Firenze tinta di bianco

(…) Con guance rosse, spilli

di freddo nelle mani, la sciarpetta

di lana grezza che incendiava il collo

ci lanciavamo dal centro della nostra Via Lattea

ai confini del cortile, dentro il bianco

inesauribile di quel gennaio, un sibilo,

quattro secondi, un secolo –

fine dell’era glaciale, inizio del fango[1].

 

Al termine del 1984 l’Italia è avvolta da un anomalo tepore: il Natale è ormai vicino ma la neve e il gelo sembrano ancora non volersi impossessare dell’inverno. Benché già in atto il cambiamento climatico, siamo lontani dai vertiginosi numeri degli anni duemila e il tema, ignoto a gran parte dell’opinione pubblica, rimane ancora materia di pertinenza degli studiosi del clima. Non c’è percezione di ciò che accadrà negli anni a venire e ancor meno ve ne sarebbe stata dopo ciò che a breve sarebbe accaduto.

Sul finire dell’anno si registra un sensibile abbassamento delle temperature, niente di anomalo in quanto si tratta di una normale irruzione di aria fredda che interessa soprattutto le regioni centrali: a Firenze il termometro registra – 6°C, a Roma – 2°C.

Ma nonostante l’apparente normalità qualcosa di incredibile sta per accadere: all’estremità settentrionale dell’emisfero boreale un flusso d’aria caldissima fa collassare il vortice polare, innescando un’ondata di aria gelida che investe tutta l’Europa compresa l’Italia; si tratta di un fenomeno inusuale denominato sudden stratospheric warming[2]. Inizia ufficialmente una delle più intense ondate di freddo del ventesimo secolo: venti gelidi investono la penisola provocando un crollo delle temperature e portando, a più riprese, diffuse nevicate anche in zone dove i fiocchi sono un’assoluta rarità. Tra il 4 e il 9 gennaio si osservano nevicate un po’ in tutte le regioni centro-meridionali: Firenze, Bologna, Roma, Cagliari, Napoli, Capri e addirittura parte della costa settentrionale della Sicilia e dell’entroterra sardo si tingono di bianco. Nevicate eccezionali vengono segnalate anche in altre località e paesi mediterranei come Barcellona, Nizza, Marocco e Algeria.

Nel frattempo, complice la copertura nevosa e le prime schiarite, il gelo prende il sopravvento e in molte località il termometro fatica a superare lo zero. A causa dei terreni innevati la maggior parte delle radiazioni solari non vengono assorbite dalla superficie, ma vengono rispedite verso l’atmosfera, incrementando esponenzialmente il raffreddamento notturno[3]. Il Paese del sole si trasforma così nel paese del ghiaccio: nelle regioni centrosettentrionali si registrano minime sorprendentemente sotto la media stagionale: -15 °C a Bolzano, -23 °C a Cortina, -14 °C a Udine, -13 °C a Bologna, -11 °C a Verona; mentre molti fiumi come il Po e l’Adige congelano.

Nelle regioni meridionali dal 12 e 13 gennaio la situazione inizia invece a ristabilirsi. La comparsa di temperature più miti nel sud del paese comporta l’innalzamento della colonnina di mercurio nelle zone settentrionali dello stivale, creando le premesse per la più duratura e copiosa nevicata del ventesimo secolo. Dal pomeriggio del 13 gennaio in Val Padana cominciano a cadere i primi fiocchi di neve. Il giorno successivo la coltre nevosa raggiunge i 20-25 centimetri a Milano, spessori simili si osservano anche in altre città della pianura. La nevicata si protrae nei giorni successivi su quasi tutto il Nord, diventando da gioiosa ad opprimente, a tratti quasi brutale. La precipitazione insiste per altre 60 ore circa, sebbene con notevoli differenze territoriali dovute ai numerosi microclimi che caratterizzano la Val Padana. Una bufera che si accanisce con particolare veemenza su Emilia, Lombardia, Veneto e Trentino. Mai a memoria d’uomo si era vista una nevicata così estesa e abbondante: 50-60 cm a Vicenza, 70-80 cm a Bologna, 80-90 cm a Milano, 110 cm a Como, 120 cm a Varese, 140 cm a Trento, per citarne alcuni[4].

 

Un insolito sciatore in piazza San Pietro

 

La Toscana fu una delle prime regioni ad essere attraversata dalla perturbazione: nella giornata del 4 gennaio l’intero territorio venne interessato dal crollo delle temperature e da sporadiche nevicate nelle principali città. A Firenze pochi centimetri di neve riuscirono a bloccare il capoluogo; fortunatamente le precipitazioni si verificarono di sabato, rendendo meno caotico e fastidioso l’effetto dei fiocchi. Complice la giornata di festa non si registrarono dunque eccessivi disagi alla circolazione e gran parte delle persone poté godere di quel magnifico, quanto insolito scenario.

Malgrado la nevicata non fosse stata particolarmente intensa, aveva avuto modo di evidenziare una serie di problematicità che in seguito si sarebbero rilevate più gravi: in primo luogo venne alla luce la generale impreparazione del comune nell’affrontare una situazione di questo tipo; dopodiché si registrarono centinaia di disagi alla rete idrica, causati dalle gelide temperature e dalla presenza di vecchie tubature in gran parte della città; infine, zone periferiche e collinari, come Fiesole e Settignano, rimasero isolate per uno o due giorni, impossibilitate ad avere contatti con il resto del capoluogo.

Pochi giorni dopo, nella giornata di martedì 8 gennaio, una fase più intensa della perturbazione si abbatté su tutta la Toscana, “È nevicato dove la neve non si vedeva da oltre quarant’anni: all’isola d’Elba dove il comune di Marciana è isolato; a Viareggio che ha la spiaggia simile a una lunga pista innevata; a Pisa dove l’accesso alla torre pendente è stato chiuso. (…) Porto chiuso anche a Livorno: le navi aspettano di essere scaricate avvolte da tormente di neve che si succedono a intervalli di tempo”[5]. Nel giro di sei ore si posarono sul capoluogo oltre venti centimetri di neve: in poco tempo l’intera città e le zone limitrofe vennero completamente ricoperte da un soffice strato di coltre bianca. Armati di sgargianti piumini e di improbabili cappellini i fiorentini si riversarono per le strade, desiderosi di poter osservare la città sotto una nuova lente e di poter immortalare quell’inedito paesaggio. Gli amanti della settimana bianca poterono sfoderare per l’occasione l’abbigliamento da montagna, mentre la gran parte degli abitanti dovette correre ai ripari, indossando indumenti nascosti chissà da quanti anni nell’armadio. Lo scenario innevato diede vita a momenti unici come la comparsa di alcuni sciatori che improvvisarono uno slalom scendendo dalle colline che circondano la città o la presenza di gruppi di ragazzi che dopo essersi affrontati a pallate di neve utilizzarono i sacchetti di plastica come slittini.

 

Due bambine intente a giocare a palle di neve in piazza Santa Croce

 

Nel giro di poche ore il clima di festa lasciò spazio alla conta dei danni creati dalla nevicata: “Mancano sale, le spalatrici meccaniche, gli apripista: il comune non ne ha alcuno, la provincia una ventina che ha impegnato su tutto il territorio che le compete, l’esercito a tarda sera ha messo a disposizione ruspe e uomini. C’è stata una specie di corsa a Rosignano Solvay per i rifornimenti di sale, ma qui i mezzi toscani si sono dovuti mettere in fila in attesa che fossero riforniti i romani, arrivati prima”[6]. Venti centimetri di neve avevano paralizzato la città, interrompendo la circolazione interna e sospendendo temporaneamente i collegamenti con l’esterno. In assenza di mezzi il comune si era trovato costretto a dover ricorrere all’utilizzo di strumenti appartenenti a ditte private e a dover contattare i disoccupati presenti nelle liste di reclutamento. In un ultimo disperato tentativo il sindaco Lando Conti aveva perfino chiamato in causa il senso civico dei suoi concittadini, invitandoli a rispettare l’articolo 67 del regolamento di polizia municipale che obbligava tutti i possessori di immobili a ripulire lo spazio antistante le loro proprietà[7].

La nevicata non colse di sorpresa solamente il comune, ma trovò impreparati anche numerosi fiorentini. Tra l’8 e il 9 gennaio furono più di settanta le persone che vennero medicate negli ospedali del capoluogo; la prevalenza degli infortuni era stata causata da tamponamenti o da rovinose cadute. Tra gli sfortunati eventi ve ne erano alcuni che avevano un tono quasi fantozziano, come nel caso di uno studente che si era fratturato la tibia giocando a palle di neve con i suoi compagni o come l’episodio di un sessantaquattrenne caduto mentre cercava di montare le catene al suo furgone[8].

 

Spericolate discese sotto piazzale Michelangelo

 

L’eccezionale evento aveva fornito ai guidatori una preziosa lezione, istruendoli sulla necessità di dover limitare al massimo l’utilizzo del freno sulle superfici ghiacciate. L’impreparazione degli automobilisti generò situazioni caotiche per le vie del capoluogo con auto e bus che “improvvisavano strani balletti sulle strade bianche andando ogni tanto a finire contro un palo della luce o uno sfortunato albero”[9]. Con le strade innevate i cittadini si trovarono costretti a doversi cimentare nel montaggio delle catene, “Operazione forse facile per chi vive in montagna”, ma disastrosa per chi, come i fiorentini, non vi era abituato: si generarono così esilaranti scene di “auto con le catene piazzate nelle ruote sbagliate, con le catene che cadevano da tutte le parti, senza catene ma costrette a fare slalom imprevisti e pericolosi”[10].

I disagi creati dalla nevicata ebbero comunque modo di stimolare la solidarietà e il senso civico dei fiorentini. Come riportato da La Nazione del 6 gennaio “Gruppetti di volontari si sono adoperati qua e là fino a tarda ora per aiutare gli automobilisti in difficoltà, per segnalare preventivamente le strade da non prendere, per indicare che di lì a poco c’era un lastrone di ghiaccio”[11]. L’altruismo dei cittadini non si limitò alle ventiquattro ore successive alla prima nevicata, ma si estese anche alle giornate successive; infatti, molti fiorentini risposero positivamente agli appelli del sindaco, contribuendo alla pulizia delle strade e dei marciapiedi delle loro zone di residenza, supplendo in questo modo alla cronica assenza di mezzi e uomini.

Analogamente a quanto accadeva con i grandi avvenimenti La Nazione decise di dedicare alla nevicata un’apposita rubrica. Dal 9 gennaio il quotidiano stilò giornalmente un bollettino riguardante le principali problematiche che avevano colpito la città, come scuola, viabilità, trasporti pubblici e situazione idrica. Dal momento che si trattava di un evento inconsueto il giornale fiorentino decise di tenere costantemente aggiornata la cittadinanza sulle mutevoli difficoltà che colpivano il capoluogo. La drammaticità della situazione aveva portato il comune ad istituire un numero telefonico appositamente creato per dare sostegno alle persone più anziane che vivevano sole[12].

 

La prima pagina de la Nazione di Firenze del 6 gennaio 1985

 

Nei giorni successivi la nevicata vennero rilevate in tutta Italia temperature altamente sotto la media stagionale. A Firenze fra l’8 e il 13 gennaio la colonnina di mercurio non riuscì mai a superare lo zero e la città fu completamenti avvolta dal gelo. L’11 gennaio fu la giornata più fredda: a Peretola venne registrata la minima record di -23 °C, un primato ancora imbattuto per il capoluogo, mentre in città la temperatura arrivò a toccare -11 °C[13]. Come spiegato da padre Bravieri, responsabile dell’Osservatorio Ximeniano, la differenza di temperatura fra la città e la periferia era motivata dalla presenza di una “cupola termica” creata dagli impianti di riscaldamento e dal vapore acqueo che usciva dai tubi di scarico delle auto presenti in città. Le proibitive condizioni di quei giorni portarono il comune a dover estendere in via eccezionale il numero di ore nelle quali poter utilizzare il riscaldamento[14].

Le gelide temperature portarono al congelamento dei fiumi e degli specchi d’acqua di piccole dimensioni. L’Arno e i suoi affluenti vennero ricoperti da una spessa lastra di ghiaccio, così come il lago di Massaciuccoli che si ritrovò completamente ghiacciato. Molti fiorentini si riversarono lungo gli argini dell’Arno per poterlo ammirare immobile, chiuso sotto una lastra di ghiaccio, e i più temerari provarono l’ebrezza di camminare da una sponda all’altra, mentre altri si lanciarono in un’insolita pattinata sul letto del fiume. Malgrado si trattasse di un evento eccezionale, l’attraversamento dell’Arno comportava seri rischi per l’incolumità di coloro che lo compivano e l’elevata affluenza di cittadini portò Palazzo Vecchio a dover porre a sorveglianza del corso d’acqua alcune squadre di vigili per allontanare dal fiume i più spericolati e curiosi[15].

 

Tre giovani intenti a verificare la solidità della lastra di ghiaccio che ricopre l’Arno

 

Come abbiamo visto la nevicata del 1985 fu un evento talmente anomalo e al tempo stesso straordinario da rimanere indelebilmente impresso nella memoria collettiva. Ancora oggi, a quarant’anni di distanza, l’episodio continua a rappresentare un piacevole ricordo per coloro che lo vissero e a costituire una testimonianza capace di allontanare, anche solo per un momento, i problemi del presente. In occasione dell’anniversario giornali ed emittenti locali continuano a dedicare ampio spazio alla celebrazione della “nevicata del secolo”, supportati in quest’azione dalle testimonianze che lettori e spettatori fanno pervenire alle loro redazioni. In quest’ambito anche i social hanno contribuito enormemente alla produzione di memorie, offrendo a migliaia di utenti la possibilità di poter rievocare liberamente quei primi giorni di gennaio e di confrontare le proprie esperienze con quelle altrui. Nel corso degli anni la rievocazione è progressivamente sfociata in una sua idealizzazione, riducendone la descrizione all’esaltazione degli aspetti più positivi e folcloristici e ponendo in secondo piano le numerose problematiche ad esso connesse.

Fra la miriade di commenti celebrativi compaiono talvolta anche le considerazioni di coloro che invece quelle giornate le vissero con minor spensieratezza, colpiti in vario modo dai molteplici disagi. Malgrado la nevicata del ‘85 venga generalmente ricordata come un evento positivo, è doveroso ricordare che neve e gelo provocarono anche numerosi danni: le abbondanti precipitazioni dei primi giorni arrecarono considerevoli problemi alle comunicazioni, compromettendo gli spostamenti e isolando alcuni paesi, mentre il repentino abbassamento delle temperature dei giorni successivi causò rilevanti problemi alla rete idrica, lasciando senza acqua molte abitazioni. In particolar modo furono le zone periferiche, come le campagne e i piccoli centri, a subire le maggiori difficoltà a causa del loro isolamento e all’assenza degli strumenti e dei mezzi necessari per affrontare l’emergenza; la neve e il freddo danneggiarono inoltre gran parte della produzione agricola, compromettendo i futuri raccolti e causando l’aumento dei prezzi degli ortaggi. Sfortunatamente si registrarono anche alcuni casi di decesso causati dal freddo o di persone venute a mancare a causa dell’impossibilità di poter ricevere soccorso per l’impraticabilità delle strade.

La nevicata del ‘85 non fu l’unico episodio di questo genere verificatosi in Italia nel Novecento. Prima di allora nella penisola c’era stato un gelo eccezionale nel febbraio del 1956 e nevicate abbondanti sia tra il 1940 e il 1941 che tra il 1946 e il 1947. Ma allora perché il 1985 è rimasto così impresso nella memoria collettiva? Innanzitutto, rispetto alle ondate di maltempo appena citate si trattò di un evento straordinario non solo per la sua intensità, ma anche per la sua estensione, coinvolgendo nell’arco di pochi giorni quasi tutta la penisola, comprese aree dello stivale che non erano abituate a veder comparire i fiocchi di neve. In secondo luogo, è doveroso ricordare che la precipitazione avvenne in un’Italia in pieno sviluppo economico, abituata a procedere senza incontrare ostacoli lungo la sua strada. La comparsa della neve rappresentò dunque una brusca interruzione, una sosta forzata imposta dagli agenti atmosferici.

I recenti cambiamenti climatici hanno poi conferito all’evento ulteriore straordinarietà, connotandolo alla stregua di un episodio leggendario. Coloro che non erano nati o non erano abbastanza grandi per averne un ricordo percepiscono i racconti legati a quella nevicata come eventi lontani, appartenenti ad epoche remote e ormai irripetibili. Fenomeni di questo genere difficilmente potranno verificarsi in futuro visto che negli ultimi anni abbiamo assistito ad un progressivo aumento delle temperature e ad una conseguente diminuzione della rigidità degli inverni: nevica sempre di meno e la comparsa dei fiocchi a bassa quota è ormai divenuta un’assoluta rarità, mentre le poche volte che nel corso dell’anno la colonnina di mercurio scende sotto lo zero si possono forse contare sulle dita di una mano.

Difficile, dunque, che un episodio del genere possa ripetersi in futuro, ma come ci insegnano le prime giornate del gennaio 1985 mai dire mai…

 

 

Note:

[1] F. Italiano, La grande nevicata, Donzelli, Roma 2023.

[2] Tradotto in italiano “surriscaldamento stratosferico improvviso”.

[3] In ambito meteorologico tale fenomeno viene chiamato “effetto albedo”.

[4] G. Betti, 15 gennaio 1985: la nevicata del secolo, «il Mulino. Rivista di cultura e di politica», 14 gennaio 2023, https://www.rivistailmulino.it/a/15-gennaio-1985-br-la-nevicata-del-secolo.

[5] U. Cecchi, Emergenza in Toscana. Firenze paralizzata dalla neve, «La Nazione», mercoledì 9 gennaio 1985, p. 1.

[6] Ibid.

[7] Il sindaco ai cittadini “Spalare è un dovere”, «La Nazione», domenica 13 gennaio 1985, p. 2.

[8] Scivoloni e tamponamenti. Settantatré feriti, «La Nazione», mercoledì 9 gennaio 1985, p. 2.

[9] Fiesole isolata. Linee Ataf soppresse, «La Nazione», domenica 6 gennaio, p. 1.

[10] Descrizione posta sotto l’immagine in copertina, «La Nazione», domenica 6 gennaio, p. 1.

[11] Sulle colline le maggiori difficoltà. Squadre d’emergenza per aiutare gli automobilisti rimasti bloccati durante la notte, «La Nazione», domenica 6 gennaio 1985, p. 1.

[12] Soccorso anziani: chiamate il 210.075, «La Nazione», giovedì 10 gennaio, p. 1.

[13] P. De Anna, Termometro impazzito (-23). Mezza città senz’acqua, saltano i contatori, ghiaccio all’Anconella, «La Nazione», domenica 13 gennaio, p. 1.

[14] Sotto una cappa di ghiaccio. Scuole chiuse per due giorni. Viabilità nel caos, oggi gli spalatori, «La Nazione», mercoledì 9 gennaio, p. 1.

[15] Pattinano sull’Arno: è pericoloso, «La Nazione», sabato 12 gennaio 1985, p. 1.

 

Articolo pubblicato nel giugno 2025




L’odissea della famiglia Nasibù

Ad oltre vent’anni dall’ultima impresa coloniale compiuta da un paese europeo, il 3 ottobre 1935 le armate italiane invasero l’Etiopia, violando l’indipendenza dell’unico stato africano riuscito a scampare al colonialismo europeo di fine Ottocento e inizio Novecento. Intenzionato a voler raggiungere un successo che gli avrebbe garantito di poter accrescere il consenso interno ed affermare internazionalmente l’immagine del paese, Mussolini mise in piedi un apparato bellico che non aveva precedenti nella storia dell’espansionismo occidentale: nel corso del conflitto venne inviato in Etiopia oltre mezzo milione di soldati coadiuvati nella loro azione dalla presenza di numerosi mezzi motorizzati e dal sostegno dell’aviazione e dell’artiglieria. Malgrado l’evidente vantaggio nei confronti dell’avversario gli italiani riuscirono a rendersi protagonisti di terribili episodi, come l’utilizzo di armi internazionalmente proibite come l’iprite o di deliberate violenze nei confronti dei civili. Nel giro di sette mesi l’esercito dell’imperatore Hailé Selassié venne annientato dalla travolgente superiorità delle forze messe in campo da Mussolini; grazie a tale vantaggio gli uomini guidati da Badoglio riuscirono a sconfiggere l’esercito etiope dopo una serie di battaglie campali che si combatterono nella prima metà del 1936[1].

Con l’ingresso ad Addis Abeba il 5 maggio 1936 e la successiva proclamazione dell’impero, il regime dichiarò ufficialmente concluso il conflitto italo-etiopico. La fuga dell’imperatore e l’entrata dell’esercito italiano nella capitale avevano fornito a Mussolini la possibilità di poter dichiarare formalmente conclusa la guerra. Tuttavia la fine delle ostilità era lontana, sia perché erano ancora presenti nel paese numerosi soldati sopravvissuti al conflitto, sia perché ampie porzioni del territorio rimanevano ancora inesplorate considerata la celerità con la quale Badoglio e Graziani avevano proceduto verso Addis Abeba. Tale incertezza non si limitò al periodo immediatamente successivo alla conquista, ma si protrasse per l’intero arco della presenza italiana in Etiopia fino all’abbandono della colonia nel 1941[2].

Fra i militari etiopi il degiac[3] Nasibù Zamanuel, comandante in capo delle forze armate del fronte sud, fu certamente il generale che si distinse maggiormente nel corso del conflitto. Rispetto agli altri graduati di rango elevato il degiac era stato l’unico fra i generali ad esser stato nominato da Hailé Selassié per le sue capacità militari e per le doti che aveva evidenziato nel corso della sua carriera politica come console ad Asmara, Governatore di Addis Abeba e direttore del Ministero della guerra. Pur disponendo di un numero inferiore di soldati e di armamenti obsoleti, Nasibù riuscì a tener testa alle truppe guidate da Rodolfo Graziani, responsabile italiano delle operazioni sul fronte sud. Oltre allo svantaggio numerico e tecnologico il generale dovette fronteggiare le modalità di combattimento adottate dal comandante italiano che prima di compiere un’avanzata era solito bombardare le posizioni nemiche per poi irrorarle di iprite, ma, nonostante ciò, gli uomini guidati da Nasibù Zamanuel riuscirono a rallentare l’avanzata delle truppe italiane.

A pochi giorni dalla conclusione del conflitto, il generale raggiunse l’imperatore a Gibuti per accompagnarlo nel suo esilio europeo. Sfortunatamente nel corso della guerra i gas utilizzati da Graziani avevano causato danni irreparabili ai polmoni di Nasibù, che si spense in una clinica svizzera il 16 ottobre 1936. Poco prima di morire il degiac recò l’ultimo servigio ad Hailé Selassié, preparando il famoso discorso che l’imperatore tenne alla Società delle Nazioni per denunciare l’aggressione fascista ad uno stato indipendente: “Rappresentanti del mondo, sono venuto a Ginevra per adempiere, presso di voi, al più ingrato fra i doveri di un capo di Stato. Quale risposta dovrò riferire al mio Popolo?”[4].

 

Atzede Babitcheff e il degiac Nasibù Zamanuel pochi mesi dopo il loro matrimonio

 

La notizia della scomparsa raggiunse la famiglia che era rimasta in Etiopia. La perdita del capofamiglia gettò nello sconforto i suoi cari, aumentando l’incertezza che ormai da tempo accompagnava la loro esistenza. Malgrado il lutto la vedova Atzede Babitcheff reagì con sorprendente lucidità e con una forte dose di coraggio; intimorita dalle inquietanti notizie riguardanti le violenze compiute ai danni dei civili, decise di giocare d’anticipo e di chiedere a Graziani il trasferimento in Italia della famiglia. Oltre alla paura per le potenziali ripercussioni che i figli avrebbero potuto subire, in quanto membri di una famiglia che si era apertamente opposta all’invasione, Atzede era spinta dalla volontà di voler garantire loro un’adeguata educazione e un ambiente consono alla loro crescita. Graziani acconsentì favorevolmente alla proposta, ben lieto di poter allontanare dalla colonia una famiglia che un giorno avrebbe potuto congiurare contro l’Italia o costituire un punto di appoggio per i ribelli, ed approvò perfino la richiesta di Atzede di poter ricevere mensilmente i soldi provenienti dall’affitto della residenza familiare, che sarebbero risultati fondamentali per il pagamento dell’istruzione dei figli[5].

 

Atzede Babitcheff insieme alle figlie Martha e Amaretch

 

Il trasferimento in Italia dei Nasibù non rappresentò però un caso isolato, ma fu l’anticipazione di un fenomeno che nei mesi successivi avrebbe assunto dimensioni maggiori. Inseguito all’attentato compiuto nel febbraio 1937 ai danni di Graziani, divenuto nel frattempo la principale carica presente in colonia, vennero deportati nella penisola circa 400 etiopi appartenenti alla nobiltà e alla classe dirigente. Le autorità coloniali decisero di allontanare dal paese gli elementi ritenuti politicamente più pericolosi con l’intento di fiaccare la lotta armata privandola del potenziale sostegno delle figure più eminenti del paese. Deportati dal marzo 1937 i confinati vennero inizialmente trasferiti nell’isola dell’Asinara (Sassari) per poi essere successivamente destinati in altre località della penisola a seconda del loro livello di pericolosità: gli “irriducibili” vennero condotti a Longobucco (Cosenza) dove furono soggetti ad un regime detentivo più duro e severo, mentre coloro che erano considerati maggiormente collaborativi vennero trasferiti a Tivoli e Mercogliano (Avellino), in cui poterono usufruire di un trattamento meno rigido. Generalmente la presenza in Italia dei confinati non si estese a lungo e la maggioranza di essi poté rientrare in patria dall’estate del 1938, eccetto gli etiopi considerati pericolosi che tornarono nel loro paese solamente alla fine del 1943[6].

Per diverse ragioni la storia della famiglia Nasibù non può essere accostata alla vicenda degli altri confinati presenti in Italia, rappresentando semmai una singolare anomalia. In primo luogo, il trasferimento in Italia dei familiari del defunto degiac non fu un’imposizione delle autorità coloniali, ma fu una decisione seguita alla proposta di Atzede Babitcheff di voler allontanare i propri figli dalla spirale di violenza che aveva invaso il paese. In secondo luogo, rispetto agli altri confinati, i Nasibù vennero trasferiti da un luogo all’altro del paese senza che vi fosse un’apparente motivazione dietro a tali spostamenti, ma piuttosto la volontà di voler infierire su un gruppo di persone ormai divenute innocue. Nel corso di otto anni la famiglia affrontò numerosi spostamenti che la portarono nelle più disparate località, dal caos di Napoli alla pace delle Dolomiti, dal capoluogo toscano alla campagna aretina, giungendo persino per qualche breve periodo a Tripoli e Rodi.

Il 5 dicembre 1936 la famiglia salpò da Gibuti in direzione dell’Italia[7]. A bordo della nave ebbero modo di familiarizzare con alcuni aspetti che avrebbero caratterizzato il loro confino, come la presenza degli agenti di sicurezza che ironicamente chiamavano “angeli custodi” e l’impossibilità di potersi avvicinare ai passeggeri italiani. Dopo poco più di una settimana di viaggio giunsero a Napoli dove vennero sistemati in un appartamento sul lungomare di via Caracciolo. La permanenza nel capoluogo campano non durò a lungo visto che dopo appena due mesi la famiglia venne inspiegabilmente trasferita in Libia, per poi essere nuovamente riportata in Italia.

 

I figli di Nasibù fotografati a Napoli. Da sinistra: in alto un amichetto italiano e Fassil; in basso Amaretch, Brahanou e Martha

 

Amaretch, Brahanou e Martha affacciati sul balcone dell’appartamento in via Caracciolo a Napoli

 

Nei primi tre anni di confino i Nasibù vennero spostati in rapida sequenza da un luogo all’altro, subendo complessivamente sette trasferimenti (Napoli – Tripoli – Napoli- Rodi – Napoli – Tripoli – Vigo di Fassa)[8].

Alla fine dell’estate del 1940 la famiglia ottenne l’autorizzazione per essere trasferita da Vigo di Fassa a Firenze. Arrivati nel capoluogo toscano poterono ricongiungersi con lo zio Vittorio, che nel frattempo era giunto in Toscana con qualche mese d’anticipo, trovando ospitalità presso i Solari, e grazie all’aiuto di questa nobile famiglia fiorentina trovarono una sistemazione in un appartamento di via Borgo Pinti 92. Poco dopo il loro arrivo a Firenze iniziarono i primi segnali dell’entrata in guerra, come il coprifuoco e il razionamento dei beni alimentari[9].

Dopo che la famiglia trovò sistemazione, Atzede si premurò di garantire ai propri figli la possibilità di poter proseguire gli studi: Martha e la sorella vennero iscritte all’internato del Sacro Cuore, che già avevano avuto modo di frequentare durante il confino napoletano, mentre Fassil venne ammesso per il tempo necessario a sostenere gli esami di riparazione come esterno al collegio Cicognini di Prato, dopo esser stato rifiutato dal Liceo Michelangelo di Firenze per motivi razziali. Secondo quanto affermato da Martha, durante la breve presenza al Cicognini, il fratello fu protagonista di un episodio che rischiò di compromettere ulteriormente la già precaria posizione della famiglia: chiamato in modo irriguardoso e volontariamente discriminatorio da parte di un professore, il giovane etiope aggredì fisicamente quest’ultimo incappando in una denuncia e nell’espulsione dalla scuola. Fortunatamente l’incidente non provocò nessun provvedimento, risolvendosi con il richiamo da parte del Federale di Firenze affinché un caso del genere non si ripetesse[10].

L’istruzione dei figli era per la signora Atzede di primaria importanza e lungo tutta la loro tormentata permanenza nella penisola – dal 1936 fino al 1945 – si impegnò costantemente nella ricerca di scuole che accettassero i propri figli: «La mamma, ovunque si andasse, ci iscriveva a nuove scuole». Ma a causa delle leggi razziali tale intenzione si rivelò particolarmente difficoltosa, se non impossibile da realizzare nelle scuole pubbliche, mentre Atzede riuscì a far ricevere un’educazione ai propri figli negli istituti religiosi. È probabile che in questo caso il regime chiudesse un occhio, e come ipotizzato da alcuni studiosi, il Pontificio collegio etiopico e padre Gaudenzio Barlassina, un missionario italiano che aveva operato in Etiopia per diversi anni, si fossero impegnati in favore della famiglia e avessero contattato le scuole religiose per favorire la loro iscrizione.

Il 5 maggio 1941, cinque anni dopo l’ingresso di Badoglio ad Addis Abeba, l’imperatore Hailé Selassié poté ritornare nella capitale dopo aver sconfitto, grazie al supporto degli inglesi, le ultime forze italiane presenti sul territorio. La perdita dell’Etiopia determinò un generale allentamento delle misure restrittive nei confronti di tutti i confinati etiopi presenti nella penisola: Atzede, ad esempio, doveva recarsi a segnalare la propria presenza in Questura solamente una volta alla settimana, mentre i confinati considerati più pericolosi iniziarono ad avere maggior libertà di movimento[11]. Ma il caos seguito all’allontanamento degli italiani comportò l’interruzione del pagamento degli affitti delle case appartenute al defunto degiac, denaro destinato al pagamento delle rette delle scuole che Amaretch, Martha, Fassil e Brahanou frequentavano. Così Atzede si trovò costretta a dover fronteggiare una situazione complicata: prima decise di vendere i pochi gioielli che ancora possedeva, dopodiché scelse di iscrivere i figli a scuole meno costose, le ragazze iniziarono ad andare dalle suore di Santa Reparata, mentre i ragazzi frequentarono il Collegio Cavour[12].

Malgrado questi accorgimenti la situazione economica non migliorava e dopo varie sollecitazioni di Atzede, il 14 novembre 1941, il Ministero dell’Africa Italiana (MAI) approvò lo stanziamento di 2.000 lire mensili per il sostentamento dei Nasibù, ma era una cifra ancora troppo bassa per la sopravvivenza di una numerosa famiglia costretta a dover fare i conti con il caroprezzi dovuto alla guerra. Più il conflitto si prolungava e maggiori divenivano le difficoltà che erano costretti ad affrontare, ma Atzede non si diede per vinta e continuò a scrivere alle più alte cariche fasciste, finché un giorno il Prefetto di Firenze si attivò in loro favore facendo salire il sussidio mensile a 4.000 lire. E non appena la signora Babitcheff poté ritirare il denaro lo stanziò immediatamente all’istruzione dei propri figli iscrivendo i ragazzi al collegio Domengi Rossi e le ragazze al Sacro Cuore[13].

Nell’estate del 1942 l’intensificarsi dei bombardamenti portò Atzede ad optare per un temporaneo trasferimento della famiglia nella campagna toscana. Analogamente a molti italiani che abitavano in importanti città della penisola, i Nasibù decisero di abbandonare Firenze e di sfollare a San Giustino, un piccolo paese nella provincia di Arezzo. Il cambio di località si rivelò ideale, catapultando la famiglia in uno scenario ancora lontano dagli effetti della guerra. Se nel capoluogo toscano il passaggio degli aerei era sinonimo di bombardamenti e di terrore, nella campagna aretina la loro comparsa provocava l’effetto opposto, costituendo una fonte di curiosità e di divertimento per la popolazione del piccolo borgo. Al rombo dei motori gli abitanti erano soliti precipitarsi fuori dalle loro abitazioni ipotizzando verso quali mete fossero diretti, mentre i più piccoli, affascinati da quegli oggetti di metallo che sfrecciavano fra le nuvole, esplodevano in grida d’emozione e canti sfrenati. Nel periodo di permanenza nel piccolo paese i Nasibù poterono constatare che, rispetto alle grandi realtà urbane come Firenze e Napoli, nelle campagne la popolazione era caratterizzata da una maggiore spontaneità e dall’assenza di pregiudizi: gli abitanti del borgo aiutarono in diverse occasioni i nuovi arrivati, mentre i ragazzi non faticarono a crearsi una rete di amicizie, inserendosi rapidamente tra i loro coetanei[14].

Sebbene la vita a San Giustino procedesse tranquillamente e non fosse ancora turbata dalla presenza della guerra, l’istruzione continuò a ricoprire per Atzede un ruolo cruciale, rappresentando il motivo principale dei loro spostamenti, cosicché i Nasibù tornarono dopo pochi mesi ad abitare in quell’appartamento di via Borgo Pinti a Firenze. Il secondo soggiorno fiorentino, dalla fine del 1942 all’autunno dell’anno successivo, rappresentò uno dei periodi più complicati della loro permanenza in Italia, a causa della fame e degli stenti che la famiglia era ormai costretta a subire giornalmente. In questa situazione Atzede mise da parte l’educazione dei figli e pose naturalmente al primo posto il loro sostentamento e il loro benessere fisico. Agli inizi del 1943 la vedova riuscì ad ottenere dal Prefetto di Firenze il trasferimento per la seconda volta nelle Dolomiti, luogo indubbiamente più tranquillo per la crescita spensierata dei ragazzi lontano dai venti di guerra e soprattutto luogo in cui non si pativa la fame.

Alla notizia della liberazione di Roma (4 giugno 1944) Atzede con i propri figli partirono immediatamente verso Firenze, certi che di lì a poco anche il capoluogo toscano sarebbe stato liberato.

Giunti a Firenze, dopo un viaggio non privo di incidenti con il convoglio costretto a fermarsi a causa dei bombardamenti, i Nasibù ebbero la sorpresa di trovare il loro appartamento di via Borgo Pinti occupato da famiglie di sfollati. Privi di un’abitazione vennero indirizzati verso una casa in via Atto Vannucci, vicino all’attuale Stazione ferroviaria in via dello Statuto. L’appartamento era ampio e spazioso, ma dopo pochi giorni dalla loro sistemazione scoprirono che il quartiere era in gran parte abbandonato per la presenza nelle vicinanze di un deposito di munizioni, obbiettivo di possibili bombardamenti. Colta dal panico la famiglia si rifugiò nella casa degli amici Solari in via del Sole.

Dopo la liberazione di Firenze i Nasibù si spostarono a Roma intenzionati a far ritorno in Etiopia. L’arrivo nella capitale sancì la conclusione delle loro tribolazioni, “finalmente la vita si riprendeva i suoi diritti sulla morte, la gioia sulla tristezza, l’entusiasmo sull’afflizione. Liberi da ogni tipo di vigilanza, liberi di vivere come ci piaceva, eravamo sommersi dall’eccitazione[15]. In un turbinio di emozioni la famiglia passò nel giro di pochi giorni dalle sirene che preannunciavano i bombardamenti alla possibilità di poter essere ricevuta dal principe Umberto di Savoia e da papa Pio XII.

Dopo un breve periodo a Roma gli etiopi vennero trasportati insieme ad altri rifugiati al campo di concentramento di Bari, da dove salparono nel gennaio 1945 in direzione di Port Said. E dopo una breve permanenza in Egitto la famiglia intraprese l’ultima tappa del viaggio giungendo ad Addis Abeba nell’aprile 1945, otto anni dopo la partenza da Gibuti.

Con la sua scelta coraggiosa Atzede era riuscita a proteggere i suoi figli e in qualche modo a far sì che non interrompessero il loro percorso di crescita sul piano dell’istruzione.

 

Note:

[1] Cfr. A. Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale. La conquista dell’Impero, Laterza, Roma-Bari 1979.

[2] Cfr. M. Dominioni, Lo sfascio dell’impero. Gli italiani in Etiopia 1935-1941, Laterza, Roma-Bari 2008.

[3] Titolo nobiliare etiope corrispondente a quello di conte.

[4] Citato in A. Del Boca, Il negus. Vita e morte dell’ultimo re dei re, Laterza, Roma-Bari, 1995, p. 179.

[5] M. Nasibù, Memorie di una principessa etiope, Neri Pozza, Vicenza 2005, pp. 13-14.

[6] Cfr. P. Borruso, L’Africa al confino. La deportazione etiopica in Italia (1937-39), Lacaita, Manduria-Bari 2004.

[7] Il gruppo era composto da undici elementi, la vedova Atzede, i cinque figli Fassil, Amaretch, Brahanou, Martha e Theodros, il nonno materno Ivan e i suoi figli Haregue, Helena e Vittorio ed infine la governante Enkoyé.

[8] M. Nasibù, Memorie di una principessa etiope, cit., pp.146-147.

[9] Ivi, p. 184.

[10] Ivi, pp. 185-187.

[11] G. Ferraro, Una liberazione “diversa” e le lettere “amhariche” degli anni di confino dei deportati etiopi, in «Rivista Calabrese di Storia del ‘900», n. 2, 2013, pp. 240-242.

[12] M. Nasibù, Memorie di una principessa etiope, cit., pp. 189-190.

[13] Ivi, pp. 195-196.

[14] Ivi, pp. 197-201.

[15] Ivi, p. 222.

 

Articolo pubblicato nel maggio 2025.




FIRENZE, 1° SETTEMBRE 1944

Terminata la battaglia per la liberazione, Firenze si sveglia non più oppressa dal macigno dell’occupazione nazifascista ma con una serie di problemi da risolvere nel breve periodo, al punto che la gioia di assaporare quel senso di libertà anelato da tanto tempo viene in parte strozzata da una realtà fatta di macerie, dove tutto è da ricostruire, e da una popolazione stremata che necessita nell’immediato dei bisogni primari. Case, strade, ponti che non esistono più, uomini, donne e bambini sfollati che hanno bisogno di un tetto e di piatti caldi quotidiani, e che per bere e lavarsi spesso sono costretti a stazionare in lunghe file davanti alle poche fontane funzionanti.

Una città che versava in condizioni critiche sotto il profilo annonario, igienico e abitativo, oltre che dal punto di vista della sicurezza e dell’ordine pubblico. L’emergenza annonaria era la più drammatica come risulta dai rapporti ufficiali britannici e dal diario di guerra della XIV armata germanica, i tedeschi avevano lasciato ai fiorentini il 9 agosto 1944 scorte alimentari per 22 giorni, più precisamente 125 tonnellate di farina, 25 di riso, 10 di pasta e 25 di pane, oltre ad una tonnellata e mezzo di latte condensato per il sostentamento delle madri e dei malati[1]. Si trattava di una minima parte di quanto i militari tedeschi, rimasti di fatto gli unici padroni della città, dopo la fuga delle autorità civili fasciste, avevano requisito e in molti casi razziato nelle ultime settimane. Ad ogni modo con queste scorte modeste ma provvidenziali la città riuscì a sopravvivere fino alla fine del mese. Con l’arrivo delle truppe alleate i benefici sperati furono disattesi, infatti la situazione annonaria nell’autunno-inverno ‘44 non migliorò, e nonostante le promesse delle autorità alleate gli alimenti base continuavano a mancare o a essere reperibili solo alla borsa nera.

Un problema altrettanto grave era costituito dall’emergenza abitativa, Firenze pur non avendo subito ferite paragonabili a quelle inflitte in altre città italiane, per il rispetto tributato al suo patrimonio artistico, per l’assenza di strategiche concentrazioni industriali o perché la guerra era finita otto mesi prima che al Nord, aveva avuto danni al suo tessuto urbano niente affatto trascurabili.

Dopo la liberazione la popolazione fiorentina, che era salita in poco tempo da 350.000 a 500.000 abitanti, trovò rifugio un po’ dovunque, in particolare nelle case requisite ai fascisti e nei centri per sfollati, organizzati nelle parrocchie, nelle case del popolo, nei locali del comune e soprattutto nelle scuole[2]. In accordo con gli alleati furono riorganizzate le strutture di accoglienza, e in molti si riversarono soprattutto presso l’Ente comunale di Assistenza, uno dei più attivi in città, che a fronte di questa situazione di estrema precarietà fu chiamato a rispondere con urgenza ed efficacia. Grazie all’opera del direttore Luigi Rondoni, del presidente Giorgio La Pira, e all’aiuto economico e logistico degli alleati, una delle prime azioni dell’Ente fu la riapertura delle mense già adibite in passato alla distribuzione dei “ranci del popolo” e la distribuzione di generi di prima necessità alla popolazione. Come refettori furono utilizzati i locali delle parrocchie, che crearono una rete capillare e diffusa in città, a cui si aggiunsero centri assistenziali, case del popolo e molte altre strutture di fortuna.

Dal punto di vista amministrativo, già nel pieno della battaglia, l’11 agosto, la guida della città fu subito assunta da una giunta comunale nominata direttamente dal Comitato toscano di liberazione nazionale (Ctln). Vi fu un lungo braccio di ferro con le forze alleate per la definizione dell’organico amministrativo, ma il Ctln ebbe la meglio e riuscì ad imporre alla carica un medico socialista, Gaetano Pieraccini, mentre alla carica di vicesindaco furono designati il democristiano Adone Zoli e il comunista Mario Fabiani. La scelta di Pieraccini non fu la più gradita agli Alleati, che avrebbero preferito come primo cittadino non un rappresentante del partito storico della sinistra, ma altri uomini come il conte Paolo Guicciardini, esponenti liberali come Dino Philipson e l’avvocato Gaetano Casoni, o anche Piero Calamandrei del Partito d’Azione. Alla base della loro opposizione vi era la consapevolezza del valore simbolico della figura del primo cittadino che avrebbe rappresentato Firenze a livello nazionale e mondiale; ma gli Alleati preferirono giustificare diplomaticamente le loro riserve con l’età avanzata del medico fiorentino[3]. Alla fine nonostante le infondate obiezioni sull’età, la scelta di Pieraccini risultò la più adatta “per un sindaco della Liberazione” che era sempre stato un tenace oppositore del regime, oltre che uno dei padri nobili del socialismo toscano[4].

Il problema dei profughi in una nuova legge governativa. Un provvedimento che non potrà risolvere i problemi di 2700 ospiti dei vari centri fiorentini, «La Nazione», 7 ottobre 1948.

Giunto alla guida della città quasi ottantenne, Gaetano Pieraccini fu chiamato a risolvere problemi di assoluta emergenza, con i quali nessun sindaco del capoluogo toscano si era mai dovuto misurare, come quel problema sorto a termine della guerra – ma che esisteva sia pure in misura ridotta dallo scoppio delle ostilità – dei profughi di guerra e dei sinistrati dai bombardamenti, che Firenze, al pari delle altre città italiane, si trovò ad accogliere, sistemare e sfamare. Fu un’emergenza abitativa che continuò per diversi anni e rappresentò uno dei problemi più drammatici dell’intera storia della città[5].

In città subito dopo la liberazione esistevano soprattutto due categorie di persone che dovevano essere assistite perché prive di vitto e alloggio: gli sfollati residenti in altri comuni d’Italia che avevano dovuto abbandonare la propria casa per la guerra e i sinistrati fiorentini a cui era stata distrutta o lesionata la propria abitazione. Molti di loro avevano trovato rifugio temporaneo in Palazzo Pitti e nell’adiacente Giardino di Boboli quando Firenze nella notte fra il 3 e il 4 agosto fu trasformata in un “teatro di paura e distruzione” da parte delle truppe tedesche in ritirata. Per rallentare l’avanzata degli alleati, che stavano risalendo la penisola, i tedeschi distrussero dietro di loro tutte le vie di comunicazione, compresi tutti i ponti ad eccezione del Ponte Vecchio.

A molti sinistrati successivamente fu trovata una sistemazione soprattutto nelle scuole dell’area fiorentina che velocemente furono adibite allo scopo, mentre molti altri sfollati trovarono rifugio soprattutto presso la caserma Cavani ex Genio di via della Scala, dove poterono rimanere fin quando non arrivarono migliaia di profughi provenienti da vari paesi, in particolar modo dalle ex colonie africane e dai territori esteri quali la Grecia, l’Albania e la Tunisia, che alla fine del ’45 si abbatterono come una valanga nel Centro stravolgendo quella già precaria sistemazione che avevano trovato gli sfollati ed i sinistrati fiorentini[6].

 

Archivio Storico del Comune di Firenze, Fondo Eca, Filza n. 7, Categoria IV, Inserto n. 22, Centro sinistrati e sfrattati, anno 1945 e seguenti.

 

Da quel momento in poi le Istituzioni si mobilitarono costantemente per trovare nuovi locali adatti ad accogliere tutti coloro che avevano bisogno di un tetto, soprattutto quando si sarebbe aggiunto quel nuovo flusso di esuli, provenienti dall’Istria e dalla Dalmazia, conseguente alla stipula del Trattato di Pace, del 10 febbraio 1947, che segnò una rinuncia definitiva alla sovranità italiana sui territori del confine orientale. Dal febbraio di quell’anno giunsero a Firenze, come in molte altre località della penisola, cittadini italiani, indotti ad abbandonare i luoghi nativi dal sentimento di appartenenza alla madrepatria, dalla politica persecutoria praticata dal regime titino nei confronti dell’elemento italiano, e in molti casi anche dal rifiuto di vivere sotto un regime comunista.

Firenze fu meta di un ampio flusso migratorio dal litorale adriatico e come nel resto d’Italia, l’esodo coinvolse esponenti di tutti i ceti sociali, «dal professionista e dal pubblico funzionario alla “sigaraia di Pola”, accomunati dal desiderio di tenere fede alla propria italianità anche a costo di abbandonare i loro beni»[7].

Come avvenuto per i territori della Venezia Giulia passati alla Jugoslavia, il Trattato di Parigi consentiva agli italiani residenti nel Dodecaneso la possibilità di esercitare il diritto di opzione. Iniziarono così i rimpatri di quanti avevano scelto la nazionalità italiana, e alcuni di essi, sbarcati a Bari, giunsero a Firenze e si sommarono ai “greci”, arrivati nel novembre del ’45, provenienti da Patrasso (la maggior parte), da Atene, Corfù e Salonicco.

I primi sintomi della gravità del problema si verificarono quando si cominciò a cercare i locali per sistemarli, in quanto quelli disponibili erano già tutti occupati dagli sfollati e dai sinistrati fiorentini. Furono individuati come edifici adatti ad ospitarli alcune scuole, alcune abitazioni private e soprattutto la caserma di via della Scala, la caserma Laugier, in via di Tripoli e il convento sconsacrato di Sant’Orsola in via Guelfa. Ma l’emergenza abitativa apparve presto evidente e le condizioni di questi italiani privati delle loro terre, delle loro case e dei loro beni dalla sconfitta militare si rivelarono drammatiche anche in un’epoca di privazioni generalizzate. Questi centri di raccolta rappresentavano una detenzione ingiusta e pesante per coloro che erano obbligati a subirla e al contempo costituivano un problema sociale per Firenze che doveva “sopportarli e in parte supportarli[8].

 

Archivio Storico del Comune di Firenze , Fondo ECA, Filza n. 7, Categoria IV, Atti e carteggio vario con l’ufficio provinciale per l’assistenza post-bellica, 1945 e seguenti.

 

I profughi giuliano-dalmati, appena arrivati alla stazione, ha raccontato la signora Liana Di Giorgi Sossi, esule da Pola[9], furono accolti da un signore che si era già stabilito a Firenze e sistemati nel fatiscente complesso dell’ex convento di Sant’Orsola, che accolse circa 580 istriani[10], nelle cui stanze vennero ricavati 272 ambienti familiari, senza il diritto ad un minimo di vita privata, con gli spazi riservati a ciascun nucleo familiare delimitati da semplici coperte appese ad un filo. Ma nonostante gli spazi ristretti e la promiscuità esistente erano riusciti a creare una sorta di Kibbutz con all’interno una scuola, uno studio medico, e addirittura avevano formato una squadra di pallavolo maschile e femminile e un’orchestra che si esibiva durante le feste. Liana Di Giorgi Sossi, allora bambina, in un’intervista ha raccontato alcuni episodi della sua infanzia:

Ricordo che, mentre stavo al campo ho fatto la prima comunione nella chiesa di Santa Reparata: è stato bello. Però noi lì eravamo isolati. Eravamo nel centro e uscivamo solo per andare a scuola oppure a lavorare[11].

 

Il Centro Raccolta Profughi di Via Guelfa, presso la ex Manifattura Tabacchi e, prima ancora, Monastero di Sant’Orsola. Fotografia di Elio Varutti.

 

Sant’Orsola, Firenze, Centro di accoglienza degli esuli istriani, fiumani e dalmati, Pasqua 1947 (archivio Liana Di Giorgi Sossi).

 

Firenze, CRP ex Manifattura Tabacchi, Comunione e Cresima, 15 giugno 1948.

 

Non tutti i profughi giuliano-dalmati passarono attraverso il Centro di Sant’Orsola, i più fortunati, che avevano trovato un lavoro, poterono contare sull’ospitalità di parenti o riuscirono ad ottenere un tetto dal Commissariato Alloggi, evitando così il passaggio dal campo profughi.

Una settantina di altri esuli adriatici invece trovarono posto nei locali di via della Pegola, che negli ultimi tempi erano stati utilizzati come magazzini dall’Università: «Il Genio civile, l’associazione degli industriali e il centro italiano femminile, hanno fatto il possibile per rendere abitabili e confortevoli i nuovi ambienti»[12]. Le 22 famiglie che compongono la piccola comunità hanno così trovato ospitalità in questa specie di “centro profughi”.

L’accoglienza che incontrarono gli esuli giuliano-dalmati ha rappresentato una brutta pagina della storia fiorentina, specie se paragonata all’atteggiamento molto più aperto di realtà locali spesso più povere, come la Sardegna, che ospitarono, con assai maggiore disponibilità i profughi. In molti casi pesò su di loro il pregiudizio che fossero “fascisti”:

C’era una gran malinconia, una tristezza diffusa nei nostri genitori, per il fatto di non essere accettati dagli altri, dai fiorentini, che ci consideravano fascisti e stranieri solo perché eravamo fuggiti da Pola. Per un periodo di tempo il controllo su di noi fu talmente forte che venne addirittura installato un corpo di guardia della Celere nella portineria e gli adulti dovevano esibire sempre un documento per entrare[13].

Solo a partire dalla metà degli anni Cinquanta i profughi scappati da Tito avrebbero raggiunto migliori condizioni di vita ottenendo l’assegnazione di case popolari di recente realizzazione, all’Isolotto, a Bellariva, in via Fanfani, o accedendo all’affitto di abitazioni realizzate nel 1953 per loro e per altri profughi nei complessi di via Niccolò da Tolentino (via delle Gore) e in via di Caciolle.

Non mancarono problemi anche per il rinserimento dei profughi provenienti dalle ex colonie africane e dall’Egitto che, pur non essendo una colonia italiana, aveva accolto, fin dall’Ottocento una folta e qualificata comunità di italiani, sessantaseimila all’inizio del secondo conflitto mondiale.

A Firenze arrivarono anche i rimpatriati provenienti dalla Tunisia e per loro venne requisito l’albergo Cavour in via del Proconsolo per alloggiarvi circa 220 profughi[14]. Un numero minore di “tunisini” trovò posto invece nel Centro profughi di via della Scala ormai quasi completamente occupato dai profughi “greci”.

Non riusciamo a ricavare un numero preciso di profughi che hanno alloggiato a Firenze, ci affidiamo a riguardo al quotidiano “La Nazione” che in data 12 dicembre 1945 riporta un numero di 2700 connazionali dall’estero alloggiati al Centro profughi di via della Scala e che sarebbe presto aumentato con l’arrivo di altri gruppi di profughi. Diventava così fondamentale per gli Enti incaricati di provvedere alla loro accoglienza organizzando nel migliore dei modi le strutture adibite allo scopo per “rendere l’ospitalità non uguale a quella dei lager![15]. E la città di Firenze, con un fragile apparato di emergenza, riunì tutte le forze per attrezzarsi al fine di offrire vitto e alloggio a questi sventurati diventando così un crocevia di razze, dialetti e lingue di tutto il mondo.

Nuovi ragguagli e chiarimenti sulle condizioni del centro profughi, «La Patria», 23 novembre 1945.

In questo movimento continuo di persone accadeva anche che il 23 novembre 1945 arrivasse a Firenze un treno carico di 700 profughi, di ignota provenienza e senza nessun preavviso né da Roma né da alcuna delle stazioni di transito. E neanche al ministero dell’Assistenza post-bellica sapevano dell’esistenza di questo treno in viaggio per Firenze… un vero treno fantasma. E mentre si cercava di correre ai ripari per trovare una sistemazione a queste persone, dalla stazione di Campo di Marte si annunciava l’arrivo di un altro treno: altri vagoni stracolmi di uomini donne e bambini che viaggiavano con il solo bagaglio della propria sofferenza, «senza neppure farli precedere da quell’avviso che si usava per le merci!»[16]. Fu avvisata dell’arrivo di questi treni la direzione del Centro profughi per provvedere all’accoglienza, ma in via della Scala tutti i locali disponibili erano già al completo. Lo sconforto e la rabbia di coloro che avevano viaggiato per giorni stipati all’interno di un vagone esplose quando, arrivati a destinazione, vennero a sapere che nessuno li aspettava, che lì non vi era posto per loro. Risolutivo fu l’intervento del direttore del Centro, che giunto alla stazione con gli addetti della mensa popolare ed un carico di buone pietanze alimentari, riuscì a calmare gli animi e convincerli ad accettare di rimettersi in viaggio verso Bologna (città da cui, di lì a poco, sarebbero tornati a Firenze!)[17].

Questo clima di caos e di incertezza, tipico di una situazione al collasso, era causato anche da difficoltà di comunicazione con gli organi centrali e dalla confusione creata dai movimenti degli eserciti insieme agli intralci provocati dagli organismi di controllo degli Alleati.

L’afflusso di profughi proseguì per tutto il 1945, soprattutto furono numerosi i rimpatri dalla Grecia (il nucleo più consistente di profughi a Firenze alloggiati nella ex caserma di via della Scala) che giunsero ininterrottamente per tutto il mese di novembre e l’inizio di dicembre, poi iniziò l’arrivo degli istriani che proseguì anche negli anni Cinquanta. Mentre il flusso di profughi “africani” nel capoluogo toscano si protrasse fino agli anni Settanta, quando, dopo il colpo di stato nel 1969 del colonnello Gheddafi, fu messa in atto la “cacciata” di tutti gli italiani dal territorio libico. Non solo, Gheddafi per appagare il suo sentimento di vendetta nei confronti dell’Italia, andò oltre ordinando la restituzione dei morti italiani che furono dissotterrati dai cimiteri e imbarcati sulle navi per tornare in patria.

 

NOTE:

[1] Enrico Nistri, La Firenze della Ricostruzione (1944-1957) dall’11 agosto all’anno dei tre ponti, Ibiskos, Empoli 2008, p. 56.

[2] Daniela Poli, Storie di quartiere. La vicenda Ina-Casa nel villaggio Isolotto a Firenze, Edizioni Polistampa, Firenze 2004.

[3] Cfr. Lelio Lagorio, Cronache di lotta socialista a Firenze, in Il socialismo a Firenze dalla Liberazione alla crisi dei partiti 1944-1994, a cura di Luigi Lotti, Polistampa, Firenze 2013, p. 119.

[4] E. Nistri, La Firenze della Ricostruzione (1944-1957), cit., p. 53.

[5] Negli anni ‘60, dopo la realizzazione di molti alloggi, erano ancora in attività 32 centri sfrattati con 779 famiglie alloggiate composte da 2696 persone, in Daniela Poli, Storie di quartiere, cit., p. 84.

[6] Il problema dei profughi in una nuova legge governativa. Un provvedimento che non potrà risolvere i problemi di 2700 ospiti dei vari centri fiorentini, «La Nazione», 7 ottobre 1948.

[7] E. Nistri, La Firenze della Ricostruzione, cit., p. 189.

[8] Elio Varruti, I diritti e le ortiche. Esuli dai campi profughi ai villaggi per rifugiati di firenze-1945-2009, https://eliovarutti.wordpress.com/2020/10/10/

[9] Intervista a Liana di Giorgi Sossi, in Daniela Tartaglia, Sant’Orsola. Fotografie da un monastero, Crowdbooks, 2019.

[10] Il Crp di Sant’Orsola operò dal 1945 al 1955 per i profughi istriani. Vi confluirono con le loro famiglie 580 dipendenti della manifattura tabacchi di Pola assegnate alla manifattura tabacchi di Firenze, che dall’Ottocento fino al 1941 aveva sede proprio a Sant’Orsola (Il Centro continuerà ad essere attivo fino alla fine degli anni Sessanta accogliendo sfrattati o senza tetto).

[11] Ibidem.

[12]Dopo le nostre segnalazioni. I profughi giuliani decentemente sistemati, «La Nazione», 13 marzo 1948.

[13] Intervista a Liana di Giorgi Sossi, in D. Tartaglia, Sant’Orsola, cit.

[14] Il problema dei profughi in una nuova legge governativa, «La Nazione», 7 ottobre 1948.

[15] E. Miletto, In fuga. Assistenza e accoglienza degli italiani di Grecia in Piemonte, in Convegno internazionale “Grecia e Italia 1821-2021: due secoli di storie condivise, Atene 2023, p.716.

[16] Nuovi ragguagli e chiarimenti sulle condizioni del centro profughi, «La Patria», 23 novembre 1945.

[17] Ibidem.

 

Articolo pubblicato nel marzo 2025.




Tra bombardamenti ed eccidi, l’anno buio della guerra a Dicomano

Dicomano rappresenta al meglio la specificità delle valli appenniniche durante la resistenza nell’estate del 1944. La liberazione del 10 settembre simboleggia la fine di un incubo durato mesi e reso ancor più nefasto dalle stragi nazifasciste verificatesi a luglio. Prima è però importante per il lettore capire il significato di quelle stragi. Dobbiamo quindi illustrare che cosa rappresentano quelle zone nel contesto di guerra. Stiamo parlando di valli strette e ritenute abbandonate, al limite della regione, quindi considerate sicure. Sono al contrario estremamente strategiche perché rappresentano il passaggio tra Toscana e Emilia Romagna. Un passaggio decisivo, soprattutto la parte aretina, nella primavera del 1944, quando i comandi delle brigate Garibaldi decidono di creare una grande armata partigiana che doveva operare sull’Appennino per colpire sul forlivese e sull’aretino. Un progetto poi smantellato in seguito all’operazione di rappresaglia e rastrellamento nazista, deciso subito dopo le Ardeatine, che potremmo definire il punto di svolta sulla concezione da parte di Kesselring e dei comandi nazisti del pericolo partigiano, considerato da li in avanti potenzialmente pericolosi per le proprie truppe. Fino a quel momento non vi erano state stragi di matrice nazista infatti, era stato lasciato ai fascisti il controllo del territorio. Da quel momento cambia tutto. A quel punto, tutte le brigate partigiane che si stavano portando sull’Appennino per raggrupparsi, ovviamente devono separarsi per non essere catturate. Ed è per questo che quindi si verificò la divisione sui territori. Da quel momento l’Appennino diviene strategico, in quanto zona centrale dei combattimenti, e lo resterà finché la linea non si attesterà a Bologna, nell’autunno del 1944[1].

Per omaggiare al meglio il ricordo di quei mesi è doveroso quindi cercare di creare un itinerario che possa contenere tutti i luoghi della memoria di Dicomano, sia quelli in paese, sia i ceppi in ricordo delle vittime stragiste situate nelle varie località adiacenti.

 

Percorso

 

  • Percorso: Via Nazionale, località Contea, Dicomano (Cippo di Contea) – Piazza Francesco Buonamici, Dicomano (Lapide del bombardamento) – Piazza Trieste, Dicomano (Monumento ai caduti della resistenza) – Località Santa Lucia, Dicomano (Cippo di Santa Lucia)
  • Tempo di percorrenza: 2 ore
  • Distanza: 7,2 km
  • Dislivello: pianeggiante (+ 263 m – 143 m)

 

Il nostro percorso inizia da Via Nazionale, precisamente dalla località Contea, tra Montebello e Rufina, dove ci troveremo davanti al Cippo di Contea, in ricordo della doppia strage nazifascista del 7-8 luglio 1944. Ricordiamo che Dicomano sin dalla fine del giugno 1944 è stato teatro di requisizioni e rastrellamenti tedeschi, nonché di attività di bande partigiane. Già ai primi di luglio, a seguito di uno scontro armato con i partigiani tra Monte e Santa Lucia furono catturati come ostaggi quattordici persone del luogo, poi rilasciate grazie all’intervento di don Mario Faggi pievano di Dicomano. Il 7 luglio 1944 a Contea quattro contadini furono casualmente visti da un tedesco intento a lavarsi nel torrente Sieve mentre asportavano alcune bombe da una cassa di munizioni di provenienza non nota. I quattro probabilmente intendevano usare gli ordigni per pescare, ma furono accusati invece di volerli portare ai partigiani. Dopo che furono stati fermati, ai contadini venne intimato di scavare una fossa. Probabilmente infastidito dalle numerose e reiterate suppliche che gli rivolsero per aver salva la vita, il soldato tedesco li freddò a colpi di pistola. Subito dopo l’eccidio, una ventina di persone rastrellate in zona fu condotta dai militari sul luogo dell’uccisione dei quattro contadini per prendere visione, come monito, di quanto accaduto. I militari tedeschi, venuti a conoscenza che una delle quattro vittime, Albino Cecchini, era fratello del partigiano Armando Cecchini, ucciso in località Fungaia il 20 luglio, decisero di recarsi presso l’abitazione del Cecchini in località Capraia, nella parrocchia di Celle. L’8 luglio alcuni soldati vi irruppero sterminando la madre Rosa, la moglie Maria, il figlio Antonio di appena sei mesi e una nipote lì presente di sei anni. La casa venne in seguito incendiata e le salme dei familiari mantenute a lungo senza sepoltura per ordine del comando tedesco[2]. Una strage spietata che, come ricorda anche la lapide, non deve alla guerra questi morti, bensì:

 

«Non la guerra ma la ferocia

nazi-fascista

volle l’eccidio inconsulto e barbaro

che i limiti della storia non contengono

e che gli uomini non dimenticheranno»

 

Ci spostiamo poi a Dicomano paese, precisamente a piazza Francesco Buonamici, dove troveremo la lapide dedicata al bombardamento, che recita:

 

«…prima ci sono state altre guerre.

alla fine dell’ultima

c’erano vincitori e vinti.

fra i vinti la povera gente

faceva la fame. fra i vincitori

faceva la fame la povera gente ugualmente»

(B. Brecht)

Il riferimento è al bombardamento del 27 maggio del 1944, dove fu raso al suolo quasi tutto il Paese, ad eccezione dell’Oratorio di Sant’Onofrio. Quest’ultimo fu risparmiato dagli alleati in quanto consapevoli del fatto che al suo interno fossero presenti numerose opere d’arte. Venuti a conoscenza del fatto anche i nazisti, il 30 luglio 1944 il colonnello Langsdorff, senza nessun accordo o autorizzazione da parte della Soprintendenza fiorentina, si recò a Dicomano e caricò alcuni camion tedeschi con circa 26 casse contenenti alcune sculture conservate nell’oratorio. Questa operazione venne giustificata in quanto ritenuto più sicuro allontanare le opere da territori che avrebbero potuto essere potenzialmente pericolosi per custodirle all’interno di nuovi depositi istituiti in Alto Adige (territorio in pieno controllo nazifascista). L’autorizzazione per questo spostamento venne data dal Generale Wolff, il quale diresse le operazioni di trasporto indirizzandole prima verso enti ecclesiastici, come parrocchie e monasteri, poi verso i due nuovi depositi: il Castello di Neumelands a Campo Tures e il carcere abbandonato a San Leonardo in Passiria, entrambi lungo il passo del Brennero. L’11 agosto 1944 furono trasferite a Campo Tures le opere provenienti dall’Oratorio di Sant’Onofrio. Torneranno in Toscana soltanto a guerra conclusa, il 22 luglio del 1945, con un’importante cerimonia, in Piazza della Signoria a Firenze, dove furono accolte da tutti gli abitanti della città e ricollocate nei rispettivi musei di appartenenza[3].

Dopodiché ci spostiamo di qualche centinaio di metri verso piazza Trieste, dove potremmo ammirare il Monumento ai caduti della resistenza, inaugurato nel 1964 e portante i nomi dei cittadini che hanno dato la vita per la libertà. Ultima tappa, ma non per importanza, è il Cippo di Santa Lucia, situato nell’omonima località, in ricordo di Arturo Fabbri, Armando Cecchini e Aimo Fritelli che caddero durante quel luogo durante uno scontro da arma da fuoco.

 

 

 

Note

 

[1] Antonio Curina, Fuochi sui monti dell’Appennino Toscano, Badiali, Arezzo, 1957, pp. 23-45.

 

[2] Gianluca Fulvetti, Uccidere i civili. Le stragi nazifasciste in Toscana (1943-1945), Carocci, Roma, 2009, pp. 191-192.

 

[3] Frederick Hartt, L’Arte Fiorentina Sotto Tiro, Edizioni Clichy, Firenze, 2014, pp. 150-179.

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

 

Articolo pubblicato nel novembre 2024.




Nada. Tra Storia e Letteratura

Nada Giorgi

 

Nada da giovane

Nada Giorgi con Renato Ciandri

Nada Giorgi nacque il 25 gennaio 1927 a Pontassieve, in provincia di Firenze, da una famiglia di umili origini. Negli anni dell’adolescenza, durante la Resistenza, incontrò il partigiano Renato Ciandri, noto col nome di battaglia “Baffo”, modificato in Bube da Carlo Cassola nel romanzo La ragazza di Bube [1].  Dopo l”8 settembre 1943, lui, proveniente da Volterra, si era unito al gruppo di partigiani di Pontassieve. Era infatti sfollato a Torre a Decima, presso Molino del Piano, frazione di Pontassieve dove, tramite l’amico Pietro Verniani, conobbe Nada, anch’ella sfollata con la famiglia. Ciandri -durante la Resistenza- combatté infatti in varie formazioni (in special modo nel “Gruppo di Pontassieve” e nella “Ciro Fabbroni”) nella zona fra Pontassieve, Monte Giovi e Dicomano. Nel febbraio 1944, dopo essere riuscito a sfuggire all’arresto dei tedeschi, operava stabilmente sul monte Giovi con la formazione partigiana “Stella Rossa”. Pare abbia partecipato anche alla liberazione di Firenze rimanendo ferito nei pressi della stazione di Santa Maria Novella. Il 21 agosto 1944, quando le truppe alleate liberarono Pontassieve, Bube, come anche altri partigiani, rispose alla chiamata dei partiti antifascisti e si arruolò nel gruppo volontario 22° Fanteria “Cremona”. La disciplina e le regole militari però gli andavano strette, come viene raccontato nel libro di Massimo Biagioni; il suo temperamento e l’insofferenza per gli atti che non condivideva, gli fecero collezionare ben quattordici capi d’imputazione per insubordinazione; fu condannato poi amnistiato.

«Definito “ribelle fra i ribelli” per l’insofferenza verso la disciplina e i numerosi atti di insubordinazione, alla fine della guerra venne amnistiato di un totale di sedici anni di reclusione collezionati in pochi mesi come soldato nel “Cremona”[2]».

Dopo la guerra, la storia tra Renato a Nada proseguì e i due vissero per un periodo a Volterra, dove Renato trovò lavoro come guardia municipale.

Nel maggio 1945, tornarono a Pontassieve e per la Festa della Madonna del Sasso, evento molto atteso nella zona, dove avvenne il triste fatto che riportò nell’ombra della guerra e del dolore un’intera vallata, loro erano presenti.

I due giovani si dovettero presto separare: Renato venne, infatti, coinvolto nella sparatoria avvenuta il 13 maggio 1945, proprio in occasione di quella Festa. Al Santuario della Madonna delle Grazie al Sasso, non distante da Santa Brigida, sempre nel Comune di Pontassieve, furono uccisi un Carabiniere, il Maresciallo Carmine Zuddas e suo figlio Antonio. Il conflitto era da poco terminato, ma tra le macerie ancora visibili, la popolazione era divisa dalla guerra civile.

Ogni anno, la seconda domenica di maggio, veniva celebrata una solenne Messa cantata con l’offerta dei doni alla Madonna da parte dei vari compaesani dei paesi limitrofi, seguita dalla processione con la “benedizione della campagna”, e poi ancora, il pranzo. Seguiva nel pomeriggio la festa con musiche, danze e canti.

Processione della seconda domenica di maggio in Le Grazie e miracoli al Santuario https://www.conoscifirenze.it/toscana-firenze/517-le-grazie-e-miracoli-al-santuario.html

Una giornata di preghiera e di celebrazioni religiose, sfociò però nel caos. Fuori dalla chiesa, il Rettore del Santuario e tre giovani, ex partigiani, ebbero un acceso diverbio. Il motivo, apparentemente, pare fosse legato alle vesti succinte di questi, non adatte al contesto; stando, invece, ad altre testimonianze, i giovani avrebbero indossato il fazzoletto rosso al collo, simbolo inequivocabile e motivo di diverbio. Nella discussione intervenne il Maresciallo dei Carabinieri Zuddas, Comandante della Stazione dei Carabinieri di Molino del Piano, incaricato al servizio d’ordine, necessario per il regolare  svolgimento di una festività religiosa di ringraziamento per la fine della guerra, recatosi al Sasso con la moglie e il figlio diciassettenne. Chiese spiegazioni al prete, invitandolo a fare entrare i giovani, che avevano collaborato per liberare l’Italia dai tedeschi. Il figlio però, poco distante, non capendo forse bene cosa stesse succedendo e vedendo il padre accerchiato, seppur in modo innocui al momento, pare abbia estratto una pistola e abbia sparato, uccidendo uno dei giovani, il pollivendolo Luigi Panchetti. Stando, invece, ad altre ricostruzioni, pare che alcuni partigiani avessero tentato di disarmare il Carabiniere, dopo che questi aveva sparato un colpo in aria per ristabilire l’ordine, a causa del tafferuglio creatosi. Secondo la ricostruzione degli eventi, riportati in un dettagliato rapporto dell’Arma, coincidente con le notizie riportate dai giornali e con le testimonianze che hanno dato in seguito alcuni giovani incriminati, il figlio, visto il padre in pericoli, impugnata la pistola, avrebbe sparato in direzione di uno dei giovani, tale Panchetti, colpendolo a morte. Le persone attorno fermarono i due uomini, il Maresciallo e il figlio, rinchiudendoli in una stanza della canonica, fino all’intervento di alcuni partigiani, tra cui Renato Ciandri (Bube), presente assieme a Nada alla Festa e che -secondo le accuse- sparò contro il ragazzo, uccidendolo. Morirà assieme al figlio anche Carmine Zuddas [3].

Carmine Zuddas e la sua famiglia. Davide Batzella, Maresciallo Carmine Zuddas di Serramanna (dal libro di Cassola “La ragazza di Bube”), in ASerramanna, 22 Aprile 2013, https://www.aserramanna.it/2013/04/maresciallo-carmine-zuddas-di-serramanna-dal-libro-di-cassola-la-ragazza-di-bube-2/

Secondo Nada Giorgi, dopo che il diciassettenne Zuddas ebbe colpito a morte l’ex partigiano, gli altri membri della banda, che avevano nascosto precedentemente delle armi, al contrario di Ciandri, che era disarmato, correndo verso la chiesa, invitarono Bube a non tirarsi indietro, a restare fedele ai suoi ideali. Pare, perciò, che questi abbia tentato di disarmare il ragazzo e che, dopo una colluttazione, qualcuno abbia raggiunto il giovane con una raffica di mitra. Contemporaneamente, qualcuno aveva sparato anche al Maresciallo. A testimoniare l’innocenza del Ciandri, la Giorgi avrebbe presentato anche la deposizione della moglie del Carabiniere, Margherita Rotelli, unica sopravvissuta.

La vicenda non è tutt’oggi chiara: molte le versioni dei fatti, alcune delle quali vedono il Ciandri realmente coinvolto. Ogni protagonista di quel giorno ha raccontato dettagli diversi, che rendono difficile, oggi come allora, la ricostruzione di quella giornata di maggio [4].

I giovani trovati con le armi furono portati alle carceri a Firenze, in via Ghibellina. Renato e Nada tornarono invece a casa. Presto però, i compagni del Partito comunista, al quale Ciandri sarà sempre legato, lo invitarono a fuggire, a tornare verso Volterra, onde evitare di essere arrestato. Bube era infatti il più noto tra i ragazzi del Sasso. Inoltre, le elezioni del 2 giugno si stavano avvicinando e le tensioni politiche aumentavano.

Nonostante l’invito a consegnarsi, emersa anche la possibilità di esser scagionato, Bube si dette alla macchia. Dopo giorni passati in campagna, a Torre a Decima, sopra Molino del Piano, un amico camionista di Ellera lo aiutò a tornare verso Colle Val d’Elsa. Fu in quest’occasione che Nada e Bube conobbero Carlo Cassola, “comandante Carlino”, che era stato con i partigiani in montagna ed era il figlio del maestro di Ciandri. Si conobbero in un bar e i due raccontarono la vicenda del Sasso. Cassola ne rimase colpito e offrì a Bube una sistemazione momentanea a Volterra. Sembra che i tre abbiano passato anche la giornata del 2 giugno assieme [5].

Durante il viaggio verso quella cittadina, sul pullman (o meglio sulla sita), dove Ciandri si trovava con Nada, pare ci fosse Mons. Dolfi (Ciolfi nel libro), antipartigiano convinto. Alcuni passeggeri, inferociti, pare avessero addirittura minacciato il parroco, prima che, giunti a destinazione, Cassola e Bube non avessero portato il religioso in Caserma, salvandolo così dalle aggressioni della folla [6].

Bube riprese a vivere nel paese natio, ma presto i Carabinieri lo invitarono a presentarsi al tenente. Pareva convinto a consegnarsi, ma alcuni giovani dell’Anpi di Volterra, Ciaba e Niccolò, allertati dall’Anpi fiorentino, lo invitarono a non farlo. La notte una motocicletta andò a prenderlo: scappò prima verso Pisa, poi a Milano e infine in Francia, dove trovò lavoro come operaio tappezziere. Ottenne asilo politico come comunista, ma presto ebbe la condanna in Italia in contumacia a 19 anni di carcere. Per poter restare in Francia, doveva procurarsi i documenti: tentò così di arruolarsi prima nella Legione straniera, poi fuggì in Olanda e in Tunisia, per poi tornare in Francia e riprendere la sua attività di tappezziere. L’esilio di Ciandri durò fino al 1950, quando scoperto dall’Interpool, fu estradato in Italia. Rimarrà in carcere, prima a Torino, poi per un breve periodo a Pisa, poi ad Alessandria, a Bologna, all’Elba e, infine, a San Gimignano, dove rimase fino al 1961.

Il processo si era tenuto a Torino nel settembre 1946: alla difesa dei giovani contribuirono molti pontassievesi, con una raccolta fondi organizzata nella Casa del popolo di Santa Brigida. Il secondo giorno il processo verrà spostato negli ampi locali della Corte d’Assise, dove era presente anche una delegazione di operai della Fiat-Mirafiori.

Dopo il processo, infatti, erano state arrestate dieci persone, dopo le prime indagini, sette delle quali facenti parte del Corpo Volontari della Libertà. Tutti si dichiararono colpevoli, eccetto Bube, che si è sempre dichiarato innocente [7].

Nei giorni successivi alla Festa della Madonna, infatti, erano state molte le voci ad alzarsi. Membri del CLN si recarono sul posto. Molti capi delle formazioni partigiane tentarono di giustificare quanto era successo, come Romeo Fibbi, Lazio Cosseri, Giuseppe Maggi, commissario politico della brigata “Lavacchini” e futuro sindaco di Borgo San Lorenzo. L’evento, significativo di quel clima di passaggio, di tensione e di giustizia sommaria nel dopoguerra italiano, sconvolse un’intera comunità. Chiunque si riteneva portatore di giustizia, spesso in contrasto con altri. Qualcuno giustificò l’accaduto poiché il Carabiniere era stato antipartigiano e fascista, stando a certe voci. La vicenda stessa è caduta nell’oblio, già al tempo, complice il Partito Comunista di Pontassieve, reticente e forse -inconsciamente- desideroso di guardare al futuro nel clima di psicosi generale anticomunista, tipica degli ultimi anni Quaranta.

Il 26 agosto 1951, Ciandri e la Giorgi si sposarono nel carcere di Alessandria. Nada, infatti, gli era sempre rimasta accanto e aveva sempre cercato di mantenere i rapporti con il fidanzato prima e con il marito poi, tramite lettere, scambi di fotografie e, quando possibile, con i colloqui e le visite.

Intanto Renato in carcere frequentava la scuola, [8] mentre Nada lavora a Pontassieve come fiascaia.

Nel 1953 vennero scarcerati i compagni di Bube incriminati per i fatti del Sasso, ma con una condanna di minor durata. L’anno successivo Ciandri venne trasferito al carcere di Porto Longone, all’Isola d’Elba, a causa di un violento litigio con un altro detenuto [9]. Verrà poi trasferito a San Gimignano, dove Nada poteva andare più frequentemente. Come ricorda lei stessa nel libro di Biagioni, nessuno degli ex compagni di Partito, gli era rimasto vicino.

È in questo periodo che Bube, durante una visita in carcere, ricevette da Cassola la copia del libro. Alla storia di Nada e Renato, Carlo Cassola aveva dedicato le pagine del suo celebre romanzo, La ragazza di Bube, mettendo al centro della narrazione Nada, pur lasciando che nel titolo comparisse il nome del suo compagno, Bube appunto, rilegando la sua figura come secondaria. La Giorgi non apprezzerà perciò il romanzo, non sentendosi rappresentata dallo scrittore e non riconoscendo i suoi cari in quelle pagine. Dal libro emerge inoltre un Bube colpevole; per Nada, dunque, l’opera era un’eredità negativa dalla quale doversi liberare.

Potremmo dire che il romanzo non ricalca, infatti, la vera vita dei due protagonisti, sebbene prenda ispirazione dalle loro storie. La vicenda è ambientata in Valdelsa, poco dopo la Liberazione, e non nel Pontassievese, come nella realtà. I protagonisti sono due giovani, Mara Castellucci e Bube, ovvero Nada Giorgi e Renato Ciandri, detto Baffo. Mara è una ragazza di sedici anni che vive a Monteguidi insieme al padre, comunista militante, alla madre e a un fratello, Vinicio. La vera Nada il padre lo aveva conosciuto appena in quanto morì quando lei aveva solo tre anni.

In quel paese conosce Arturo Cappellini, detto Bube. Il giovane, amico e compagno di Sante, il fratellastro di Mara morto durante la Resistenza, si era recato nel paese dell’amico per conoscere la famiglia e in questo modo avviene il primo incontro con Mara. Tra i due nasce subito una simpatia e Mara, lusingata dall’interesse del ragazzo, inizia a scambiare lettere con lui. Tutta la trama, riproposta poi da Comencini nel celebre film, è un intreccio di fantasia e qualche riferimento reale.

Come lei stessa ha detto:

Non ho mai avuto un fratello nato fuori dal matrimonio: semplicemente non ho fratelli. Non ebbi mai amanti: tanto meno uno che si chiamava Stefano. Non feci l’amore con Bube nella capanna. So bene che Cassola scrisse un romanzo, una storia in parte inventata, ma la realtà sono io. La realtà è la mia famiglia, è mio figlio Moreno… Per lui, perché non avesse mai l’idea che suo padre fosse un assassino […] [10]

Secondo il libro, infatti, dopo il loro incontro, Bube e Mara si devono allontanare: Bube è, infatti, accusato di un delitto. Era accaduto che, mentre si trovava a San Donato con i compagni Ivan e Umberto, un prete aveva impedito loro di entrare in chiesa. Secondo i ragazzi, la ragione era il loro orientamento comunista. I giovani avevano allora iniziato a protestare, e un Maresciallo dei Carabinieri era intervenuto insieme al figlio a sostegno del prete. Bube e gli amici avevano inutilmente cercato di far valere le loro ragioni e, spinti dall’ira, avevano messo il prete contro il muro. Il maresciallo aveva perciò reagito sparando ad Umberto, uccidendolo. Per vendicare l’amico, Ivan, l’altro compagno di Bube, aveva ucciso il Maresciallo. A sua volta, Bube aveva rincorso fin su per una scalinata e ucciso il figlio del Maresciallo, mentre scappava.

Mara e Bube fuggono così verso Volterra, dove abita la famiglia di lui. A bordo della corriera si trova una donna che riconosce Bube e lo sprona a dare una lezione ad uno dei passeggeri: si tratta del prete Ciolfi, il quale durante la guerra aveva collaborato con i nazisti, causando così la morte del nipote della donna. Suo malgrado, dopo essere sceso, Bube viene praticamente costretto dai presenti a picchiare il prete per poter salvare la faccia: il suo ruolo nella zona era infatti quello del Vendicatore, appellativo con il quale viene talvolta ancora chiamato dagli abitanti del posto.

Arrivato a casa dai familiari, Bube viene avvertito dal compagno Lidori del rischio di essere arrestato per il delitto commesso e gli consiglia la fuga. Qualche giorno dopo, una macchina passa a prendere Bube per farlo rifugiare in Francia, mentre Mara ritorna a casa. Nel frattempo, qualcosa in lei è cambiato: non è più la ragazza spensierata di prima e si dimostra angosciata per la mancanza di notizie da parte di Bube.

Verso novembre, Mara decide di andare a lavorare come domestica in una famiglia a Poggibonsi. Qui stringe amicizia con una compaesana, Ines, con cui esce spesso e che le presenta Stefano. Mara, inizialmente fredda, lentamente comincia ad apprezzare la sua compagnia.

Dopo un anno, Bube, costretto al rimpatrio, viene arrestato alla frontiera ed è condotto a Firenze. Mara, accompagnata dal padre, si reca a sua volta nel capoluogo toscano per un colloquio con Bube. Durante l’incontro, la ragazza si accorge che il suo attaccamento a Bube era ancora molto forte, così decide che, da quel momento, sarebbe per sempre la sua donna. Bube viene condannato a quattordici anni di carcere. Mara, tornata a Poggibonsi, racconta a Stefano di aver preso una decisione: ha scelto Bube, che andrà spesso a trovare in carcere.  Il romanzo termina con Mara che attende la liberazione del suo amato.

«I primi tempi sono i più terribili, disse poi. Ma, in seguito, ci si fa quasi l’abitudine… sono passati questi sette anni , passeranno anche questi altri sette. E poi, io cerco di non pensarci. Conto solo i giorni che mi separano dal colloquio. Perché è tale una gioia quando lo rivedo [11]…»

Tale opera sarà un vero e proprio successo editoriale, che porterà Cassola a vincere il Premio Strega nel 1960. Venne tradotta in molte lingue, rendendo celebre la storia di Baffo e della Giorgi, divenuti Bube e Mara per i lettori, dove però la finzione supera la realtà [12].

Complici la fama del libro e l’eco ottenuta [13], grazie anche all’aiuto di Cassola stesso, che si mobilitò per aiutare Ciandri ad ottenere uno sconto di pena, il 22 dicembre 1961, Renato ottenne la libertà desiderata.

Entrambi i protagonisti, però, non si sentirono rappresentati dal libro di Cassola: Ciandri lamentava di essere stato dipinto come una figura a tratti negativa, che rinnegava i compagni, il Partito, gli ideali. La storia dei sentimenti, come affermò, non era in linea con la storia dei fatti, non fedele alla realtà. Neppure Nada si sentiva rappresentata, tanto che non riuscì nemmeno a finire il libro [14].

Pian piano i due ripresero una vita normale: Ciandri trovò finalmente un lavoro al Centro Carni e ne diventerà presto socio a tutti gli effetti.

Già pochi mesi dopo l’uscita del libro, Luigi Comencini, noto regista, aveva deciso di trarne un film dove apparirono come interpreti principali, attori della caratura di Claudia Cardinale e George Chakiris, rispettivamente nei panni di Nada (Mara) e Ciandri (Bube).

Claudia Cardinale e George Chakiris in una scena del film di Comencini

Anche le vicende attorno all’uscita del film sono controverse: Renato Ciandri non voleva che venisse proiettato, in quanto avrebbe contribuito a fissare, ancor più del libro, l’immagine già stereotipata che la gente si era fatta sulla sua persona. I produttori prima promisero ai Ciandri un ricco compenso per ottenere l’approvazione per la proiezione del film, poi – vista l’irremovibilità dei soggetti coinvolti- minacciarono Ciandri e la sua famiglia di querelarli. Non erano però le uniche querele: i Ciandri a loro volta ne firmarono una per non essere stati ascoltati, la sorella di Nada un’altra per informazioni false sulla figura del marito, scomparso durante la guerra, una, infine, da un figlio del Maresciallo Zuddas, critico sulla narrazione dei fatti, oltraggiosi per la memoria del padre e del fratello scomparsi e -a suo parere- poco fedeli ai fatti [15].

Nel frattempo, dall’unione di Nada e Renato nacque un figlio nel 1963, Moreno, autore, compositore e musicista.

Ciandri presto cambierà mansione e inizierà a lavorare in ufficio. Nel clima di rinnovata serenità, partecipa attivamente anche alle cerimonie degli eccidi della Seconda Guerra mondiale, agli anniversari e alle manifestazioni, continuando a coltivare gli ideali della Resistenza [16].

A metà degli anni Settanta, «Tuttolibri», il settimanale del quotidiano «La Stampa»,  rilegge il fortunato libro di Cassola. L’inviato Lamberto Furno incontra la coppia: è l’unica vera intervista di Ciandri [17].

Quando però la vita comincia a riprendere tranquillamente il suo corso, Renato scopre di avere un tumore, che il 6 novembre 1981 lo porterà alla morte [18]. Sentiti e partecipati i funerali. Venne sepolto presso il Cimitero di San Martino a Quona, a Pontassieve. Questa l’epigrafe sulla sua tomba [19]:

“Bube”

Renato Ciandri (3-3-1924/ 6-11-1981)

E voi imparate che occorre

vedere e non guardare in aria

questo mostro stava una volta

per conquistare il mondo

i popoli lo spensero

ma ora non cantiamo

vittoria troppo presto

il grembo da cui nacque

è ancora fecondo

Brecht

Alessandro Bargellini, 16-1-2009 https://resistenzatoscana.org/monumenti/pontassieve/sepolcro_di_ciandri/

La fama innescata dal libro non si arresta, anzi, ci saranno anche rappresentazioni teatrali sulla vicenda di Bube, come quella firmata dal registra Alessandro Gatto, di grande successo.

Nada, desiderosa di lasciarsi alle spalle gli anni della Guerra e della carcerazione del marito, ma volendone mantenere viva la memoria, comincerà a fare attività nelle scuole del territorio, per parlare ai ragazzi delle classi. Si spengerà il 24 maggio 2012 a 85 anni.

Negli ultimi anni di vita, Nada, per riabilitare la memoria del marito e per lasciare ai posteri la sua versione dei fatti, incaricò Massimo Biagioni, scrittore di Storia locale, giornalista pubblicista, oggi dirigente regionale di Confesercenti, con precedenti esperienze politiche, il compito di stendere in un secondo libro la sua biografia, da cui sono tratte molte delle informazioni qui riportate. Nada ha così scacciato la Mara del romanzo, e con Renato, è voluta tornare ad essere persona e non personaggio. «Ora posso anche morire!» disse a Biagioni, stringendo la prima copia uscita dalla Polistampa. Anche il figlio Moreno ha vinto il riserbo del padre che non ne aveva voluto parlare più, per dare spazio invece al volere della mamma [20].

 

Nada Giorgi, nominata cittadina onoraria del Comune di Pelago (FI) in News dalle Pubbliche Amministrazioni della Città Metropolitana di Firenze, http://met.provincia.fi.it/news.aspx?n=182704

Note

1.Sulla vita di Renato Ciandri e sulla sua attività di partigiano, prima del 13 maggio 1945, rimando alle pagine di Biagioni, pp. 27-46.

2. Giovanni Baldini, Renato Ciandri, “Bube”, in ResistenzaToscana, 14 luglio 2003, https://resistenzatoscana.org/biografie/ciandri_renato/ [consultato il 4 novembre 2024].

3. Per un’ulteriore ricostruzione della vicenda, si veda Dania Mazzoni, Attraverso la bufera: Pontassieve fra guerra, Resistenza e ricostruzione, 1943-1948, (con una nota introduttiva di Simonetta Soldani), Comune di Pontassieve, Pontassieve 1990, pp. 142-144.

4. Diversa la versione dei fatti esposta nell’articolo di Davide Batzella, Maresciallo Carmine Zuddas di Serramanna (dal libro di Cassola “La ragazza di Bube”), in ASerramanna, 22 Aprile 2013, https://www.aserramanna.it/2013/04/maresciallo-carmine-zuddas-di-serramanna-dal-libro-di-cassola-la-ragazza-di-bube-2/ [consultato il 5 novembre 2024]. Tale versione incolperebbe infatti Bube e la sua compagnia.

5. Massimo Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, Polistampa, Firenze, 2006, pp. 51-52.

6. Rimando alle pagine di M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, pp. 52-53, per la ricostruzione delle vicende antecedenti che vedono coinvolto Dolfi.

7. D. Mazzoni, Attraverso la bufera: Pontassieve fra guerra, Resistenza e ricostruzione, 1943-1948, pp. 144-144.

8.  M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, p. 85

9. Ivi, p. 93

10. Da Sandro Bennucci, «Io, Nada, vi racconto la vera storia della ragazza di Bube», «La Nazione», 13 aprile 2006 in LeonardoLibri, [consultato il 4 novembre 2024, https://www.leonardolibri.com/recensione.php?i=3314]

11. Carlo Cassola, La ragazza di Bube, Oscar Mondadori, Milano, 2010, p. 217.

12. M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, p. 100. Per la trama del libro, vedi anche pp. 98-100.

13. Ivi, pp. 100-103.

14. Ivi, p. 109.

15. Ivi, p. 129.

16. Ivi, pp. 133-137.

17. La minuta dell’intervista è riprodotta in M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, pp. 141-144.

18. Ivi, p. 145.

19. Cfr. M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, p. 150. Nella primavera del 2005 la salma di Ciandri venne traslata in un forno non distante dalla Cappella dei caduti e degli ex combattenti di tutte le guerre.

20. Michela Aramini, Cinque anni fa morì Nada, la “ragazza di Bube”: il ricordo di Massimo Biagioni, in il Filo – Idee e Notizie dal Mugello, 24 maggio 2017 [consultato il 4 novembre 2024, https://cultura.ilfilo.net/cinque-anni-fa-mori-nada-ragazza-bube-ricordo-massimo-biagioni/]

 

Bibliografia

Biagioni Massimo, Nada, la ragazza di Bube, Polistampa, Firenze, 2006

Cassola Carlo, La ragazza di Bube, Oscar Mondadori, Milano, 2010 [prima edizione, Einaudi, Torino, 1960]

Mazzoni Dania, Attraverso la bufera: Pontassieve fra guerra, Resistenza e ricostruzione, 1943-1948, (con una nota introduttiva di Simonetta Soldani), Comune di Pontassieve, Pontassieve 1990

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo scritto nel mese di novembre 2024.




Le stragi nel Mugello (1944)

Fucilazioni. Massacri. Vittime innocenti. Sono questi gli episodi che caratterizzarono i paesi del Mugello durante l’occupazione nazifascista nel 1944, in attesa della liberazione alleata. Quale fu il significato di quelle stragi? Perché interessò proprio quella zona?  Dobbiamo prima capire cosa rappresentano le montagne circostanti il Mugello nel contesto di guerra. Stiamo parlando di valli strette e ritenute abbandonate, al limite della regione, quindi considerate sicure. Sono al contrario estremamente strategiche perché rappresentano il passaggio tra Toscana e Emilia Romagna. Un passaggio decisivo, soprattutto la parte aretina, nella primavera del 1944, quando i comandi delle brigate Garibaldi decidono di creare una grande armata partigiana che doveva operare sull’Appennino per colpire sul forlivese e sull’aretino. Un progetto poi smantellato in seguito all’operazione di rappresaglia e rastrellamento nazista, deciso subito dopo le Ardeatine, che potremmo definire il punto di svolta sulla concezione da parte di Kesselring e dei comandi nazisti del pericolo partigiano, considerato da lì in avanti potenzialmente pericolosi per le proprie truppe. Fino a quel momento non vi erano state stragi di matrice nazista infatti, era stato lasciato ai fascisti il controllo del territorio. Da quel momento cambia tutto. A quel punto, tutte le brigate partigiane che si stavano portando sull’Appennino per raggrupparsi, ovviamente devono separarsi per non essere catturate. Ed è per questo che quindi si verificò la divisione sui territori. Da quel momento l’Appennino diviene strategico, in quanto zona centrale dei combattimenti, e lo resterà finché la linea non si attesterà a Bologna, nell’autunno del 1944[1].

Dopo le Ardeatine vi è quindi un punto di svolta che portò agli episodi stragisti interessati da questo articolo e che colpirono quasi tutti i paesi del Mugello. Volendo fare una raccolta seguendo un principio temporale, la prima tragedia avvenne a Vaglia, tra il 10 e l’11 aprile 1944, nel cosiddetto «eccidio di Pasqua».

Il 10 aprile, lunedì di Pasqua, iniziò sulle pendici di Monte Morello una grossa operazione antipartigiana ad opera del Reparto esplorante della Divisione Herman Göring, comandato dal colonnello G.H. Von Heydebreck, con lo scopo di stroncare la presenza del movimento partigiano locale[1]. La mattina del 10 aprile, le compagnie del Reparto esplorante giunsero in località Cercina, nel comune di Sesto Fiorentino, razziando le case e rastrellando la popolazione civile. Proseguì poi in direzione di Paterno e Cerreto Maggio, località limitrofe poste nel comune di Vaglia. I paracadutisti fecero irruzione nella casa del guardaboschi Gabriello Mannini, dove trovarono anche la moglie Giulia, la giovane figlia e il suo sposo. Seguì una perquisizione durante la quale venne trovata una pistola, per la quale Gabriello possedeva regolare permesso. L’attestato non fu però sufficiente, dato che i tedeschi, forse già a conoscenza dell’ospitalità che Gabriello diede ad alcuni partigiani, lo condussero fuori dall’abitazione e lo uccisero con un colpo di arma da fuoco alla testa. Poco dopo, i soldati si spostano in direzione di Vaglia, in località Morlione, dove irruppero nelle abitazioni delle famiglie Biancalani e Sarti, note per la loro assistenza data ai partigiani. Furono uccisi i fratelli Giovanni e Sabino Biancalani, il colono Affortunato Sarti e il nipote Aurelio. L’operazione di rastrellamento nell’area riprese il giorno successivo. Una nuova irruzione venne compiuta in località Cerreto entro la casa dei Paoli, allora abitata dalle famiglie dei fratelli Cesare e Giovanni. Dopo la perquisizione dell’abitazione, venne intimato ai fratelli di allontanarsi. Atteso però che il gruppo giungesse alla distanza di alcune centinaia di metri, i militi aprirono il fuoco e uccisero colpendolo alle spalle Cesare Paoli[3]. Questi martiri sono oggi ricordati dal Monumento posto in via Cerretto Maggio, a Vaglia.

Ci spostiamo ora a Marradi, protagonista di due episodi efferati. Ricordiamo che Marradi, per la sua posizione strategica di confine con la Romagna e la sua rilevanza di snodo viario e ferroviario, nell’estate del 1944 costituiva un territorio di estrema importanza ai fini dell’occupazione tedesca e in particolare per l’ultimazione delle fortificazioni sul versante orientale della Linea Gotica. Proprio a protezione dei lavori di completamento della linea difensiva da possibili sabotaggi e attacchi partigiani, con ordine del 18 giugno 1944 vennero dislocate tra il Mugello e la Romagna Toscana alcune compagnie del 3. Polizei Freiwilligen Bataillon Italien, il reparto di polizia italo-tedesco guidato dal capitano Gerhard Krüger allora ancora impegnato col grosso del proprio organico in Maremma (dove si rese responsabile delle stragi di Niccioleta e Castelnuovo Val di Cecina). Il 20 giugno, i soldati tedeschi si imbatterono in un gruppo di sette giovani (tra i quali vi è il trentunenne Carlo Milanesi, di fatto, l’unico identificato del gruppo), che avevano da poco disertato dall’organizzazione Todt, dandosi alla macchia nei dintorni di Marradi. Catturati, i sette furono condotti quindi presso Villa Poggio, sede della compagnia tedesca, dove vennero interrogati e trattenuti sino al 22 giugno, quando infine furono trasportati presso il cimitero comunale di Marradi e qui fucilati[4].

Il mese successivo invece avvenne il dramma le cui ferite ancora non sono state rimarginate dalla comunità. Il 15 e il 17 luglio due tedeschi furono uccisi da dei gruppi di civili – non bande partigiane organizzate – con altri che furono feriti e costretti a scappare dal paese. La rappresaglia che ne seguì fu particolarmente dura.  I tedeschi, arrivati dal comando SS di Ronta, si lasciarono andare a grandi violenze nell’area circostante il luogo dell’attentato per 24 ore. Lo stesso 17 luglio furono fucilate 28 persone che vivevano o erano sfollate nel paese di Crespino, la mattina dopo altre 13 persone furono passate per le armi nelle località di Fantino e Lozzole, altre tre vittime furono fatte lungo le strade che collegavano i piccoli paesi. A Crespino i tedeschi passarono prima dal podere “Il Prato” e poi dal “Pigara”; i contadini che stavano lavorando alla mietitura nella zona furono tutti fermati e passati per le armi vicino al fiume. Il parroco, don Fortunato Trioschi, fu l’ultimo ad essere fucilato. La mattina dopo a Lozzole furono passati per le armi tutti i maschi della famiglia, mentre le donne furono risparmiate[5]. In memoria delle vittime sono presenti vari luoghi della memoria a Marradi: dalla lapide commemorativa posta al cimitero alla Lapide del Capanno dei Partigiani, in località Monte Lavane, ma soprattutto, l’imponente monumento-cripta ossario a Crespino sul luogo della strage.

Una breve menzione la merita anche quello che successe a Palazzuolo su Senio il 17 luglio, dove mentre tedeschi e italiani del 3. Polizei-Freiwillingen-Bataillon erano impegnati nella strage sopra descritta di Marradi, i soldati di tale reparto si scontrarono nuovamente con alcuni partigiani e, pur senza patire alcuna perdita, scelsero ugualmente di punire la comunità locale, uccidendo quattro persone.

Per l’ultimo episodio stragista ci spostiamo a Vicchio, dove il mattino del 10 luglio 1944 si presentò alla fattoria di Padulivo – che ospitava circa centocinquanta sfollati – un reparto di SS composto da una sessantina di uomini. Il proprietario, Aldo Galardi, aiutava saltuariamente le locali formazioni partigiane. Durante la perquisizione i tedeschi si accorsero della mancanza di un cavallo che era stato nei giorni precedenti requisito dai partigiani, i quali furono avvertiti della presenza dei tedeschi e tesero un’imboscata poco lontano da Padulivo mentre le SS si stavano ritirando. Cadde un tedesco e un altro rimase ferito. La rappresaglia nazista fu spietata. I soldiati tornarono indietro e arrestarono tutti coloro che trovarono e incendiarono sia la fattoria sia l’abitato circostante. Incolonnarono i prigionieri in direzione di Vicchio e giunti al ponte dove aveva avuto luogo l’imboscata giustiziarono dieci uomini e una donna. Dopo una notte di prigionia i cento catturati subirono un interrogatorio e furono rilasciati, tranne quattro uomini e tre donne. Gli uomini furono portati di nuovo nel luogo dell’agguato partigiano e uccisi, mentre le donne vennero liberate[6]. Quattordici vittime, oggi ricordate dal comune di Vicchio con una lapide posta in località Padulivo, che recita:

 

«La storia non si ripete,

se non nella mente

di chi non la conosce»

K. Gibran (1883-1931)

 

Note

 

[1] Antonio Curina, Fuochi sui monti dell’Appennino Toscano, Badiali, Arezzo, 1957, pp. 23-45.

 

[2] C. Gentile, Le stragi nazifasciste in Toscana 1943-45. 4. Guida archivistica alla memoria. Gli archivi tedeschi, Carocci Editore, Roma, 2005, pp. 37-38.

 

[3] Gianluca Fulvetti, Uccidere i civili. Le stragi nazifasciste in Toscana (1943-1945), Carocci, Roma, 2009, pp. 191-192.

 

[4] C. Gentile, Le stragi nazifasciste in Toscana 1943-45. 4. Guida archivistica alla memoria. Gli archivi tedeschi, Carocci Editore, Roma, 2005, pp. 102-103.

 

[5] Atlante delle stragi nazifasciste in Italia

https://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=4920

 

[6] Atlante delle stragi nazifasciste in Italia

https://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=2412

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

 

Articolo pubblicato nel novembre 2024.




L’eccidio di Berceto tra luci ed ombre: quando la Storia non è univoca

Una delle vicende forse più tristi, dal forte impatto morale e ancora controverse, verificatasi nelle campagne tra Monte Giovi e Pratovecchio, verso gli Appennini, è sicuramente quella di Berceto, piccola località del comune di Rufina, in provincia di Firenze, tappa del Sentiero della Memoria.

Immagine satellitare di Berceto. Fonte: Google Maps

Nel periodo tra marzo e aprile del 1944, sul Monte Giovi si riunirono pian piano vari nuclei di combattenti, fra cui il gruppo Lanciotto Ballerini proveniente da Monte Morello. Per tutto l’inverno dovettero sopportare non solo il freddo, ma soprattutto le varie marce forzate di spostamento, rese necessarie dai continui rastrellamenti operati dalle milizie repubblichine e dai reparti nazisti della divisione Hermann Goering, fatti giungere nel centro Italia con funzioni antipartigiane [1].

Ai primi d’aprile, tedeschi e repubblichini misero in atto un rastrellamento su vasta scala nella zona tra la Calvana e il monte Falterona. Incendi, distruzioni ed uccisioni indiscriminate caratterizzarono quell’operazione di polizia con l’intento di dissuadere i contadini della zona a dare aiuto ai partigiani.

Furono proprio costoro a subire le più gravi conseguenze per il sostegno dato alla causa della Resistenza. I contadini, inoltre, erano spesso succubi di un apparato agrario dominato dai grandi latifondisti, coadiuvati da fattori asserviti al regime, controllori attenti del territorio [2].

È in tale clima che avvenne l’eccidio di Berceto.

Lunedì 17 aprile del 1944, infatti, a Berceto, non distante da Pomino, sempre nel comune di Rufina, arrivarono sette uomini, che si definirono partigiani sbandati. In quei giorni, nella zona di Pomino, era presente in perlustrazione una formazione partigiana comandata da Pietro Corsinovi detto “Pietrino” (a cui faceva capo il gruppo Lanciotto Bellerini). La formazione aveva lasciato ad inizio aprile il Monte Morello, spostandosi in direzione del Falterona. Dopo i fatti di Vallucciole (frazione di Stia, in provincia di Arezzo) di Pasqua, stava rientrando verso Rufina. Corsinovi dette ordine di muoversi verso il passo della Consuma, attraverso il quale sperava di giungere al Pratomagno. Durante il trasferimento però, la squadra di Romolo Moretti “Capitan Tempesta” rimase indietro: lui riuscì a ricongiungersi con i compagni, ma sette dei suoi uomini si erano fermati in una casa colonica di Berceto, all’alba del 17 aprile [3].

Questi uomini, tutti tra i 19 e i 22 anni, erano saliti sul Monte Morello dopo l’8 settembre: tre erano fiorentini, Osvaldo Toci del Medico, detto “Sindic”, il suo futuro cognato Dino Bolognesi “Onid” e Carlo Uttummi; due erano di Carmignano, come Mauro Chiti e Adelindo Bocci; uno di Campi Bisenzio, tale Guglielmo Chiti “Teotiste”. Il settimo era un disertore austriaco della Wermacht, che si era unito agli altri solo da poco [4].

Questi chiesero al signor Lazzaro Vangelisti, uno dei coloni della vicina fattoria di Pomino dei marchesi Frescobaldi, cibo e ospitalità e pernottarono lì, nonostante Vangelisti stesso e i paesani, anch’essi coloni, avessero detto loro di non trattenersi a lungo, onde evitare rischi.

Vecchia foto di Lazzaro Vangelisti a Berceto Fonte: Vangelisti Lazzaro, Immagini, in Una vita trascorsa sotto tre regimi, Firenze, Consiglio regionale della Toscana, 2014 [2ª edizione]

 

Vangelisti nei giorni precedenti si era già mostrato solidale con i soldati alleati e i partigiani, fatto forse noto ad Uttummi e al Tesi. Quel giorno però Vangelisti si mostrò diffidente. Era infatti noto che i soldati della Divisione Göring fossero impegnati sui rilievi dei monti Morello, Falterona, Giovi e nell’area del Casentino in una grande operazione di rastrellamento antipartigiano.

I partigiani non si decisero a ripartire e, anzi, si fermarono a farsi rammendare e sistemare i vestiti dalle donne del posto, mostrandosi -secondo la testimonianza di Vangelisti- ostili, fatto che aveva destato in lui, ex post, sospetti sulle reali intenzioni dei ribelli.

Come temuto però, poco dopo, giunsero a Berceto gli uomini della Göring, tra i quali alcuni militi della 92° Legione GNR di Firenze, distaccati a Dicomano [5]. Cinque partigiani vennero catturati, due dei quali, Guglielmo Tesi e Mauro Chiti, fucilati all’istante. Gli altri, stando ai loro racconti, colpiti da un calcio, avrebbero perso l’equilibrio e sarebbero caduti, evitando così le raffiche di mitra che uccisero gli altri due ragazzi. Furono dapprima portati alla Consuma, poi a Firenze, nella Fortezza da Basso, quindi alle Murate, dove sarebbero stati torturati, prima di riuscire a fuggire, per ricongiungersi con i ribelli [6].

Nel frattempo, a Berceto, la furia dei soldati si era abbattuta sulla famiglia Vangelisti, ritenuta fiancheggiatrice dei partigiani: la moglie di Lazzaro, Giulia, assieme a quattro figlie, vennero seviziate e uccise , mentre la loro abitazione fu data alle fiamme. Lo stesso copione venne adottato nei confronti delle famiglie Ebicci e Soldeti, vicine dei Vangelisti: furono uccisi i coniugi Alessandro e Isola Ebicci, poi Fabio e Iolanda Soldeti, rispettivamente nonno e nipote, e le loro case date alle fiamme [7]. Sopravvissero solo coloro che al momento dell’eccidio si trovavano al lavoro nei campi.

Giulia Vangelisti con le quattri figlie. Fonte: Vangelisti Lazzaro, Immagini, in Una vita trascorsa sotto tre regimi, Firenze, Consiglio regionale della Toscana, 2014 [2ª edizione]

I due partigiani colpiti a morte. Fonte: Vangelisti Lazzaro, Immagini, in Una vita trascorsa sotto tre regimi

Gli Ebicci e i Soldeti. Fonte: Vangelisti Lazzaro, Immagini, in Una vita trascorsa sotto tre regimi

Elina Vangelisti, una delle figlie di Vangelisti sopravvissuta alla strage, così racconta le ore successive:

«I corpi delle vittime furono sistemati al coperto e ricomposti con la collaborazione della Signora Ada Barducci, una vedova amica di famiglia, giunta nel primo pomeriggio a dare aiuto» [8]. I corpi delle vittime, come lo stesso Vangelisti ha raccontato, era stati infatti martoriati [9].

Più tardi, sempre durante i rastrellamenti antipartigiani per indebolire la popolazione civile, i tedeschi uccisero a Cigliano, non distante da Berceto, un pastore, Giuseppe Poggiolini, e un partigiano non identificato.

Il giorno seguente, il 18 aprile, le salme furono sistemate nelle casse di castagno e il giorno successivo sepolte in un’unica fila al cimitero di Pomino come testimonia l’atto di morte della parrocchia redatto dal sacerdote don Fanetti [10].

Non erano ancora stati identificati però i due partigiani uccisi, quindi furono tumulati senza nome. Sette mesi dopo, terminata la guerra, le autorità del C.L.N. invitarono degli esponenti della Resistenza campigiana a riconoscere i due partigiani morti nella strage di Berceto. Guglielmo Tesi era infatti originario di Campi Bisenzio e fu identificato per le sue fattezze fisiche [11].

Molte le polemiche sorte dopo la fine della guerra sui fatti di quel triste giorno. Secondo Corsinovi si sarebbe trattato di una «malvagia rappresaglia» dei nazifascisti, in risposta a quello che chiamò un «combattimento» armato, a causa del quale la formazione partigiana avrebbe subito ingenti perdite [12]. In realtà non ci sarebbe stato un vero e proprio conflitto a fuoco precedente, bensì, come ha scritto Fusi, l’eccidio rientrerebbe nella «guerra ai civili», oramai in atto da settimane nel territorio toscano [13].

Secondo la testimonianza di Lazzaro Vangelisti, mosso dalla voglia di vendetta e per il grande dolore, nel gruppo di partigiani che aveva trovato rifugio presso il suo capanno, vi erano una o più spie (“falsi partigiani”) al servizio dei tedeschi, forse allertati dall’allora fattore, poi portato a processo dallo stesso Vangelisti. Basandosi sui propri ricordi, sulle spiegazioni ricevute e suggestionato da varie illazioni, Vangelisti accusò di aver ordito tale vendetta, coadiuvato da alcuni dei sette partigiani, il marchese Frescobaldi, proprietario della tenuta di Pomino e il suo fattore, Giuliano Franciolini, animati da simpatie fasciste e, a suo dire, desiderosi di fargli pagare il suo sostegno alla Resistenza [14].

Aveva mosso già tali accuse nell’aprile del 1945, quando venne interrogato allo Special Investigation Branch britannico che indagava sul caso. Lo stesso farà poi con le autorità italiane nel dopoguerra. Ne nacque una vicenda giudiziaria, sia nei confronti dei tre partigiani superstiti, sia verso il Frescobaldi e il fattore, che sfociò in un processo durante il quale «L’Unità», organo ufficiale del Pci, difese il partigiano Sindic e gli altri due accusati con un’inchiesta molto documentata. La sentenza del processo non lasciò adito a dubbi perché Sindic e gli altri vennero assolti con la formula più ampia, ovvero «per non aver commesso il fatto» [15]. Nel novembre del 1948, infatti, la sezione istruttoria della Corte di Appello di Firenze concluse che le accuse mosse verso il Frescobaldi, il fattore e i partigiani di Corsinovi erano infondate [16].

Nessuna giustizia, dunque, ha ripagato per i dolori di quel giorno, mentre luci e ombre caratterizzano , anche perché la verità giudiziaria non ha sostenuto la tesi di Vangelisti. La vicenda di Berceto è, difatti, caratterizzata da «reticenze giudiziarie e operazioni politico-culturali di rimozione di fatti ed episodi», storie troppo scomode nel secondo dopoguerra, come ha scritto l’oramai ex sindaco di Rufina Mauro Pinzani [17].

Come chiaramente scrive Fusi, si può dubitare -come fece Vangelisti- che le accuse da lui mosse fossero state insabbiate per motivi politici, dovuti alle forti polarizzazioni della politica italiana d’allora, come avvenne per altri crimini dei nazifascisti. Tuttavia, in mancanza di prove verificabili, resta lacunosa la ricostruzione dei fatti e resta difficile ipotizzare che un simile eccidio sia stato pianificato così nel dettaglio [18].

Come per molti altri eccidi, le popolazioni martirizzate hanno sempre cercato verità, senza contestualizzare però l’evento, difficile da accettare e metabolizzare, ricercando cause razionali.

Vera Vangelisti con una vecchia foto del padre Fonte: Vangelisti Lazzaro, Immagini, in Una vita trascorsa sotto tre regimi

Lazzaro Vangelisti, per avere una qualche giustizia, ha lottato a lungo con la figlia Vera, sopravvissuta alla strage e autrice di un libro, La strage di Berceto (DEA, Firenze, 2013), mentre lui ha affidato le proprie memorie biografiche e i ricordi di quel giorno ad un altro testo, intitolato Una vita trascorsa sotto tre regimi (Firenze, Consiglio regionale della Toscana, 2014 [1ª edizione 1979]). Il titolo parla da sé: Vangelisti racconta la vita che aveva vissuto durante la Prima Guerra mondiale, poi sotto il fascismo e con la Seconda Guerra mondiale, infine, quando aveva dovuto lottare ancora per avere giustizia [19].

Copertina della prima edizione del testo di Vangelisti, presentato da Vasco Pratolini, che conobbe tale testo grazie a Don Masi, prete molto vicino a Lazzaro Vangelisti.

Il libro di Vangelisti va dunque letto come una testimonianza delle atrocità commesse dai nazifascisti e come «esempio di una lacerante ricerca personale di una spiegazione e di un senso di giustizia in grado di lenire in qualche modo il peso angosciante di un’incolmabile perdita subita; ma non possono però essere intese come una ricostruzione provante delle presunte responsabilità di cui egli al tempo, pur coscienziosamente, si convinse» [20].

A proposito delle vicende di Berceto così le introduce:

«Era il 17 aprile 1944. Quel giorno ci fu troncata definitivamente la felicità che ci restava [21]».

Nel 1978, quando uscì il libro, l’autore ripropose le sue idee e le sue verità, accusando nuovamente i tre partigiani sopravvissuti, il Frescobaldi e il Franciolini.

Così parla Marzia Toci del Medico, la figlia di Sindic: «Ho scoperto solo molti anni dopo questo libro e da quel momento ho cominciato a lottare in difesa della memoria di mio padre, ritrovando documenti e sentenze e iniziando una battaglia legale che ha portato al ritiro del libro di Vangelisti. Adesso con questo volume spero che finalmente la verità sia ristabilita e accettata da tutti, anche se fino ad adesso non ho trovato disponibilità da parte di Anpi che è rimasta arroccata sulla versione del Vangelisti» [22].

Come ricordato da Francesco Fusi, Marzia Toci del Medico ha pubblicato una ricostruzione dei fatti, supportata da materiale archivistico dell’Archivio di Stato di Firenze, per riabilitare la memoria del padre, oramai scomparso (Marzia Toci del Medico, Sindic, la storia non si cambia! Albatros, Roma, 2022) [23].

Le memorie contrapposte, segnate dal tremendo trauma, restano quindi divise. La Storia deve rispettarle e soprattutto può restituire la complessità degli eventi entro cui questo episodio si è svolto, pur senza pretesa di offrire soluzioni alle legittime aspirazioni dei singoli né tanto meno sentenze.

Unidici le vittime di quel giorno, tra luci ed ombre: nove civili, tra donne, uomini e bambini e due partigiani.

Ebicci Alessandro, 78 anni

Ebicci Isola, 49 anni

Soldeti Fabio, 81 anni

Soldeti Iolanda, 19 anni

Vangelisti Giulia, 46 anni

Vangelisti Iole, 9 anni

Vangelisti Anna Maria, 3 anni

Vangelisti Angelina, 22 anni

Vangelisti Bruna,  23 anni

Chiti Mauro, 19 anni

Tesi Guglielmo, 19 anni

 

Il 17 aprile 1945, il comune di Rufina pose a Berceto una lapide in ricordo delle vittime su di una parete del casolare dei Vangelisti, teatro dell’eccidio e, nel Sessantesimo anniversario della strage, una seconda lapide in loro memoria. Infine, il 25 aprile 1972, lo stesso comune fece erigere nel centro di Pomino un cippo-monumento in ricordo delle vittime dell’eccidio [24].

Lapide per il 60° dell’eccidio di Berceto, Comune di Rufina (FI) Fonte: Giovanni Baldini, Lapide per il 60° dell’eccidio di Berceto, 2005, https://memo.anpi.it/monumenti/1615/lapide-per-il-60-delleccidio-di-berceto/

Giovanni Baldini, Monumento per la strage di Berceto, in ResistenzaToscana.it, 2 ottobre 2006

Giovanni Baldini, Monumento per la strage di Berceto, in ResistenzaToscana.it, 2 ottobre 2006

Il nome del partigiano Mauro Chiti è riportato anche su una lapide in ricordo dei cittadini caduti, posta sul Municipio di Carmignano, presso Prato, luogo da cui proveniva [25].

Lapide del municipio, Comune di Carmignano (PO). Fonte: Giovanni Baldini, Lapide del municipio di Carmignano, Memo, 2007, https://memo.anpi.it/monumenti/59/lapide-del-municipio/

Nell’aprile del 2013, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha conferito al comune di Rufina la Medaglia di Bronzo al Merito Civile per l’opposizione al fascismo e per il sacrificio pagato con l’eccidio di Berceto, «nobile esempio di spirito di sacrificio e di amor patrio» [26].

Ogni anno, in occasione dell’anniversario dell’eccidio, l’amministrazione comunale di Rufina organizza a Berceto una commemorazione delle vittime.

Tomba delle donne di Berceto, Comune di Rufina (FI). Fonte: Giovanni Baldini, tomba delle donne di Berceto, 2005, https://memo.anpi.it/monumenti/430/tomba-delle-donne-di-berceto/

Il 4 gennaio 1945, qualche mese dopo la liberazione di Firenze, al partigiano Guglielmo Tesi venne intitolata una strada a Campi, quella che un tempo era Via delle Lame [27] e dal 1947, in suo ricordo, si organizza una corsa ciclistica, la cosiddetta Coppa Guglielmo Tesi [28]. Il suo nome compare, inoltre, sul monumento ai caduti di Campi.

Monumento ai caduti e ai deportati, Comune di Campi Bisenzio (FI) Fonte: Fulvio Conti, Monumento ai caduti e ai deportati del Comune di Campi Bisenzio, 2007, https://memo.anpi.it/monumenti/51/monumento-ai-caduti-e-ai-deportati/

Stando a recenti notizie di cronaca, a Berceto potrebbero essere effettuati presto lavori di restauro per conservare la memoria di quel luogo, come Vangelisti desiderava e come la figlia Vera ha a lungo sperato [29].

Berceto oggi (https://ecomuseomontagnafiorentina.it/siti-di-interesse/berceto/)

Note:

  1. Bernardi Renzo, Conti Fulvio, Risi Mendes, Rizzo Vincenzo (a cura di), Guglielmo Tesi nella memoria di Campi Bisenzio, Comune di Campi Bisenzio, Campi Bisenzio, [2005], pp. 30-31
  2. Ivi, p. 31
  3. Fusi, Francesco, Comunità in guerra. Valdisieve 1940-1944, Pacini, Pisa, 2024, pp. 313-314
  4. Ivi, p. 314
  5. La Guardia Nazionale Repubblicana (GNR) fu una forza armata istituita dalla Repubblica Sociale Italiana l’8 dicembre 1943 con compiti di polizia interna e militare.
  6. Fusi, Francesco, Comunità in guerra. Valdisieve 1940-1944, 315-316
  7. Atlante stragi nazifasciste, Berceto, Rufina, Francesco Fusi (a cura di), https://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=2308 [consultato nel mese di maggio 2024]; sulla vicenda vedi anche Casalini, Giovanna, L’eccidio nazifascista di Berceto a Rufina, in Del Buffa, Roberto (a cura di), Cronache di guerra fra Arno e Sieve (1943-1944), Pagnini, Gorgonzola, 2011, pp.63-65
  8. Bernardi R., Conti F., Risi M., Rizzo V. (a cura di), Guglielmo Tesi nella memoria di Campi Bisenzio, cit., p. 37
  9. Vangelisti Lazzaro, Una vita trascorsa sotto tre regimi, Firenze, Consiglio regionale della Toscana, 2014, p. 75
  10. Bernardi R., Conti F., Risi M, Rizzo V. (a cura di), Guglielmo Tesi nella memoria di Campi Bisenzio, 37
  11. Ivi, , p. 37
  12. Fusi, F., Comunità in guerra. Valdisieve 1940-1944, , p. 316
  13. Ivi, cit., p. 317
  14. Ivi, pp. 317-318
  15. s., “Un libro verità sulla morte di Guglielmo Tesi. La strage di Berceto dell’aprile 1944 ha avuto sorprendenti strascichi giudiziari”, in PrimaFirenze, https://primafirenze.it/altro/un-libro-verita-sulla-morte-di-guglielmo-tesi/ [consultato nel mese di giugno 2024]
  16. Fusi, F., Comunità in guerra. Valdisieve 1940-1944, 318
  17. Pinzani, Mauro, Prefazione, in L. Vangelisti, Una vita trascorsa sotto tre regimi, p. 9
  18. Fusi, F., Comunità in guerra. Valdisieve 1940-1944, 321-322
  19. Vagelisti Vera, La strage di Berceto, DEA, Firenze, 2013; Vangelisti Lazzaro, Una vita trascorsa sotto tre regimi, Firenze, Consiglio regionale della Toscana, 2014 [1ª edizione 1979]
  20. Fusi, Francesco, Comunità in guerra. Valdisieve 1940-1944,, p. 322
  21. Vangelisti L., Una vita trascorsa sotto tre regimi, cit., p. 70
  22. Citazione di Marzia Toci del Medico, in A.s., “Un libro verità sulla morte di Guglielmo Tesi. La strage di Berceto dell’aprile 1944 ha avuto sorprendenti strascichi giudiziari”
  23. nota 61, in Fusi, F., Comunità in guerra. Valdisieve 1940-1944, p. 322
  24. Atlante stragi nazifasciste, Berceto, Rufina, Francesco Fusi (a cura di), https://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=2308 [consultato nel mese di maggio 2024]
  25. Ibidem
  26. Ibidem
  27. Bernardi R., Conti F., Risi M., Rizzo V. (a cura di), Guglielmo Tesi nella memoria di Campi Bisenzio, pp. 47-50
  28. Ivi, pp. 51-77
  29. Bartoletti, Leonardo, “La casa di Berceto restaurata dalla proprietà Frescobaldi”, La Nazione, 23 aprile 2023, https://www.lanazione.it/firenze/cronaca/la-casa-di-berceto-restaurata-dalla-proprieta-frescobaldi-f730c3b4 [consultato nel mese di maggio 2024]

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo scritto nel mese di luglio 2024.




Monte Giovi e dintorni: memorie e commemorazioni della Resistenza in provincia di Firenze

La piramide in ricordo del contributo femminile alla Resistenza In ricordo del contributo femminile alla Resistenza ed alla Costituzione dello Stato Repubblicano

Monte Giovi è un complesso montuoso situato nella provincia di Firenze, entro la dorsale appenninica di Monte Morello e Monte Senario, che separa il Mugello dal Valdarno e dalla Valdisieve. Il suo territorio è diviso tra i comuni di Pontassieve e Borgo San Lorenzo e, in misura minore, da quelli di Rufina, Vicchio e Dicomano.

Foto da Google Maps di Monte Giovi dal satellite

Il massiccio raggiunge l’altitudine maggiore nella sua cima (992 metri), ma lungo il crinale principale si trovano anche Poggio Ripaghera (914 metri) e Monte Calvana (913 metri) [1].

A dimostrazione della centralità di Monte Giovi negli eventi della Resistenza toscana, la Provincia di Firenze assieme alle Comunità montane “Montagna Fiorentina” e “Mugello” e ai comuni di Borgo San Lorenzo, Dicomano, Pontassieve e Vicchio vi hanno istituito un parco dedicato alla guerra di Liberazione chiamato, “Parco culturale della Memoria”.

Dopo l’8 settembre, giorno dell’armistizio, Monte Giovi fu uno dei luoghi dove i primi “ribelli” si aggregarono in formazioni partigiane. È qui che si costituirono alcune delle più famose brigate.

Tra la popolazione dei paesi presso Monte Giovi e coloro che parteciparono alla Resistenza si creò un legame di collaborazione. Molti, tra cui Acone, tutt’oggi luogo della memoria del Monte, offrirono rifugio, non senza ferite, come dimostrano le varie stragi nel territorio.

I partigiani ricambiarono, salvando i beni dei contadini dai sequestri che operavano i tedeschi o dall’ammasso obbligatorio che esigevano i fascisti, per poi riconsegnarli di soppiatto con la complicità dei “derubati”.

Fra i primi gruppi partigiani ci fu il “Gruppo Pontassieve” rimasto noto per la volontà di agire in totale indipendenza: i partigiani che lo costituivano non si aggregarono alle altre formazioni se non dopo il suo scioglimento. Sempre a Monte Giovi si formarono la “Faliero Pucci” e la “Spartaco Lavagnini”. Qui operarono anche la “Caiani” e la “Lanciotto Ballerini”.

Ai partigiani si unirono alcuni prigionieri di guerra russi, allora reclusi in un campo nei pressi della vetta del monte, a Tamburino, che poi avevano trovato rifugio ad Acone.

Nell’agosto del ’44 da qui partì o transitò buona parte dei partigiani che contribuirono alla battaglia di Firenze.

I tedeschi e i fascisti non restarono, però, in questi mesi, con le mani in mano. Durante la ritirata nazifascista, in vari gruppi di partigiani erano presenti anche spie e infiltrati. Il loro ruolo serviva a minare ulteriormente il rapporto tra le varie brigate e la popolazione civile, spesso vittima di ritorsioni.

Per quel che riguarda il versante pontassievese e rufinese, è bene ricordare che quel territorio, dopo l’8 settembre 1943, diventò un obiettivo di grande interesse per gli Alleati e le loro azioni aeree, essendo Pontassieve un importante snodo ferroviario e stradale, oltre ad essere sede delle Officine delle Ferrovie dello Stato. Come del resto in tutta la Toscana, i bombardamenti e le rappresaglie tedesche non mancarono, essendo stata quella toscana una terra martirizzata dalla ritirata nemica.

Monte Giovi e la sua popolazione subirono molte ferite proprio in quell’anno. A fronte del forte legame tra i partigiani e la cittadinanza, si verificarono eventi drammatici, come in molte altre zone d’Italia.

Già durante gli ultimi mesi del 1943 si erano intensificati gli scontri tra nazi-fascisti e ribelli, come dimostra il tafferuglio scoppiato a Nave di Ponte a Vico, tra Pontassieve e Rufina. Pontassieve venne inoltre presa di mira dai bombardamenti.

Nella primavera del 1944, fascisti e tedeschi avevano cercato di intercettare le formazioni partigiane tra Monte Giovi e Falterona, così come nei mesi seguenti. Nei monti del Mugello e della Valdisieve si rifugiavano molte squadre di ribelli che, via via, si andarono strutturando. Tristemente noto l’eccidio nazifascista consumatosi a Berceto (Rufina) [2][3], tappa del Sentiero della Memoria, il 17 aprile 1944. In quell’occasione, proprio durante una di queste intercettazioni, nell’incontro-scontro tra nazifascisti e partigiani, sempre per rappresaglia, furono uccise undici persone, compresi donne e bambini.

Giovanni Baldini, Monumento per la strage di Berceto, in ResistenzaToscana.it, 2 ottobre 2006

Nel frattempo, nel maggio del 1944, il movimento partigiano fiorentino fu costretto a riorganizzarsi. L’obiettivo era quello di superare il modello delle piccole formazioni autonome, per passare ad una grande formazione unica, un’unica brigata partigiana. Tale compito fu affidato dai centri dirigenti fiorentini a Aligi Barducci (“Potente”), dal 24 maggio 1944 alla guida della prima Brigata “Garibaldi”, la “Lanciotto Ballerini”. La Brigata si ricostituì proprio su Monte Giovi [4].

Anche il mese di giugno era iniziato con uno scontro tra tedeschi e partigiani, proprio sul Monte Giovi, a Monte Rotondo, presso Casa Messeri, coinvolgendo la 10° Brigata “Garibaldi”, la “Caiani”, dove morirono un partigiano e tre tedeschi. Seguirono bombardamenti degli Alleati su Pontassieve per rendere difficile ai tedeschi di raggiungere Firenze [5].

È in questo contesto che si verificò anche la triste vicenda della Pievecchia, a Pontassieve, l’8 giugno 1944, dove quattordici uomini vennero uccisi, di cui tredici fucilati durante la rappresaglia tedesca, con l’obiettivo di punire la popolazione inerme [6][7].

Pievecchia, Ok!Valdisieve

Tra il 10 e l’11 luglio 1944 si consumerà un nuovo eccidio, questa nel versante mugellano, verso Vicchio. Il mattino del 10 luglio, si presentò alla fattoria di Padulivo, a circa 6 km da Vicchio, alle pendici di Monte Giovi, un reparto di SS con circa una sessantina di uomini. La fattoria ospitava allora circa centocinquanta sfollati mentre il proprietario, Aldo Galardi, aiutava, saltuariamente, le locali formazioni partigiane.

Durante la perquisizione, i tedeschi si accorsero della mancanza di un cavallo che era stato nei giorni precedenti requisito dai partigiani. Questi furono avvertiti della presenza dei tedeschi e tesero un’imboscata poco lontano da Padulivo, quando le SS si stavano ritirando. Un tedesco venne ferito, mentre un altro morì. I tedeschi, tornati alla fattoria, arrestarono tutti coloro che trovarono, prima di appiccare il fuoco all’abitato.

Per rappresaglia, sul ponte dove avevano subito l’agguato, le SS giustiziarono, tra gli arrestati, dieci uomini e una donna; solo uno degli uomini sopravvisse. Dopo una notte di prigionia, i catturati subirono un interrogatorio e furono rilasciati, tranne quattro uomini e tre donne. Gli uomini furono portati di nuovo nel luogo dell’agguato partigiano e uccisi, mentre le donne vennero liberate [8].

In ricordo della triste vicenda è stato posto un cippo in località Padulivo nel 1994. Ogni anno, inoltre, il Comune di Vicchio con l’Anpi locale commemora l’eccidio.

Sempre sul versante mugellano, in zona Borgo San Lorenzo, villa Cerchiai, presso Sagginale, fu attaccata, verso la metà dell’agosto 1944, da alcuni tedeschi che tentarono un accerchiamento delle forze partigiane.

Nello stesso mese vi sarà la strage della famiglia Einstein , nota anche come strage di Rignano o strage del Focardo (3 agosto 1944) e la strage alle ville e fattorie di Legacciolo e di Podernovo, alla Consuma (25-26 agosto 1944), per ricordare altri tristi eventi, non troppo distanti da Monte Giovi [9].

Posteriore e ben diverso il fatto che scosse il Santuario della Madonna del Sasso, vicino a Santa Brigida, reso noto dal romanzo di Cassola, La ragazza di Bube. Il conflitto era da poco terminato, ma tra le macerie ancora ancora ben visibili, la popolazione era divisa dalla guerra civile.

Santuario del Sasso

Il 13 maggio 1945, in occasione della festa alla Madonna del Sasso, infatti, una normale giornata di preghiera e di celebrazioni religiose, sfociò nel caos. Fuori dalla chiesa, prima della funzione, il Rettore del Santuario e tre giovani, ex partigiani, si scontrarono verbalmente, a causa dei vestiti “succinti” di quest’ultimi. Nella discussione intervenne il Maresciallo dei Carabinieri Carmine Zuddas, incaricato della sorveglianza, recatosi al Sasso con la moglie e il figlio diciassettenne. La situazione degenerò: pare che alcuni abbiano tentato di disarmare il Carabiniere, dopo che questi aveva sparato un colpo in aria per ristabilire l’ordine. Stando alle testimonianze, il figlio, impugnata la pistola, avrebbe sparato in direzione di uno dei giovani, il pollivendolo Luigi Panchetti, colpendolo a morte. Le persone attorno fermarono i due uomini, il Maresciallo e il figlio, rinchiudendoli in una stanza della canonica, fino all’arrivo di alcuni partigiani, tra cui Renato Ciambri (Bube), che sparò contro il ragazzo, uccidendolo.

Vennero arrestate 10 persone, dopo le prime indagini, 7 delle quali facenti parte del Corpo Volontari della Libertà. Tutti si dichiararono colpevoli, eccetto Bube.

Il processo si tenne a Torino nel settembre 1946: alla difesa dei giovani contribuirono molti pontassievesi, con una raccolta fondi organizzata nella Casa del popolo di S. Brigida.

La dinamica non è tutt’oggi chiara, Bube si è sempre dichiarato innocente, ma l’evento è significativo di quel clima di passaggio, di tensione e di giustizia sommaria nel dopoguerra italiano. Chiunque si riteneva portatore di una giustizia, spesso in contrasto con le altre. Qualcuno giustificò l’accaduto poiché il Carabiniere era stato antipartigiano e un fascista, stando a certe voci. La vicenda stessa è caduta nell’oblio, già al tempo, complice il Partito Comunista di Pontassieve, reticente e forse -inconsciamente- desideroso di guardare al futuro nel clima di psicosi generale anticomunista, tipica degli ultimi anni Quaranta [10].

La vicenda ispirò Carlo Cassola che la raccontò nel suo romanzo, La ragazza di Bube [11], dal quale Comencini trasse la storia per farne un film. Nada Giorgi, protagonista del libro assieme al marito, non sentendosi ben rappresentata da Cassola, ha in seguito delegato a Massimo Biagioni la scrittura di un altro libro sulla vicenda (Biagioni M., Nada. La ragazza di Bube, Edizioni Polistampa, 2006) [12].

Nessuna lapide ricorda l’evento al Santuario e non vi sono commemorazioni e cerimonie ufficiali al riguardo.

Monte Giovi è rimasto invece un luogo simbolico della Resistenza locale, dove ogni anno si tiene una vera e propria festa dei Partigiani e dei Giovani. Una festa per socializzare e commemorare, come viene definita. L’evento si tiene proprio nel versante pontassievese, presso Acone, piccola frazione in collina.

Tutti gli anni, a cominciare dal 1949, il secondo fine settimana di luglio, l’ANPI della provincia di Firenze con la collaborazione delle Case del Popolo dei paesi vicini, delle Pro-loco e altre associazioni organizza una festa sulla cima del Monte. La manifestazione si articola in due giorni, il sabato dedicato ai giovani, con spettacoli e balli che durano fino a notte fonda, e la domenica, quando si tengono, invece, le commemorazioni e le orazioni ufficiali. Visto che la strada dalla Rufina è lunga ed arrivare ad Acone non è semplice, in molti campeggiano nell’abetina di Fonte alla Capra.

Nella due giorni sono anche attivi stands gastronomici, si effettua la vendita di libri tematici e altre manifestazioni che variano ogni anno [13].

 

Panel presso Acone

 

Monumento in ricordo della Resistenza ad Acone

 

La piramide in ricordo del contributo femminile alla ResistenzaIn ricordo del contributo femminile alla Resistenza ed alla Costituzione dello Stato Repubblicano

La piramide in ricordo del contributo femminile alla Resistenza
In ricordo del contributo
femminile alla Resistenza
ed alla Costituzione
dello Stato Repubblicano

 

Spiazzo ad Acone, dove si tiene-ogni anno-la Festa dei partigiani e dei giovani

 

Note:

[1] Vivi Acone! https://viviacone.it/acone/luoghi-da-visitare/monte-giovi/ [consultato nel maggio 2024]

[2] Vangelisti, Lazzaro, Una vita trascorsa sotto tre regimi, Consiglio Regionale della Toscana, Edizioni dell’Assemblea, 2014

[3] Atlante stragi nazifasciste, Berceto, Rufina, https://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=2308 [consultato nel mese di maggio 2024]

[4] cfr.  Fusi, Francesco, Comunità in guerra. Valdisieve 1940-1944, Pacini, Pisa, 2024, pp. 322-323

[5] cfr. Ivi, p. 322

[6] Atlante stragi nazifasciste, Pievecchia, Pontassieve, https://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=2400 [consultato nel mese di maggio 2024]

[7] cfr. Biagioni, Massimo, Achtung! Banditen! L’eccidio di Pievecchia a Pontassieve, Polistampa, Firenze, 2008

[8]Atlante stragi nazifasciste, Ponte a Vicchio e Strada Padulivo-Vicchio, https://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=2412  [consultato nel mese di maggio 2024]

[9] Atlante stragi nazifasciste, Consuma, Pelago, https://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=2371 [consultato nel mese di maggio 2024]

[10] Mazzoni, Dania, Attraverso la bufera. Pontassieve fra guerra, Resistenza e ricostruzione (1943-1948), Comune di Pontassieve, 1990, pp. 142-144

[11] Cassola, Carlo, La ragazza di Bube, Einaudi, Torino, 1960

[12] Biagioni M., Nada. La ragazza di Bube, Edizioni Polistampa, Firenze, 2006

[13] Baldini, Giovanni, Monte Giovi, ResistenzaToscana.it, (9 gennaio 2004), https://resistenzatoscana.org/storie/monte_giovi/ ]

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nel luglio 2024.