il villaggio attraverso fiancheggiatori che li rifornivano di dinamite, chiodi a tre punte ed altri manufatti utili al sabotaggio. Alla fine di maggio i fascisti percependo il crescente isolamento, iniziarono ad apostrofare gli antifascisti e le loro famiglie minacciandoli dell’arrivo in loro aiuto di qualcuno che “avrebbe messo a posto la Niccioleta”. Il 5 giugno gli ufficiali tedeschi del presidio di Pian di Mucini in prossimità del villaggio, chiesero al direttore di poter interrogare cinque operai accusati di essere sostenitori dei partigiani. Si presentarono in tre, uno fuggì dalla finestra e gli altri furono redarguiti e rilasciati. Si trattò di una prima avvisaglia che denunciava la presenza di delatori al villaggio. Tre giorni dopo, mentre quegli stessi ufficiali si dirigevano in auto verso Boccheggiano, caddero in un’imboscata tesa dai partigiani e i soldati rimasti al presidio si diedero alla fuga.

Il 9 di giugno del 1944 alcuni antefatti, collegati tra di loro, determineranno le sorti del villaggio e della sua popolazione. Nel pomeriggio una squadra di partigiani della formazione “Camicia Rossa” giunse a Niccioleta; i giovani, accolti dalla popolazione festante, bruciarono qualche camicia nera e dopo aver disarmato i carabinieri e chiesto ai fascisti di restare in casa, se ne tornarono alla loro base, lasciando il paese nelle mani di un comitato pubblico costituito da vecchi antifascisti che organizzarono turni di guardia agli impianti e al paese. All’alba di quello stesso giorno, il III Freiwilligen Batallion Polizei Italien, partiva da San Sepolcro con destinazione Castelnuovo di Val di Cecina, ove giunse all’alba del giorno successivo, seguendo una logica poco comprensibile visto il contingente di reparti tedeschi in ritirata che transitavano in quei giorni sulla via Aurelia, o sulle strade più interne, verso la linea Gotica.

Il battaglione, costituito da truppa italiana e ufficiali tedeschi e italiani, era comandato dal maggiore Kruger che da subito si assentò, lasciando gli uomini sotto la guida tenente Emil Block. La mattina del 10 giugno il battaglione, al suo ingresso in Castelnuovo, catturava tutti gli uomini incontrati per strada e li conduceva presso il municipio in qualità di ostaggi. La popolazione, memore che il 7 giugno una squadra di partigiani della XXIII brigata aveva catturato e passato per le armi Pietro Palmerini, impiegato comunale fascista, al giungere del battaglione pensò ad una rappresaglia legata a quel fatto. In realtà accadde qualcosa di assolutamente indecifrabile. Durante la mattina del 10 giugno una squadra del battaglione in avanscoperta si scontrava presso Monterotondo Marittimo con una squadra di partigiani: cinque di loro persero la vita, ma furono colpiti anche numerosi militi. Il tenente Block, nonostante le perdite, non effettuerà alcuna rappresaglia su Monterotondo e neanche contro gli ostaggi di Castelnuovo che nel pomeriggio furono tutti rilasciati, tranne quattro giovani in età di leva deportati in Germania. Tuttavia, il 12 giugno il comandante chiedeva che fosse approntato un locale in grado di ospitare almeno 150 uomini; la notte stessa un reparto di circa 70 uomini lasciava Castelnuovo per Niccioleta e accerchiava il villaggio, prelevando tutti gli uomini dalle case.

Gli uomini del turno di notte fuggirono nascondendo le note con i turni di guardia nel rifugio antiaereo, gli altri furono trascinati nella piazza con le mitragliatrici puntate contro, sei di loro su indicazione di fascisti locali furono prelevati, percossi a lungo e poi passati per le armi quella stessa mattina: Ettore Sargentoni con i due figli Ado, che era in contatto con i partigiani, e Alizzardo; Bruno Barabissi, a cui fu trovato un fazzoletto rosso; Rinaldo Baffetti, noto antifascista, e Antimo Chigi che aveva un lasciapassare partigiano utilizzato per raggiungere i cantieri della Todt dove lavorava. Una volta trovate le note dei turni di guardia, gli uomini furono rinchiusi nel rifugio antiaereo e alla sera condotti a Castelnuovo Val di Cecina con i fascisti del paese e le loro masserizie.

Partirono con un moderato ottimismo, pensando che la fucilazione dei sei uomini al mattino avesse in qualche modo soddisfatto il desiderio di vendetta dei nazifascisti. Fu loro ordinato di prendere un cambio per tre giorni poiché sarebbero stati condotti a scavare trincee anticarro e a minare la centrale elettrica. Furono condotti a Castelnuovo e rinchiusi nei locali del cinematografo. Il giorno dopo avvenne la selezione: ventuno giovani nati tra il 1914 e il 1927 non presenti nelle note, pur avendo partecipato ai turni, furono condotti a Firenze e da qui in Germania ai lavori forzati; gli uomini di età superiore ai cinquant’anni furono inizialmente trattenuti, poi rilasciati successivamente alla strage dove perirono molti dei loro figli. Durante la selezione il fascista Calabrò ricevette il “privilegio” di salvare sei uomini, ma ne salvò solo due dal gruppo destinato alla fucilazione.

In settantasette furono quindi condotti in prossimità della centrale elettrica e qui uccisi da mitragliatrici occultate.

Il processo che seguì alla strage si concluse con una condanna dopo due gradi di giudizio ed un ricorso in Cassazione a 20 anni per Calabrò e Nucciotti, accusati di aver chiamato il battaglione a Niccioleta, e a 10 anni per Aurelio Picchianti, un milite riconosciuto da un giovane del villaggio. Un indulto nel 1952 liberò definitivamente i condannati. Gli uomini che fecero parte del plotone di esecuzione, denunciati inizialmente da un commilitone, saranno prosciolti in seguito al ritiro della denuncia. Il segretario del direttore, un ex capitano dei servizi segreti militari, tale Nicola Larato, si era allontano da Niccioleta ai primi di giugno e vi ritornò il giorno stesso in cui il battaglione aveva accerchiato il villaggio. Fu riconosciuto da un milite ed era atteso dal comandante; dunque, era precedentemente stato in contatto con il battaglione, forse attraverso il tenente medico Domenico Fracchiolla, pugliese come il Larato. Larato fu catturato dal CLN di Niccioleta nel dopoguerra e consegnato agli Alleati, che lo tratterranno due anni nel campo di concentramento di Padula; tuttavia non fu mai imputato al processo. Il tenente medico, invece, non fu mai ritrovato perché all’epoca si ignorava il suo nome. Molti anni dovettero passare prima che gli storici si interessassero all’eccidio e ritrovassero i documenti utili all’individuazione dei responsabili tedeschi, che tuttavia restarono impuniti.

Note

  1. Presso l’Istituto Storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea a Firenze sono conservati i registri contenenti l’elenco di tutti i dipendenti della Società Montecatini iscritti al PNF, tra questi anche oppositori al fascismo, e da un riscontro presso le famiglie risultava che nessuno ne fosse a conoscenza.
  2. Si veda l’intervista a Mario Fatarella, in Katia Taddei, Coro di voci, Il Ponte Editore, Firenze 2003, p. 310.

Per approfondimenti: https://memoriavittimenazismofascismo.it/ nel quale si possono consultare le interviste a Siliano Sozzi, Mario Fatarella, Bruno Travaglini, accessibili previa registrazione gratuita.

Articolo pubblicato nel febbario 2024.