Il progetto “Resistenze, femminile plurale. Storie di donne in Toscana”



Sai chi sei? Sai a che cosa sei chiamata? Per cosa vale la pena vivere e morire? Che cosa è giusto fare? 

Rompere con clamore o resistere in silenzio nel quotidiano. Tuffarsi al centro del campo di battaglia o restare ai margini – parete, pilastro, confine, protezione; grembo e custode del dolore degli altri. O entrambe le cose? 

Invisibile o sfrontata, mani impeccabili o spellate, sporche d’inchiostro o di farina, mitra in spalla o in casa a dar di pedale sulla macchina da cucire. In quanti modi puoi lottare? 

(Benedetta Tobagi, La Resistenza delle donne, Einaudi, 2022)

 

Il progetto Resistenze, femminile plurale. Storie di donne in Toscana vuole accompagnare le celebrazioni dell’80esimo della Liberazione dell’Italia dal nazifascismo, ponendo al centro dell’attenzione il tema della Resistenza femminile con una campagna social divulgativa.

Sulla base della documentazione raccolta negli archivi della Rete toscana degli Istituti della Resistenza e dell’età contemporanea si è voluto impostare un “album di famiglia” che ritraesse alcune delle donne coinvolte, con vari e diversificati ruoli, nella lotta di Liberazione dei nostri territori.

Vera Vassalle

50 biografie di donne toscane saranno proposte sui social (facebook e instagram) degli Istituti della rete dal 14 aprile all’8 maggio, due al giorno, e ampliate confluiranno progressivamente in questa pagina di ToscanaNovecento, con l’intento di farne la base per un futuro database sul partigianato femminile in Toscana, via via aggiornabile e quindi preludio a ulteriori e più approfondite ricerche.

Laura Seghettini a Parma nella manifestazione dopo la Liberazione (Archivio ISRA)

Al di là di una complessa e forse impossibile ricostruzione quantitativa, infatti, ciò che è apparso necessario – e ha costituito la spinta per tutto questo – è stato fare, a 80 anni di distanza, il punto sullo stato dell’arte delle conoscenze sulla Resistenza femminile in Toscana. Un obiettivo possibile se si radunano in questo unico spazio virtuale le ricostruzioni realizzate dagli istituti nel corso degli anni, a partire da questo primo nucleo, a campione, di cinquanta donne su cui tracce documentarie sono presenti all’interno degli archivi degli Istituti storici della rete toscana. Fra loro cinque delle diciannove medaglie d’oro al valor militare conferite a donne nel dopoguerra, ma anche storie molto meno note che pur meritano la stessa attenzione.

Un lavoro da continuare, quindi, che richiede risorse finanziarie e i tempi lunghi della ricerca storica, ma che si è voluto simbolicamente avviare a 80 anni dalla fine della guerra di Liberazione. Cosa rimane nella memoria di oggi di quelle vicende cruciali per l’Italia, infatti, è tema dibattuto. Ma quale sia la conoscenza dei percorsi biografici delle donne che a quella lotta presero parte è certamente ben poca, al di là dell’immagine standardizzata delle staffette diffusamente loro attribuita.

Francesca Rola con i partigiani della formazione “Ulivi” (Archivio ISRA)

Le loro storie a volte non sono emerse nemmeno nella narrazione resistenziale del dopoguerra. In quel racconto del partigianato, eroico e tutto al maschile, avviatosi fin dal 1945, rimaneva infatti un tabù il tema del rapporto fra le donne e l’uso della violenza. Una riflessione che le “poche feroci” (secondo la definizione di Jean Bethke Elshtain) ci consegnano attuale anche oggi, in un momento in cui la rappresentazione della Resistenza pare a volte farsi tutta disarmata.

Invece, come dimostrano molte delle biografie proposte da questo progetto, la Resistenza, o meglio le diverse Resistenze delle donne implicano differenti gradi di coinvolgimento nelle azioni armate su cui sarebbe opportuno tornare a riflettere, come hanno iniziato recentemente a fare alcuni storici, per analizzare concretamente i molteplici ruoli rivestiti dalle resistenti e l’attività da loro effettivamente compiuta in un contesto a prevalenza maschile.

Francobollo commemorativo di Tina Lorenzoni

La storia delle donne, anche toscane, ha del resto proprio nell’esperienza della guerra e della Resistenza uno dei suoi punti nodali, forse il più importante momento di cesura: da lì in poi le loro vicende si sviluppano con traiettorie esistenziali variegate che le portano a uscire dalla dimensione prettamente domestica e a cominciare ad agire nello spazio pubblico.

La loro partecipazione alla Resistenza è indubbiamente variegata: sono partigiane, patriote, resistenti. Per la maggior parte di loro vale ciò che scrive la storica Anna Rossi Doria quando sottolinea come nella scelta delle donne di prendere parte al movimento di Liberazione vi sia un passaggio dalla compassione (vicina a quella categoria del “maternage di massa” introdotta da Anna Bravo nel 1991) alla solidarietà, e dalla solidarietà all’impegno politico in prima persona.

Fra le molte qui raccontate, infatti, ci sono alcune che fin dall’8 settembre prendono parte o sostengono la lotta armata, sulla scia di un antifascismo le cui origini possiamo ricercare nel contesto familiare o nella rete delle relazioni fra i pari. Ma vi sono anche le altre che, a partire da pratiche di autodifesa sociale necessarie durante la guerra, sviluppano quella che si può definire un’intenzione antinazista e da lì si muovono più o meno gradatamente sui percorsi variegati della Resistenza civile.

Da sinistra Israele (Lele) Bemporad, Liliana Cecchi, Bumeliana Ferretti Pisaneschi, Enzo Giorgetti (in secondo piano e con il volto parzialmente coperto dal fucile), Marino Gabbani, Lina Cecchi, un uomo russo non identificato e Lea Cutini (o Ilva Raffaella Ferretti) (© Press Association, Inc. )

Proprio le biografie femminili, del resto, hanno portato storiograficamente all’attenzione quell’insieme di comportamenti che hanno come matrice comune il disconoscimento della legalità fascista e che oggi riunifichiamo sotto questa categoria interpretativa. Comportamenti che, così come l’ingresso in banda o la salita “ai monti”, traggono sempre però origine da una precisa scelta resistenziale.

Le storie qui raccontate, se ricostruite sul lungo periodo, come si è tentato di fare, mettono in evidenza le motivazioni molteplici alla base di quella scelta, siano esse politiche o di altra natura, e come esse talvolta proseguano nella lotta di classe, attraverso i ruoli politici assunti da talune nel dopoguerra, e si intersechino alle battaglie per i diritti delle donne, ma non solo.

In quei percorsi femminili, insomma, ritroviamo in parte la genesi dell’oggi, così come nella Resistenza ritroviamo l’origine della democrazia italiana, attraverso la Costituzione. Ma per poter parlare di queste donne spesso bisogna andare in cerca di loro fra le pieghe della narrazione, superando gli ostacoli rappresentati dall’assenza di fonti e soprattutto dall’assenza di memorie. Ecco cosa questo progetto ha tentato di fare, non come conclusione ma come inizio di un percorso.

Ofelia Giugni

__________

🟧 Coordinamento progetto:

Ilaria Cansella

🟥 Gruppo di lavoro:

Ilaria Cansella, Teresa Catinella, Francesca Cavarocchi, Laura Mattei, Matteo Mazzoni, Barbara Solari, Catia Sonetti

🟩 Istituti coinvolti:

Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea

 Istituto storico della Resistenza Apuana e dell’età contemporanea

Istituto storico aretino della Resistenza e dell’età contemporanea

Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’età contemporanea

Istituto storico della Resistenza e della Società contemporanea nella provincia di Livorno

Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea in provincia di Lucca

Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea in provincia di Pistoia

Biblioteca Franco Serantini di Pisa

Fondazione Museo e Centro di documentazione della deportazione e della Resistenza di Prato

Istituto storico della Resistenza senese e dell’età contemporanea

🟦 Con il sostegno di:

           




“Non solo staffette…”. Le donne nelle carte delle formazioni partigiane toscane: una (parziale) ricognizione.

Avvertenza: il testo che segue è una versione ridotta e riveduta di un intervento presentato dall’autore al convegno Si fa presto a dire “staffette”. Le donne nelle carte delle formazioni partigiane svoltosi il 25-26 novembre 2024 presso la Casa della Memoria di Milano. Il convegno intendeva promuovere una proposta di ricerca dedicata al tema della presenza delle donne nelle carte delle formazioni partigiane. Attualmente il progetto, sotto il titolo Censimento di fonti sul ruolo delle donne nelle formazioni partigiane, è in fase di inizializzazione ed è promosso da Istituto Nazionale Ferruccio Parri e Consiglio Nazionale delle Ricerche – Dipartimento di Scienze umane e sociali, patrimonio culturale (CNR-DSU), in collaborazione con la rete degli istituti associati alla Rete Parri.


Che senza la partecipazione delle donne la Resistenza al nazifascismo, anche quella in armi, non sarebbe stata possibile – in Italia, così come in tutta Europa – è un’affermazione perentoria quanto cristallina che nessuno oggi, informato sui fatti e privo di qualsiasi pregiudizio, si sentirebbe certo di smentire. Per lungo tempo, però, l’immagine e il giudizio prevalenti sul conto del ruolo giocato dalle donne all’interno della Resistenza italiana furono di tutt’altro segno. Poiché della già di per sé esigua minoranza che riuscì ad aggregarsi alle formazioni partigiane, solo una minima parte poté farlo a tutti gli effetti in qualità di combattenti in armi – vuoi per scelta personale vuoi a causa di radicati pregiudizi di genere che le costrinsero a ruoli più tipicamente femminili – della loro esperienza, a guerra finita, si ricordò prevalentemente i “compiti di cura” e non già le minoritarie ma a volte significative “mansioni di guerra”, troppo limitate e sporadiche, appunto, per emergere nel prevaricante paradigma memoriale del “maschio guerriero” con cui la Resistenza fu a lungo raccontata.

Perché le cose cominciassero a cambiare si dovette attendere, come noto, almeno la fine degli anni Sessanta, quando grazie a un radicale ribaltamento di prospettiva e all’emergere di una nuova consapevolezza politica da parte del nascente movimento femminista, le individualità, le intenzioni, le speranze, le illusioni – insomma le biografie di molte resistenti – tramite lo strumento dell’oralità e della testimonianza personale (ri)guadagnarono spazio e centralità, divenendo così fonte e risorsa determinante per una diversa interpretazione del ruolo storico giocato dalle donne. L’asse portante del paradigma armato della Resistenza ne risultò così profondamente incrinato a favore di altre progettualità ed esperienze, le quali poi, nei decenni a seguire, trovarono più idonea sistemazione in nuove e plurali categorie storiografiche di Resistenza (variamente definita come “senz’armi”, “civile” ecc.) entro le quali la gamma delle mansioni e del ruolo ricoperto dalle donne risultò assai più ampia, ricca, in ogni caso “diversamente” centrale per la sopravvivenza del movimento resistenziale. Non più e non solo, perciò, staffette o combattenti, secondo la tradizionale dicotomia escludente che le aveva sin lì relegate prevalentemente (e spesso con un diverso giudizio di valore) entro il primo dei due termini, ma più variamente, informatrici, sabotatrici, agenti oltre le linee, propagandiste, portaordini, infermiere, cuoche, ecc. ecc. Una varietà di mansioni e responsabilità che portò a riconoscere in esse il perno centrale e indiscutibile attorno al quale i partigiani poterono di fatto creare e mantenere i loro fondamentali collegamenti con il territorio e la popolazione civile e rurale.

La ricchezza del quadro poté esser raggiunta solo grazie all’emergere delle fonti della soggettività (memorie personali, diari, interviste, testimonianze dirette) raccolte e messe a disposizione per la prima volta da pioneristici lavori, di cui spesso le stesse donne si resero protagoniste, oltreché come testimoni dirette, anche come ricercatrici e storiche. Anche in Toscana, come in altri contesti regionali che avevano conosciuto importanti movimenti di resistenza, questi primi lavori cercarono coraggiosamente di andare oltre la tradizionale parzialità e reticenza delle fonti coeve ai fatti, quelle prodotte cioè nel farsi degli eventi o subito dopo la fine del conflitto dalle stesse formazioni partigiane e dagli organi dirigenti della Resistenza. La pubblicazione nel 1978 da parte del Comitato femminile antifascista per il 30° Anniversario della Resistenza e della Liberazione della Toscana del volume Donne e Resistenza in Toscana[1] costituì ad esempio un primo importante, benché per certi versi ancora incerto, tentativo di far emergere sui pochi documenti d’archivio e le consolidate ricostruzioni disponibili la voce diretta delle protagoniste[2]. Nonostante il valore aggiunto dei nuovi squarci conoscitivi proposti, il volume, soprattutto per alcune province, prendeva atto di un certo effettivo ritardo nella partecipazione femminile alla Resistenza, limite che veniva giustificato richiamando, da un lato, i tempi relativamente brevi della Resistenza toscana – la quale, nonostante la sua consistenza e il suo carattere intenso di lotta, era durata meno al confronto con quella sperimentata nelle regioni dell’Italia settentrionale – e, dall’altro, il peso della tradizionale struttura economica mezzadrile della regione, nella quale, alla centralità produttiva svolta dal lavoro delle donne non era corrisposta, a causa dell’isolamento da loro patito all’interno delle famiglie tradizionali, un’altrettanta centralità sociale che fosse in grado, soprattutto nelle campagne, di coinvolgere attivamente madri e figlie nelle organizzazioni antifasciste e resistenziali[3].

Comitato femminile Antifascista, “Donne e Resistenza in Toscana”, Giuntina, Firenze 1978

È curioso, ma al tempo significativo, che questi stessi caratteri che avrebbero costituito un freno alla partecipazione delle donne toscane al movimento resistenziale, dai primi storiografi della Resistenza venissero invece proposti positivamente come i tratti originali del modello resistenziale toscano, che era stato appunto temporalmente breve ma assai combattivo e capace soprattutto di farsi trovare nel momento di avvio del processo di liberazione dei territori regionali, inaugurato nell’estate del 1944, a uno stadio piuttosto avanzato di maturità politica e militare; un modello resistenziale che, oltretutto, se proprio in quel decisivo frangente era risultato vincente, lo doveva soprattutto alla stretta saldatura prodottasi tra mondo mezzadrile e Resistenza, tra contadini e partigiani[4]. Una conferma in più, insomma, d’una Resistenza sin lì letta ancora con un’ impostazione piuttosto carente sul piano della sensibilità di genere. Una lettura che, d’altra parte, anche la stessa documentazione partigiana coeva ai fatti tendeva spesso a confermare, anche se forse con qualche potenziale sfumatura in più.

Tornare a interrogare le carte partigiane del tempo, non già per chiedere a esse materiali e stimoli utili ad uno studio sulla storia delle donne nella Resistenza, quanto invece per indagare in modo possibilmente meno liquidatorio e parziale quale immagine (per quanto sfocata, silente, artefatta o limitata possa risultare) nei diversi contesti operativi e territoriali quelle stesse carte ci restituiscono dei percorsi e delle traiettorie femminili, può forse essere un tentativo valido e fruttuoso ai fini di un più approfondito studio sulla Resistenza tout court. Cogliere in sostanza “cosa” quelle carte partigiane – che intercettano, registrano o di contro tacciono la presenza femminile nelle formazioni partigiane – ci dicono della Resistenza stessa. Può essere che ne emerga un ritratto già noto e per certi versi stantio, ma anche che invece ne affiorino a tratti sfumature insolite e persino elementi inattesi. Certo, ciò se si è disposti a ritornare sulle carte delle formazioni – per così dire – senza pregiudizi di genere (da entrambe le parti), ma con la consapevolezza di quanto negli anni è stato acquisito grazie alla sollecitazione della soggettività delle protagoniste del tempo. Si tratta, naturalmente, di una ricerca ancora in buona sostanza da fare, anche per il caso toscano.

Quanto segue, non è perciò che una assai parziale e approssimativa restituzione di un primo tentativo di carotaggio condotto senza alcuna pretesa di esaustività su un campione assai ristretto di fonti partigiane coeve, raccolte nel fondo Resistenza armata in Toscana. Si tratta di un fondo conservato presso l’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età contemporanea, nel quale sono contenute relazioni, bollettini, corrispondenza e documentazione varia (in originale e, soprattutto, in copia) relativa a tutte le formazioni partigiane della regione.

Come molte altre serie documentali sulle formazioni toscane, anche per questo fondo esiste almeno un limite euristico che è il caso di premettere e che è connesso al problema della “coevità” delle fonti che raccoglie. Gran parte della documentazione che vi si conserva è costituita infatti dalle relazioni generali sull’attività delle formazioni che, in quanto stese nella gran parte dei casi a partire dalla liberazione dei territori dove queste ultime operarono, sono spesso di qualche mese successive ai fatti descritti. Vi è naturalmente anche corrispondenza e documentazione prodotta nel farsi degli eventi, ma questa costituisce una minoranza, e spesso è oltretutto lacunosa e incerta nei riferimenti. Delle relazioni generali delle formazioni, dunque, conosciamo già i conclamati limiti come fonti: esse costituiscono intanto documenti performativi, che puntano cioè a proporre una raffigurazione della Resistenza rispondente ad alcuni obiettivi successivi, quali quelli del riconoscimento partigiano, e pertanto risultano sensibili a diverse variabili, quali ad esempio i diversi rapporti di forza esistenti tra i partiti dell’unità antifascista. Oltretutto, il più delle volte, questa documentazione, che (con pochissime e quasi del tutto rare eccezioni) è scritta da uomini, riproduce una visione sostanzialmente combattentistica e marziale della Resistenza, priva perciò di un’equanime sensibilità nel registrare il diverso coinvolgimento e lo squilibrio dei ruoli tra i generi. Se la performatività di queste fonti rispetto al problema della partecipazione delle donne agisce spessissimo da filtro, va detto però che non sempre lo fa secondo le logiche di una deliberata esclusione o di un sostanziale ridimensionamento al ribasso del ruolo delle donne. A volte, infatti, emerge dalle relazioni partigiane l’interesse e la preoccupazione a che il ruolo e la presenza delle donne – seppur comunque difficile da inquadrare al di là delle consuete mansioni assistenziali loro riconosciute – non risultino però sottodimensionate. Da parte di qualche estensore di relazione si dichiara persino l’augurio esplicito a che alle proprie gregarie – benché presentate semplicemente come staffette – in nome del coraggio e del sacrificio dimostrati venga riconosciuta la qualifica di partigiane combattenti, indipendentemente da che i requisiti assai stringenti della normativa di riferimento lo consentano o meno.

(ISREC – Lucca) La viareggina Didala Ghilarducci con il compagno Ciro Bertini “Chittò” che seguì sulle Alpi Apuane per combattere i nazifascisti

Certo, l’impressione generale che si ricava da una ricognizione parziale di questo tipo, è che non vi siano stravolgimenti rispetto a quanto ci immaginiamo possa emergere sulla partecipazione delle donne dalle carte partigiane . Affiora però di contro e anche a dispetto dell’uso totalizzante della categoria di “staffette” una maggiore varietà dei campi di impiego del personale femminile, con mansioni e incarichi, continuativi o occasionali, che a volte si muovono lungo un confine piuttosto labile tra funzioni logistico-assistenziali e attività strettamente connesse con l’azione armata vera e propria (anche se poi,  rispetto a quest’ultima, le donne appaiono più spesso nelle vesti di coadiuvanti dei compagni maschi). Continua comunque a resistere alla luce della nostra parziale ricognizione, l’idea complessiva di una specializzazione delle donne all’interno delle formazioni declinata in attività preferenzialmente assistenziali o informative, specializzazione che è certo anche frutto di un’esclusione da un concorso in armi più rilevante prodotto negli estensori delle relazioni dal permanere inconscio di quadri mentali di riferimento che guardano alla presunta minorità (fisica, morale, emotiva) delle donne.
Talvolta, questa minorità filtra in modo esplicito nella documentazione partigiana stesa dai comandi, anche se come elemento forse inconscio legato a retoriche e strategie espressive consuetudinarie e introiettate: «benché donne…», pare talvolta di leggere in tralice nelle argomentazione dei loro comandanti, come a voler dire che non poche delle loro gregarie sembrano quasi sorprendere questi ultimi per le capacità di imporsi sacrifici e rispondere coraggiosamente al dovere che impone la lotta di Liberazione, quasi non fossero da meno degli uomini. Formule avversative di questo tipo non sono rare e se anche sono utilizzate per esprimere in realtà giudizi positivi su quelle singole personalità che si dimostrano in qualche modo capaci di superare le aspettative, spesso al ribasso, che la loro condizione di genere sembra suggerire, in realtà risultano sintomatiche di un filtro tipicamente maschile nella lettura dei caratteri individuali.

Le signorine Wanda Giorgi, Editta Pinelli e Alfonsine Blasta, riferisce ad esempio Vittorio Turri il comandante del servizio informazioni della Divisione partigiana “Lunense”, «benché tutte assai giovani», dimostrano «una serietà e una abilità non comune» e in parte, appunto, inattesa[5]. Di Maria Zannoni, lo stesso Turri dice d’essere questa «una delle migliori staffette sia per l’età che per l’aspetto»[6]. L’indulgere nell’osservazione della forma estetica, se può risultare fuori luogo, sottende probabilmente il fatto che quest’ultima può costituire al tempo una dote e un’arma utile nell’espletamento di una funzione non di rado attribuita al personale femminile, quella cioè della “persuasione” o, come recita la formula moralmente più compromettente spesso usata nelle carte partigiane, della “corruzione” del nemico, che, al pari di una seduzione, viene raggiunta da queste temerarie anche attraverso il loro personale fascino. Nel giugno del 1944, il comandante della 32° Brigata Rosselli “Renzo Galli”, che opera a Siena, dopo la cattura da parte dei tedeschi è processato e condannato a morte; tuttavia, si legge in un rapporto, «elementi femminili» appartenenti alla formazione «corrussero le sentinelle», di modo che il Galli poté approfittare, fuggendo ai suoi carcerieri attraverso una fogna[7]. Nel pistoiese, Giuliana Giavazzi della Brigata GL, mentre si «intratteneva coi militi» della GNR lasciava il tempo ai compagni di introdursi nella caserma per sottrarre armi e munizioni[8]. La già citata Wanda Giorgi, informatrice della Divisione “Lunense” e prima di essa della 4° Brigata “Ligure” operante in Lunigiana, nubile, ventenne, presumibilmente avvenente, si manteneva «in continuo contatto con i soldati tedeschi e fascisti» a cui «sapeva estorcere le notizie più importanti». Anche quando catturata dai tedeschi il 5 dicembre 1944, aggiungeva il rapporto, «ella sosteneva lo stretto interrogatorio senza fare alcuna rivelazione che potesse nuocere ai suoi compagni»[9].

Quella informativa, lo si sa, è una delle mansioni, assieme a quella di staffette, in cui le donne bene o male si specializzano, anche perché, come riconoscono i comandi, a loro è concessa una libertà che i compagni maschi non possiedono. Scrive, a riguardo, nella sua relazione conclusiva Antonio Mattesini, maresciallo di fanteria già appartenete al comando del SIM prima dell’8 settembre e poi ideatore nell’aretino di un nucleo clandestino di informazioni militari poi inglobato nella 23° brigata Garibaldi “Pio Borri”: «si è notato che i più anziani di età e le donne in specie (…) sono sempre stati i più abilissimi informatori in quanto indisturbati penetrano con facilità nei ritrovi e nei luoghi attingendo le più sicure fonti militari»[10]. E pur tuttavia, nonostante questa ammissione, l’impiego effettivo dell’elemento femminile nel centro informativo del Mattesini risulta piuttosto minoritario. Su 41 agenti attivi, 39 sono uomini e solo 2 donne, per di più sorelle (Rosa e Savina Palombi), mentre ancora tra i collaboratori occasionali 28 sono uomini e 4 donne. Decisamente più nutrita risulta invece la rappresentanza femminile entro il Servizio Informazioni Militari della citata Divisione Garibaldi “Lunense”, la formazione ispirata nell’agosto 1944 da Roberto Battaglia al confine tra Garfagnana e Lunigiana. Il servizio dispone infatti di una dozzina di «addette a vari osservatori», sorta di «staffette di vigilanza» alle quali è dato il compito di osservare da punti prestabiliti, spesso coincidenti col luogo di residenza o la sede lavorativa, tutti gli eventuali spostamenti di fascisti e tedeschi che esse poi riferiscono al comando della Divisione. Questo personale femminile svolge talvolta anche missioni mobili che comportano anche il doversi infiltrare presso il nemico nel tentativo di estorcere informazioni. È il caso della già citata Wanda Giorgi o di Editta Pinelli “Annetta” «in frequente contatto con i soldati tedeschi e fascisti» ai quali – viene detto della seconda – «sapeva prendere le notizie più importanti»[11]. Molte di queste informatrici sono per lo più giovani, nubili, spesso insegnanti o impiegate pubbliche nei comuni della zona da dove accedono perciò a informazioni preziose sugli occupanti. Vi sono però altre che vengono da famiglie contadine, come nel caso di Fanny Pellegrini di Fivizzano, e che oltretutto vivono nel difficile contesto di guerra disagiate condizioni economiche. Altre ancora sono sposate e hanno famiglia e prole, fatto questo che le espone ulteriormente a un pericolo maggiore. Arduina Grassi Incerti ne ha addirittura sei di figli; Maria Altieri, casalinga, ha tre bimbi in tenerissima età coi quali, oltretutto, è costretta a passare il fronte quando la sua attività di informatrice viene scoperta ed è perciò letteralmente inseguita dai tedeschi che le devastano pure casa[12].

Il “mimetismo” relativo cui beneficiano le donne nel contesto dell’occupazione, dove sono gli uomini a esser di per sé stessi sospetti, le rendono perciò adatte per compiti di collegamento e raccolta di informazioni, attività che richiedono mobilità e, appunto, passare inosservate. Aspetto, questo, che registrano puntualmente le carte partigiane: «il servizio di collegamento», si legge negli incarti della Brigata “Buozzi” legata al Psiup fiorentino, «doveva esser fatto attraverso il nostro elemento femminile, dato che ad esso soltanto poteva esser permessa una certa libertà di circolazione»[13]. Similmente si esprime anche il comandante della Brigata Garibaldi “Gino Menconi” operante sulle Apuane: «è di valore incalcolabile l’opera svolta dalle donne nel campo dei collegamenti sia nei momenti di stasi che in quelli di combattimento. Il maggior numero di staffette fu sempre reclutato fra le donne ed esse si dimostrarono insuperabili in determinati servizi che richiedevano la massima prudenza»[14].

Sui rischi in cui le staffette possono incorrere la casistica è sterminata, come i pericoli nei quali possono potenzialmente incappare. Giusto alcuni esempi che le carte delle formazioni toscane ci riportano. Il 3 luglio 1944 le sorelle Lidia e Anna Lia Innocenti, staffette della 23° Brigata aretina “Pio Borri”, sono inviate attraverso le linee nemiche nell’area di Rigutino per appurare l’eventuale spostamento delle artiglierie tedesche. Svolgono il loro incarico egregiamente, ma sulla via del ritorno sono seguite da due militari tedeschi che, insospettiti, si fanno condurre presso l’abitazione delle due giovani. Qui, accusate di spionaggio, le costringono a un duro interrogatorio: «siccome le due donne tengono un contegno sprezzante», si legge nel report della formazione, i militari le violentano. Anna Lia viene tragicamente uccisa sul momento, assieme alla madre che tenta di opporsi, mentre Lidia rimane gravemente ferita[15]. Il 7 luglio, un’altra collaboratrice di una compagnia di un battaglione poi rifuso nella stessa Brigata “Pio Borri” viene uccisa dai tedeschi nella zona di Castiglion Fiorentino in Val di Chiana durante un’analoga missione oltre le linee volta ad accertare la dislocazione e la consistenza delle artiglierie tedesche. La donna è Gabriella Brogi, una cittadina belga che porta il cognome del marito italiano, Pericle Brogi (il nome effettivo, che le carte partigiane non dicono, è Gabriella Maria De Jaquier De Rosée), e che si era fatta collaboratrice del movimento locale di resistenza sin dalle prime fasi. Fatto abbastanza singolare, a seguito della sua tragica morte, le sarà intitolata la 2° compagnia (“Gabriella Brogi”) del 2° battaglione della 23° Brigata “Pio Borri”[16]. Nell’agosto del 1944, in piena battaglia di Firenze, ci sono staffette che, come Teresa Cantini passano più volte il fronte tedesco attestato sul Mugnone per collegare gli insorti nei quartieri sotto controllo nemico con i comandi militari partigiani installati nella parte già liberata della città[17]. La staffetta Dina Giannelli, mentre si reca a portare una comunicazione al comando del distaccamento SAP del PCI prima zona di Firenze, viene colpita a morte da raffiche di mitragliatrice, mentre poco dopo un ordigno colpisce una sua compagna, la staffetta Lida Salani, che rimane gravemente ferita[18]. Il 3 settembre 1944, Giuliana Barbetti, 23 anni, staffetta del comitato militare del CLN di Lucca, incaricata di portare attraverso le linee alle avanguardie alleate rilievi topografici sulle fortificazioni tedesche della Gotica, incappa in un infernale fuoco d’artiglieria ed è ferita gravemente da schegge di granata al fianco e alla gamba[19].

(ISRT) Tina Lorenzoni, crocerossina e staffetta della Brigata GL “V”. Catturata e uccisa dai tedeschi durante la battaglia di Firenze.

Contrariamente agli esempi sopra riportati, ci sono formazioni, operanti in contesti di periferia e dal relativo valore militare, che non sembrano invece voler esporre i propri effettivi femminili a rischi inutili, anche se non è chiaro fino in fondo se ciò sia conseguenza di una consapevole volontà di salvaguardia dell’elemento femminile o di un’implicita ammissione della loro inadeguatezza a mansioni di guerra, o entrambe le cose. La Sap di Fibbiana, Montelupo Fiorentino, ad esempio, ha solo due donne all’attivo: Clara Pozzolini, che è un’impiegata dello stato civile del comune a cui sono stati attribuiti compiti di vigilanza, e la staffetta Maria Cioni. Come ci tengono a sottolineare i comandi nella relazione, sono però i soli effettivi maschi della formazione che vengono «impiegati in azioni pericolose», anche se poi la Cioni, che grazie alla sua conoscenza dell’inglese si troverà a far da interprete con le avanguardie alleate, dovrà espletare comunque questa sua mansione «anche in momenti particolarmente pericolosi per il violento cannoneggiamento»[20]. D’altro canto, nelle aree in cui si combatte, qualsiasi funzione anche non direttamente marziale attribuita al personale femminile si rivela lo stesso rischiosa: «pericolosissimo pure era il servizio di raccolta e di porta feriti disbrigato in maniera lodevole dalle staffette femminili», si legge nei report della Brigata Garibaldi fiorentina “Sinigaglia”, una delle più combattive. La Brigata GL “Vittorio Sorani”, attiva nei giorni della battaglia per Firenze nel quartiere fiorentino di Rifredi, allora sotto occupazione tedesca, organizza un ambulatorio clandestino per l’assistenza alla popolazione civile. Una sua effettiva, Tina Lorenzoni, crocerossina e tra le più attive staffette fiorentine, accompagna una partoriente in condizioni non ottimali «attraverso la linea nemica sotto varie raffiche di mitragliatrice» fino nel centro della città, già in mano alleata[21]. Non molto dopo, come noto, la stessa Lorenzoni, nel corso di un’altra missione di infiltrazione oltre le linee nemiche sulle colline a nord di Firenze verrà catturata e fucilata dai tedeschi.

Nella documentazione partigiana, non di rado si trovano a riguardo del personale femminile notazioni che rimandano ad attività collaterali all’azione militare vera a propria, spesso legate al sabotaggio, le quali, se non implicano nella pratica l’uso delle armi, richiedono quantomeno il possesso di conoscenze tecniche o un minimo di dimestichezza bellica e balistica normalmente appannaggio delle componenti maschili. Le due staffette della citata Brigata “Buozzi”, Lidia Albertoni e Ludovica Marcella Paperini, mentre la formazione è impegnata a Firenze sulla linea del Mugnone, vengono incaricate di recarsi oltre il tracciato difensivo tedesco «per individuare i punti di collocamento delle mine» che devono esser fatte brillare per rallentare la ritirata tedesca[22]; un compito che, immaginiamo, presupponeva il possesso di qualche cognizione sul funzionamento e la portata degli esplosivi. Meno complessi, tecnicamente, ma non meno rischiosi risultano altri incarichi di sabotaggio, talvolta affidati a personale femminile interno o esterno alle bande. La signora Poggi, ad esempio, collaboratrice della formazione comandata dal capitano della regia Marina Giuseppe Cecchini e attiva nella bassa valle del Serchio, in provincia di Lucca, veniva spesso incaricata dal comando di «recarsi in determinati punti a tagliare i fili telefonici»[23].

La questione capitale del porto effettivo delle armi da parte del personale femminile sembra invece sfuggire o appena trapelare dalla documentazione collazionata per questa parziale ricognizione. Ogni volta che nelle carte si trovano descrizioni dettagliate su azioni militari e se ne indicano i membri che ne prendono parte, molto raramente compaiono tra essi nomi femminili. La ragione, naturalmente, è ovvia e rispecchia l’effettiva esiguità della partecipazione in armi da parte delle donne aggregate alle formazioni nel contesto di combattimenti. È oltremodo significativo, comunque, il fatto che le volte in cui si trovano nei documenti riferimenti di questo tipo non di rado è in conseguenza di un coinvolgimento improvviso e casuale da parte di staffette o componenti femminili in scontri col nemico . Nel resoconto relativo a un attacco subito dalla 4° compagnia del 1° battaglione della 23° Brigata aretina “Pio Borri”, ad esempio, delle patriote Detti Concetta, Ciofini Ester e Romani Anna Maria si specifica che «accorse sul posto di combattimento ad informare il comandante di compagnia circa i movimenti tedeschi vengono coinvolte con i partigiani nel combattimento e rimangono anch’esse ferite»[24]. Diversamente, in un contesto d’emergenza in cui gli effettivi partigiani scarseggiano, come accade ad esempio in una situazione di prima linea, può esser richiesto alle stesse staffette di svolgere attività di vigilanza armata e quindi, all’occorrenza, l’uso delle armi. Tra il 9 e il 10 agosto 1944, si riporta ad esempio in un report della 3° Brigata “Rosselli” impegnata nella liberazione di Firenze, «dato il precipitare della situazione tutti, indistintamente, dai comandanti alle staffette femminili, prestarono ininterrotto servizio armato».

La guerra partigiana nelle carte delle formazioni risulta principalmente affare per uomini. D’altra parte, la lente tradizionale attraverso la quale si legge da subito quell’esperienza è tipicamente maschile e mette al centro del discorso le virtù marziali, i valori combattentistici, la morte, gli eroismi. La partecipazione femminile, pur se molto più articolata, continua perciò a rimanere espressa con formule discorsive e retoriche prettamente ancillari, che ne mettono in luce semmai il ruolo di assistenza materiale e morale alla Resistenza in armi. Non è però questo sguardo, così parziale e soggettivo, esito esclusivo del fatto che a compilare le carte delle formazioni siano quasi sempre partigiani maschi. Appare significativo in tal senso che, anche per il caso toscano, questa visione ancillare della Resistenza delle donne trovi alcune conferme persino in quelle pochissime relazioni stese da attiviste e compagne responsabili di organizzazioni femminili legate alla Resistenza. Un esempio, tra altri, può essere la relazione stesa da Flora Giannini, responsabile del gruppo femminile della SAP di Carrara legata alla FAI (Federazione Anarchica Italiana). Si tratta di sette cartelle fitte che rivendicano al gruppo di donne in questione una gamma di attività in grado di spingersi ben oltre i meri aiuti materiali forniti ai partigiani delle Apuane e che abbraccia invece anche servizi di spionaggio, di porta armi e munizioni o di cura morale e psicologica ai combattenti. C’è, inoltre, racchiusa in quelle pagine, la netta rivendicazione di un’adesione indefessa e incondizionata da parte delle donne carrarine alla causa della Resistenza, adesione che non si cura dei sacrifici e delle difficoltà subite, e che anzi vuol porre in sodo la capacità di resistenza e adattamento delle donne della formazione alle stesse dure condizioni di vita in montagna che sperimentano i partigiani in armi. Ma, oltre a questo, pare emergere in filigrana come il loro ruolo, per quanto effettivo ed entusiasta, risponda a una vocazione orientata a dare tutto in funzione dei partigiani combattenti, che esse seguono infatti quasi come ombre, fornendo loro tutto ciò di cui essi abbisognano e non sono in grado di procurarsi. Una certa idea di sussidiarietà, forse imposta dalla forma mentis della società del tempo o forse in parte anche dalla volontà di toccare in chi doveva legger e valutare quel documento le giuste corde sentimentali e psicologiche, non era perciò del tutto assente nel modo con cui si descriveva da parte delle stesse protagoniste la collaborazione del gruppo femminile. Peraltro, il tutto espresso con un linguaggio intriso di patos sacrificale che non si discostava molto da quello infuso in molte altre relazioni partigiane di fatti d’armi:

Per le brave compagne non esistevano né pesi né fatiche, ma animate da quel coraggio che è forza e fede dell’ideale seguivano quei prodi da uno sganciamento all’altro, sotto il tiro del cannone e sotto il fischio della mitraglia, pur di portare loro il necessario: armi, munizioni e viveri abbondanti. Esse erano messaggere in tutti i pericoli, sempre pronte alla voce del dovere di giorno e di notte, non arrestandosi davanti a nessun ostacolo pur di portare a termine le loro missioni […] Esse con fulgido esempio sfuggendo alle insidie nemiche, salivano i monti affrontando tutti i pericoli, sfidando la morte per portare non solo il pane, nutrimento materiale, ma la loro buona parola che era conforto morale a quei prodi, che celati tra le creste frastagliate, passavano i giorni pieni di tristezza e privazioni, lontani dalle loro case, dai loro cari, dove un pensiero costante li portava ogni dì, dove l’attesa di quella libertà li tendeva frementi d’azione. Era vicino a loro, che esse si portavano dopo i duri combattimenti per raccogliere i feriti, prodigando loro cure ed attenzioni, dando sepolture occasionali e degne per toglierli dalle mani del nemico e toglierli al loro oltraggio.[25]

Anche quella della partigiana-Antigone che, come la grossetana Norma Parenti, a suo rischio personale sottrae i corpi dei compagni caduti all’oltraggio del nemico assicurandone contro il divieto di quest’ultimo degna sepoltura – una funzione caritatevole quanto rischiosa, coraggiosa quanto deflagrante sul piano della disobbedienza al comando della guerra nazifascista –, è elemento che trapela talvolta nelle stesse carte partigiane, anche se forse non in tutta la sua pienezza di significato.

(ToscanaNovecento) Norma Parenti, antifascista e partigiana grossetana, catturata, seviziata e uccisa dai tedeschi. Medaglia d’oro al valor militare.

Da questa ricognizione incerta e parziale, sfuggono invece molte altre questioni, sulle quali talvolta, ma non sempre, le carte partigiane tacciono o si mostrano reticenti, ma che proprio per questo sono però altrettanto importanti. Tra queste, ad esempio, il problema della convivenza e della condivisione degli stessi spazi e delle stesse condizioni di vita partigiana all’interno delle formazioni tra personale maschile e femminile, e dunque la questione della moralità e della disciplina che tali rapporti sollevano. Come ha ricordato tra altri Santo Peli, la presenza di donne giovani e potenzialmente desiderabili tra le file partigiane sollevò talvolta da parte dei comandi decisi «moralismi», volti a frenare l’insorgere nella truppa maschile di speculari «fantasie»[26], moralismi che lasciarono tracce entro i codici disciplinari che le singole formazioni si diedero e nei provvedimenti disciplinari che i comandi in alcuni casi sanzionarono. Tracce, queste, talvolta recuperabili nei carteggi e nella documentazione partigiana coeva.

Altra questione che trapela dagli incarti partigiani, con sensibile accelerazione a partire dalla vigilia della fine della guerra, è quella inerente il problema del riconoscimento partigiano per staffette e, più in generale, per il personale femminile. Considerazioni e sensibilità anche divergenti sul da farsi presero in quel frangente ad animarsi tre le stesse file partigiane. Sicuramente, da un lato, agì da parte di alcuni comandi la volontà di mantenere la guerra di Liberazione nell’alveo del paradigma combattentistico del maschio guerriero, certificandone perciò i suoi effettivi come tali e mantenendo di conseguenza la partecipazione femminile su di un piano meramente assistenziale. Dall’altro, invece, non mancarono preoccupazioni contrarie, perché si tenesse conto cioè, premiandolo adeguatamente, del valore non solo sussidiario e simbolico del contributo offerto alla Resistenza dalle donne. Il tenente di fanteria Luigi Geri, comandante della formazione “Valoris” collegata al PCI di Pistoia, ad esempio, dopo aver parlato dell’opera svolta dalle sue staffette Liana Pisaneschi e Marina Capponi chiudeva la sua relazione generale con queste parole: «Ritengo doveroso segnalare l’operato delle staffette che si sono prodigate sprezzando il pericolo, fino all’inverosimile, portando attraverso le maglie nemiche armi, munizioni e materiale di propaganda. A queste, pur non avendo partecipato a combattimenti deve spettare la qualifica di partigiane combattenti»[27].

Talvolta, come può leggersi nei carteggi che si scambiano i comandi partigiani toscani già a partire dalla fine del 1944, nella compilazione dei ruolini e nel rilascio dei primi attestati può succedere che alcuni di essi si dimostrino un po’ laschi nel concedere a collaboratrici e patriote il riconoscimento di partigiane combattenti, talvolta facendo ciò a scopi puramente assistenziali, talaltra seguendo anche logiche premiali su base politica o dietro mirate raccomandazioni. Situazioni che però si scontrarono spesso con chi, non solo insisteva perché il rilascio delle qualifiche rispecchiasse i criteri di legge, ma si dimostrava preoccupato di contenere l’esperienza resistenziale entro un canone puramente combattentistico e, come tale, eminentemente maschile. Di fronte alla troppo leggera concessione di alcuni tesserini attestanti la qualifica di partigiane combattenti per una ventina di donne della fiorentina Brigata Garibaldi “Sinigaglia”, un piccato esposto inviato nel settembre 1944 al comando delle Garibaldi fiorentine protestava asserendo trattarsi in quel caso di donne chiamate in realtà dalla formazione «a disimpegnare il lavoro di pulizia, di cucina e di sguattere». Valutata la situazione, in quel caso il comando garibaldino propose di considerarle perciò come «servizio ausiliario», includendole tra le richiedenti la qualifica di «patriota»; grado che poi la Commissione regionale toscana riconobbe per alcune di loro. Almeno una di esse, sappiamo,  fece ricorso alla Commissione di secondo grado per ottenere il titolo di partigiana combattente, che tuttavia le fu rigettato[28].

Che vi siano nella documentazione partigiana coeva spunti e appigli ancora utili per approfondire e problematizzare alcune fondamentali questioni potenzialmente in grado di illuminare non solo (o non tanto) il ruolo effettivo della partecipazione femminile alla Resistenza ma in senso più in generale la stessa conoscenza complessiva della vicenda resistenziale e partigiana è qualcosa per cui davvero può valer la pena di riprendere le carte d’archivio e interrogarle con dovuta acribia e rinnovata sensibilità.

 

 

 

[1] Comitato femminile antifascista, Donne e Resistenza in Toscana, La Giuntina, Firenze 1978.
[2] P. Gabrielli, Antifascisti e antifasciste, in M. Palla (a cura di), Storia della Resistenza in Toscana, vol. 1, Regione Toscana-Carocci, Roma 2006, p. 42.
[3] L. Mattei, La partecipazione delle donne, in AA.VV., Storia della Resistenza senese, Istituto Storico della Resistenza Senese e dell’Età Contemporanea “V. Meoni”, Betti editrice, Siena 2021, pp. 191-192.
[4] Per un esempio classico di questa interpretazione storiografica del modello resistenziale toscano cfr. R. Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Einaudi, Torino 1979, p. 357.
[5] Archivio Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età contemporanea (AISRT), Resistenza armata in Toscana, b. 3, fasc. 7.5.2 Divisione Garibaldi Lunense, Servizio Informazioni Militari, Relazione sull’attività svolta dal Servizio Informazioni Militari della Divisione Garibaldi Lunense, p. 26.
[6] Ivi, Elenco dei partigiani del S.I.M. (Servizio Informazioni Militari) della Divisione Garibaldi Lunense, p. 13.
[7] Ivi, b. 1, fasc. 3.1.3 XXII Brigata Fratelli Rosselli, Div. GL 32° Brigata Carlo Rosselli, si vedano i riferimenti alle date del 29 e 26 giugno 1944 nelle due diverse versioni presenti dell’Elenco delle azioni.
[8] Ivi, b. 5 [4], fasc. 15.13 Brigata GL Pistoia, relazione a firma del comandante la Brigata Riccardo Morosi e del comandante la XII zona Vincenzo Nardi, pp. 2-3.
[9] Ivi, b. 3, fasc. 7.5.2 Divisione Garibaldi Lunense, Servizio Informazioni Militari, Elenco dei partigiani del S.I.M. (Servizio Informazioni Militari) della Divisione Garibaldi Lunense, pp. 4-5.
[10] Ivi, b. 1, fasc. 1.1.16 XXIII Brigata Garibaldi “P. Borri”, III Btg., Relazione organico forza e sue variazioni centrale e compagnia “I”, Costituzione del nucleo clandestino d’informazioni di Castel Focognanon (Arezzo), p. 3
[11] Ivi, b. 3, fasc. 7.5.2 Divisione Garibaldi Lunense, Servizio Informazioni Militari, Elenco dei partigiani del S.I.M. (Servizio Informazioni Militari) della Divisione Garibaldi Lunense, p. 5.
[12] Ivi, pp. 4, 12, 14; ivi, Relazione sull’attività svolta dal Servizio Informazioni Militari della Divisione Garibaldi Lunense, p. 29.
[13] Ivi, b. 2, fasc. 5.1.2.13 Divisione Potente brigata B. Buozzi, Relazione sulle operazioni clandestine ed azioni di guerra della III zona settore S, 1 agosto 1944, p. 5.
[14] Ivi, b. 3, fasc. 7.3.1. Brigata Garibaldi “Gino Menconi”, Relazione Brigata Garibaldi “Gino Menconi”, collegamenti, p. 13.
[15] Ivi, b. 8 [Resistenza in Toscana], fasc. 29.3 Relazione sull’attività della 2° compagnia “Gabriella Brogi” del II battaglione della XXIII Brigata Garibaldi “Pio Borri”, 3 luglio 1944, pp. 21-22.
[16] Ivi, 7 luglio 1944, pp. 24-25.
[17] Ivi, b. 2, fasc. 5.1.2.13 Divisione Potente brigata B. Buozzi, Relazione dell’attività svolta dalla squadra socialista di Peretola nel periodo maggio-agosto 1944, p. 1.
[18] Ivi, b. 2, fasc. 5.1.5 Sap I zona PCI Firenze, Relazione dell’attività svolta dalla costutuzione delle Squadre d’azione SAP fino allo scioglimento, p. 12; ivi, Rapporto relativo all’attività svolta dalla 2° compagnia I zona, p. 2.
[19] Ivi, b. 3, fasc. 8.1 Comitato militare clandestino dei patrioti lucchesi, Relazione, ottobre 1944, p. 40.
[20] Ivi, b. 1, fasc. 3.1.4 Sap Fibbiana, Attività svolta, p. 1.
[21] Ivi, b. 2, fasc. 5.1.2.3 Brigata V, Relazione della Brigata “V”, 29 dicembre 1944, pp. 3,6,
[22] , b. 2, fasc. 5.1.2.13 Divisione Potente brigata B. Buozzi, Relazione sulle operazioni clandestine ed azioni di guerra della III zona settore S per la Liberazione di Firenze, p. 6.
[23] Ivi, b. 3, fasc. 8.8. Formazione Cecchini, Relazione del capitano della regia marina Cecchini Giuseppe, Lucca, 2 novembre 1944, p. 3.
[24] Ivi, b. 1, fasc. 1.1.8 XIII Brigata Garibaldi “Pio Borri” I Btg. IV Cpg., Attività operativa, 14 luglio 1944, p.
[25] Ivi, b. 3, fasc. 7.1.4 SAP F.A.I., Relazione militare femminile (Gruppo Flora) SAP-FAI, p. 2.

[26] S. Peli, La Resistenza in Italia. Storia e critica, Einaudi, Torino 1004, p. 215.
[27] Ivi, b. 5, fasc. 15.22, Banda Valoris, Relazione, Pistoia, 3 maggio 1946, p. 7.
[28] Ivi, Anpi Firenze, b. 3, fasc. Carteggio 1944 non datato, istanza a firma Marco Pieri al Comando Divisione Potente e ai vecchi comandanti della Brigata Sinigaglia e risposta a firma di “Gracco” e altri del 20 novembre 1945.




Cattolici e RSI in Toscana (1943-1944)

Il rapporto tra Chiesa cattolica e fascismo è oggetto di una lunga stagione di studi che, culminata nella monografia di L. Ceci (L’interesse superiore, 2013), ha gettato luce sui momenti, i protagonisti e i caratteri essenziali di quella relazione; ciò detto, perfino a ottant’anni dalla Liberazione le conoscenze restano a tratti lacunose.

Uno dei problemi principali concerne quella parte – esigua sul piano numerico ma assai attiva, rumorosa e influente – del laicato e soprattutto del clero che, lungi dal limitarsi all’obbedienza nei confronti delle autorità civili, militari e religiose, aderì con entusiasmo alla RSI. Alcuni esempi sono noti: pensiamo ai cappellani militari, oggetto di un volume fondamentale di M. Franzinelli (1991); oppure a quanti animarono periodici come «Italia e civiltà» (Firenze), «L’Italia cattolica» (Venezia) e soprattutto «Crociata italica» (Cremona), diretta da don Tullio Calcagno e studiata già negli anni Settanta da A. Dordoni. Nel complesso, però, la storiografia, inclusa quella di matrice cattolica, ha mostrato un interesse assai limitato e i contorni del gruppo restano vaghi, rendendo opportune indagini più approfondite.

Per quanto concerne l’area toscana, teatro di episodi tra i più violenti e drammatici della guerra di Liberazione, il caso più eclatante ebbe per protagonista il vescovo di Massa C.A. Terzi, che dopo la Liberazione fu accusato di acquiescenza eccessiva ai tedeschi e finì – unico nell’episcopato italiano – per dimettersi. Che dire però di altri attori, scivolati in parte o del tutto nell’oblio? Al fine di evidenziare il carattere trasversale del consenso alla RSI, capace di interessare le diverse componenti della compagine ecclesiale, questo intervento si soffermerà brevemente su quattro figure di diversa natura: un cappellano militare, un delatore, un parroco di campagna e un intellettuale.

Il cappellano militare

Originario di Bologna, Sergio Baccolini (1913-1997) entrò nell’ordine benedettino vallombrosano con il nome di Gregorio. La notizia della belligeranza lo colse a Roma, nel monastero di S. Prassede, da dove – animato da fervente patriottismo e da profonda ammirazione nei confronti del Duce e del Führer – chiese invano di essere nominato cappellano militare. Trasferito a Pescia e quindi a Firenze, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 funse da collegamento tra le SS e la famigerata Banda Carità e quindi, nell’aprile 1944, ottenne l’agognata nomina a cappellano. Forte della nuova posizione, Baccolini avviò un’intensa opera propagandistica sui fogli della RSI, culminata in un violentissimo articolo contro i chierici “traditori” apparso nel giugno 1944 su «Repubblica» (l’organo del Partito fascista repubblicano a Firenze). All’inizio del luglio 1944, quando la battaglia per la liberazione della città era ormai imminente, l’autore fu assegnato alla Polizia repubblicana di Toscolano Maderno (Brescia), dove continuò a dispiegare lo zelo politico abituale, collaborando con i fogli farinacciani «Crociata italica» e «Il Regime fascista» e riuscendo a farsi ricevere da Mussolini. Baccolini rimase nelle fila della Polizia repubblicana fino alla fine del gennaio 1945, quando a seguito di una denuncia anonima rassegnò le dimissioni da cappellano. La sua vicenda durante gli ultimi, concitatissimi mesi di guerra resta poco chiara; certo è che dopo l’insurrezione generale fu arrestato e internato nel campo di Bresso (Milano), da dove fu liberato nel 1946 grazie anche all’intervento del cardinale-arcivescovo di Milano A.I. Schuster. Sospeso a divinis ed espulso dall’ordine, visse a Milano, aderì alla massoneria e in seguito si convertì all’ortodossia, contribuendo alla realizzazione del primo viaggio di La Pira in URSS (1959). Dopo una serie di spostamenti si stabilì infine a Torino, divenendo una figura di riferimento per la comunità ortodossa locale e nazionale. Nel 1984, a Lisbona, fu consacrato vescovo del capoluogo piemontese dal metropolita Gabriele, della Chiesa ortodossa autonoma del Portogallo, e mantenne l’incarico fino alla morte.

Il delatore

Un altro esponente dell’ordine vallombrosano a Firenze fu il romano Epaminonda Troya, in religione Ildefonso (1915-1984). Da vicario cooperatore della parrocchia di S. Trinita, collaborò per un breve periodo con gli azionisti fiorentini ma nel novembre 1943 fu arrestato dalla Banda Carità e decise di passare dalla parte dei fascisti. La sua carriera di delatore e “confessore” al servizio della Banda Carità fu breve ma le sue azioni restarono impresse nella memoria delle vittime, turbate dalla freddezza, dal sadismo e dal cinismo del frate. Pienamente soddisfatte, nel gennaio 1944 le autorità fasciste gli consentirono di operare a Roma, dove il mese successivo il religioso svolse un ruolo essenziale nell’irruzione della Banda Koch nell’abbazia benedettina di San Paolo fuori le mura, rifugio di decine di ebrei e antifascisti. Sospeso a divinis dai superiori, egli si recò a Milano e quindi a Cremona, con l’incarico di spiare Farinacci e il suo entourage per conto del ministro degli Interni Buffarini Guidi. La missione ebbe successo, al punto che Troya pubblicò su «Crociata italica» diversi articoli in cui difendeva apertamente la delazione come strumento legittimo di lotta politica e religiosa da parte di chierici e laici. Benché screditato agli occhi della S. Sede, egli sfruttò la confusione generale e i contrasti ai vertici dell’Ordinariato militare per divenire, nonostante la sospensione a divinis, tenente cappellano della GNR prima a Trieste (dove ebbe diversi scontri con il vescovo A. Santin) e quindi a Verona. Al termine delle ostilità fu arrestato, processato e condannato insieme ai superstiti della Banda Koch, restando in carcere fino al maggio 1953. Il carcere non ne mutò le idee, come attestano le lettere di protesta scritte ancor dopo la liberazione per protestare contro l’iscrizione al Casellario politico centrale. Dopo il 1962, le tracce dell’ex delatore si perdono: sappiamo solo che visse nel paese natale, in provincia di Roma, e che poco prima di morire fu riammesso al sacerdozio.

Il parroco di campagna

Uomo di pensiero più che d’azione, il parroco della chiesa di S. Lucia a Terzano (una frazione di Bagno a Ripoli) Leone Frosali (1892-1972) è una figura diversa e decisamente meno nota rispetto a Baccolini e Troya. La mancanza di documenti impedisce di gettare luce sulla sua condotta tra l’entrata in guerra dell’Italia e l’armistizio di Cassibile; dopo l’8 settembre, però, egli aderì con convinzione alla repubblica di Mussolini, destando una certa sorpresa tra la popolazione. Tale adesione prese la forma di un’intensa campagna giornalistica, che lo portò a divenire una firma familiare ai lettori di «Repubblica» e «Crociata italica». Nei suoi scritti si ritrovano i capisaldi del discorso portato avanti dall’area ecclesiale incarnata da don T. Calcagno: l’opposizione irriducibile a ebrei, comunisti, protestanti, massoni e “traditori”; lo sprezzo per l’ignavia della maggioranza del clero; il connubio tra fede e patria; la lettura del conflitto in termini apocalittici, come una lotta tra bene e male; e naturalmente la netta scelta di campo in favore della RSI. A colpire è soprattutto la polemica nemmeno tanto implicita con il cardinale-arcivescovo di Firenze E. Dalla Costa, che sul piano pubblico si fece promotore di riconciliazione e su quello riservato si impegnò a fondo nel soccorso agli ebrei perseguitati. Pur senza nominarlo, infatti, Frosali rigettò come insufficienti se non ambigui gli appelli alla concordia lanciati dall’episcopato, stigmatizzando l’anglofilia di larga parte del clero italiano e spingendo tutti a cooperare al successo dell’Asse. La curia vescovile tollerò queste dichiarazioni fino all’aprile 1944, quando (anche per scongiurare ritorsioni partigiane) sollevò Frosali dall’incarico e in seguito gli impedì di pubblicare alcunché senza l’esplicita approvazione dei superiori. Il sacerdote, che nell’ultimo articolo aveva esortato la GNR a incidere il «bubbone cancrenoso» della Resistenza, si dovette rassegnare. A questo punto, le sue tracce si perdono quasi del tutto. Non pare che egli sia stato processato per il sostegno alla RSI, ma esigenze di sicurezza personale indussero i superiori ad allontanarlo dalla regione. Ancora nel 1959, infatti, Frosali era cappellano presso l’ospedale-ricovero “Anacleto Bonora” di S. Pietro in Casale (Bologna). Tornò in Toscana solo più tardi per essere ricoverato presso la Casa cardinale Maffi a Cecina (Pisa) e morì a Firenze.

L’intellettuale

Rampollo di una famiglia nobile e benestante di origine veneta, il fiorentino Antonio Marzotto Caotorta (1917-2011) si laureò in Giurisprudenza e combatté con gli Alpini sul fronte greco, restando gravemente ferito e ottenendo una medaglia d’argento al v.m. Congedato dal R. Esercito in quanto mutilato di guerra, tornò all’Università, militando nelle fila dei GUF e laureandosi in Scienze politiche nel 1942. Il profilo intellettuale lo portò a concentrarsi anzitutto sulla scrittura di articoli che, apparsi principalmente sugli organi dei GUF di Forlì («Pattuglia») e Firenze («Rivoluzione»), spiegavano come i principi corporativi avrebbero strutturato la comunità nazionale e internazionale dopo la vittoria dell’Asse. All’indomani dell’8 settembre, egli scelse la RSI, pubblicando una serie di articoli su «Italia e civiltà» – la rivista fiorentina fondata e diretta da Barna Occhini che, sia pure con toni meno virulenti e un taglio più intellettuale rispetto a «Crociata italica», prese nettamente le distanze dalla monarchia sabauda. Qui Marzotto continuò a sviluppare le sue riflessioni sul corporativismo, confermando di ritenerlo uno dei portati essenziali del fascismo. Rispetto al passato, però, il suo discorso si allargò alla difesa del papa e del cattolicesimo da posizioni non solo conservatrici ma intransigenti, rivelate da cenni a De Maistre e soprattutto alla catena degli errori moderni (Riforma protestante, illuminismo, Rivoluzione francese, ecc.) che avrebbero portato all’apostasia del mondo contemporaneo. Alla fine del conflitto, Marzotto non subì arresti né processi ma il clima politico-culturale della Firenze del dopoguerra lo indusse a tenere un profilo basso e a concentrarsi sulla ditta di famiglia fino alla fine degli anni Cinquanta, quando si trasferì a Milano per occuparsi del servizio personale di aziende come la Compagnia generale di elettricità o la Finanziaria Ernesto Breda. Nel capoluogo lombardo egli intraprese una carriera pubblica di grande successo, che lo portò a divenire, tra le altre cose, presidente nazionale di Federtrasporti (1968-1992) e deputato nelle fila della DC (1972-1983). Negli ultimi anni della sua vita tornò a dedicarsi alla scrittura, pubblicando diversi volumi. Morì a Milano in età molto avanzata.

 

Giovanni Cavagnini si è addottorato alla Scuola normale superiore di Pisa e all’École pratique des hautes études di Parigi, ed è attualmente assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Economia e finanza dell’Università di Roma Tor Vergata ed è tra i collaboratori della Biblioteca F. Serantini. I suoi lavori si sono concentrati sul cattolicesimo europeo, la Grande guerra, il colonialismo e, più recentemente, la storia della fisica nel Novecento. 

Articolo pubblicato nel gennaio 2025.




LE CASE DEL POPOLO TOSCANE NELLA TORMENTA FASCISTA

Le fiamme che han distrutto le Case del popolo sono state l’inizio
d’un vasto incendio che minaccia di dar fuoco all’Europa.
(Angelo Tasca, 1938)

Non è certo un caso che, fra il 1920 e il 1923, anche in Toscana il primo obiettivo delle spedizioni fasciste, quasi sempre supportate dalle forze dell’ordine, furono le Case del popolo, costruite su iniziativa e con l’opera diretta dei lavoratori. Esse, infatti, dall’inizio del secolo rappresentavano, nelle città e forse ancor di più nelle campagne, un importante punto di riferimento per la socialità delle comunità locali e per le lotte della classe lavoratrice.
Le Case del popolo erano invise alla reazione filo-padronale in quanto offrivano occasioni di solidarietà e aggregazione sociale, alternative a quelle dell’osteria e della parrocchia. Al termine della giornata lavorativa e alla domenica, i lavoratori e le lavoratrici vi trovavano, oltre alla mescita, biblioteche popolari, spazi per pranzi sociali, feste, spettacoli, canto e ballo. Inoltre, vi si tenevano riunioni, inaugurazioni di bandiere dei sodalizi proletari e conferenze; talvolta erano anche sede delle Leghe operaie o bracciantili e, in qualche caso, della locale Camera del Lavoro.
Significativo il ritratto scritto dal repubblicano fiorentino Augusto Borchi nel 1921:

le case del popolo sono divenute oltre che i centri della mutualità soprattutto i centri della cultura e della educazione proletaria. Aggredirle costituisce dunque il peggiore dei delitti. Le case del popolo sono luoghi sacri e inviolabili poiché sono il simbolo di una fede che sopravanza le competizioni di potere. Davanti a esse si inchinino tutti gli uomini di onore e chi osa dichiararsi solidale con gli assassini di tali istituzioni sappia che egli non si qualifica soltanto un avversario del popolo ma anche e soprattutto un nemico della civiltà .

In tale ambiente, potevano quindi incontrarsi e confrontarsi lavoratori e lavoratrici di diverse categorie, così come aderenti alle rispettive tendenze politiche (sindacalisti, socialisti, anarchici, repubblicani, comunisti o senza partito), anche se talvolta la convivenza poteva essere problematica:

La scissione di Livorno, seguita in Empoli da gravi defezioni tra i socialisti, e perciò anche da una perdita di prestigio dei socialisti stessi nelle organizzazioni economiche, creò uno stato di tensione gravissima fra socialisti e comunisti. I socialisti empolesi, riunitisi dopo la scissione, decretarono immediatamente lo sfratto ai «secessionisti», sistematisi in due stanze della Casa del Popolo; per tutta risposta la «Guardia Rossa», passata armi, bagagli e bandiera ai comunisti, occupava la Casa del Popolo vietando il passo ai socialisti. Il dissidio in merito ai locali fu risolto con un accordo, che prevedeva l’uso del primo piano da parte dei socialisti e del secondo piano da parte dei comunisti .

Sin dal 1920 si registrarono le prime spedizioni fasciste contro le Case del popolo (talvolta denominate Case dei lavoratori, degli operai o del proletariato), ma fu soprattutto a partire dagli inizi del 1921 che furono sistematicamente assaltate e distrutte, così come le sedi di altri organismi associativi del movimento operaio e bracciantile quali Camere del lavoro, Società operaie di mutuo soccorso, Cooperative di consumo, Circoli libertari di studi sociali, Circoli socialisti di cultura, Circoli repubblicani e pure cattolici, Biblioteche e Teatri popolari: le distruzioni erano pressoché quotidiane ed estese ad ogni territorio, con centinaia di strutture rese inagibili, saccheggiate o date alle fiamme, con numerose vittime.
Solo nel primo semestre del 1921, secondo i dati forniti dallo storico fascista Chiurco, e ritenuti incompleti da Angelo Tasca, risultano distrutte dagli squadristi almeno 59 Case del popolo, così come 100 Circoli di cultura, 10 Biblioteche popolari e teatri, 53 Circoli operai e ricreativi.
Nelle stesse testimonianze degli squadristi vi si trova puntuale resoconto, come ad esempio nel diario dello studente Mario Piazzesi della Disperata di Firenze che vanta la “baldanza” nel devastare, senza difficoltà, molte Case del popolo durante le scorrerie per le campagne toscane e umbre.

CANNONATE CONTRO LE CASE DEL POPOLO

A copertura delle squadre “tricolorate” dei fascisti e dei nazionalisti vi era l’immancabile presenza di carabinieri, guardie regie e anche reparti del Regio esercito. Tale alleanza, in taluni casi, comportò persino l’impiego dell’artiglieria per espugnare alcune Case del popolo, come avvenuto a Siena il 4 marzo 1921 e a Casale Monferrato (AL) due giorni dopo. Analogamente, a Scandicci (FI) il 3 marzo era stata attaccata con mitragliatrici e un cannone da 75 mm. la sede della Società di Mutuo Soccorso costruita nel 1883 da operai, contadini, artigiani ed ex-garibaldini.
L’attacco del marzo 1921 alla Casa del popolo senese (che ospitava anche la Camera del Lavoro) fu sicuramente fra i più gravi. Per vincere la resistenza armata dei lavoratori che la difendevano, i fascisti ebbero bisogno dell’intervento dei carabinieri, affiancati da 200 soldati con due cannoni da 65 mm., mitragliatrici piazzate in piazza del Monte dei Paschi e due autoblindo. Contro la Casa del popolo furono lanciate bombe a mano, sparate alcune cannonate e almeno duemila colpi di fucile. Dopo la resa, i locali vennero incendiati con la benzina fornita dal Consorzio agrario; seguirono circa 80 arresti e violente rappresaglie. Questa la cronaca, pubblicata sull’«Avanti!» del 25 settembre 1921 (Dalla Toscana insanguinata):

Il segretario della Casa del Popolo [recte: Camera del Lavoro], Giulio Cavina, ora deputato [socialista], fu scovato nel suo ufficio a notte inoltrata e dopo che il cannone aveva operato una breccia nel muro dell’edificio operaio. Fu trascinato da basso, sotto i portici, percosso a sangue da tutti: i più feroci erano i carabinieri e gli ufficiali del Presidio. Quattro soldati, con baionetta inastata, furono messi alla sua guardia […] Intanto tutti gli ufficiali del Presidio, guidati dal capitano dei carabinieri Lucatelli, sfilarono davanti al Cavina strappandogli i peli della barba e schiaffeggiandolo. In breve […] fu tutto pesto e grondante di sangue e chiese un bicchiere d’acqua. Il capitano Lucatelli ed altri ufficiali dettero ordine che nessuno portasse l’acqua richiesta […] tutti i soldati e i carabinieri si dettero a bere il vino e i liquori presi nelle cantine della Casa del Popolo davanti al Cavina. Anche il capitano medico del Distretto, anziché curarlo […] si dette a dileggiarlo.

Il drammatico assedio sarebbe stato rievocato anche in versi dall’anarchica Virgilia D’Andrea nel 1922 :

Udite, udite, o miei compagni, a Siena
Città dolce e gentil romba il cannone.
Sessanta petti han fatto una catena
E d’ansia è la difesa e di passione.

Ma la bocca di fuoco arde sui volti
E s’apre un varco ne la Casa rossa:
Escono, i vinti, màdidi e sconvolti
E cadon, muti, su la terra smossa.

La difesa armata degli organismi e delle sedi del movimento d’emancipazione sociale rappresentò comunque un fatto abbastanza sporadico; si trattava infatti di una lotta impari non solo sul piano tattico, ma finanche su quello psicologico, come significativamente osservato da Angelo Tasca:

I lavoratori, al contrario, si agglomerano intorno alla loro Casa del popolo […] La Casa del popolo, la Camera del lavoro, sono il frutto dei sacrifici di due o tre generazioni, tutto il loro «capitale», la prova concreta del cammino compiuto dalla loro classe, e il simbolo ideale dell’avvenire sperato. I lavoratori vi sono affezionati, ed esitano, per istinto, a servirsene come se si trattasse di un semplice materiale di guerra.
Non si trasforma facilmente una casa in fortezza, se si tiene alla casa […] Per i fascisti la Casa del popolo non è che un bersaglio. Quando le fiamme si elevano da queste belle costruzioni, il cuore degli operai è straziato, invaso da una cupa disperazione, quasi paralizzato dall’orrore, mentre gli assalitori alzano grida selvagge di gioia. Di queste oasi di socialismo che coprono quasi tutta la pianura del Po, non resta più, alla fine della guerra civile, che un cupo deserto.

Pur essendo nate con spirito umanitario e di civile convivenza, le Case del popolo in numerose situazioni divennero comunque la sede ospitale e solidale per le prime organizzazioni unitarie dell’antifascismo militante, come avvenne ad Empoli dove, fin dal gennaio 1920, le ex-Guardie rosse costituirono, nella locale Casa del popolo, un corpo volontario armato per l’azione antifascista, mentre presso la Casa del popolo di Borgo Vittoria, a Torino, nel gennaio 1921, si riuniva la Federazione dei gruppi d’azione diretta rivoluzionaria, emanazione dell’USI (Unione sindacale italiana), con intenti sia difensivi che offensivi; altresì, sempre nel torinese, in alcune Case del popolo si organizzarono le squadre comuniste, come ad esempio, quella di Condove di Susa strettamente sorvegliata dalla polizia.
In seguito, dopo la loro comparsa a fine giugno 1921, gli Arditi del popolo difesero le Case del popolo e da queste furono accolti, così come ebbe a dichiarare Argo Secondari, loro fondatore:

fino a quando i fascisti continueranno a bruciare le case del popolo, case sacre ai lavoratori, fino a quando continueranno la guerra fratricida, gli Arditi d’Italia non potranno avere con loro nulla in comune. Un solco profondo di sangue e macerie fumanti divide fascisti ed Arditi.

Ad Ancona la sezione ardito-popolare si costituì presso la Casa del proletariato e a Roma la sede centrale degli Arditi del popolo fu la Casa del popolo in via Capo d’Africa; tanto che, in un’intervista a Secondari, pubblicata su «L’Ordine nuovo» del 12 luglio 1921, si poteva leggere il seguente commento:

Il tenente Secondari risponde alle mie domande con molta cordialità, ma anche con grande impazienza. Giungono ogni tanto dalla periferia dei giovani operai Arditi, che portano notizie, chiedono informazioni, ordini. Questa sera ha luogo una riunione di capi-centuria alla Casa del Popolo. È perfettamente naturale che gli «Arditi del popolo» si riuniscano alla Casa del Popolo.

Con l’avvento del regime fascista e in particolare nel 1923 – l’anno della grande repressione contro l’antifascismo – le poche Case del popolo superstiti furono chiuse d’autorità e requisite per essere destinate a Casa del Fascio o sedi rionali del Fascio, così come previsto dal Decreto Legge che nel 1924 impose lo scioglimento delle S.M.S. e delle associazioni similari. In questo modo, ad esempio, a le Case del popolo di Siena e Settignano (FI) divennero Case del Fascio, così come a Colle Val d’Elsa, dove la Casa del popolo e il modernissimo Teatro del popolo furono soppiantati rispettivamente dalla Casa del Fascio e dal Teatro del Littorio, mentre a Piombino la Casa del popolo diventò Casa d’Italia, nonché sede del Fascio (oggi Commissariato di Polizia).
In molte località della Toscana, per finanziare le Case del Fascio, i lavoratori, le operaie e i contadini furono inoltre costretti a versare contributi in denaro, acquistare azioni o prestare manodopera gratuita, onde evitare ritorsioni.
Parallelamente ai decreti prefettizi di scioglimento e alle chiusure violente di Case del popolo e S.M.S., i Fasci usavano convocare i consiglieri e i responsabili di queste esperienze di democrazia proletaria, così come di quelle indipendenti, per indurli, sotto minaccia, a rassegnare le dimissioni. L’associazionismo democratico fu quindi del tutto soppiantato dalle strutture dell’Opera Nazionale Dopolavoro, istituita con il Decreto legge n. 582 (significativamente datato 1° maggio 1925).
Il Dopolavoro operava, dichiaratamente, come organo di propaganda del regime, nel tentativo di affermare una propria politica sociale fra i lavoratori e i ceti popolari, attraverso paternalismo padronale e assistenzialismo demagogico, che ne confermava la subalternità. Nonostante una certa espansione, i Dopolavoro aziendali e Statali rimasero comunque – a differenza delle Case del popolo – istituzioni imposte e gestite dall’alto, in cui il «libero pensiero» era soppresso dal «clima spirituale della rivoluzione fascista».

IL PRIMO ASSALTO, LA PRIMA VITTIMA

Il primo assalto fascista ad una Casa del popolo in Toscana vide anche la morte di un suo difensore: il diciottenne Enrico Lachi (Monteriggioni 29 luglio 1902 – Siena 11 marzo 1920), figlio di Giulio e Giulia Pagni.
Nato in località Poggiolo (Fontesdevoli), la sua numerosa famiglia si era trasferita a Siena quando aveva quattro anni, in via Fiorentina 88. Giovanissimo, aveva iniziato a lavorare come operaio avventizio delle Ferrovie, subito attivo sul piano sindacale e politico, iscrivendosi al Fascio giovanile socialista “Andrea Costa” e partecipando allo sciopero ferroviario del gennaio 1920.
Quel 7 marzo 1920 si trovava in prima fila a difendere la sede della Casa del popolo di Siena, costruita e inaugurata nel 1905 con il determinante contributo della Banca Cooperativa Ferroviaria e su iniziativa di ferrovieri e tipografi. L’edificio, in via Pianigiani, ospitava anche la locale Camera del lavoro e comprendeva una Biblioteca popolare, un Teatro, un Caffè e altre attività commerciali.

Il 7 marzo 1920, approfittando di un corteo di protesta di ex-combattenti, i fascisti riuscirono a farlo parzialmente deviare verso la Casa del popolo, simbolicamente presidiata dai carabinieri. Infatti, i fascisti – armati – poterono vandalizzare i locali del Caffè, mentre i carabinieri bloccavano i pochi lavoratori schierati a difesa della Casa del popolo. In questa fase, in piazza della Posta, un appuntato dei carabinieri sparò con la rivoltella colpendo Enrico Lachi che stava affrontando un fascista. Soccorso all’interno del Caffè e subito trasportato all’Ospedale civico, Lachi sarebbe morto alle 0.45 dell’11 marzo, dopo giorni di sofferenze.

Contro le violenze dei fascisti e dei carabinieri, subito iniziò uno sciopero prima spontaneo e poi proclamato unitariamente dalla Camera del lavoro, dalla Sezione socialista, dal Circolo giovanile socialista, dal Circolo anarchico Germinal e dalla Federazione socialista. Lo sciopero risultò generalizzato e al comizio, tenutosi la sera dell’8 marzo, in piazza Umberto I (ora piazza Matteotti), intervennero gli onorevoli Grilli e Bisogni; il segretario della Camera del lavoro. Giulio Cavina; Meini per il Partito socialista e Guglielmo Boldrini per gli anarchici: comune fu l’accusa contro, oltre ai fascisti, tutte le autorità, di cui chieste le dimissioni. I funerali di Lacchi si svolsero sabato 13 marzo, con la partecipazione di quindicimila persone. Sin dalla sera precedente la sua salma era stata esposta presso il Circolo di Cultura della Casa del popolo. Tra le tante corone risaltava una con la dedica «Alla vittima del piombo regio. Le donne del popolo». Inoltre vi erano quelle del Personale di Macchina e Depositi Locomotive, del Personale Viaggiante, dei compagni di lavoro dell’Officina ferroviaria, dei Soci della Pubblica Assistenza. L’ultimo saluto fu affidato a Bisogni per i socialisti, a Boldrini per gli anarchici e a Carlucci per i giovani socialisti. Nei giorni seguenti gli Operai delle officine ferroviarie inviarono una lettera pubblica al dirigente reclamando spiegazioni sul licenziamento di Lachi l’indomani del suo mortale ferimento.
La sua tomba si trova ancora al cimitero del Laterino, appena dietro la cappella centrale.

La Casa del popolo di Siena avrebbe subito altri tre assalti: il 4 maggio 1920, il 4 marzo 1921 e il 23 maggio 1921; nel 1923, dopo l’avvento del fascismo, fu estorta e trasformata in Casa del Fascio. Dato che, dopo le devastazioni, l’edificio necessitava di lavori di ristrutturazione, la Casa del Fascio contrasse un mutuo con il Monte dei Paschi, ma il debito non sarebbe mai stato onorato. Per recuperare il danno, la Banca acquisì gli immobili gravati da ipoteca, e contemporaneamente acquistò Palazzo Ciacci, in via Malavolti, donandolo nel 1936 alla Federazione fascista. Quella che era stata la Casa del popolo venne quindi venduta al Consorzio Agrario a un prezzo irrisorio. Il Partito fascista mantenne la propria sede a Palazzo Ciacci sino alla fine; fu qui la famigerata Casermetta in cui, nel periodo della Repubblica Sociale, centinaia di oppositori al regime, ebrei e partigiani senesi furono imprigionati, interrogati e torturati.

Anche dopo la Liberazione, la Casa del popolo non venne mai restituita ai lavoratori senesi, e tutt’ora è sede del Consorzio Agrario; a Enrico Lachi, invece, è stata dedicata una piazza del quartiere senese di Petriccio.

 




Storia, memoria, cambiamento.

Identità. Tradizione. Su questi due lemmi molta parte del dibattito, tanto pubblico quanto divulgativo, ha ruotato negli ultimi anni, rivelando le molteplici angolature di questi lemmi. L’”identità italiana”, ad esempio, sulla cui più o meno validata esistenza è stato incentrata negli ultimi mesi una fitta discussione. Altri utilizzi suggeriscono una maggior attinenza con le posizioni liberal sui diritti civili: si pensi a “identità queer” o all’ “identità/carriera alias”, che alcuni istituti e università stanno introducendo per venire incontro alle esigenze psicologiche di chi affronta un percorso di transizione di genere. Similmente “tradizione”, che pur suggerisce una certa vicinanza con alcuni temi sostenuti dall’attuale maggioranza, può incontrare altri impieghi, che abbiamo visto, ad esempio, in azione nella polemica sulle sospensioni alle attività didattiche decise dall’Istituto comprensivo di Pioltello (Milano).

È con un abusato politptoto, dunque, che potremmo definire i due termini “identitari” per i nostri anni. E dalla loro analisi epistemologica e storiografica traeva le sue prime mosse Laerte Mulinacci quando, alcuni mesi fa, sistematizzava alcuni risultati del lavoro di dottorato nel contributo “La città dei mestieri. Educazione al patrimonio e comunità di pratica” (adesso in Heritage Education Tecnologie, patrimonio immateriale, paesaggio e sostenibilità, a cura di M. Muscarà et alii, Pisa, Ets, 2024). Primariamente affrontato era il concetto di identità:

Considero questo aspetto di grande attualità visto l’utilizzo disinvolto che si fa di questo termine in politica, nella società civile come anche a scuola. Al termine identità, spesso, vengono affiancati riferimenti storici o memoriali senza badare troppo alla contestualizzazione ed operando un’operazione di selezione che può risultare anche mistificatoria. A tal proposito si veda il dilagare della pseudo-storia o della deformazione del dato storico per finalità squisitamente politiche o propagandistiche e tutte le ricadute che hanno anche sul vivere e sentire quotidiano (Mulinacci 2024, p. 171).

Similmente, “tradizione”

subisce sempre più frequentemente un sovra-utilizzo se non proprio un abuso del concetto stesso, anche in questo caso nella sua accezione giustificativa: un passato che è sempre stato così (ibidem).

Laerte, che in questi giorni avrebbe compiuto 39 anni, ci è stato strappato troppo presto da un incidente stradale avvenuto nella sua Siena, il 28 Gennaio 2024. Il suo lavoro di tesi, incentrato sulle comunità di pratiche che si avvicendano nel Palio cittadino, è rimasto incompiuto.

Tuttavia, queste sue notazioni sui concetti di tradizione e identità affrontano alcuni dilemmi cruciali per il lavoro storico e storico-educativo. Innanzitutto, decostruiscono e storicizzano i due lemmi nell’ambito di un “patrimonio culturale immateriale” qualificato come inclusivo, rappresentativo e vivo: tratti evidenti nell’esperienza dell’associazione senese “Città dei mestieri” che dal 2019 offre gratuitamente corsi in calligrafia, sartoria, storia del costume e arte del marmo. Un lavoro che fluidifica le gabbie in cui abitualmente è rinchiusa la memoria, per rivelare quel che è davvero: sostanza viva, capace di attivare e sostenere un cambiamento condiviso a livello comunitario e territoriale.

In secondo luogo, perché quelle di Laerte sono riflessioni che colgono alcuni dei temi epistemologici con cui la storiografia deve sapersi confrontare, e che la qualificano rispetto alla memoria: l’analisi dei silenzi. I silenzi che, innanzitutto, si annidano nei temi e negli argomenti che per decenni e per secoli non sono stati significati dall’opinione pubblica e dalla ricerca accademica: si pensi ad esempio alle storie di vita, la cui rilevanza come fonte storica è adesso pienamente riconosciuta, ma solo dopo decenni di discussioni spesso aspre e accese. Ma vi sono anche altri silenzi, più sottili. Sono quelli che si annidano nelle parole, in ciò che celano mostrando: e torniamo qui al concetto di tradizione, al «passato che è sempre stato così» e le cui vicissitudini, invece, riposano nelle pieghe dello stesso lemma.

È un adagio ampiamente ricorrente quello con cui Benedetto Croce, nel 1909, definisce ogni storia una storia contemporanea. I nostri lavori sono quanto di più lontano Croce avrebbe immaginato per ricerca storiografica. E tuttavia, al di là dei decenni e dei paradigmi culturali, permane un nocciolo comune: quello per cui ogni vera questione storiografica è tale in quanto scandaglia il passato per affrontare le inquietudini del tempo presente, offrendo loro, se possibile, una risposta.

 

 

Laerte Mulinacci (1985-2024), dopo gli studi in Storia compiuti presso l’Università di Siena, si è iscritto al Corso di Dottorato in Scienze della Formazione e Psicologia dell’Università degli studi di Firenze, partecipando ai lavori della Commissione “Comunicazione, Public Engagement e Terzo Settore” del dipartimento Forlilpsi. Ha collaborato al progetto PRIN 2017-2020 “School Memories between Social Perception and Collective Representation (Italy, 1861-2001)” realizzando numerose schede per il portale www.memoriascolastica.it , adesso raccolte anche in G. Bandini e S. Oliviero (a cura di), Memorie Educative in Video. Volume 2, Firenze, Fupress, 2022.

Chiara Martinelli è docente a contratto in Storia dell’educazione presso il dipartimento Forlilpsi dell’Università degli studi di Firenze, dove collabora con il Laboratorio di Public History of Education. Membro del consiglio direttivo dell’Istituto storico per la Resistenza di Pistoia, collabora con la segreteria editoriale di “Rivista di storia dell’educazione” ed è nel comitato editoriale di “Farestoria”. Tra le sue pubblicazioni, segnaliamo “Educare alla tecnica. Istituti tecnici e professionali alla “Giornata della Tecnica” (McGrawHill, 2023).

Articolo pubblicato nel luglio 2024.




Le cittadinanze onorarie a Mussolini e la mistificazione della storia

Le persistenze del passato regime fasciste, nelle varie forme di intitolazioni, architetture, riferimenti toponomastici, sono spesso giunti alla ribalta della cronaca negli ultimi anni. Ne sono esempio le non lontane polemiche relative ai monumenti fascisti, oggetto di attenzione e di più o meno efficaci tentativi di risignificazione. Allo stesso modo, non sono mancate le polemiche attorno alle rimozioni di nomi di strade e piazze che ancora richiamavano a personaggi e vicende dell’esperienza fascista. Una tendenza, questa, che fa da sfondo ad altri dibattiti attorno a singole figure, talvolta oggetto di riletture e abilitazioni postume.

Il volume Il cittadino d’Italia si inserisce in tale contesto, prendendo in esame un caso specifico ma particolarmente significativo per vari motivi: innanzitutto, per il proprio oggetto d’indagine, concentrando la propria attenzione sulla figura di Benito Mussolini e sulla costruzione del suo mito personale; in secondo luogo, per il rilievo assunto in tempi recenti, con punte polemiche particolarmente acute nel 2020, dai dibattiti attorno alla revoca al dittatore delle proprie onorificenze onorarie.

Proprio da quest’ultimo spunto trae origine il libro di Michelangelo Borri, dedicato alla storia delle cittadinanze onorarie a Mussolini. Attraverso una ricerca condotta negli archivi nazionali, in alcune realtà comunali e sulla stampa dell’epoca, Borri indaga la storia e le motivazioni dei titoli onorifici al dittatore: avviata nel 1923, una volta concretizzatasi la presa del potere con la marcia su Roma, la tendenza si sarebbe sviluppata appieno nel 1924 grazie all’interessamento della segreteria particolare della Presidenza del Consiglio e del Partito nazionale fascista. Dalla ricostruzione emerge il carattere politico e talvolta coatto delle onorificenze, attribuite dai consigli comunali in seguito alle pressioni provenienti dalle prefetture e dalle federazioni provinciali fascista. Ne emerge il quadro di una dittatura immediatamente pronta a stringere la propria presa sul paese, imponendo le proprie scelte agli amministratori comunali italiani.

Assieme all’operazione politica, il volume ricostruisce alcune delle principali manifestazioni organizzate in corrispondenza dei riconoscimenti, seguendo il duce nelle città di Firenze, Bologna, Roma, Napoli, Perugia e analizzando i testi dei documenti con cui le assemblee municipali deliberarono i conferimenti. Da tale quadro appare chiara la volontà del nascente regime di imporre, immediatamente, la figura di Mussolini come quella del nuovo simbolo dell’Italia fascista. Una volontà sorretta dagli apparati di propaganda e dalla stampa, ma anche dalla violenza squadrista e dal potere coercitivo dello Stato, piegato alle esigenze politiche della dittatura. In tale ottica, scrive Borri, le folle di partecipanti alle manifestazioni organizzate in corrispondenza dei conferimenti avrebbero svolto la funzione di legittimare, a posteriori, la concessione dei titoli medesimi, tramite un meccanismo di mobilitazione dal basso caratteristico dell’esperienza fascista. La conclusione dell’autore, in tal senso, appare chiara e non lascia spazio a dubbi:

 

Lungi dal rappresentare sincere e spontanee manifestazioni di stima al nuovo presidente del Consiglio – come ancora oggi spesso sostenuto, a conferma dell’efficacia dell’operazione politica fascista – le cittadinanze mussoliniane costituiscono, al contrario, testimonianze eloquenti e rilevatrici del vero volto di un regime pronto a mobilitare ogni risorsa per raggiungere anche il più minuto degli obiettivi prefissati. Piuttosto che reminiscenze di scelte che gli italiani non furono affatto chiamati a compiere – ma, al massimo, a legittimare posteriormente –, esse sono l’ennesima conferma della presa soffocante esercitata dalla dittatura in ogni angolo del paese: anche in forme diverse da quelle tradizionalmente riconosciute, anche all’interno delle assemblee teoricamente più immediatamente rappresentative ed espressive della piena realizzazione democratica (p. 124).

 

Alla luce di quanto verificatosi negli anni Venti, anche le discussioni odierne appaiono più chiare e, soprattutto, più immediatamente riconoscibili risultano i tentativi di strumentalizzazione politica attuati, in molti casi, dai rappresentanti locali dei partiti della destra. Anche grazie al puntuale saggio introduttivo di Andrea Mammone, il libro fornisce una panoramica ben dettagliata di quanto avvenuto negli ultimi decenni – ma partendo, con uno sguardo di lungo periodo, dall’immediato dopoguerra – nel dibattito pubblico attorno al fascismo e alla sua memoria. La sovrapposizione tra memorie deboli della dittatura, tra una certa nostalgia ancora persistente in alcuni strati della società italiana postbellica e interessi commerciali ed editoriali, ha favorito l’elaborazione di rappresentazioni in qualche modo deresponsabilizzanti rispetto alle colpe del fascismo e, con esso, degli italiani, aprendo la strada anche a riletture e riabilitazioni postume dell’operato di Mussolini. In questo panorama, già accuratamente descritto da studiosi come Filippo Focardi, le discussioni attorno alle cittadinanze onorarie mussoliniane rappresentano soltanto il più recente tassello: sulla loro persistenza, infatti, rappresentanti municipali delle destre postfasciste – e non solo – hanno spesso proposto l’immagine di un dittatore ammirato dalle popolazioni italiane, presentando le onorificenze come intitolazioni spontanee provenienti dal basso e, come avviene oggi in condizioni di democrazia, rispondenti effettivamente all’umore di almeno una buona parte della cittadinanza. Il libro Il cittadino d’Italia dimostra, in maniera ormai non più discutibile, come ciò sia palesemente falso e come i tentativi di mantenere i conferimenti a Mussolini nascondano, in realtà, ben più profonde motivazioni politiche ed ideologiche riconducibili a un senso di fascinazione e nostalgia ancora vivo, in alcuni ambiti politici, verso il dittatore e verso il suo criminale progetto politico.




La Repubblica sociale italiana e il primo neofascismo toscano

Il recente convegno «Le fiamme dal basso». Neofascismo e destre estreme in provincia: protagonisti, strutture, prospettive di ricerca, organizzato il 19-20 ottobre 2023 dall’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea “Vittorio Meoni” di Siena, ha riportato al centro del dibattito storiografico l’importanza della dimensione locale nello studio dei neofascismi, evidenziando le potenzialità di questo approccio per meglio indagare, nella loro concretezza, culture, prassi politiche e classi dirigenti dell’estrema destra italiana[1]. Il presente contributo, sintetizzando la relazione discussa in quella sede, cerca quindi di riflettere su come l’esperienza combattentistica ed esistenziale di Salò abbia contribuito a definire, nei primi anni del dopoguerra, i tratti identitari e la cultura politica del neofascismo toscano e, in special modo, del neonato Movimento sociale italiano (MSI), che dell’ultimo fascismo avrebbe raccolto l’eredità materiale oltre che ideale.

Il caso toscano appare in tal senso un terreno d’indagine particolarmente fecondo, tanto per il peso storico assunto dal fascismo nella regione quanto poi per le oggettive difficoltà ambientali che avrebbero caratterizzato la ripresa neofascista in un contesto sociale e politico ben diverso da quello del Centro-Sud Italia, principale bacino di voti e di affermazione del MSI. Un aspetto, quest’ultimo, che ha fortemente condizionato la disponibilità odierna di fonti interne al partito, pressoché assenti per le province toscane, e che ha costretto a rivolgersi primariamente verso fonti di polizia, non prive di limiti e criticità ma rivelatesi, specie in taluni contesti, estremamente preziose e in parte ancora inesplorate (Parlato 2020, pp. 15-21).

Ciò detto, va altresì notato come l’esperienza del fascismo repubblicano abbia assunto nella regione tratti per molti versi peculiari: dettati non solo e non tanto dalla folta presenza di gerarchi toscani nella compagine di governo saloina, capaci a loro volta di mobilitare una fitta rete clientelare locale, quanto piuttosto perché in questo spazio si impongono e sovrappongono, tra il 1943 e il 1944, contesti di occupazione, guerra civile e scontro aperto tra eserciti in lotta, che dilaniarono un tessuto sociale già duramente colpito dallo stragismo fascista e nazista. Lo sfollamento di migliaia di fascisti toscani al di là della linea Gotica, fuggiti nell’estate del 1944 dinanzi all’avanzata alleata, avrebbe infine reso ancor più dolorosa e traumatica la prospettiva di una sconfitta ormai imminente (Mazzoni 2006; Rossi 2000).

All’indomani della Liberazione, lo straniamento per la perdita di ogni riferimento politico e ideale si associava quindi, per molti fascisti di Salò, alla difficile prova del carcere e dell’internamento così come all’apertura di procedimenti giudiziari ed epurativi che avrebbero indelebilmente segnato – al di là degli esiti contradditori di tale processo – il vissuto e la memoria dei vinti. Parallelamente, il brusco rientro alla vita civile verrà poi a caratterizzarsi per l’ostracizzazione delle proprie comunità, talvolta sfociata in forme di giustizia sommaria volte a sfogare la rabbia della popolazione per le privazioni e i lutti subiti durante il conflitto (Dondi 1999, pp. 91 sgg.; Martini 2019, pp. 77-95).

È in questo contesto che maturava quindi l’esigenza quasi istintiva di «ritrovarsi», di «riconoscersi» tra ex-commilitoni, tentando di reagire di fronte a un paese ormai percepito come estraneo. Già nei mesi a cavallo tra il 1945 e il 1946, le carte di polizia testimoniano anche in Toscana l’attivarsi di alcune prime cellule neofasciste, spesso animate da giovani e giovanissimi legati all’esperienza della RSI e impegnate, solitamente, in azioni poco più che dimostrative quali imbrattamenti con scritte murarie, apposizione di emblemi fascisti e diffusione di manifestini esaltanti il fascismo repubblicano – il “vero fascismo” non inquinato dai compromessi imposti dal regime – e prospettanti la punizione verso i “traditori”, padroni ora del campo. Iniziative incapaci di superare la «soglia della testimonianza» ma non per questo prive di significato per la più amplia platea di nostalgici e reduci (Mammone 2005, pp. 263-269, Tonietto 2019, pp. 95 sgg.).

Particolarmente interessante è il ricercato simbolismo che in diversi casi assumono queste prime manifestazioni: colpisce, per fare un esempio, l’operato di una presunta cellula delle Squadra d’Azione Mussolini (SAM) attiva a Firenze, che nella notte tra il 27 e il 28 aprile 1946, primo anniversario della morte del duce, riusciva ad apporre una bandiera tricolore recante il fascio repubblicano sulla torre di Maratona dell’odierno stadio Artemio Franchi – già intitolato al martire fascista Giovanni Berta – laddove nel marzo 1944 erano stati fucilati cinque renitenti alla leva condannati dal tribunale militare di Firenze. Altrettanto esplicite erano le scritte rinvenute nel luogo dell’eccidio, che si richiamavano alla dimensione mitopoietica del martirologio fascista quale esempio per i superstiti e le future generazioni[2].

 

 

Ci muoviamo, com’è evidente, entro un immaginario nel quale la memoria bruciante della guerra civile e della disfatta avrebbe alimentato un pervasivo «culto della vendetta», rappresentando al contempo un tenace strumento identitario per lo sparso universo neofascista, incapace di rassegnarsi alla sconfitta politica e morale patita dal fascismo (Panvini 2017, pp. 156-158). Solo in taluni casi tuttavia, l’attività di questi primi gruppi clandestini avrebbe assunto una qualche consistenza numerica: è il caso di Pisa, dove un gruppo di studenti universitari, diversi dei quali reduci dal campo di prigionia di Coltano, veniva a riunirsi agli inizi del 1946 attorno alla carismatica figura di Rutilio Sermonti, già ufficiale della divisione SS italiana e destinato a una lunga militanza tra le fila del MSI e quindi nelle formazioni dell’estrema destra extra-parlamentare. Interessante soffermarsi sulle dinamiche aggregative del gruppo e sull’autorappresentazione fornita da questi giovani reduci, particolarmente importante per i futuri sviluppi politici dell’organizzazione neofascista.

 

Tutti furono concordi nell’affermare – riferiva il prefetto di Pisa – che, ritornati dopo la liberazione del Nord […], si erano sentiti accumunati nello stesso sentimento di unirsi, considerandosi ormai dei relitti di una società travolta dalla disfatta e che lo scopo delle loro riunioni si concretava nella necessità di sorreggersi scambievolmente, di trovare un partito che […] potesse […] permetter loro di concorrere alla resurrezione del Paese.

 

Posizione ribadita dallo stesso Sermonti, che in sede di interrogatorio chiariva come

 

a Pisa continuai a coltivare le amicizie con i miei compagni d’arme e di fede politica. La nuova politica fatta dai partiti di sinistra contro i fascisti aveva accumunati noialtri che […] ci sentivamo estraniati completamente dalla vita politica italiana. Fu così che sorse in me il proposito di riunire, in qualche […] movimento la maggior parte dei fascisti da me conosciuti[3].

 

Non a caso, i primi tra cui si cerchi di fare proselitismo erano proprio ex-commilitoni già internati a Coltano, sfruttandone poi la rete di conoscenze per tentare di ampliare il raggio d’azione del gruppo nelle province limitrofe. Indizi questi che confermano l’importanza che tanto la traumatica prova della guerra civile quanto quella, altrettanto sofferta, della prigionia o dell’internamento avrebbero rappresentato per i reduci di Salò e, più in generale, per l’immaginario neofascista, rinsaldando il senso di «continuità» con il recente passato e cementando, al contempo, forti sentimenti anticomunisti e antidemocratici (Parlato 2006, pp. 117 sgg.)

In questo scenario, la nascita del MSI verrà quindi a svolgere un importante ruolo di catalizzatore e di aggregazione per gli ex-fascisti, rappresentando in un contesto ambientale particolarmente ostile una nuova prospettiva politica entro cui far coesistere, pur non senza attriti, i diversi volti del neofascismo. Siamo di fronte, anche nel caso toscano, a una comunità inizialmente formata per la gran parte da reduci del conflitto mondiale e dell’esperienza di Salò; un vissuto che avrebbe rappresentato una tappa qualificante nella socializzazione politica dei quadri intermedi e inferiori del MSI, spesso costituiti da uomini relativamente giovani – nuovi quindi a qualche un impegno politico – o, laddove già attivi nelle organizzazioni del fascismo, confinati in posizioni defilate e in tal senso più facilmente spendibili nello scenario politico postbellico (Borri 2013, pp. 83-84).

Si pensi al caso senese, dove il movimento missino si strutturava attorno a Giovanni Viti, già fascista repubblicano fuggito nel Nord Italia e circondatosi da numerosi ex-commilitoni a loro volta attivi tra le schiere del PFR. Ma anche a Livorno i primi «organizzatori» e «aderenti» al MSI erano «tutti ex fascisti ed ex appartenenti alla Repubblica di Salò», nella cui sede, perquisita dagli agenti della Questura, campeggiava accanto all’effige del duce un ritratto del maresciallo Graziani, già ministro delle Forze armate della RSI e tra i “padri nobili” del partito della fiamma. Parallelamente, la sezione pistoiese vedeva tra i suoi primi animatori diversi ex-prigionieri di guerra, tra cui lo stesso segretario Alix Fiaschi, rimpatriato agli inizi del 1947 e spesosi immediatamente per l’organizzazione del nuovo partito. Un’esperienza, quella della prigionia e della “non collaborazione” con gli Alleati che avrebbe segnato – non a caso – il destino politico di altre figure di spicco del MSI toscano, quali Danilo Ravenni, per molti anni ispettore regionale e tra i fondatori del partito in Lucchesia, e Giuseppe Niccolai, dirigente di punta del MSI a Pisa e quindi deputato dal 1968[4].

Nei primi mesi del 1947 muoveva i primi passi anche la federazione fiorentina, inizialmente guidata dal colonnello in congedo Mario Fani. In questo caso, il tentativo di uscire dall’anonimato si concretizzata con l’organizzazione del cosiddetto “giornale parlato”, trasmesso ogni domenica mattina a partire dal 4 maggio 1947 dagli altoparlanti posti presso la sede del MSI, nel centro storico cittadino. Un appuntamento presto trasformatosi in occasione di scontri, anche piuttosto violenti, con gli oppositori e il cui risalto mediatico era abilmente sfruttato dagli organizzatori missini per “rioccupare” un pur marginale spazio politico e testimoniare a un più ampio pubblico i propri sforzi, denunciando al contempo le spinte antidemocratiche e antinazionali del partito comunista. Le trascrizioni degli interventi letti in queste occasioni, conservate nei fascicoli della Questura fiorentina, offrono importanti elementi per indagare l’orizzonte politico-culturale del primo neofascismo toscano. In particolare, nel testo letto in apertura del primo “giornale parlato”, l’oratore esordiva ricordando come «il MSI è nato dopo l’aspra prova della guerra e della disfatta», resa possibile da coloro che «ponendosi contro il proprio Paese in guerra, ne ha sabotato lo sforzo e […] ha voluto assassinare la propria Nazione». All’opposto, i militanti neofascisti si presentavano ribadendo come «noi siamo dei soldati, reduci, ex combattenti dei vari fronti [di guerra]», e dunque «uomini d’onore» che con la propria coerenza ideale avrebbero posto «sopra ogni altra Idea, […] il culto e l’idea di Patria» [5].

Quello che si presenta ai fiorentini ad appena due anni dalla fine del conflitto è dunque un partito dichiaratamente ancorato all’esperienza della guerra e della guerra civile, mosso da un immaginario venuto a radicalizzarsi di fronte al fallimento militare del fascismo, al cedimento del fronte interno e quindi nelle cupe atmosfere della RSI. Una retorica attraverso la quale i confini tra guerra e dopoguerra finivano per annullarsi e che pur rivolgendosi, in prima battuta, a coloro che quella guerra avevano combattuto e perso, tentava al contempo di gettare un ponte tra le diverse anime del neofascismo, difendendo le ragioni della guerra, agitando lo spettro anticomunista e richiamandosi alla «rivoluzione» in campo sociale tentata dal fascismo repubblicano.

Sintomatico inoltre il fatto che di fronte all’offensiva governativa imbastita a partire dal 1950 contro il partito della fiamma, le federazioni toscane tornassero a fare appello a questo patrimonio simbolico e identitario, anche nel tentativo di rinsaldare un’organizzazione partitica segnata da crescenti contrasti interni che – semplificando – vedevano contrapporsi la compagine più “istituzionale” legata alla segreteria di De Marsanich a quella “intransigente”, solitamente rappresentata dalle componenti giovanili e reducistiche (Tonietto 2019, pp. 203-259). In una serie di manifesti affissi in diverse città toscane, i dirigenti missini locali difendevano quindi la legittimità politica del proprio partito, richiamandosi all’eredità del «sangue versato» nella «sfortunata guerra perduta»: nel partito della fiamma, ribadiva con orgoglio il segretario della sezione pratese, militavano infatti «tutti i soldati [dell’]onore, i reduci di tutte le guerre, quindi i Combattenti di Spagna e di Russia» che avevano combattuto per «difende[re] la civiltà occidentale», al contrario di coloro – primi fra tutti gli esponenti della Democrazia Cristiana – che avrebbero «diserta[to] il campo» tradendo così la causa italiana, nel tentativo di «ingraziar[si] le belve scarlatte per avere, in un probabile futuro, […] salva la pellaccia»[6].

La memoria della RSI, della guerra civile e più in generale della sconfitta – di una disfatta militare ma non morale – avrebbe dunque rappresentato nel dopoguerra un collante importantissimo per tenere assieme la comunità politica e umana del MSI, fornendo una risorsa identitaria estremamente tenace e pervasiva cui ancorare la sopravvivenza della comunità dei vinti, specie in quei contesti – quali appunto la Toscana – dove il partito missino avrebbe sperimentato un’esistenza a lungo marginale e certamente precaria. In tal senso, la dimensione locale da modo di scandagliare nuovi percorsi d’indagine capaci di ampliare il nostro sguardo tanto sulle traiettorie di più lungo periodo del neofascismo, durante e dopo la guerra mondiale, ma anche sulla “riproduzione” e gli adattamenti che l’immaginario della RSI avrebbe avuto nella cultura politica dell’estrema destra italiana.

 

Riferimenti bibliografici:

 

– M. Borri, Il movimento sociale italiano in Toscana, dalla nascita al congresso di Viareggio. Appunti per una ricerca, in «Società e storia», (2023), n. 179, pp. 63-89.

 

– M. Dondi, La lunga liberazione. Giustizia e violenza nel dopoguerra italiano, Editori Riuniti, Roma 1999.

 

– A. Mammone, Gli orfani del duce. I fascisti dal 1943 al 1946, in «Italia contemporanea», (2005, b. 239-240, pp. 249-274.

 

– A. Martini, Dopo Mussolini. I processi ai fascisti e ai collaborazionisti (1944-1953), Viella, Roma 2019.

 

– M. Mazzoni, La Repubblica sociale italiana in Toscana, in M. Palla (a cura di), Storia della Resistenza in Toscana, Vol. I, Carocci, Roma 2006, pp. 147-187.

 

– G. Panvini, L’altro dopoguerra: i neofascisti e la legittimazione della violenza politica nell’Italia repubblicana, in E. Acciai, G. Panvini, C. Poesio, T. Rovatti (a cura di), Oltre il 1945. Violenza, conflitto sociale, ordine pubblico nel dopoguerra europeo, Viella, Roma 2017, pp. 153-166.

 

– G. Parlato, Fascisti senza Mussolini. Le origini del neofascismo in Italia, 1943-1948, Il Mulino, Bologna 2006.

 

– G. Parlato, Destra e neofascismo in Italia. Il contributo della storia locale, in L. La Rovere (a cura di), I “neri” in una provincia “rossa”. Destre e neofascismo a Perugia dal dopoguerra agli anni Settanta, Foligno, Editoriale Umbra, 2020, pp. 15-21.

 

– A. Rossi, Fascisti toscani nella Repubblica di Salò 1943-1945, BFS, Pisa 2000.

 

– N. Tonietto, La genesi del neofascismo in Italia. Dal periodo clandestino alle manifestazioni per Trieste italiana. 1943-1953, Le Monnier, Firenze 2019.

 

Note

 

[1] Gli atti del convegno sono in corso di pubblicazione. Per la registrazione dell’evento vedi la sezione “Multimedia” presente in questa pagina.

[2] Sull’episodio vedi la documentazione raccolta in Archivio centrale dello Stato, Ministero dell’Interno (ACS, MI), Gabinetto, 1944-46, b. 188, fasc. 21017.

[3] Ivi, b. 203, fasc. 21856, Relazione del prefetto di Pisa, 10 aprile 1946 e Interrogatorio di Rutilio Sermonti, 14 marzo 1946. Ai primi di marzo 1946, molti dei componenti del gruppo erano individuati e arrestati dalla questura pisana prima di poter intraprendere una qualche concreta attività.

[4] Sulla prima organizzazione del MSI toscano si vedano in particolare i fascicoli raccolti nelle serie annuali del Gabinetto del ministero dell’Interno e della Direzione generale per la Pubblica sicurezza, conservati presso l’Archivio centrale dello Stato.

[5] Archivio di Stato di Firenze, Gabinetto di Questura (vers. 1963), ctg. A4b, b. 54, fasc. Movimento sociale italiano-Manifestazioni varie, Chi siamo e cosa volgiamo, s.d. [ma maggio 1947].

[6] Le citazioni sono tratte da alcuni manifesti affissi nel 1950 a Prato e a Pisa, conservati in ACS, MI, PS 1951, b. 36, fasc. K12-Firenze e Ivi, PS 1953, b. 40, fasc. K12-Pisa.

Articolo pubblicato nel marzo 2024.




Calcio Sovietico in Toscana

Gli studi che dimostrano il valore del calcio nella ricerca storica sono molti. Augé ha evidenziato il valore antropologico del football e come esso permetta un’identificazione o un’opposizione all’altro. In alcune partite svoltesi in Toscana, l’altro è stato l’Unione Sovietica.
Il calcio russo ha avuto una storia complessa; osteggiato in origine, divenne strumento pedagogico, propagandistico e diplomatico. Fu uno dei campi nei quali poteva essere dimostrata la supremazia socialista, secondo la Pravda divenne “un mezzo efficace per spezzare il blocco imposto dai capitalisti” e avrebbe permesso di “issare la bandiera sovietica nelle menti e nei cuori del popolo”.
Dunque, è difficile ignorare il valore storico delle manifestazioni sportive che hanno coinvolto squadre sovietiche in Toscana. I sovietici vennero in Italia più volte per trascorrere il periodo invernale; la Toscana metteva a disposizione il Centro Tecnico Federale di Coverciano, dove era possibile studiare le innovazioni tecnico-tattiche dell’Occidente. Erano pochi i Paesi dell’avanguardia calcistica disposti a ospitarli, mentre l’Italia e la Toscana potevano offrire la propria competenza e la presenza di molte amministrazioni amiche. La comparazione della partecipazione, dell’organizzazione, della rilevanza sociale delle partite nel corso dei decenni, ci dicono molto sulla percezione del valore e della solidità delle radici del simbolo comunista tra la
popolazione locale. Nel settembre 1955 la Dinamo Mosca giocò allo stadio Artemio Franchi di Firenze un’amichevole con la Fiorentina. La Dinamo era la squadra del Ministero dell’Interno, tra i suoi dirigenti vi erano uomini della Čeka, la polizia politica. Alla fine del secondo conflitto mondiale, la Dinamo venne mandata in tournée in Inghilterra e per diversi decenni dominò il calcio sovietico. Inoltre, nella rosa dei moscoviti vi era il leggendario portiere Lev Jašin. La città si mobilitò per accogliere i sovietici in un clima di festa. I giocatori comunisti vennero ricevuti a Santa Maria Novella con mazzi di garofani e fecero un Grand Tour della città, concludendo con una cerimonia in Palazzo Vecchio. L’evento non fu prettamente sportivo ed è chiaro che ebbe una rilevanza il peso politico degli ospiti. La partita si disputò davanti a 60.000 persone circa e vide la mitica Fiorentina del ’56 imporsi per 1 a 0.
Assume connotati diversi la partita che la nazionale sovietica giocò nel febbraio del 1979 a Prato. Secondo quanto riportato da La Nazione, l’amichevole fu voluta dalla dirigenza del Prato per attirare l’attenzione dell’amministrazione cittadina e dei pratesi sul club, in un match che ebbe poco da dire sul piano puramente sportivo. Quindi la presenza dell’11 sovietico funse da cassa di risonanza e venne ritenuto funzionale da parte della dirigenza. In quell’occasione i sovietici fecero un allenamento a Castelnuovo dei Sabbioni (Arezzo), dove nel 1978 era stato inaugurato un parco intitolato al partigiano sovietico Bujanov. Nel 1988 l’URSS era in preparazione per i campionati Europei e divise il suo ritiro tra Coverciano e la Garfagnana. Sotto la guida tecnica di Lobanovskij disputò alcune amichevoli per prepararsi alla competizione che la vedrà cadere soltanto in finale. Le amichevoli furono disputate con squadre dilettantistiche in quanto la FIGC mise il veto sugli incontri con squadre professionistiche prima dell’amichevole clou a Bari con la nazionale italiana. Dunque, la squadra del pallone d’oro Blochin si ritrovò a dover giocare a Pontassieve e fare appello per trovare qualche altro avversario disponibile e dotato di campo. Il Firenze Ovest, squadra della provincia fiorentina, propose il suo campo in terra battuta e con grande sorpresa i sovietici accettarono. Per gli abitanti di Brozzi fu l’occasione incredibile di vedere una nazionale maggiore sotto casa ma «La Nazione» descrisse così: “Clamorosa gaffe della FIGC, l’URSS costretta a giocare a Brozzi”.
Per i sovietici la partecipazione a match internazionali fu una testa di ponte per disgelare e rafforzare alcune relazioni diplomatiche; questo è evidente nei primi due incontri in analisi. La partita con la Dinamo di Mosca è anche una celebrazione della fratellanza che lega Firenze a Mosca, più che un evento calcistico sembra l’inizio di un interscambio che avrà luogo e si affievolirà nei decenni successivi. Lo vediamo già con la partita della nazionale a Prato; l’invito ai sovietici è già ormai mirante ad avere effetti solo sul raggio locale ed il rimando al ruolo di polo di riferimento assunto da Mosca dopo la Seconda guerra mondiale è già molto più tenue. Si celebra il passato, lontani dai centri amministrativi principali e si cerca di ottenere il massimo dalla presenza di quella che rimane una nazionale prestigiosa in grado di smuovere ancora gli entusiasmi. A Brozzi invece il ruolo politico dell’URSS, se percepito, è addirittura d’ostacolo. Una nazionale maggiore osteggiata al punto che parrebbe un’ospite sgradita e lasciata all’attenzione di una piccola polisportiva. Dalla pompa magna del 1955 alla gaffe del 1988 era evidente che l’URSS aveva perso la sua partita più importante col blocco capitalista.

Emanuele Federico Russo è laureato in Scienze Storiche presso l’Università di Firenze, docente di scuola secondaria di secondo grado, consulente storico e ricercatore presso l’Istituto storico della Resistenza di Pistoia. Ha collaborato alla pubblicazione de “Il Mito Sovietico nel PCI in Toscana” curato da Andrea Borelli (Pistoia, 2023) e ha pubblicato “Prima guerra mondiale e videogiochi, il caso di Valiant Hearts” per Farestoria (vol. 1, 2023) a cura di Edoardo Lombardi.

Articolo pubblicato nel marzo 2024.