Da tecnico cinematografico a partigiano

L’8 settembre 1943 l’annuncio dell’armistizio colse il Paese impreparato e in uno stato di profonda confusione. Pietro Badoglio, nel suo messaggio radiofonico, comunicò la cessazione delle ostilità con gli angloamericani, ma non fornì ulteriori indicazioni, lasciando nell’incertezza le forze armate e la popolazione civile. Le truppe italiane si trovarono allo sbando, prive di una strategia comune: molte furono disarmate dai tedeschi, altre cercarono di resistere, altre ancora si dispersero nel caos.

 

 

La Germania, fino a quel momento alleata, reagì con durezza occupando militarmente gran parte del territorio e instaurando un regime di controllo diretto. Nel giro di pochi giorni l’Italia si ritrovò divisa in due: il Sud controllato dagli Alleati e il Centro-nord in mano ai nazifascisti con un popolo spaesato, incerto se dover scegliere di collaborare o resistere. L’armistizio invece di rappresentare la fine della guerra segnò dunque l’inizio di una nuova fase, ancor più dolorosa e incerta, fatta di fame e di bombardamenti, di violenze e di soprusi.

Anche in Versilia la proclamazione dell’armistizio venne accolta con sentimenti contrastanti da parte degli antifascisti locali. Tra gli oppositori del regime non era presente una strategia condivisa su come affrontare la situazione, vi erano coloro che propendevano per un atteggiamento attendista e altri che invece sostenevano la necessità di dover intervenire immediatamente. Tra i più accesi oppositori al fascismo dominava la volontà di voler sfruttare il momento d’incertezza per assestare un colpo alle forze occupanti e sperare in un’insurrezione generale da parte della popolazione, mentre tra le fazioni moderate regnava l’indecisione, dettata dall’incapacità di prevedere l’evolversi degli eventi e dall’ormai ventennale inattività politica dovuta alla soppressione dei partiti.

Il comunicato di Badoglio aveva portato numerosi giovani e soldati dell’ormai disciolto esercito a ritirarsi sulle Apuane in attesa di conoscere l’evolversi della situazione. Sebbene fossero alimentati da una notevole determinazione i primi combattenti versiliesi dovettero ben presto riconoscere che la volontà e gli uomini non erano di per sé sufficienti per fronteggiare un nemico numericamente e tecnologicamente superiore. A parte qualche fucile trovato in cantina e qualche arma sottratta alle caserme i primi combattenti non disponevano di armamenti necessari per combattere i nazifascisti. Era dunque vitale per la nascente Resistenza versiliese riuscire ad incrementare il numero di equipaggiamenti bellici[1].

In questo momento della storia entra in scena il protagonista del nostro racconto, il ventinovenne Manfredo Bertini, nome di battaglia Maber. Nel 1943 Manfredo era ormai un affermato tecnico cinematografico che aveva curato la fotografia di numerosi film dell’epoca come Pioggia d’estate (1937), Ragazza che dorme (1941) e Il Re d’Inghilterra non paga (1941)[2]. Grazie a questa professione era stato esentato dal servizio militare e non aveva preso parte al conflitto. Nel corso del Ventennio Manfredo non aveva aderito a nessun gruppo clandestino e non aveva evidenziato un particolare interesse nei confronti della politica, limitandosi a concentrare l’attenzione sulla sua carriera di tecnico cinematografico. Nonostante ciò, dopo l’8 settembre Manfredo fu fra i primi a prender parte alla neonata Resistenza versiliese, non tanto per un’affinità con gli ideali comunisti quanto semmai per la comune avversione nei confronti di un nemico che opprimeva la popolazione e ne limitava la libertà.

 

 

Il lavoro che svolgeva gli aveva permesso di restare ai margini della guerra oltre a garantirgli ottimi guadagni che lo avevano messo al riparo dalle difficoltà economiche generalmente legate al conflitto, ma malgrado ciò, decise di sposare la causa della Resistenza e di accettare i rischi che questa comportava. Coloro che ebbero la fortuna di conoscerlo lo ricordano unanimemente come un uomo solare e spiritoso, capace di infondere fiducia e speranza alle persone che lo circondavano. Oltre ad essere un individuo particolarmente carismatico Maber era anche dotato di una notevole intelligenza e di una rapidità di pensiero che gli consentivano di risolvere situazioni all’apparenza insolubili.

 

I titoli di coda del film “Cenerentola e il signor Bonaventura”

 

Per ovviare alla situazione di stallo creatasi dopo l’8 settembre Manfredo propose agli esponenti della Resistenza versiliese di inviare una persona oltre le linee nemiche per stringere un contatto con gli Alleati, segnalare la propria presenza agli angloamericani, e richiederli i rifornimenti necessari per combattere gli occupanti. Manfredo per questa missione, denominata Operazione Gedeone, propose sua cognata, Vera Vassalle, una ventitreenne viareggina, persona fidata e capace, dalle profonde convinzioni antifasciste. La decisione di affidare l’incarico ad una ragazza poteva sembrare un azzardo, ma era invece motivata dalla considerazione che difficilmente avrebbe attirato le attenzioni dei nemici; inoltre ad avvalorare ulteriormente questo ragionamento contribuiva anche l’andamento claudicante di Vera, dovuto alla poliomielite che l’aveva colpita nell’infanzia. Partita da Viareggio il 14 settembre 1943, affrontò un estenuante viaggio durato due settimane, al termine del quale riuscì a varcare la linea del fronte e raggiungere gli americani a Montella, un piccolo comune montano in provincia di Avellino. Informati delle sue intenzioni, i militari la misero immediatamente in contatto con la sede dell’OSS (Office of Strategic Services) situata a Napoli. Una volta giunta nel capoluogo campano fu addestrata all’utilizzo delle telecomunicazioni e alla conoscenza dei sistemi informativi.

Terminato il periodo di formazione la giovane fu segretamente sbarcata nei pressi di Orbetello, nel gennaio 1944, da dove risalì fino a Viareggio, portando con sé l’attrezzatura necessaria per trasmettere e ricevere i messaggi degli Alleati. L’operazione si concluse positivamente e Vera riuscì a giungere nella sua città natale il 19 gennaio 1944[3].

 

Vera Vassalle

 

Ma non fu semplice riuscire subito ad attivare le comunicazioni con gli Alleati. Il radiotelegrafista affiancato ai combattenti toscani aveva smarrito i piani di comunicazione rendendo quindi impossibile qualsiasi contatto con gli angloamericani. Nonostante questo intoppo, i partigiani non interruppero però la loro attività e riuscirono a rendersi protagonisti di alcune azioni di disturbo ai danni delle forze occupanti e ad organizzare il primo rifornimento nella notte del 18 febbraio. Per l’occasione Maber coniò l’espressione “per chi non crede”, il segnale convenuto per dare il via all’iniziativa; il messaggio oltre a rappresentare l’avvio dell’operazione voleva anche rappresentare un invito a coloro che per paura o incertezza non avevano ancora sposato la causa. L’aviolancio si concluse con successo e i partigiani nascosti sulle Apuane riuscirono a raccogliere complessivamente diciassette bidoni carichi di materiali fondamentali per la lotta ai nazifascisti[4].

Radio “Rosa” divenne operativa solamente nel marzo 1944 con l’arrivo di Mario Robello, il tecnico inviato dagli Alleati con i nuovi piani di comunicazione. Nel corso della sua attività la stazione non limitò la propria azione al sostegno della Resistenza versiliese, ma estese il suo supporto anche all’assistenza degli altri gruppi sparsi per la regione, rappresentando un utile legame tra gli angloamericani e le unità impossibilitate a ricevere o fornire notizie. Nel corso della sua attività Radio “Rosa” organizzò numerosi rifornimenti e tenne costantemente aggiornati gli Alleati sugli spostamenti nemici.

Il primo rifornimento del 18 febbraio non passò inosservato attirando le attenzioni dei fascisti locali che organizzarono un rastrellamento nella zona: diversi componenti della formazione partigiana furono arrestati compreso Maber fermato presso l’abitazione del padre la mattina del 5 marzo, ma che riuscì a scappare con uno stratagemma. Prima di essere portato in caserma Manfredo chiese di poter utilizzare il bagno, uno dei militi entrò nella stanza e vedendo una minuscola finestrella dalla quale ipotizzò che fosse impossibile passare gli accordò il permesso. E una volta nel bagno Maber, grazie al suo fisico minuto, riuscì a passare da quell’angusto pertugio facendo perdere le sue tracce[5].

Il giorno dopo fece recapitare a suo padre un sarcastico messaggio che riassume meglio di tante altre parole la figura di Manfredo, capace di scherzare perfino in un frangente drammatico come quello:

Caro vecchio padre volevo mandarti una serratura nuova per sostituire quella rotta per colpa mia, ma fino ad ora me ne è mancato il tempo. Se tu per caso avessi modo di rivedere quei signori che vennero a cercarmi la mattina del cinque, avrei caro che tu cercassi di giustificarmi presso di loro per quella mia brutta maniera di andarmene senza salutarli. In ogni modo appena potrò di nuovo vederli, mi scuserò personalmente a voce e li persuaderò di tutte le mie buone intenzioni[6].

 

Il biglietto inviato al padre

 

Durante il periodo di clandestinità Manfredo venne nascosto nell’abitazione delle sorelle Anna e Maria Barsella,  che contribuirono enormemente alla lotta al nazifascismo rendendo la loro casa il quartier generale della Resistenza viareggina, un luogo dove poter occultare armi e documenti compromettenti e dove poter organizzare gli incontri con gli esponenti delle altre formazioni toscane. Pur non potendosi mostrare pubblicamente, Maber continuò a coordinare la lotta ai nazifascisti e a rappresentare un importante legame con gli Alleati e gli altri gruppi di ribelli.

Tra la fine della primavera e l’inizio dell’estate si registrò un raffreddamento nei contatti tra i combattenti versiliesi e gli angloamericani: il numero degli aviolanci diminuì e gli Alleati divennero più vaghi nelle comunicazioni. Per ravvivare il legame Maber ritenne necessario un incontro analogamente a quanto aveva fatto Vera qualche mese prima e insieme all’amico Gaetano De Stefanis partirono a bordo di una motocicletta alla volta del sud Italia. Lungo il tragitto vennero fermati ad un posto di blocco e avevano addosso ogni genere di materiale sensibile, come mappe e documenti, ma nonostante la sfortunata circostanza Maber riuscì miracolosamente a salvarsi anche in questa situazione, iniziando a pronunciare una sequela di parolacce che alle orecchie dei tedeschi non avevano alcun significato, ma che inspiegabilmente riuscirono a dare il tempo a quest’ultimo di potersi appartare e gettare il materiale compromettente prima che procedessero alla perquisizione[7].

Una volta entrati in contatto con gli Alleati Manfredo e Gaetano vennero indirizzati presso gli uffici dell’OSS. Visti gli ottimi risultati raggiunti in Versilia gli angloamericani decisero di sfruttare le capacità acquisite negli ultimi mesi e incaricarono loro di creare un altro centro d’informazione nel nord Italia che li tenesse informati sugli spostamenti dei nazisti (Missione Balilla). Nell’agosto 1944 i due partigiani vennero paracadutati nel piacentino, più precisamente nella zona intorno a Pecorara dove operava la Divisone “Piacenza” di Giustizia e Libertà, comandata da Fausto Cossu. Nei primi mesi ci fu l’invio di numerosi messaggi dal quartier generale della Sanese e furono organizzati gli aviolanci con l’arrivo dei fusti di metallo paracadutati dal cielo.

 

Alcuni componenti della Divisione “Piacenza”

 

La situazione precipitò quando agli inizi di ottobre Manfredo fu ferito mentre viaggiava su un’auto nel tratto di strada che da Pecorara porta a Pianello. Le circostanze dell’infortunio rimangono ancora poco chiare: non sappiamo se è stato colpito dai nazifascisti o addirittura dai compagni partigiani perché sembra si trovasse su un’automobile tedesca. Il fatto è che Maber venne colpito al braccio sinistro e la ferita purtroppo si rivelò più grave del previsto, peggiorando di giorno in giorno e procurandogli un dolore continuo. Fu quindi trasferito in casa di una cugina di Fanny Zambarbieri, Caterina Politi, e curato dal Dott. Ricci Oddi, un medico partigiano[8].

 

Manfredo insieme al dott. Ricci Oddi

 

Costretto a letto dalla dolorosa ferita riceveva ogni giorno le visite di Fanny e dell’amica Pia Bertani, alle quali chiedeva spesso di cantargli Firenze sogna di Cesare Cesarini. Da Manfredo si recavano sovente anche i comandanti partigiani per parlare di questioni organizzative, in quel caso le due ragazze si allontanavano dall’abitazione. Andavano a visitarlo anche il Dott. Ricci Oddi e un’infermiera, una ragazza di Pianello Val Tidone che pare gli somministrasse anche della morfina quando lui non riusciva più a resistere al dolore. Con il passare dei giorni, però, la ferita non migliorava costringendolo a ricorrere sempre più spesso alle iniezioni di morfina per alleviare il dolore. All’epoca gli antibiotici erano pressoché inesistenti e la ferita era probabilmente infetta[9].

Agli inizi di novembre arrivarono notizie allarmanti riguardo un massiccio concentramento di forze tedesche a Castel San Giovanni. I partigiani della Divisione Piacenza furono costretti a sciogliere le formazioni e fuggire nei vicini boschi, ed anche Maber nella notte tra il 23 e il 24 novembre insieme ad alcun compagni si incamminò per raggiungere il comando situato alla Sanese portandosi dietro il maggior numero di armi. Ma la ferita non era migliorata e Manfredo febbricitante faticava a stare dietro ai propri compagni. Arrivati alla Sanese chiese agli altri partigiani di installare l’antenna della radio su di un alto castagno e riprovò insistentemente a contattare gli Alleati senza riuscire a ricevere nessuna risposta[10].

Probabilmente è in questo momento che Manfredo maturò la decisione di abbandonare definitivamente il gruppo. Tallonati dai nazisti e privi di qualsiasi sostegno, gli uomini della “Piacenza” avevano ormai le ore contate e Maber si sentiva un peso perché la sua presenza rallentava la loro fuga. L’abbandono degli Alleati e il martellamento incessante dell’artiglieria nemica lo convinsero sempre più della scelta meditata in quei giorni, e dopo l’ennesima richiesta di aiuto agli angloamericani caduta nel vuoto, si allontanò con una scusa e si fece esplodere con una granata. Ai compagni non restò che comporne i resti mortali e dargli sepoltura sotto ad un albero, nei pressi della cascina, avvolgendolo nel telo del paracadute con cui era atterrato nel Piacentino appena un paio di mesi prima.

Prima di togliersi la vita Manfredo aveva scritto ai suoi compagni una lettera d’addio:

“Date le mie condizioni di salute, veramente pessime, a seguito della ferita ricevuta tre mesi orsono, sentendomi incapace a proseguire con mezzi propri, anche per la fatica sostenuta durante la giornata di oggi e di ieri, sono costretto a fare quello che sono in procinto di compiere per consentire agli altri componenti la missione di mettersi in salvo e continuare il lavoro. Sono certo infatti che la fatica che li attende sarà tale da non consentire la cura del sottoscritto; e sono certo d’altra parte, dati anche i rapporti di parentela e di stretta amicizia che mi legano con icomponenti la Missione Balilla I e Balilla II, che per nessuna altra ragione al mondo, diversa da quella che io stesso sto per procurare, i detti componenti abbandonerebbero il sottoscritto. Giuro di fronte a Dio che la mia di stanotte non è una fuga e questo desidero sappia mio figlio. Groppo 24 novembre 1944 Manfredo Bertini”[11]

Nonostante si sia distinto nel corso della Guerra di Liberazione e sia stato insignito della medaglia d’oro al valor militare, dopo la sua scomparsa la figura di Manfredo Bertini non è stata ampiamente celebrata.  Il suo ricordo affiora sporadicamente nella toponomastica della provincia di Lucca e Massa, senza però lasciare un segno indelebile o destare l’attenzione dei passanti[12]. Il tributo più significativo lo troviamo a Montecarlo, il paese natale di Manfredo, dove nel 1975 è stata affissa una targa sulla facciata dell’abitazione nella quale era cresciuto[13]. Un ulteriore riferimento alla sua memoria si incontra sul lungomare di Viareggio, dove sorge lo stabilimento Maber, donato nel secondo dopoguerra dal Comune alla vedova, come gesto di riconoscenza per la scomparsa del marito.

 

Targa posta sulla facciata dell’abitazione dove nacque Manfredo

 

Più recentemente il ricordo di Manfredo è riemerso nel 2011, in occasione del Festival del Cinema di Viareggio, nel corso del quale sono stati proposti al pubblico alcuni fotogrammi di Pioggia d’estate, l’inedito film girato nel 1937 da Mario Monicelli, a cui aveva collaborato. Il tutto è stato reso possibile grazie alla ricerca del regista Riccardo Mazzoni, che è riuscito a rinvenire il materiale nell’archivio di Andrea Bertini, il figlio di Manfredo[14].

 

 

[1]      L. Guccione, Missioni “Rosa” – “Balilla”: Resistenza e Alleati, Vangelista, Milano 1987, pp. 32-33.

[2]      https://www.imdb.com/it/name/nm1068683/.

[3]      F. Bergamini, G. Bimbi, Antifascismo e Resistenza in Versilia, A.N.P.I. Versilia, Viareggio 1983, pp. 58-60.

[4]      L. Guccione, Missioni “Rosa” – “Balilla”, cit., pp. 77-78.

[5]      F. Bergamini, G. Bimbi, Antifascismo e Resistenza in Versilia, cit., pp. 81-85.

[6]      Messaggio inviato da Manfredo Bertini al padre, citato in L. Guccione, Missioni “Rosa” – “Balilla”, cit., pp. 82-83.

[7]      F. Bergamini, G. Bimbi, Antifascismo e Resistenza in Versilia, cit., pp. 110-112.

[8]      L. Guccione, Missioni “Rosa” – “Balilla”, cit., p. 137.

[9]      Intervista a Giovanna Fanny Zambarbieri, https://www.youtube.com/watch?v=xR2vujiKFoY.

[10]    L. Guccione, Missioni “Rosa” – “Balilla”, cit., pp.154-157.

[11]    Lettera d’addio di Manfredo Bertini, citata in L. Guccione, Missioni “Rosa” – “Balilla”, cit., p. 163.

[12]    Abbiamo una via dedicata a Manfredo Bertini a Viareggio, Camaiore, Lucca e una piazza a San Salvatore, frazione del comune di Montecarlo.

[13]    L’abitazione dove Maber è cresciuto si trova in via Cerruglio.

[14]    https://www.iltirreno.it/versilia/cronaca/2011/10/11/news/cosi-ho-ritrovato-i-fotogrammi-di-pioggia-d-estate-1.2737038.

 

Articolo pubblicato nel settembre 2025




11 agosto 1944: insurrezione!

Nell’estate del 1943, lo sbarco degli anglo-americani e la caduta del fascismo fecero sperare nella imminente fine della guerra. La Toscana visse invece un anno di durissima occupazione nazifascista, colpita dai bombardamenti aerei degli Alleati, vessata da ruberie e deportazioni, martoriata da rappresaglie e stragi di civili.
Nell’estate seguente divenne teatro di aspri combattimenti tra l’esercito tedesco in ritirata verso le difese della linea Gotica, approntata sulla cresta appenninica, e gli Alleati che, conquistata Cassino a maggio erano giunti ai primi di luglio fino a Siena e alla Valdichiana. Da lì, fermati alle porte di Arezzo, mossero attraverso il Chianti direttamente verso Firenze.

Per otto mesi la città aveva assistito alla lotta impari quanto cruenta tra i gruppi armati della Resistenza e le forze, anzitutto la feroce banda guidata da Mario Carità, che davano la caccia ai cittadini ebrei, ai resistenti, ai renitenti, a quanti non sottostavano all’occupante tedesco e al governo fascista repubblicano. Anche nelle campagne, le formazioni partigiane si erano consolidate, passando all’offensiva.
In giugno, il Comitato toscano di liberazione nazionale, guida politica della Resistenza, chiamò per la prima volta in Italia all’insurrezione armata, che cacciasse i tedeschi dalla città già prima dell’arrivo degli Alleati, per affiancarne apertamente l’azione militare e così affermare la propria capacità di autogoverno. Un progetto tanto chiaro quanto difficile da realizzare.

I timori diffusi per i rischi notevoli, le preoccupazioni delle forze più moderate, le lusinghe di chi propugnava un ritiro concordato sotto le insegne della “città aperta”, guadagnarono campo con il forzato rallentare degli Alleati. Mentre i fascisti più compromessi abbandonavano la città, ma lasciandovi molte decine di “franchi tiratori” pronti a colpire nascostamente gli avversari e gli stessi civili, l’incertezza cresceva: i tedeschi si sarebbero ritirati o avrebbero atteso il nemico dentro la città d’arte? Gli Alleati avrebbero accettato lo scontro? E i partigiani, dotati di coraggio più che di uomini e armi, quale ruolo avrebbero potuto giocare?

Foto 1 fronteInterrogativi travolti infine dagli eventi. A fine luglio, sgomberate le rive dell’Arno, i tedeschi si attestarono su quella settentrionale e distrussero i ponti e una vasta area attorno al Ponte Vecchio, l’unico risparmiato, nella notte tra il 3 e il 4 agosto, giorno in cui gran parte delle forze partigiane e le prime pattuglie Alleate entrarono nei quartieri d’Oltrarno, subito aggredite dai “franchi tiratori”.

L’insurrezione fu proclamata soltanto l’11 agosto, quando i tedeschi lasciarono il centro cittadino e i partigiani poterono finalmente guadare il fiume. Dovettero subito impegnarsi in intensi combattimenti contro gli avversari, attestati da est a ovest lungo il passante ferroviario e il corso del Mugnone. Affiancati alcuni giorni dopo da pattuglie Alleate, ne contennero le controffensive e, attorno al 18 del mese, li respinsero sulle alture collinari. Ma solo alla fine di un lunghissimo agosto riuscirono a liberare i quartieri più settentrionali della città.
Foto 2 fronteOltre duecento morti e molte centinaia di feriti furono il prezzo pagato dagli uomini e dalle donne della Resistenza nella battaglia di Firenze. Un prezzo oltremodo elevato, giacché i partigiani giunti in città furono meno di millecinquecento e le squadre cittadine ne contavano pochi di più e nemmeno per metà armati. Ancor di più furono le vittime civili, notevolissimi i danni agli edifici e i disagi conseguenti per gli sfollati.

Eppure, l’insurrezione fu anche e soprattutto una festa, per la libertà riconquistata con le proprie forze e il proprio sacrificio e per la dimostrata capacità – legittimata anche dagli Alleati – di fondare sull’assunzione di responsabilità democraticamente condivise il diritto e il potere di governare la città e gli istituti della sua vita civile, economica e sociale.

Articolo pubblicato nell’agosto del 2014.




La guerra partigiana, un progetto didattico dell’ISRPT

L’Istituto Storico della Resistenza e dell’età contemporanea della provincia di Pistoia, in collaborazione con il Sindacato Pensionati CGIL Lega Ugo Schiano, l’ANPI e la Fondazione Valore Lavoro, da anni promuove il progetto “La guerra partigiana” rivolto alle scuole del territorio pistoiese, in particolare agli studenti delle classi quinte delle scuole primarie e alle classi delle scuole secondarie di primo grado.

Il progetto si propone di fare storia contemporanea tenendo conto della percezione che gli studenti hanno del rapporto tra passato e presente al fine di “conoscere il passato per costruire il futuro”.

Gli studenti pertanto seguono un percorso di approfondimento sul Novecento attraverso lezioni sulla seconda Guerra mondiale con focus sulla storia locale, figure di rilievo e visite guidate ai luoghi della storia con i ricercatori ISRPT e altri esperti locali.

Le lezioni introduttive si svolgono in classe, hanno carattere generale e sono arricchite da materiali fotografici e indicazioni di approfondimento, riferimenti alle fonti, disponibili anche on line, e materiali audiovisivi su proposta dei ricercatori dell’Istituto.

A queste si aggiunge la possibilità per le classi aderenti al progetto di approfondire la storia locale con percorsi di urban trekking differenziati in città, per esempio presso la Fortezza Santa Barbara o nel centro storico di Pistoia, al cimitero Brasiliano di San Rocco oppure, con un’uscita più strutturata, sul Passo della Collina dove si snodava la Linea Gotica. La visita ai luoghi permette di raggiungere uno step ulteriore unendo la consapevolezza dell’importanza del patrimonio del territorio alla conoscenza storica.

Un altro percorso offerto dal progetto è quello laboratoriale da svolgersi in classe. Si tratta del laboratorio di Lego History: gli studenti dopo aver approfondito il tema della Seconda Guerra mondiale e la guerra partigiana sono chiamati a realizzare dei diorami con i mattoncini e personaggi Lego che rappresentino la Resistenza, ambientando le scene in uno spazio urbano, in montagna o in campagna e ricostruendo storie conosciute o verosimili. In tal modo gli studenti agendo le proprie conoscenze attraverso il gioco e grazie alla metodologia del cooperative learning, lavorano in piccolo gruppo e partecipando ad un’attività altamente inclusiva.

L’ultima parte del laboratorio prevede una restituzione fatta da uno o più studenti per gruppo che consiste nella narrazione alla classe della scena riprodotta e dei ruoli dei protagonisti inseriti nel contesto scelto (partigiani, fascisti, spie, soldati tedeschi, civili e staffette…). Tale momento si rivela fondamentale per comprendere, oltre alle conoscenze acquisite in precedenza dagli studenti, come la memoria collettiva di un evento abbia influito in un quel contesto. Successivamente l’insegnante e il ricercatore dell’istituto che nel processo educativo fungono da mediatori, possono correggere eventuali imprecisioni o letture che hanno a che fare più con la memoria che con la storia, soprattutto in ambito locale.

A questo punto le classi, lavorando con i propri insegnanti, sono invitate a produrre materiali di vario genere (dal disegno all’articolo sul giornalino di scuola, dal testo scritto al power point, ecc.) per una restituzione collettiva.

La scelta di una didattica attiva in questo senso si rivela particolarmente importante per la valorizzazione del pensiero critico, la riflessione metacognitiva, la risoluzione di problemi e non ultimo il coinvolgimento della pluralità degli alunni.

Quest’anno, in occasione del 50’ della Liberazione dal nazifascismo, il progetto che nel suo complesso ha coinvolto 150 studenti, ha previsto una giornata conclusiva, svoltasi il 24 maggio presso la sala Soci Coop di Pistoia con gli studenti e gli insegnanti. Dopo la restituzione delle esperienze didattiche si è svolta la consegna degli attestati. La mattinata è stata un ultimo passaggio per condivisione collettiva alla presenza di genitori e pubblico cittadino inserendosi a buon titolo nelle pratiche della public history of education.

 

 

Alice Vannucchi ha conseguito la laurea specialistica in Storia contemporanea presso l’Università degli Studi di Firenze. Docente nella scuola primaria, è responsabile della didattica dell’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea nella Provincia di Pistoia, membro della redazione del periodico “Farestoria” dell’ISRPt, membro del Consiglio direttivo e dell’Ufficio di Presidenza dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’età Contemporanea di Pistoia e Vicepresidente. Tra le sue attività e campi di ricerca ci sono esuli istriani in Toscana, la Resistenza toscana e nazionale. la storia culturale, editoria e storia locale, leggi razziali e Shoah, la formazione delle classi dirigenti, nello specifico, le scuole di partito del PCI del secondo dopoguerra con particolare attenzione alla regione Toscana.  Si occupa di didattica della storia, metodologie e letteratura per ragazzi di argomento storico. Per l’area didattica dell’istituto cura l’attività didattica, la preparazione e coordinamento per l’offerta formativa e la formazione docenti. Tra le pubblicazioni e curatele: Alice Vannucchi, Giovanna Sgueglia, Un posto mio in un mondo straniero. Gli esuli istriano giuliano dalmati a Pistoia, in Una vicenda del Novecento. Nazionalismi, foibe ed esodo tra storia e narrazione pubblica, in Edoardo Lombardi (a cura di) Atti del seminario «Il confine non è una semplice linea. Storie e memorie tra antislavismo, foibe ed esodo». Pistoia, 10 febbraio 2021, Pistoia, ISRPt, 2022; Alice Vannucchi (a cura di), G. Bruschi, Un Partigiano di nome Annibale, Pistoia, Settegiorni Editore, 2015; Alice Vannucchi, Giovanni Tellini libraio ed editore, Pistoia, ISRPt, 2014. Tra gli articoli, Alice Vannucchi, La letteratura divulgativa per ragazzi al tempo del federalismo, in «Quaderni di Farestoria»,1, (2012);  Alice Vannucchi, Le scuole di Partito nel PCI di Togliatti. Il caso toscano 1945-1953, «Quaderni di Farestoria», 2, (2010).




PISA 1944, IL RITORNO DEL GATTOPARDO

Dall’incrocio di archivi pubblici e privati, il racconto di come, nel caso emblematico di Pisa, poté imporsi quella continuità di uomini e apparati che segnò il dopoguerra[1].

Per vent’anni aveva vissuto in esilio a Roma, sognando ogni giorno il grande ritorno. Con la Liberazione il momento era arrivato. In una provincia devastata dalla guerra, c’era chi invocava l’avvento di un ordine nuovo. Lui no: già settantenne, ma in ottima forma, lui voleva chiudere in fretta non solo la “parentesi fascista”, ma anche quella partigiana.
Così tornò a Pisa l’ex Ministro Arnaldo Dello Sbarba nell’anno di grazia 1944. Agendo da regista tra Roma, la “sua” Pisa e l’ancor più “sua” Volterra, strinse la giovane forza dei CLN in una morsa di poteri convergenti: prefetti, partiti moderati, governo Bonomi, tribunale, stampa. Ecco come fece e chi lo aiutò.

Collesalvetti, 31 agosto 1944: il CLN di Pisa tiene la sua ultima riunione clandestina. I nazisti abbandonano la linea dell’Arno, dopodomani si entra in città. Tutti i ponti sono stati fatti saltare, la guerra ha fatto migliaia di vittime. Ma in quest’ultima seduta si respira l’aria dei giorni grandi. Vanno nominati gli uomini che la rivoluzione democratica insedierà ai vertici di tutti gli enti pubblici, dal comune agli ospedali, dalla Cassa di Risparmio alla polizia municipale. Come sindaco viene proposto Italo Bargagna, commissario politico della 23a Brigata bis Garibaldi “G. Boscaglia”; come questore Alberto Bargagna, comandante della stessa Brigata Garibaldi; come prefetto il comunista Armando Monasterio. Su ogni nomina il CLN dovrà fare i conti con il governatore militare alleato. E mette le mani avanti: “Si delibera di mandare una relazione al governo di Roma allo scopo di evitare la nomina di Dello Sbarba a prefetto di Pisa”[2].

Da giorni circolano voci in proposito. A Roma il governo del CLN è guidato da Ivanoe Bonomi, che ha resuscitato un “Partito democratico del Lavoro” (PDL) raccogliendo vecchi notabili del prefascismo. Per Claudio Pavone “partito trasformista per eccellenza”[3]. Si sa che Bonomi, nell’Italia già liberata, sta sostituendo i “prefetti del CLN” con funzionari di carriera o con compagni del suo stesso partito. A Roma ha nominato prefetto Giovanni Persico, suo braccio destro.
Si sa che Arnaldo Dello Sbarba è tra i cofondatori di questo PDL: “A Roma, prima del 25 Luglio – racconta lui stesso – io mi tenevo in contatto con alcuni dei principali esponenti dell’antifascismo”[4]. Si sa che nella Siena appena liberata è stato lo stesso CLN a proporre a Dello Sbarba di fare il commissario dell’ospedale di Santa Maria della Scala. Lui ha declinato l’invito: gli interessa tornare a casa. A Volterra. E poi a Pisa.


Anni ’20, Arnaldo Dello Sbarba, (secondo da destra) ministro del governo Facta, in una cerimonia a Roma

L’ex ministro conta su protezioni altolocate. Come quella di Adalberto Berruti, potente capo di gabinetto al Ministero dell’interno (che il presidente Bonomi ha tenuto per sé). Berruti è stato prefetto di Pisa dal 1941 al 1943: “In quel periodo – scriverà Berruti – ebbi occasione di conoscere l’on. Arnaldo Dello Sbarba e di avere con lui, in parecchie circostanze, colloqui e scambi di vedute. Ebbi così modo di apprezzare l’elevatezza di pensiero e di sentimento dell’on. Dello Sbarba. Dopo il 25 luglio 1943 fu tra i miei più validi collaboratori nella liquidazione del fascismo pisano”[5]. I due non si erano più persi di vista. Appena lasciata Pisa, Berruti aveva ricontattato Arnaldo: “Eccellenza, le mando da Roma il mio saluto. Conservo di Lei il miglior ricordo e mi auguro di incontrarla presto”. Come dire: si tenga pronto[6].
Berruti è un piemontese la cui antipatia verso i fascisti è pari al suo rigore istituzionale[7]. Diventato capo di gabinetto, Berruti ha voce in capitolo sulla nomina dei prefetti. Pisa gli sta particolarmente a cuore. Vi destina quindi un suo uomo di fiducia: Vincenzo Peruzzo. Anche la vita di Peruzzo si era già incrociata con quella di Arnaldo Dello Sbarba. Peruzzo era stato dal 1921 al 1922 al Gabinetto per le pensioni di guerra nel governo in cui Arnaldo era ministro del lavoro. La carriera di Peruzzo aveva attraversato il fascismo. Per otto anni aveva addirittura lavorato per l’ufficio stampa di Mussolini. Il suo rapporto col regime si era guastato con la guerra: “Per noi – scrive nella sua autobiografia – si sarebbe comunque conclusa con una disfatta: soggiogati dai tedeschi vincitori, o vinti dagli alleati”[8].

Vincenzo Peruzzo arriva a Pisa il 7 settembre 1944: è “il primo prefetto dopo la Liberazione”. Scosso dalle drammatiche condizioni della città, Peruzzo se ne prende cura con una dedizione che la gente ammira. Con la politica però è diverso: ha rapporti difficili col sindaco Bargagna, consulta il meno possibile i CLN, appena può sostituisce i sindaci nominati dalla Resistenza, soprattutto se comunisti. Ai politici preferisce i tecnici. “Ma i tecnici da lui nominati – scrive Carla Forti nel suo saggio su Pisa nel dopoguerra – sono immancabilmente o rappresentanti dei poteri forti, o funzionari pubblici in carica nel precedente ventennio”[9].

Peruzzo lega subito con Arnaldo. Già il 5 ottobre – ignorando i desiderata del CLN – lo nomina commissario della Cassa di Risparmio di Pisa. “Dopo i primi sondaggi con le autorità locali e con le persone più autorevoli dell’ambiente pisano – racconta Peruzzo – mi parve di aver scelto l’uomo adatto al posto importante”.
Secondo passo. Nel novembre il prefetto nomina la giunta provinciale. “Dopo opportuni sondaggi”, Peruzzo designa come presidente il democristiano Aldo Fascetti e, tra gli assessori, l’avvocato Gino Sossi. Sossi è cognato di Arnaldo Dello Sbarba, nonché suo socio in affari e in politica.
Terzo passo. Il 23 novembre Peruzzo istituisce la “Commissione provinciale istruttoria per l’epurazione” composta dal presidente del Tribunale Tito Cangini, dal magistrato Giovanni Miele e dal matematico Leonida Tonelli. Anche Tito Cangini è legato ad Arnaldo Dello Sbarba: è stato giudice al tribunale di Volterra e presidente della locale Cassa di Risparmio[10]. In entrambi gli ambiti Arnaldo è di casa. La commissione per l’epurazione, scrive Carla Forti, “giudicherà da non punirsi quasi tutti i sospesi dal servizio”. In perfetta assonanza col prefetto che, preso in consegna dagli alleati il campo di prigionia per ex fascisti di Coltano, lo svuoterà a tempo di record dei 32.000 internati “con la liberazione – scrive ancora Forti – di quasi tutti i prigionieri”[11].

Come se non bastasse, all’inizio del 1945 il prefetto Peruzzo nomina Arnaldo Dello Sbarba anche presidente del neo-istituito “Comitato provinciale per la ricostruzione”, con l’incarico di fare “la ricognizione dei danni e le opportune proposte da sottoporre al governo per chiedere aiuti adeguati”. Il comitato ha un ruolo vitale per la ripresa economica e sociale della provincia pisana. Ma è anche uno schiaffo al sindaco Bargagna, che “senza un preventivo concerto tra noi – dice Peruzzo – aveva pure pensato di costituire una commissione”. Per Peruzzo, però, è dal prefetto e non dal Comune che devono passare le relazioni con Roma.

L’incarico per la ricostruzione offre ad Arnaldo Dello Sbarba la possibilità di dire la sua sulle scelte della città. Lo fa grazie a compiacenti interviste sul «Tirreno» diretto dal suo vecchio amico Athos Gastone Banti. Banti nel 1924 dirigeva a Firenze il «Nuovo Giornale» e aveva tentato di promuovere la candidatura di Dello Sbarba nel “Listone” fascista con una intensa campagna di stampa. Arnaldo lo compensò con due assegni da 5.000 lire firmati dal direttore della Solvay di Rosignano, generosa finanziatrice della sua carriera politica. Adesso, sul «Tirreno» di Livorno, Dello Sbarba può vantarsi della sua intimità col ministro dei Lavori Pubblici Meuccio Ruini, suo compagno di partito: “Sono mesi che io faccio la spola tra Pisa e Roma!”[12].

Oltre a Pisa c’è Volterra. Arnaldo la considera città “sua”. Ma Volterra è il baluardo della 23a Brigata bis Garibaldi “G. Boscaglia” e i partigiani pretendono l’epurazione radicale degli ex fascisti. A Volterra è forte il Partito d’azione, il più determinato a chiedere un cambio netto di classe dirigente. Presidente del CLN è l’intellettuale azionista Umberto Borgna, innovatore nell’arte dell’alabastro. Azionisti sono Giovanni Salghetti Drioli, dirigente del CLN nell’ufficio tecnico del Comune, e lo scrittore Carlo Cassola, direttore del settimanale «Volterra Libera». Membri del CLN nel giorno della liberazione sono anche il socialista Amedeo Meini, i comunisti Mario Giustarini e Fernando Frattini e il democristiano Aldo Tozzi. Ma il personale disponibile scarseggia. Così nella Giunta comunale ricorrono gli stessi nomi, ma a parti scambiate: Meini sindaco e Borgna vice, oltre a due comunisti e due socialisti come assessori e un agrario “apolitico” come unica concessione agli Alleati. In città si sono concentrati gli uomini della Brigata Garibaldi. E il governatore alleato Clive Robinson ha in linea di massima avvallato le nomine del CLN.
La più importante delle quali è il consiglio di amministrazione del grande ospedale psichiatrico che, con oltre 4.500 pazienti e centinaia di sanitari, è il maggior datore di lavoro della città. Presidente è Mario Basile del Partito d’azione (anche direttore del carcere), membri sono Amedeo Meini (anche sindaco), Mario Giustarini e Aldo Tozzi (anche assessori comunali) e Alfredo Zoppi (anche presidente della bonifica)[13].

Arnaldo Dello Sbarba considera però l’ospedale psichiatrico una propria creatura. Per diversi anni aveva infatti presieduto la “Congregazione di carità”, ente giuridico dell’istituto, in un sodalizio sempre più stretto col geniale direttore Luigi Scabia, che aveva fatto del “Frenocomio di San Girolamo” un modello d’avanguardia della psichiatria europea[14]. Da allora Scabia era diventato l’appassionato sostenitore dell’ascesa politica di Arnaldo e Arnaldo lo strenuo difensore di Scabia dagli attacchi dei fascisti. Arnaldo considerava insomma gli amministratori nominati dal CLN come spine nel fianco. E si era messo in moto.

Il 13 novembre 1944, i partiti liberale, democristiano e demo-laburista volterrani inviano una lettera di fuoco al prefetto e al questore di Pisa. Attaccano violentemente il CLN volterrano, invocano “il ritorno alla normalità” e denunciano, nell’ordine: “arbìtri (incitamento alla rivolta, detenzione abusiva di armi, minacce ecc.), accentramento di cariche, illegalità della costituzione del CDA dell’Ospedale psichiatrico”[15].
Detto, fatto. Il 23 novembre il prefetto Vincenzo Peruzzo dispone lo scioglimento del CDA e nomina un commissario prefettizio “fino alla ricostituzione dell’ordinaria rappresentanza”[16] .
La reazione del CLN volterrano è immediata. Dietro l’azione – mette a verbale il 26 novembre – c’è un ristretto gruppo “risultato chiaramente far capo ad Arnaldo Dello Sbarba, che viene aspramente giudicato per la slealtà”. I commissariamenti – ricorda il CLN – li usavano i fascisti contro Scabia. Lo stesso sistema è ora invocato da “ben individuati gruppetti reazionari e fascistoidi” a colpi di ”anonima delazione e intrighi di corridoio”[17]. Il CLN di Volterra chiede l’immediato ritiro del commissario e un incontro urgente col Prefetto.

Ma prima che la delegazione guidata da Borgna e Meini riesca a farsi ricevere dal Prefetto, un’altra tegola “sbarbiana” cade sulla testa del CLN volterrano. Il 3 dicembre 1944 l’avvocato Arnaldo Frattini, membro comunista del CLN provinciale, porta da Pisa la notizia di “una probabile ammissione dell’avv. Arnaldo Dello Sbarba in seno al CLN provinciale” in rappresentanza del Partito demo-laburista. Per i volterrani è il colmo. In una seduta straordinaria in cui i democristiani sono “assenti perché non invitati”, vista la loro posizione sull’ospedale psichiatrico, comunisti, socialisti e azionisti redigono “una relazione sulla figura morale e politica del Dello Sbarba, stilata dai presenti in base a documentazioni potute raccogliere e firmata dal presidente Borgna“, da inviare ai CLN provinciale, regionale e nazionale, nonché agli organi periferici e centrali dei partiti della sinistra[18].

La relazione è durissima. “Il Dello Sbarba – accusa Borgna – che ama presentarsi come ex deputato antifascista, sin dalle origini del fascismo collaborò con questo, riuscendo ad esservi ammesso dopo il 1935”.
A prova della compromissione di Arnaldo, Borgna cita la sua candidatura nel 1921 come capolista del “Blocco nazionale” di Giolitti, che comprendeva anche i fascisti. “Dura ancora nella memoria del popolo di Volterra – scrive – il ricordo della triste giornata di violenze esperite dalle squadre del fascio volterrano il 7 Maggio 1921 dopo il comizio elettorale tenuto al teatro Persio Flacco dal Dello Sbarba, nel quale egli rivolse infiammate parole ai fascisti”.
Quella giornata fu un vero shock per la città. Quel giorno, scriverà un testimone oculare, l’alabastraio socialista Arnaldo Fratini, “Arnaldo Dello Sbarba scese l’ultimo gradino della sua carriera politica. Durante il corteo che si svolse per le vie della città, i fascisti al suo seguito distribuirono diversi pattoni a chi, al loro passaggio, non si toglieva il cappello. Giunti all’altezza della trattoria di Balosce, di fronte al Cinema Centrale, vi entrarono spaccando tutto e picchiando tutti coloro che vi si trovavano”[19].
Nella risposta a quello che con disprezzo chiamò “Libello Borgna”, Arnaldo minimizzerà il ruolo dei fascisti quel giorno. Ma la cronaca pubblicata dal «Corazziere», giornale monarchico e conservatore cittadino, conferma che tra gli oratori ufficiali in teatro ci fu anche “il fascista signor Davino Volterrani”, che il corteo si svolse “tra canti e inni patriottici” e che di seguito il PSI affisse un manifesto che diceva: “Chi vota per Arnaldo Dello Sbarba vota per il fascismo contro il socialismo”[20].
Questo per il passato. Sul presente, Borgna cita il commissariamento dell’ospedale psichiatrico, provocato da Dello Sbarba con “l’intensa opera disgregatrice e diffamatoria che ha svolto presso la Prefettura di Pisa dove purtroppo le sue parole sembrano ancora trovare credito”. La relazione si conclude con l’appello al CLN provinciale “di respingere la richiesta d’ammissione nel suo seno dell’avv. Arnaldo Dello Sbarba”.

Arnaldo viene avvertito della relazione Borgna prima a voce da Tito Cangini, poi per lettera da Mario Piccioli, rappresentante del PDL nel CLN pisano: “Ottenni il rinvio della discussione. È opportuno che Lei prepari una esauriente risposta”. La risposta non arriva subito. Prima arrivano, firmate dai segretari volterrani di DC, PLI e PDL, tre lettere di protesta per le “violente accuse contro l’avv. Arnaldo Dello Sbarba”. Le tre lettere sono opera di una stessa mano: tra le carte private di Arnaldo se ne trova la minuta scritta con la sua inconfondibile calligrafia[21].

Il 27 dicembre arriva finalmente l’autodifesa di Arnaldo Dello Sbarba: “È venuta l’ora di gridare basta!” scrive l’accusato. “Il libello Borgna non è che la continuazione di quella caccia all’uomo, di marca squisitamente fascista, di cui sono vittima da vent’anni”[22]. Nella sua abile autodifesa Arnaldo sfrutta il vantaggio che ha, su avversari che conoscono poco della sua vera vita, per dire mezze verità – e pure qualche non verità – senza tema di smentita.
La tessera fascista ad esempio non la nega, ma la minimizza: “La conferì Ettore Muti a tutti gli ex combattenti” e lui, che non l’aveva chiesta, l’accettò. Ma “anche con quella bella tessera le diffidenze contro di me non cessarono”. E soprattutto: “nessuno mi ha mai visto né in montura, né in adunate, né in collaborazioni dirette o indirette”[23].
Arnaldo elenca invece con precisione “le persecuzioni fasciste” che ha patito: la devastazione di casa e l’ufficio sul Lungarno a Pisa; l’assedio a sua madre a Volterra; il divieto di esercitare la professione nella città della Torre pendente; l’incendio di un suo rifugio a Pietrasanta; l’aggressione degli squadristi della “banda Buffarini” alla stazione di Pisa; l’esilio a Roma; la vigilanza di polizia subita dal 1925 al 1929; il mandato di cattura spiccato dal prefetto repubblichino Adami nell’ottobre 1943 e infine la latitanza nella campagna senese.
Tutto vero. Ma sulle cruciali elezioni politiche del 1924, che segnarono la rottura del fascismo pisano con l’ex ministro, Arnaldo è molto più reticente. Scrive che i fascisti intransigenti gli impedirono “di far parte di quella lista di minoranza che la legge elettorale consentiva per i NON ADERENTI AL FASCISMO” (il maiuscolo è suo). E qui mente.
Gli archivi documentano tutt’altra verità. Raccontano cioè i tentativi da lui fatti per oltre un anno di ottenere una candidatura non di minoranza, ma direttamente nel “Listone” di Mussolini, con l’appoggio dello stesso Duce e del suo braccio destro Cesare Rossi, che elogiava “il suo contributo di affiancatore del movimento fascista in varie sue fasi”[24]. L’adesione a una lista di minoranza Arnaldo Dello Sbarba la considerò solo per qualche ora, il giorno in cui la sua candidatura coi fascisti saltò. Tentazione fugace e subito accantonata. A sera assicurò a Mussolini il suo pubblico appello a votare comunque la lista fascista come “mio disinteressato aiuto alla forte battaglia che Tu combatti con pugno sicuro”[25].

Anni ’30, Arnaldo Dello Sbarba avvocato d’affari a Roma

Sugli anni dell’esilio romano di Arnaldo, il CLN e l’opinione pubblica pisana erano ancora meno informati. L’odio fascista per Dello Sbarba era infatti concentrato a Pisa. A Roma poteva invece frequentare i palazzi del potere e diventare un avvocato d’affari di successo, salvo fare attenzione a mantenersi “indifferente” verso il regime, come segnalavano nel 1927 le autorità romane di polizia che lo sorvegliavano[26].
A proposito d’affari, dalle ricerche svolte presso l’Archivio centrale dello Stato di Roma sono emerse delle carte davvero sorprendenti. Nel 1926 Arnaldo Dello Sbarba entra in società addirittura con Marcello Piacentini, l’architetto di Mussolini, e Angelo Rossellini, grande impresario edile (e padre del futuro regista Roberto). I tre si uniscono nell’A.P.I.S. “Anonima Per le Industrie Stabili”, allo scopo di riedificare completamente l’area tra Piazza Barberini e Piazza S. Bernardo[27]. Per alcuni anni Arnaldo ha il suo studio di avvocato nella sede dell’A.P.I.S. in via S. Niccolò da Tolentino, in area Barberini. Piacentini – che presiede la società – si occupa di progettazione, Rossellini di costruzioni e Arnaldo di finanza, cioè di reperire i capitali necessari per realizzare le opere.
In questo Arnaldo ci sapeva fare, era versatile, efficiente, instancabile. Da ex Ministro al lavoro e alla previdenza sociale sapeva come attrarre gli investimenti dei grandi istituti di previdenza, delle banche pubbliche e para-pubbliche, delle assicurazioni sociali. Quello di Arnaldo era un ruolo chiave per Piacentini, diventato l’architetto prediletto dal Duce proprio per l’abilità con cui riusciva a portare a termine progetti smisurati.
Partiti i lavori nel 1926, Mussolini visitò il cantiere nel settembre del 1930 e – racconta Paolo Nicoloso nella sua biografia di Piacentini – ne rimase compiaciuto. Definì la nuova via Barberini “un’arteria di grande respiro”, ammirò “le linee architettoniche dei palazzi (…) e il nuovo cinematografo” che era stato da poco inaugurato e fu per l’epoca un’opera avveniristica[28].
Nel 1934 l’A.P.I.S. aveva già concluso la sua missione e Arnaldo ne era potuto uscire “con qualche cosa alla mano – scrisse al fratello Bruno – che vedrò come impiegare utilmente”[29].

Anni ’30, Arnaldo Dello Sbarba avvocato d’affari a Roma

Ma perfino a Pisa Arnaldo Dello Sbarba riuscì a operare nonostante l’esilio. San Giuliano Terme è un borgo termale appena fuori Pisa. Il 20 giugno del 1923, nello studio dell’avvocato Gino Sossi sul Lungarno Mediceo, venne fondata la società anonima “Regie Terme di San Giuliano” e firmato il contratto di gestione dei bagni per sessant’anni, un canone basso e l’impegno di forti investimenti. “Il perno della compagine societaria – scrive Mirella Scardozzi nella sua storia dei “Bagni di Pisa” – non era un imprenditore nel senso comune del termine, ma un personaggio politico di notevole rilievo locale e nazionale, l’avvocato Arnaldo Dello Sbarba”[30]. Come sappiamo, Sossi era cognato di Arnaldo e della società era socio anche il fratello Bruno.
Da Ministro alla previdenza, Arnaldo si era occupato intensamente di termalismo e per le “Regie Terme” il suo risiedere a Roma si rivelò vitale. Quando la crisi del 1929 farà crollare il turismo termale di lusso, sarà infatti grazie alle convenzioni con la Cassa Nazionale delle Assicurazioni Sociali che Arnaldo riuscirà a tappare i buchi nel bilancio. E quando neppure questo basterà, e le “Regie Terme”, a un passo dal fallimento, verranno accusate di inadempienza negli investimenti, sarà proprio all’Istituto Nazionale Fascista per la Previdenza Sociale che Arnaldo riuscirà a vendere sia la società che gli stabilimenti – e non in una, ma in ben tre cessioni frazionate, l’ultima nel luglio 1939. Grazie a questo, scrive Mirella Scardozzi, “i 16 anni di vita della società non si rivelarono per i suoi azionisti così negativi come farebbero pensare i bilanci sempre in rosso”.

Ma torniamo al dicembre 1944 e al “libello Borgna”. Non fu la diatriba sul suo passato a far vincere Arnaldo Dello Sbarba, ma due semplici argomentazioni giuridiche della sua autodifesa. E cioè: primo, le regole istitutive dei CLN non prevedono “il diritto di sindacazione politica sulle persone delegate dai rispettivi partiti a rappresentarle”. E, secondo: il “Libello Borgna” è nullo, poiché approvato escludendo a priori una parte del CLN. Sulla questione il CLN provinciale vota infine il 29 dicembre 1944: “A maggioranza di voti si ammette l’on. Dello Sbarba in seno al CLN di Pisa”[31].
La decisione fa probabilmente parte di un unico pacchetto. Il giorno prima infatti era stato chiuso anche il conflitto sull’ospedale psichiatrico. Il prefetto Vincenzo Peruzzo era salito a Volterra e aveva negoziato col CLN un nuovo consiglio di amministrazione. Del vecchio erano rimasti in due, il presidente Mario Basile e Mario Giustarini. Tutti gli altri erano nuovi: l’ingegner Giovanni Salghetti Drioli, Emilio Vanni e un colonnello, Piero Ricci. La composizione era gradita al Prefetto, il commissario fu ritirato[32].
La questione politica invece restò aperta. Il CLN volterrano venne tartassato per mesi di domande dal CLN nazionale e dal governo Bonomi. Se la sua composizione fosse regolare, perché a Volterra PLI e PDL non fossero ammessi, quando e da chi fosse stato approvato il “Libello Borgna” e così via. I volterrani da accusatori erano diventati imputati[33].

La situazione precipita nell’aprile 1945. Il 10 il CLN di Volterra, a conclusione di una vasta raccolta di informazioni, vuole finalmente deliberare sull’epurazione degli ex fascisti. E comincia dall’assemblea dei soci della Cassa di Risparmio di Volterra. I democristiani propongono di delegare il compito alla Cassa stessa, ma la sinistra fa muro: “non è logico che gli epurandi possano decidere sulla loro stessa epurazione!”. La lista viene approvata, contiene 14 nomi, su 6 la DC vota contro. Ci sono cognomi che contano: Ciapetti, Guidi, Lagorio, Inghirami, Ginori. C’è anche Arnaldo Dello Sbarba – quella è la sua “banca di casa”. È un azzardo.
Il giorno dopo Borgna e compagni vengono convocati d’urgenza dal Governatore alleato. Si tratta delle misure contro gli ex fascisti. La seduta è drammatica. Riferendosi ad arresti di fascisti in zona, il governatore dice che “non si può trattenere una persona verso la quale non vi siano denunce specifiche”. Borgna ribatte: “i maggiormente responsabili ed in special modo i sovvenzionatori ed i sostenitori del fascismo” hanno sempre agito nell’ombra. Coi criteri del Governatore “non potranno mai essere arrestati né colpiti“. Il Governatore non cede. Cede il CLN, riservandosi di raccogliere denunce più circonstanziate e intanto di spiegare alla popolazione “la ragione dei mancati arresti”[34].
Ma non basta. In base a due successive circolari del CLN provinciale, il CLN di Volterra prima è costretto ad accogliere il PLI, poi a fare marcia indietro sull’epurazione. Va delegata agli enti interessati: proprio quel che pochi giorni prima era stato giudicato “illogico”.
Alla fine – ed è il 24 aprile, proprio alla vigilia della Liberazione – Umberto Borgna si dimette dal CLN. Si dimettono anche Amedeo Meini, il sindaco, e Mario Basile, il presidente dell’ospedale. Formalmente perché l’ennesima circolare da Pisa vieta il cumulo delle cariche.
Ma la realtà è diversa. Umberto Borgna mette a verbale una sua emozionata dichiarazione. “Lascio il CLN con molto dolore – dice Borgna – non voglio né posso continuare la lotta sleale fatta di questioni personali, di piccole, grette ambizioni. Non sono uomo politico. Rimpiango il lungo e snervante periodo della lotta clandestina. Lo rimpiango per quello spirito di fraternità che tutti ci animava”. Ribadisce che per lui, azionista, i CLN sono “la base della futura politica italiana, la più pura espressione del popolo antifascista, del popolo italiano di domani”. Un popolo “che ha veramente sofferto e che è buono e deve essere aiutato, amato, sorretto nella dura lotta di ricostruzione materiale e morale”.
Quella di Borgna non è però una rinuncia: “Ho altre responsabilità cittadine – dichiara – alle quali debbo doverosamente portare tutto il mio massimo contributo”. Intende innanzitutto la giunta comunale, di cui è il vicesindaco. La scelta è lungimirante. Sarà infatti proprio attraverso le istituzioni cittadine che, negli anni a venire, potranno fruttificare le istanze antifasciste, con il partigiano comunista Mario Giustarini sindaco amatissimo di Volterra per ben 34 anni, dal 1946 al 1980[35].

Anni ’50, Arnaldo Dello Sbarba a Pisa

Ma nell’aprile del 1945 nemmeno l’uscita di Borgna basta a calmare le acque attorno al CLN volterrano. Tra il maggio e il giugno 1945 Tito Cangini, presidente del tribunale di Pisa, accusa «Volterra Libera» di parlare di “magistratura reazionaria”. Cangini respinge “le ingiurie di questo fogliuccio volterrano” e annuncia querele contro “il professor Cassola” se non viene sconfessato. A luglio il CLN provinciale sconfessa Cassola e “deplora l’attacco di Volterra Libera contro la magistratura”[36].
La guerra a mezzo stampa contro «Volterra Libera» e il CLN riprende in agosto con l’uscita del «Il Porcellino», quindicinale ispirato, finanziato e in parte scritto da Arnaldo Dello Sbarba. Nelle carte private di Arnaldo si trovano lunghi manoscritti su presunte malversazioni del “trio Borgna-Meini-Salghetti”. Uno è indirizzato al prefetto Peruzzo. Non si sa se gliel’abbia spedito[37].
In parallelo l’ascesa di Arnaldo Dello Sbarba continua. Il 25 novembre 1945 viene designato a Roma nella “Commissione di studio per la riorganizzazione dello Stato”, organo della “Consulta nazionale” che fa da parlamento provvisorio. Lì ritrova l’amico prefetto Adalberto Berruti, che per la commissione lavora.
Il 18 aprile 1946 Arnaldo passa da commissario a presidente regolarmente eletto della Cassa di Risparmio di Pisa. Lo rimarrà fino alla fine del 1951. Di qui alla sua morte (1958) diventerà anche presidente dell’ACI, della Croce Rossa, del Gioco del Ponte, degli Istituti riuniti di ricovero ed educazione di Pisa, della Domus Galileiana, del Credito Agrario[38].

Il 2 giugno 1946 viene proclamata la Repubblica. I CLN vengono sciolti, ma la loro esperienza si è logorata da tempo. In seguito al conflitto su epurazione e ruolo dei CLN, tra il dicembre 1944 e il giugno 1945 ha governato a Roma per sette mesi un “Bonomi ter” da cui socialisti e Partito d’azione sono rimasti polemicamente fuori. Sono gli stessi sette mesi in cui si è consumata la resa di conti tra Arnaldo Dello Sbarba e il CLN volterrano.
Siamo all’epilogo. Il 31 luglio 1946 il prefetto Adalberto Berruti lascia il Ministero degli interni. Due mesi dopo anche il prefetto Vincenzo Peruzzo lascia Pisa. Arnaldo gli dedica un pubblico saluto: “Fu il prefetto che fece concorde la nostra discordia“. Missione compiuta.

NOTE

[1] Per questo articolo sono stati consultati i seguenti archivi: Archivio della Biblioteca Guarnacci di Volterra, Fondo A. Dello Sbarba, (d’ora in poi BGV/FAdS); Archivio storico postunitario del comune di Volterra, Fascicolo CLN-Verbali delle adunanze (d’ora in poi ASCV-Postunitario); Archivio di Stato di Pisa, Fondo Comitato di Liberazione Nazionale (d’ora in poi ASPi/CLN); Archivio centrale dello Stato di Roma, Fondo Dello Sbarba Arnaldo (d’ora in poi ACS/FAdS); Ivi, Casellario Politico Centrale, b. 1695 Dello Sbarba Arnaldo, (d’ora in poi ACS/CPC); Archivi privati di famiglia (d’ora in poi AP/AdS). Ringrazio la forte squadra di amici di Volterra per l’infaticabile aiuto: Danilo Cucini, Gian Paolo Debidda e Giovanni Tamburini dell’ANPI; Silvia Trovato, archivista del comune e Elena Dello Sbarba, custode delle memorie familiari.

[2]      ASPi/CLN, Verbale 31 agosto 1944.

[3]      Cfr. C. Pavone, Alle origini della Repubblica. Scritti su fascismo, antifascismo e continuità dello stato, Torino, Bollati Boringhieri, 1995. In particolare i cap. 2 e 3. Sullo sfondo storico: C. Pavone, Una guerra civile, Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Torino, Bollati Borignhieri, 1991. Sulla continuità dello Stato e degli apparati militari: D. Conti, Gli uomini di Mussolini: prefetti, questori e criminali di guerra dal fascismo alla Repubblica italiana, Torino, Einaudi, 2017.

[4]      ASPi/CLN, “È venuta l’ora di gridare basta!”, prot. 1000/2-A, 30 dicembre 1944.

[5]      BGV/FAdS, Memoria di Adalberto Berruti per Arnaldo Dello Sbarba, 6 giugno 1948.

[6]      BGV/FAdS, Cartolina di  Adalberto Berruti, 22 agosto 1943.

[7]      Cfr. L’ombra del potere. Biografie di capi di gabinetto e degli uffici legislativi, a cura di G. Tosatti, Società per gli studi di storia delle istituzioni, 2016,  pp. 33-35.

[8]      Per tutte le citazioni del prefetto Peruzzo cfr. Vincenzo Peruzzo, ricordi del primo prefetto di Pisa dopo la Liberazione, a cura di C. Forti, Pisa, Pacini, 2012.

[9]      Cfr. C. Forti, Dopoguerra in provincia, microstorie pisane e lucchesi, 1944-1948, Milano, F. Angeli, 2007, pp. 100-112.

[10]      Cfr. Cangini Tito, in Dizionario di Volterra, a cura di L. Lagorio, Pisa, Pacini, 1984, pp. 926-927.

[11]      Cfr. C. Forti, Dopoguerra in provincia, microstorie pisane e lucchesi, 1944-1948, cit., pp. 72-79. Nel saggio sono riportati i seguenti dati: Il campo di Coltano passò all’amministrazione italiana il 28 agosto 1945. Ospitava 32.229 internati. Il 27 settembre 1945 cominciarono gli interrogatori, che si conclusero il 29 ottobre. Circa 30.000 internati furono subito liberati e 2.700 trattenuti, ma parecchi fuggirono o, trasferiti in un campo presso Arezzo, furono presto liberati. 313 furono prelevati dalle Questure competenti, 45 ufficiali dell’esercito furono trasferiti al Forte Boccea a Roma e 187 ufficiali di Marina al campo di Narni.

[12]      Cfr. Il Tirreno, 25 maggio 1945.

[13]      ASCV-Postunitario, CLN-Verbali delle adunanze, Adunanza del 14 luglio 1944, n. 7. Il “Libro dei verbali del CLN di Volterra, dal 9 luglio 1944 al 4 settembre 1945” è stato conservato da Luigi Riondino e donato all’Archivio del Comune di Volterra il 9 luglio 2024, in occasione dell’80° anniversario della Liberazione della città.

[14]      Cfr. V. Fiorino, Le officine della follia, Il frenocomio di Volterra, Pisa, ETS, 2011.

[15]      BGV/FAdS, Lettera Dc, PLI e PDL del 13 novembre 1944.

[16]      ASPi, Gabinetto del prefetto, Decreto 6973, div. 2/2, del 23 novembre 1944.

[17]      ASCV-Postunitario, CLN-Verbali delle adunanze, Adunanza 26 novembre 1944, n. 17.

[18]      ASPi/CLN, b. 1 f. 5, Attività e posizione politica dell’avv. Arnaldo Dello Sbarba, Memoriale del 4 dicembre 1944 del CLN volterrano al CPLN e p.c. al CTLN.

[19]      AP/AdS, A. Fratini, Appunti per una storia del socialismo volterrano, esemplare originale dattiloscritto dell’autore, pp. 58-59.

[20]      Cfr. «Il Corazziere», nn. 1° e 14 maggio 1921.

[21]      BGV/FAdS, Lettere del 23 dicembre 1944 della Dc, del PLI e del PDL e minuta manoscritta non datata.

[22]      ASPi/CLN, “È venuta l’ora di gridare basta!”, cit.

[23]      In BGV/FAdS: Arnaldo Dello Sbarba torna sulla vicenda in una autobiografia in terza persona scritta nel 1948: “Venuto segretario del partito fascista Ettore Muti, il quale dichiarò che la rivoluzione fascista era finita e bisognava rientrare nella costituzionalità e nella legalità, fece appello all’associazione combattenti a collaborare con la di lui opera; molti amici della provincia di Pisa fecero premura all’onorevole Dello Sbarba, ex combattente iscritto, di esaminare se non fosse dovere civico e patriottico di non estraniarsi dall’assecondare il richiamo del Muti. Si recarono a Roma per avere un colloquio con Muti ed avutolo per due volte a distanza in una sala dell’hotel Moderno, Muti confermò le promesse dichiarando che se queste non si fossero verificate egli avrebbe lasciato la sua carica. Scongiurò i combattenti di non fare un secondo Aventino. Allora fu deciso di accogliere l’invito tanto quanto bastava per rendere possibile un’eventuale futura collaborazione per cui fu accettata la tessera. Ma rimasero nell’attesa. Questa tessera è rimasta lettera morta, l’onorevole Dello Sbarba e gli altri rimasero in disparte e in silenzio, delusi ed umiliati di essere stati così ingenui da credere non a Muti, il quale in realtà se ne andò, ma alla possibilità che il fascismo si trasformasse”.

[24]      BGV/FAdS, Lettera di Cesare Rossi al senatore Ginori Conti del 9 dicembre 1923.

[25]      BGV/FAdS, Lettera di Arnaldo Dello Sbarba a Benito Mussolini del 20 febbraio 1924. Sulle lotte interne al fascismo pisano e la tentata candidatura di Arnaldo Dello Sbarba nel “Listone” fascista del 1924, cfr. R. Dello Sbarba, Arnaldo Dello Sbarba: anatomia di una caduta, in «ToscanaNovecento», portale di storia contemporanea. https://www.toscananovecento.it/custom_type/arnaldo-dello-sbarba-anatomia-duna-caduta/?print=print

[26]      Cfr ACS/CPC, Segnalazione del 7 luglio 1927 del Prefetto di Roma Paolo D’Ancona al Ministero dell’Interno, Direzione generale di P.S., Divisione affari generali e riservati: “Pregioimi comunicare che l’ex deputato Dello Sbarba avv. Arnaldo abitante in via Viminale 43 e con studio in via Pie’ di Marmo 18, da vari anni non risulta che esplichi alcuna attività politica e serba regolare condotta. Nei riguardi dell’attuale regime fascista dimostrasi indifferente”.

[27]      Cfr. ACS, Guida Monaci, Guida commerciale, scientifica e artistica della città di Roma, aa. dal 1926 al 1946.

[28]      Cfr. P. Nicoloso, Marcello Piacentini. Architettura e potere: una biografia, Udine, Gaspari, 2018, pp. 121-122.

[29]      BGV/FAdS, Lettera di Arnaldo al fratello Bruno Dello Sbarba del 16 aprile 1933.

[30]      Cfr. M. Scardozzi, Un paese intorno alle terme, da Bagni di Pisa a San Giuliano Terme, 1742-1935, Pisa, ETS, 2014.

[31]      ASPi/CLN, Verbale della seduta del 29 dicembre 1944.

[32]      ASCV-Postunitario, CLN-Verbali delle adunanze, Adunanza 28 dicembre 1944, n. 20.

[33]      ASPi/CLN, Corrispondenza tra CPLN, CCLN, CLN Volterra, Gabinetto governo Bonomi, Uffici centrali e periferici di PLI e PDL, tra il 1° gennaio e il 30 marzo 1945.

[34]      ASCV-Postunitario, CLN-Verbali delle adunanze, Adunanza 11 aprile 1945, n. 21.

[35]      ASCV-Postunitario, CLN-Verbali delle adunanze, Adunanza 24.04.45, n. 32. Su Mario Giustarini si v. M. Bacchiet, Giustarini Mario, in Dizionario biografico online delle comuniste e dei comunisti della provincia di Pisa, Biblioteca Franco Serantini, Istituto di storia sociale, della Resistenza e dell’età contemporanea. https://www.bfscollezionidigitali.org/entita/16112-giustarini-mario?i=10

[36]      ASPi/CLN, Corrispondenza tra CPLN e Tito Cangini dal 15 maggio 1945 al 29 luglio 1945.

[37]      BGV/FAdS, diverse memorie stilate da Arnaldo Dello Sbarba tra il 1944 e il 1945, tra cui un intero “Blocco di appunti”.

[38]          Cfr. E. Dello Sbarba e S. Trovato, Inventario dell’archivio di Arnaldo Dello Sbarba, «Rassegna volterrana», a. 90, 2013.




Beatrice Giglioli, una donna sulla linea del fronte

1. I Giglioli di Pisa
Beatrice Elena Giglioli nasce a Portici (NA) il 5 febbraio 1892 da Italo[1] e Costanza Stocker[2]. I suoi due nomi richiamano due persone della storia della famiglia, uno per quella materna e uno per quella paterna. Grazie al Book IV. 1 dei Family Memorials of the Giglioli-Casella, scritte ad uso della famiglia da Maria Elena Casella (1888-1959), si apprende che Beatrice aveva una zia materna con lo stesso nome, Beatrice Alicia Ramsay Stocker[3], che nell’anno della nascita della nipote si imbarca per gli Stati Uniti per unirsi alle tribù dei Sioux come missionaria presbiteriana. Il secondo nome ricorre con continuità nel succedersi delle generazioni e si riferisce alla nonna paterna, Ellen Hillyer, per la devozione nei suoi confronti da parte di Italo, padre di Beatrice Elena[4].
La famiglia discende da Giuseppe Giglioli (1804-1865), figlio di Domenico (1775-1848) e Maria Luigia Palmerini (?-1862), patriota, membro della Giovine Italia e amico personale di G. Mazzini. Esule in Inghilterra, G. Giglioli aveva sposato Ellen Hillyer (1819-1894) e dalla loro unione erano nati cinque figli: Enrico (1845-1909), Augusto (1846-1901), Alfredo (1847-1897), Italo (1852-1920) e Elena (1858-1941).

Beatrice Giglioli nei primi anni venti. [Archivio Biblioteca Serantini]

Nel 1903 in seguito al trasferimento del padre Italo – già direttore alla Scuola superiore di agricoltura di Portici –, tutta la famiglia si stabilisce a Roma e dove Beatrice inizia gli studi superiori nel liceo ginnasio T. Tasso. Il suo percorso liceale si completerà al liceo classico G. Galilei di Pisa, perché nel 1904 il padre verrà nominato docente di chimica agraria alla locale Scuola superiore di agraria. Iscrittasi alla Facoltà di Lettere dell’Università di Pisa nell’ottobre del 1912, nel novembre 1913 sostiene l’esame al concorso per un posto di alunna aggregata senza sussidio alla Scuola Normale Superiore, classe di lettere e filosofia. La prova scritta di italiano a quell’esame si intitola L’opera di Dante considerata come sussidio alla conoscenza diretta e piena della Commedia. Vince il concorso e successivamente, per il merito dimostrato negli esami sostenuti, viene ammessa come alunna aggregata con sussidio.
Agli inizi della guerra, avendone conseguito il diploma il 6 aprile 1915, presta la propria opera di aiuto-infermiera della Croce Rossa Italiana. Il suo nome è anche nel 1° elenco dei soci del Club Alpino Italiano chiamati alle armi e il suo servizio sui treni ospedali inizia il 10 agosto 1915. Le infermiere volontarie e le aiuto-infermiere della CRI di Pisa svolgono servizio anche presso l’Ospedale militare di riserva, nel Palazzo Arcivescovile, nell’Ospedale succursale Pisa e negli istituti di rieducazione per soldati mutilati. In questo periodo Beatrice intrattiene corrispondenza con ufficiali e sottufficiali al fronte, quasi tutti studenti dell’Università di Pisa. Tra questi c’è Piero Pieri, in seguito tra i maggiori storici italiani della Prima guerra mondiale.
Nel giugno 1917 si laurea in lettere a pieni voti con una tesi su Il problema della decadenza dell’Impero romano negli storici moderni. Il relatore è Vincenzo Costanzi (1863-1929), ordinario di storia antica. Per nomina ministeriale, Beatrice viene incaricata dell’insegnamento di storia, geografia e diritti e doveri per l’anno scolastico 1917-18 nella Scuola tecnica Nicola Pisano di Pisa. Nel maggio 1918, presso l’Università di Pisa, supera l’esame di abilitazione all’insegnamento della lingua inglese per gli istituti d’istruzione media di 2° grado.
Nell’agosto 1918 si trasferisce a Londra, dove, il 26 dello stesso mese, ottiene per esame il posto di traduttrice al War Office (Ministero della guerra), con il compito di tradurre in inglese documenti e opuscoli italiani e francesi concernenti la guerra europea. Poche settimane dopo, il 21 settembre 1918, si dimette dall’incarico in seguito alla nomina ad assistente presso la Facoltà di Italiano dell’Università di Cambridge. Durante la sua permanenza in Inghilterra segue corsi di perfezionamento di filologia e letteratura inglese, tiene conferenze a Londra e a Edimburgo sulla storia e la letteratura italiana. Nel gennaio 1919 e per i due trimestri successivi assume l’incarico di insegnare lingua e letteratura italiana presso la stessa Università di Cambridge, impegno che prosegue fino al luglio successivo, quando è costretta a rientrare in Italia per l’aggravamento delle condizioni di salute del padre.
Nel frattempo, le profonde trasformazioni geo-politiche legate al riassetto seguito alla Prima guerra mondiale, generano tensioni politiche in tutta Europa. Il legame della famiglia Giglioli con la tradizione risorgimentale mazziniana e con il tema dell’autodeterminazione politica delle nazionalità, si manifesta nel sostegno alla spedizione fiumana di D’Annunzio, alle rivendicazioni dell’italianità della Dalmazia e all’indipendenza ceco-slovacca.
Nell’autunno del 1920 Beatrice diviene insegnante supplente di lingua inglese all’Istituto tecnico Antonio Pacinotti di Pisa, dove rimane negli anni scolastici 1920-21 e 1921-22. Vince il concorso generale a cattedre di lingua inglese per gli istituti tecnici e si trasferisce per un anno a Sassari, dove insegna all’Istituto tecnico Alberto Lamarmora. Dall’a.s. 1923-24 e 1924-25 insegna presso l’Istituto tecnico Germano Sommeiller di Torino, nel corso superiore della Sezione commercio e ragioneria. A Torino, nel 1925, per l’editore Paravia traduce dall’inglese la guida pratica di J.E. Russell, Lezioni intorno al terreno. A partire dall’a.s. 1925-26 torna a Pisa, al Liceo ginnasiale G. Galilei dove lei stessa aveva studiato e dove diventerà titolare di lingua e letteratura inglese dall’a.s. 1935-36. Dall’a.a. 1925-1926 è incaricata del lettorato di lingua inglese della Scuola Normale Superiore, incarico riconfermato fino al 1959. Presso la SNS sono conservati i registri delle sue lezioni a partire dall’anno 1932 e tra i testi da lei più utilizzati nei corsi compare Oliver Twist di C. Dickens.
Oltre che sul piano professionale, Beatrice è attiva anche su quello civile: quando il 13 febbraio 1926 viene fondata la Sezione di Pisa del CAI, risulta – insieme ai fratelli Irene e Giorgio, oltre che a Piero Zerboglio – tra i promotori e fondatori[5].
Il 25 febbraio 1933 firma il giuramento di “fedeltà” al Re e al regime fascista. Il verbale del giuramento riporta i nomi dei testimoni, Giovanni Gentile, direttore della SNS, e i docenti Francesco Arnaldi e Giovanni Ricci[6].

Ingresso Villa dei Giglioli, 1938 [Archivio Biblioteca Serantini]

Quella di Beatrice al fascismo non è un’adesione ideologico-politica, è invece un’adesione solo formale, dovuta alla necessità di rimanere come insegnante alla SNS, per poter continuare a provvedere a sé stessa e all’anziana madre. La sua precedente attività di volontaria della CRI nella Prima guerra mondiale e la partecipazione, insieme al padre, alla campagna a favore dell’indipendenza ceco-slovacca nel 1920, sono impegni pubblici di tipo “patriottico” nel segno della tradizione mazziniana, ma negli anni che vanno dal 1922 al 1933 non c’è nessuna sua presa di posizione in senso nazionalista. Del resto, nel libro sulla storia dei Giglioli scritto dalla madre di Beatrice e pubblicato nel 1935, benché l’argomento riguardi la tradizione risorgimentale della famiglia, non vi è traccia di alcun accenno al fascismo e al suo leader, in cui evidentemente l’autrice non riconosceva alcuna continuità con la storia del mazzinianesimo[7].
Dall’anno scolastico 1935-1936, oltre che al Liceo ginnasio G. Galilei, è nominata titolare di lingua e letteratura inglese anche alla scuola media R. Fucini di Pisa. Nel 1935 pubblica per R. Pironti di Napoli la traduzione di Much ado about nothing di W. Shakspeare.

2. Sulla linea del fronte: 31 agosto 1943-1° gennaio 1945
Durante gli anni di guerra con meticolosa puntualità Beatrice Giglioli annota su piccole agendine gli avvenimenti familiari e locali. Con la sorella Irene, Beatrice ha vissuto a Cisanello, sobborgo di Pisa, per gran parte del Novecento. Oltre alle notizie sugli eventi quotidiani, nelle sue agendine registra alcune dinamiche relazionali e sociali, che vengono alla luce, paradossalmente, per effetto dei bombardamenti su Pisa, che iniziano il 31 agosto 1943 e proseguono a lungo. Alla dimensione verticale delle bombe che cadono dall’alto e che producono morte e distruzione, subentra quella orizzontale degli effetti generati dalle esplosioni, a partire dai comportamenti di chi, sopravvissuto, si trova ad agire in una realtà fisica (edifici, ponti, strade) e umana (morti, feriti) drammaticamente colpita e dove la vita, per continuare, deve affrontare difficoltà inedite in una situazione che è mutata profondamente. Nella vita civile niente è più come prima: provvedere alle cure mediche per i malati e ora anche per i feriti, spostarsi da un luogo all’altro della città, a piedi, in bicicletta o con qualche altro mezzo, procurarsi cibo e rifornirsi di provviste, dare e avere notizie sulle persone care o conosciute, poter continuare o meno a svolgere il proprio lavoro, poter contare o meno sul funzionamento delle istituzioni, dei servizi postali, dei trasporti ferroviari e delle infrastrutture in genere, ecc. Le bombe, inoltre, producono anche un elevato numero di sfollati, le cui sorti sono esposte a grave rischio, costretti come sono a cercare ospitalità, un alloggio o almeno un riparo.

Bombardamento di Pisa, dicembre 1943 [The U.S. National Archives and Record Administration (NARA)]

Pochi giorni dopo il primo bombardamento, inoltre, in seguito all’armistizio con gli Alleati annunciato l’8 settembre, si determina un ulteriore cambiamento, che ha ripercussioni notevoli sulla società civile e rende ancora più precaria la situazione di Pisa e che peggiora con l’arrivo delle truppe d’occupazione naziste, alle quali gli uomini della RSI, sorta nel frattempo, sono del tutto subalterni.
Di tutto ciò si trova ampia traccia nei diari di Beatrice[8]. Quella che si raccoglieva nella villa di Cisanello prima dei bombardamenti era una fitta rete di rapporti fatta di legami parentali, amicali, professionali e culturali, sostenuta da una rete altrettanto fitta di vicini di casa, affittuari, conoscenti e persone provenienti per lo più dal territorio circostante per le collaborazioni domestiche (cucina, pulizie e lavori di casa) e per la fornitura di servizi (materie prime, cibo, servizi di manutenzione della casa, ecc.). A questi va aggiunta la cura dei numerosi animali (cani, gatti, galline, conigli, capre, api), e il conforto rappresentato dal giardino, con l’attenzione esperta ai fiori, alle verdure e alle piante da frutto, esito evidente delle competenze di Italo Giglioli trasmesse alle figlie. Dopo il bombardamento di Pisa, le sorelle Giglioli vogliono subito vederne gli effetti per valutarne la portata e si attivano per far fronte a tutto, a partire dal fatto che accorrono subito presso le macerie della casa degli amici Zerboglio, colpita in pieno da una bomba sul Lungarno Regio (odierno Lungarno Pacinotti), per mettere in salvo la maggior quantità possibile dell’archivio e dei numerosissimi libri che vi erano raccolti. La rete dei rapporti d’amicizia è un bene prezioso, che va tenuta attiva nei momenti difficili, come si vede quando il 23 settembre 1943, dopo aver saputo che l’amico Aldo Visalberghi (1919-2007) era stato ferito nella difesa di Roma, Beatrice Giglioli si affretta a informarne gli amici comuni della famiglia Barletta. La rete di solidarietà si manifesta accogliendo in casa sfollati, curando gli esseri umani e gli animali, continuando ad avere la stessa attenzione di prima anche per il giardino e ospitando amici e parenti a pranzo, a cena, per la notte o anche solo per il tè, cercando, procurando e distribuendo risorse alimentari e facendo di necessità virtù con quelle disponibili. Le sorelle Giglioli intendono in ogni momento ricostituire una comunità di fraternità e integrazione civile, il che rappresenta, per i loro interlocutori, una risorsa preziosa su cui contare. Fra gli amici ospitati più frequentemente a casa Giglioli ci sono persone di differente appartenenza religiosa, come anglicani e valdesi (il pastore Attilio Arias o l’insegnante e collega Laura Revel), o ebrei (alcuni esponenti della famiglia De Cori, Giulia Letizia Aghib, l’insegnante e collega Maria Sacerdotti), nonostante fossero in vigore le leggi razziali fasciste emanate nel 1938 e la persecuzione anti-ebraica si fosse inasprita dopo la nascita della RSI. È la storia stessa della famiglia Giglioli, con il suo ramo protestante inglese degli Hillyer e degli Stocker, a fornire esempio vissuto di costruzione comunitaria. Le Giglioli, del resto, non si fanno intimidire nemmeno dall’arrivo delle truppe tedesche nella loro casa, una prima volta ad aprile 1944 e poi altre due volte tra luglio e agosto.
Gli interlocutori delle sorelle Giglioli sono soprattutto insegnanti, colleghi di Irene e di Beatrice, la quale, insegnando sia nelle scuole secondarie che alla SNS, si trova a contatto con molti dei più noti intellettuali e scienziati attivi a Pisa (G. Gentile, L. Tonelli, L. Russo, S. Timpanaro sr. ecc.). Tra questi ci sono anche alcuni medici molto noti in città, come Francesco Niosi o Silvio Luschi, che prestano cure alle sorelle, amici e vicini. Nelle pagine di Beatrice si coglie bene anche il pesante impatto della guerra sulla vita della scuola. Il lavoro di Beatrice presso la SNS l’ha portata a essere insegnante di molti studenti poi noti nell’ambito delle professioni e che, come nel caso di Visalberghi, sono diventati anche amici. Alla costruzione di questa parte dei rapporti delle sorelle Giglioli con il mondo universitario ha anche contribuito la precedente attività di docente a Pisa del padre Italo, la cui amicizia con Adolfo Zerboglio, per esempio, ha portato all’amicizia fraterna tra le figlie di Giglioli e il figlio di Zerboglio, Piero, importante figura dell’antifascismo azionista toscano, il cui nome ricorre molto frequentemente nelle pagine del Diario. In effetti, dal Diario traspare la posizione antifascista delle Giglioli, tanto che la loro casa, oltre che un riferimento sicuro per Zerboglio, lo è anche per un altro esponente azionista, Carlo Ricci, frequente ospite a Cisanello, così come accadeva anche per altri antifascisti.

Arrivo soldati a Pisa settembre 1944 [The U.S. National Archives and Record Administration (NARA)]

Non sono solo le numerose presenze di persone e cose a caratterizzare il Diario, ma anche alcune assenze. Può sembrare strano che in quelle pagine, così attente ad annotare tutto ciò che va dalla minuta vita quotidiana ai grandi avvenimenti politici e militari, manchino due fatti di grande rilievo. In effetti, non c’è alcuna citazione dell’uccisione di Giovanni Gentile, avvenuta a Firenze il 15 aprile 1944, e nemmeno dell’eccidio per mano nazista avvenuto a Pisa il 1° agosto 1944 in casa di Giuseppe Pardo Roques, presidente della comunità ebraica pisana, che era stato amico di Italo Giglioli. È probabilmente la gravità dei due fatti a indurre in Beatrice un’evidente auto-censura a scopo precauzionale. È nella corrispondenza con la sorella Lilia, svolta attraverso scambi realizzati fuori dal circuito postale grazie a mani amiche, che i due fatti vengono citati e commentati.

Negli anni della guerra Beatrice Giglioli continua a lavorare come insegnante al Liceo G. Galilei e come lettrice alla SNS, dove la conferma del suo incarico giunge anche per l’a.a. 1943-44 da parte del nuovo direttore, Leonida Tonelli, rinnovato anche da Luigi Russo[9]. Dall’anno accademico 1942-1943 fino al 1948-1949 è docente incaricata di lingua e letteratura inglese all’Università di Pisa. A causa delle vicende belliche nell’a.a. 1943-44 inizia le lezioni il 1° febbraio 1944 e può tenere solo lezioni saltuarie fino ad aprile.
Dopo la fase dell’occupazione tedesca della città e i mesi di guerra dell’estate del 1944, riprenderà l’insegnamento alla SNS il 25 gennaio 1945. Uno dei suoi interlocutori è il meridionalista Giuseppe Isnardi (1886-1965), collaboratore dell’Animi, che dal 1928 al 1934 insegna al Liceo classico Carducci-Ricasoli di Grosseto e dal 1934 al 1951 a Pisa, dove insegna lettere al ginnasio G. Galilei, collega di Beatrice, insieme a G. Raniolo e a Ildebrando Imberciadori, che insegna lettere al triennio liceale.
Sull’esempio della madre, Beatrice si dedica alla cura dell’archivio di famiglia con l’aiuto della sorella Irene e della cugina Maria Elena Casella. Il ruolo di Beatrice nel conservare l’archivio di famiglia è ricordato proprio dalla Casella in alcuni passi delle sue Family Memorials: «The passage was marked by Italo Giglioli in the book found for me by Beatrice Giglioli at Cisanello, in September 1958» (p. 80); «I once found by chance, in Beatrice’s study, a notebook with some notes jotted down by Italo Giglioli» (p. 150).
Beatrice muore a Pisa il 7 febbraio 1988. Le ceneri per sua volontà sono state collocate nel cimitero di Pisa accanto a quelle delle sorelle Irene e Lilia. L’archivio è lasciato ad Antonio Ricci, che lo ha donato alla Biblioteca F. Serantini.

Note

  1. Italo nasce a Genova il 1° maggio 1852 da Giuseppe e Ellen Hillyer. Si laurea in agraria al Royal Agricultural College di Cirencester, contea di Gloucestershire. Muore a Pisa il 1° ottobre 1920.
  2. Costanza nasce a Roma il 2 ottobre 1856 dal reverendo anglicano Edward Seymour Stocker (1828-1900) e da Jean Hamilton Dunbar (1829-1862). Nel 1885 incontra Italo Giglioli e sarà suo padre Edward, il 26 agosto 1886, a celebrare il loro matrimonio a Londra. Oltre alla cura dei figli, Costanza coltiva le sue passioni e, grazie alla vicinanza del marito e alla conoscenza della storia della famiglia Giglioli, si interessa alle vicende del Risorgimento italiano, in particolare alle avanguardie democratiche e giacobine attive a Napoli tra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento. Da questi studi nasce il volume dedicato alla rivoluzione napoletana del 1799, pubblicato in Inghilterra nel 1903.
  3. Nata a Roma il 13 marzo 1858, Beatrice A.R. Stocker muore il 23 febbraio 1935 a Sonoma, in California, dov’è sepolta. Tracce molto interessanti della sua esperienza di missionaria si ritrovano in alcune lettere da lei inviate alla sorella Constance Giglioli Stocker, cfr. A Doorkeeper in the House of God: The Letters of Beatrice A. R. Stocker, Missionary to the Sioux, 1892-1893, a cura di A.M. Baker, «South Dakota History», vol. 22, n. 1, 24 marzo 1992, pp. 38-63.
  4. L’ultima figlia di Ellen Hillyer è stata chiamata Elena, così come quest’ultima ha voluto chiamare Maria Elena la sua unica figlia. Beatrice Elena non ha fatto a tempo a conoscere la nonna Ellen, morta nel 1894 in Abruzzo, a Chieti, dove risiedeva presso la famiglia del genero Raffaello Casella, marito di Elena Giglioli.
  5. «Notiziario» CAI – Sezione di Pisa, a. xxxvii, n. 1, 2017.
  6. SNS, Centro archivistico, fasc. Giglioli Beatrice. Dal fascicolo risulta che Beatrice Giglioli è iscritta al Pnf dal 31 luglio 1933, tessera n. 671151, e all’Afs (Associazione fascista della Scuola) dal 1934, tessera n. 022270.
  7. C. Giglioli Stocker, Una famiglia di patrioti emiliani. I Giglioli di Brescello, con appendice di 26 lettere inedite di patrioti del tempo, Milano [etc.], Società editrice Dante Alighieri, 1935.
  8. B. Giglioli, Diario 21 agosto 1943 – 1° gennaio 1945. Ricordi dell’estate 1944 di Antonio Ricci, a cura di F. Bertolucci, B. Cattaneo e G. Mangini, Ghezzano (PI), BFS edizioni, 2025.
  9. SNS, Centro archivistico, fasc. Giglioli Beatrice. L’incarico alla sns termina nell’a. a. 1959-60.



Guerra fascista e crisi di regime: la provincia di Pistoia tra il 1940 e il 1943

Il presente lavoro, tratto dalla tesi di laurea magistrale dell’autore, cerca di indagare come la guerra fascista (1940-1943), anche a livello locale, abbia contribuito ad alimentare quella crisi che il regime fascista si trovava a vivere da qualche anno prima dell’inizio della guerra, avvenuta attraverso il fallimento e l’incapacità di gestire tutti i problemi sociali riguardanti il fronte interno. Come campo di analisi è stata scelta la provincia di Pistoia. Lo studio di come la società italiana abbia reagito all’entrata in guerra, voluta fortemente dall’ideologia imperialista e bellicista del regime fascista, il quale però stava trascinando in un conflitto devastante un paese che non aveva preparato né sul fronte esterno né nel fronte interno, ci permette di comprendere meglio gli anni della guerra fascista e di capire come quel regime, che per venti anni aveva controllato totalmente il paese e che nella guerra aveva posto il suo fondamento, sia potuto nel giro di soli tre anni cadere sotto il peso del proprio fallimento.  La ricerca archivistica si è svolta principalmente all’Archivio di Stato di Pistoia nel fondo Sottoprefettura poi Prefettura di Pistoia: archivio di Gabinetto 1861-1944 che conserva una numerosa documentazione del periodo richiesto, con notizie provenienti da tutta la provincia di Pistoia dato che tutte le amministrazioni comunali dovevano fare riferimento al capo della provincia, come viene denominato durante la RSI, il prefetto.

Per comprendere meglio quanto detto finora è opportuno partire da un’analisi di cosa è stato il regime fascista a Pistoia e soprattutto durante la guerra. Partiamo col riassumere brevemente che il fascismo pistoiese, a differenza del panorama toscano, non ha saputo esprimere figure forti che incarnassero l’ideologia fascista del capo forte al comando e in particolare, dopo la morte del primo federale di Pistoia Leopoldo Bozzi, la provincia e i suoi organi di comando (federazione provinciale del PNF e prefettura) sono diventati un semplice trampolino di lancio per dirigenti fascisti verso cariche e province più ambite. Detto questo, la federazione provinciale del PNF non mancò di portare avanti la causa bellica del regime attraverso una martellante propaganda grazie al giornale della federazione pistoiese del PNF «Il Ferruccio».  In esso si possono trovare tra il ’40-’43 miriadi di articoli che si incastrano perfettamente nelle direttive del regime sulla gestione della stampa e che cambiano con l’evolversi del conflitto: troviamo nell’estate del 1941 una rubrica che rispecchia la propaganda antisovietica del regime chiamata «Taccuino antibolscevico» uscito in supporto dell’invasione italiana dell’Urss. Non mancano gli articoli anche in supporto del fronte interno che si basano per la maggior parte su esempi di vita quotidiana o di chi dona qualcosa in supporto della guerra o dei soldati stessi le cui lettere vengono ripubblicate sul giornale. Interessanti sono anche gli articoli in cui al posto di consigli pratici su come aiutare i cittadini a superare la crisi alimentare in corso, si elogiano le donne italiane e la loro amministrazione parsimoniosa della casa.[1]

Una lettura completamente diversa da quella dei giornali fascisti ci arriva dalle relazioni delle autorità sullo “spirito pubblico”. Se in un primo momento vediamo la popolazione che cerca di sopperire alle difficoltà dovute al conflitto (carenza alimentare in primis), già nel 1941 vediamo come sia Carabinieri che Questura trovassero nella popolazione un senso di stanchezza dovuto al fatto che il paese fosse in uno stato di guerra continua dalla guerra in Etiopia e che lo stesso nuovo conflitto si sarebbe allungato una volta che gli Stati Uniti fossero entrati in guerra. Il principale problema della popolazione però, secondo i rapporti, è la grave difficoltà nel reperire generi alimentari, soprattutto per le classi più povere che non possono sopravvivere con quanto dato dalla tessera annonaria e che non possono ricorrere ai prezzi gonfiati sia del mercato nero sia dei commercianti. Una situazione di malessere e avversione verso il regime che aumenta poi nel 1942, in cui carabinieri e polizia rivelano un palese malcontento «che potrebbe un giorno, prossimo o lontano, esplodere e degenerare».[2]

Dobbiamo inoltre considerare che la maggior parte della gestione amministrativa del fronte interno (rifugi antiaerei, alimentazione, profughi, mobilitazione civile eccetera) era stata delegata ai comuni, i quali però dovevano riferire, tramite un complesso e macchinoso apparato burocratico, a varie sezioni provinciali o comunali le quali a loro volta facevano capo o al prefetto o ad altri funzionari, rendendo di conseguenza complessa qualsiasi operazione. Inoltre specialmente ai podestà pistoiesi, il prefetto aveva ordinato di astenersi da erogare fondi non previsti nel bilancio anche per opere straordinarie. In sostanza le spese andavano contenute nei limiti del possibile; ciò ovviamente comportò una difficoltà immane nella gestione del fronte interno. Prendiamo ad esempio la creazione di rifugi antiaerei: un piano di prevenzione esisteva fin dal 1932 e nel 1935 la città poteva contare una copertura per circa il 37% della popolazione (i rifugi erano tutti ricavati da scantinati, niente costruito ex novo). Questo è dovuto al fatto che la città era stata considerata come zona non militarmente interessante e quindi pochi fondi furono stanziati nella protezione antiaerea, situazione che nel 1943, con la vittoria alleata nella campagna d’Africa cambiò radicalmente. Pistoia diventò lo snodo fondamentale per l’attraversamento degli Appennini attraverso la Porrettana e per la presenza delle Officine San Giorgio, convertite alla produzione bellica. Ad inizio 1943 i rifugi presenti e in fase di ristrutturazione potevano proteggere solo il 37% della popolazione, che era aumentata anche per la presenza di profughi, la quale non si fidava della sicurezza dei rifugi.[3] La situazione alimentare crollò lasciando la popolazione alla fame e allo strozzinaggio del mercato nero, con una vigilanza annonaria che non riusciva ad impedire che queste irregolarità cessassero. Ciò aumentò notevolmente il divario tra ricchi e poveri, i quali dovevano accontentarsi dei generi razionati; un divario aumentato anche dalle province vicine a Pistoia, la cui popolazione che aveva possibilità economiche maggiori acquistava generi alimentari a prezzi stratosferici, ma sottraendoli poi alla provincia pistoiese. Una carenza alimentare che peggiorò anche nell’inverno ’42-’43 in cui si registrò una notevole mancanza di patate e legumi, il cui enorme valore nutritivo rappresentava la principale fonte di sostentamento.[4] Un importante ruolo, che ha in parte contribuito alla crisi del regime, fu quello svolto dalla Chiesa cattolica che durante la guerra fascista cercava di prendere il più possibile le distanze da quel regime che aveva scagliato di nuovo il paese in guerra, lasciando il regime orfano di quella istituzione fondamentale per il consenso di una buona parte degli italiani che all’epoca si riconoscevano cattolici. Nelle pagine del periodico dell’Azione cattolica pistoiese, «L’Alfiere», possiamo trovare l’esempio perfetto di quel «patriottismo tiepido»[5] che contraddistinse la chiesa cattolica italiana nel sostegno propagandistico al conflitto: articoli su articoli che non elogiano la guerra, ma che invitano semplicemente al rispetto dell’ordine e al supporto morale dei soldati.[6] Una visione d’insieme di come la guerra fascista e la crisi di regime siano state vissute dalla popolazione civile, la possiamo trovare attraverso le fonti orali. Nelle testimonianze presenti nel fondo audiovisivo dell’Archivio storico dell’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia, possiamo trovare alcuni tratti comuni nelle esperienze vissute dagli intervistati: prima di tutto troviamo il trauma dello scoppio della guerra, insieme  alla fame patita. A differenza delle relazioni delle autorità qui si nota un altro divario tra chi viveva in città e chi viveva in campagna: i secondi potevano contare sui frutti del proprio lavoro, mentre i cittadini si ritrovarono a patire una fame nera. Le fonti orali ci aiutano anche a leggere e capire come e anche dove si sia sviluppato il fenomeno della Resistenza. Come poli della nascita di queste cellule antifasciste troviamo (oltre alla famiglia che rappresenta il primo contatto con l’antifascismo) la scuola e il luogo di lavoro: le Officine San Giorgio per esempio ritornano spesso nelle testimonianze dove i nuovi operai venivano avvicinati dagli operai più anziani che li “formavano” all’antifascismo.[7] Le storie e le memorie di queste persone possono però essere un interessante punto di partenza per delineare da dove e come la Resistenza pistoiese nacque grazie alle loro esperienze comuni. Ed è importante delineare una storia della lunga resistenza perché ciò ci permette di comprendere meglio le cause e le modalità con cui la crisi che ha portato al crollo del regime si è manifestata. Dietro ogni insuccesso del regime fascista, dei “vecchi” antifascisti (cioè antifascisti che avevano vissuto le violenze politiche pre-marcia) tramite discussioni mirate, quasi chirurgiche per non farsi scoprire, contribuirono a formare le menti di quei ragazzi e ragazze nati nei primi anni ‘20 che poi diventeranno protagonisti e protagoniste del movimento resistenziale.

In conclusione possiamo dire che lo studio del periodo 1940-1943 non debba essere così trascurato e che meriti un’attenzione un po’ più particolare da chi fa divulgazione storica e che si trova a trattare il tema della Seconda guerra mondiale in Italia, come credo sia anche imprescindibile uno studio del primo triennio di guerra per avere una maggiore comprensione del fenomeno della Resistenza. Come non se ne deve esimere chi si occupa di storia del fascismo. Il triennio ‘40-’43 rappresenta la prova della verità, in cui tutta la propaganda guerriera e trionfale del fascismo, fa i conti con la dura realtà dei fatti, cioè l’impreparazione non solo militare, ma anche civile, burocratica, finanziaria e amministrativa nel saper gestire una guerra totale, moderna e brutale sia sul fronte esterno che su quello interno.  Questo non significa svalutare il regime fascista o tentare di renderlo meno amaro; significa prendere consapevolezza e far capire con quale incoscienza il regime ha scelto di sacrificare i suoi soldati e la sua popolazione. Il regime è in crisi agli inizi degli anni ‘40 e la guerra fascista non fa che peggiorare questa crisi; provando a identificare un periodo in cui ciò accade, azzarderei l’ipotesi che se, come già sostengono altri valenti storici e storiche, il fascismo era in crisi alla fine degli anni ‘30, il 1940 segna l’inizio della fine, cioè il periodo in cui buona parte della popolazione decise di smettere di credere in esso, arrivando poi alla disillusione più completa tra il 1941 e il 1942, con il culmine raggiunto nel luglio del 1943 a seguito dell’invasione anglo-americana della penisola che ha poi portato al 25 luglio 1943. Le vicende tra il 1940 e il 1943 sono fondamentali per la lettura storica dei venti anni di regime fascista, «rappresentandone se vogliamo la “rivelazione”».[8]

[1] Vedi in «Il Ferruccio»: Paradiso sovietico, 14/7/1941; Mistica bolscevica, 8/12/1941; Disciplina di popolo nella certezza della vittoria, 3/1/1942; Attestati di solidarietà con i camerati alle armi, 3/1/1942; Lettera di una madre, 26/1/1942; Lettere dalla Russia. Vincenzo, bersagliere scrive alla moglie, 16/3/1942; Per la disciplina delle presenti circostanze, 12/7/1940.

[2] Archivio di Stato di Pistoia, fondo Sottoprefettura poi prefettura di Pistoia Archivio di Gabinetto 1861-1944, busta 266, fascicolo 1939 Rapporto al duce del l0 ottobre 1942 sulla situazione alimentare e sulle condizioni dello spirito pubblico. Relazione, carteggio ed atti, cc. 58. 1942.

[3] ASPt, f. Sottopref., b.132, f. 1154 23.3.”Difesa antiaerea. Esercitazioni ed esperimenti. Pratica generale”, cc. 44. 1932-1936; f. 1155 23.3. Difesa antiaerea. Esperimenti e ricoveri nella provincia di Pistoia, cc. 356. 1933-1934; fascicolo 1156 23.3. “Difesa antiaerea. Progetti protezione antiaerea’, cc. 58. 1934-1936; b.241, f. 1802 12.A.3. “Pistoia. Comitato provinciale protezione antiaerea, ‘Ricoveri, norme sull’oscuramento ed affari diversi, cc. 96. 1942-1945;

[4] ASPt, f. Sottopref., b. 243, f. 1806 12.A. 6. “Disciplina annonaria’ ‘. Disposizioni di massima, uffici addetti, infrazioni annonarie, cc. 1588. 1941-1944.

[5] L. Ceci, I cattolici tra «non belligeranza» e intervento italiano, in 1940: il fascismo sceglie la guerra, a cura di P. Corner, Roma, Viella, 2022, pp. 61-82.

[6] Si veda in «L’Alfiere»: B., T., Fede nella Provvidenza, 1/8/1943; C., G., La persona umana di fronte allo Stato, 12/9/1943; De Mori, G., Gli eroi del dolore, 18/4/1943; Debernardi, G., Appello di Mons. Vescovo ai parroci della Diocesi, 25/7/1943 e Esortazione del Pastore della Diocesi, 15/8/1943; M., R., Servire la patria 16/6/1940 e Sguardo al futuro, 25/10/1942.

[7] Molte delle testimonianze conservate presso l’ASISRPT e a cui si fa qui riferimento sono state trascritte in La guerra che ho vissuto. «I sentieri della memoria», a cura di M. Francini, Firenze, Unicoop, 1997.

[8] G. Fiocco, Guerra fascista e guerra italiana (1940-1943), in «Studi storici», 55/1 (2014), pp. 271-285, p.271.

 

Emanuele Vannucci è laureato in Scienze Storiche all’Università degli Studi di Firenze. Collabora con l’Istituto Storico della Resistenza e dell’età contemporanea in provincia di Pistoia, di cui è membro del Consiglio direttivo, in progetti inerenti la didattica, la ricerca e la divulgazione storica e l’archivio audiovisivo. I suoi interessi di studio sono legati alla Resistenza, all’Antifascismo, alla Seconda Guerra Mondiale e alla Public History.




“Non solo staffette…”. Le donne nelle carte delle formazioni partigiane toscane: una (parziale) ricognizione.

Avvertenza: il testo che segue è una versione ridotta e riveduta di un intervento presentato dall’autore al convegno Si fa presto a dire “staffette”. Le donne nelle carte delle formazioni partigiane svoltosi il 25-26 novembre 2024 presso la Casa della Memoria di Milano. Il convegno intendeva promuovere una proposta di ricerca dedicata al tema della presenza delle donne nelle carte delle formazioni partigiane. Attualmente il progetto, sotto il titolo Censimento di fonti sul ruolo delle donne nelle formazioni partigiane, è in fase di inizializzazione ed è promosso da Istituto Nazionale Ferruccio Parri e Consiglio Nazionale delle Ricerche – Dipartimento di Scienze umane e sociali, patrimonio culturale (CNR-DSU), in collaborazione con la rete degli istituti associati alla Rete Parri.


Che senza la partecipazione delle donne la Resistenza al nazifascismo, anche quella in armi, non sarebbe stata possibile – in Italia, così come in tutta Europa – è un’affermazione perentoria quanto cristallina che nessuno oggi, informato sui fatti e privo di qualsiasi pregiudizio, si sentirebbe certo di smentire. Per lungo tempo, però, l’immagine e il giudizio prevalenti sul conto del ruolo giocato dalle donne all’interno della Resistenza italiana furono di tutt’altro segno. Poiché della già di per sé esigua minoranza che riuscì ad aggregarsi alle formazioni partigiane, solo una minima parte poté farlo a tutti gli effetti in qualità di combattenti in armi – vuoi per scelta personale vuoi a causa di radicati pregiudizi di genere che le costrinsero a ruoli più tipicamente femminili – della loro esperienza, a guerra finita, si ricordò prevalentemente i “compiti di cura” e non già le minoritarie ma a volte significative “mansioni di guerra”, troppo limitate e sporadiche, appunto, per emergere nel prevaricante paradigma memoriale del “maschio guerriero” con cui la Resistenza fu a lungo raccontata.

Perché le cose cominciassero a cambiare si dovette attendere, come noto, almeno la fine degli anni Sessanta, quando grazie a un radicale ribaltamento di prospettiva e all’emergere di una nuova consapevolezza politica da parte del nascente movimento femminista, le individualità, le intenzioni, le speranze, le illusioni – insomma le biografie di molte resistenti – tramite lo strumento dell’oralità e della testimonianza personale (ri)guadagnarono spazio e centralità, divenendo così fonte e risorsa determinante per una diversa interpretazione del ruolo storico giocato dalle donne. L’asse portante del paradigma armato della Resistenza ne risultò così profondamente incrinato a favore di altre progettualità ed esperienze, le quali poi, nei decenni a seguire, trovarono più idonea sistemazione in nuove e plurali categorie storiografiche di Resistenza (variamente definita come “senz’armi”, “civile” ecc.) entro le quali la gamma delle mansioni e del ruolo ricoperto dalle donne risultò assai più ampia, ricca, in ogni caso “diversamente” centrale per la sopravvivenza del movimento resistenziale. Non più e non solo, perciò, staffette o combattenti, secondo la tradizionale dicotomia escludente che le aveva sin lì relegate prevalentemente (e spesso con un diverso giudizio di valore) entro il primo dei due termini, ma più variamente, informatrici, sabotatrici, agenti oltre le linee, propagandiste, portaordini, infermiere, cuoche, ecc. ecc. Una varietà di mansioni e responsabilità che portò a riconoscere in esse il perno centrale e indiscutibile attorno al quale i partigiani poterono di fatto creare e mantenere i loro fondamentali collegamenti con il territorio e la popolazione civile e rurale.

La ricchezza del quadro poté esser raggiunta solo grazie all’emergere delle fonti della soggettività (memorie personali, diari, interviste, testimonianze dirette) raccolte e messe a disposizione per la prima volta da pioneristici lavori, di cui spesso le stesse donne si resero protagoniste, oltreché come testimoni dirette, anche come ricercatrici e storiche. Anche in Toscana, come in altri contesti regionali che avevano conosciuto importanti movimenti di resistenza, questi primi lavori cercarono coraggiosamente di andare oltre la tradizionale parzialità e reticenza delle fonti coeve ai fatti, quelle prodotte cioè nel farsi degli eventi o subito dopo la fine del conflitto dalle stesse formazioni partigiane e dagli organi dirigenti della Resistenza. La pubblicazione nel 1978 da parte del Comitato femminile antifascista per il 30° Anniversario della Resistenza e della Liberazione della Toscana del volume Donne e Resistenza in Toscana[1] costituì ad esempio un primo importante, benché per certi versi ancora incerto, tentativo di far emergere sui pochi documenti d’archivio e le consolidate ricostruzioni disponibili la voce diretta delle protagoniste[2]. Nonostante il valore aggiunto dei nuovi squarci conoscitivi proposti, il volume, soprattutto per alcune province, prendeva atto di un certo effettivo ritardo nella partecipazione femminile alla Resistenza, limite che veniva giustificato richiamando, da un lato, i tempi relativamente brevi della Resistenza toscana – la quale, nonostante la sua consistenza e il suo carattere intenso di lotta, era durata meno al confronto con quella sperimentata nelle regioni dell’Italia settentrionale – e, dall’altro, il peso della tradizionale struttura economica mezzadrile della regione, nella quale, alla centralità produttiva svolta dal lavoro delle donne non era corrisposta, a causa dell’isolamento da loro patito all’interno delle famiglie tradizionali, un’altrettanta centralità sociale che fosse in grado, soprattutto nelle campagne, di coinvolgere attivamente madri e figlie nelle organizzazioni antifasciste e resistenziali[3].

Comitato femminile Antifascista, “Donne e Resistenza in Toscana”, Giuntina, Firenze 1978

È curioso, ma al tempo significativo, che questi stessi caratteri che avrebbero costituito un freno alla partecipazione delle donne toscane al movimento resistenziale, dai primi storiografi della Resistenza venissero invece proposti positivamente come i tratti originali del modello resistenziale toscano, che era stato appunto temporalmente breve ma assai combattivo e capace soprattutto di farsi trovare nel momento di avvio del processo di liberazione dei territori regionali, inaugurato nell’estate del 1944, a uno stadio piuttosto avanzato di maturità politica e militare; un modello resistenziale che, oltretutto, se proprio in quel decisivo frangente era risultato vincente, lo doveva soprattutto alla stretta saldatura prodottasi tra mondo mezzadrile e Resistenza, tra contadini e partigiani[4]. Una conferma in più, insomma, d’una Resistenza sin lì letta ancora con un’ impostazione piuttosto carente sul piano della sensibilità di genere. Una lettura che, d’altra parte, anche la stessa documentazione partigiana coeva ai fatti tendeva spesso a confermare, anche se forse con qualche potenziale sfumatura in più.

Tornare a interrogare le carte partigiane del tempo, non già per chiedere a esse materiali e stimoli utili ad uno studio sulla storia delle donne nella Resistenza, quanto invece per indagare in modo possibilmente meno liquidatorio e parziale quale immagine (per quanto sfocata, silente, artefatta o limitata possa risultare) nei diversi contesti operativi e territoriali quelle stesse carte ci restituiscono dei percorsi e delle traiettorie femminili, può forse essere un tentativo valido e fruttuoso ai fini di un più approfondito studio sulla Resistenza tout court. Cogliere in sostanza “cosa” quelle carte partigiane – che intercettano, registrano o di contro tacciono la presenza femminile nelle formazioni partigiane – ci dicono della Resistenza stessa. Può essere che ne emerga un ritratto già noto e per certi versi stantio, ma anche che invece ne affiorino a tratti sfumature insolite e persino elementi inattesi. Certo, ciò se si è disposti a ritornare sulle carte delle formazioni – per così dire – senza pregiudizi di genere (da entrambe le parti), ma con la consapevolezza di quanto negli anni è stato acquisito grazie alla sollecitazione della soggettività delle protagoniste del tempo. Si tratta, naturalmente, di una ricerca ancora in buona sostanza da fare, anche per il caso toscano.

Quanto segue, non è perciò che una assai parziale e approssimativa restituzione di un primo tentativo di carotaggio condotto senza alcuna pretesa di esaustività su un campione assai ristretto di fonti partigiane coeve, raccolte nel fondo Resistenza armata in Toscana. Si tratta di un fondo conservato presso l’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età contemporanea, nel quale sono contenute relazioni, bollettini, corrispondenza e documentazione varia (in originale e, soprattutto, in copia) relativa a tutte le formazioni partigiane della regione.

Come molte altre serie documentali sulle formazioni toscane, anche per questo fondo esiste almeno un limite euristico che è il caso di premettere e che è connesso al problema della “coevità” delle fonti che raccoglie. Gran parte della documentazione che vi si conserva è costituita infatti dalle relazioni generali sull’attività delle formazioni che, in quanto stese nella gran parte dei casi a partire dalla liberazione dei territori dove queste ultime operarono, sono spesso di qualche mese successive ai fatti descritti. Vi è naturalmente anche corrispondenza e documentazione prodotta nel farsi degli eventi, ma questa costituisce una minoranza, e spesso è oltretutto lacunosa e incerta nei riferimenti. Delle relazioni generali delle formazioni, dunque, conosciamo già i conclamati limiti come fonti: esse costituiscono intanto documenti performativi, che puntano cioè a proporre una raffigurazione della Resistenza rispondente ad alcuni obiettivi successivi, quali quelli del riconoscimento partigiano, e pertanto risultano sensibili a diverse variabili, quali ad esempio i diversi rapporti di forza esistenti tra i partiti dell’unità antifascista. Oltretutto, il più delle volte, questa documentazione, che (con pochissime e quasi del tutto rare eccezioni) è scritta da uomini, riproduce una visione sostanzialmente combattentistica e marziale della Resistenza, priva perciò di un’equanime sensibilità nel registrare il diverso coinvolgimento e lo squilibrio dei ruoli tra i generi. Se la performatività di queste fonti rispetto al problema della partecipazione delle donne agisce spessissimo da filtro, va detto però che non sempre lo fa secondo le logiche di una deliberata esclusione o di un sostanziale ridimensionamento al ribasso del ruolo delle donne. A volte, infatti, emerge dalle relazioni partigiane l’interesse e la preoccupazione a che il ruolo e la presenza delle donne – seppur comunque difficile da inquadrare al di là delle consuete mansioni assistenziali loro riconosciute – non risultino però sottodimensionate. Da parte di qualche estensore di relazione si dichiara persino l’augurio esplicito a che alle proprie gregarie – benché presentate semplicemente come staffette – in nome del coraggio e del sacrificio dimostrati venga riconosciuta la qualifica di partigiane combattenti, indipendentemente da che i requisiti assai stringenti della normativa di riferimento lo consentano o meno.

(ISREC – Lucca) La viareggina Didala Ghilarducci con il compagno Ciro Bertini “Chittò” che seguì sulle Alpi Apuane per combattere i nazifascisti

Certo, l’impressione generale che si ricava da una ricognizione parziale di questo tipo, è che non vi siano stravolgimenti rispetto a quanto ci immaginiamo possa emergere sulla partecipazione delle donne dalle carte partigiane . Affiora però di contro e anche a dispetto dell’uso totalizzante della categoria di “staffette” una maggiore varietà dei campi di impiego del personale femminile, con mansioni e incarichi, continuativi o occasionali, che a volte si muovono lungo un confine piuttosto labile tra funzioni logistico-assistenziali e attività strettamente connesse con l’azione armata vera e propria (anche se poi,  rispetto a quest’ultima, le donne appaiono più spesso nelle vesti di coadiuvanti dei compagni maschi). Continua comunque a resistere alla luce della nostra parziale ricognizione, l’idea complessiva di una specializzazione delle donne all’interno delle formazioni declinata in attività preferenzialmente assistenziali o informative, specializzazione che è certo anche frutto di un’esclusione da un concorso in armi più rilevante prodotto negli estensori delle relazioni dal permanere inconscio di quadri mentali di riferimento che guardano alla presunta minorità (fisica, morale, emotiva) delle donne.
Talvolta, questa minorità filtra in modo esplicito nella documentazione partigiana stesa dai comandi, anche se come elemento forse inconscio legato a retoriche e strategie espressive consuetudinarie e introiettate: «benché donne…», pare talvolta di leggere in tralice nelle argomentazione dei loro comandanti, come a voler dire che non poche delle loro gregarie sembrano quasi sorprendere questi ultimi per le capacità di imporsi sacrifici e rispondere coraggiosamente al dovere che impone la lotta di Liberazione, quasi non fossero da meno degli uomini. Formule avversative di questo tipo non sono rare e se anche sono utilizzate per esprimere in realtà giudizi positivi su quelle singole personalità che si dimostrano in qualche modo capaci di superare le aspettative, spesso al ribasso, che la loro condizione di genere sembra suggerire, in realtà risultano sintomatiche di un filtro tipicamente maschile nella lettura dei caratteri individuali.

Le signorine Wanda Giorgi, Editta Pinelli e Alfonsine Blasta, riferisce ad esempio Vittorio Turri il comandante del servizio informazioni della Divisione partigiana “Lunense”, «benché tutte assai giovani», dimostrano «una serietà e una abilità non comune» e in parte, appunto, inattesa[5]. Di Maria Zannoni, lo stesso Turri dice d’essere questa «una delle migliori staffette sia per l’età che per l’aspetto»[6]. L’indulgere nell’osservazione della forma estetica, se può risultare fuori luogo, sottende probabilmente il fatto che quest’ultima può costituire al tempo una dote e un’arma utile nell’espletamento di una funzione non di rado attribuita al personale femminile, quella cioè della “persuasione” o, come recita la formula moralmente più compromettente spesso usata nelle carte partigiane, della “corruzione” del nemico, che, al pari di una seduzione, viene raggiunta da queste temerarie anche attraverso il loro personale fascino. Nel giugno del 1944, il comandante della 32° Brigata Rosselli “Renzo Galli”, che opera a Siena, dopo la cattura da parte dei tedeschi è processato e condannato a morte; tuttavia, si legge in un rapporto, «elementi femminili» appartenenti alla formazione «corrussero le sentinelle», di modo che il Galli poté approfittare, fuggendo ai suoi carcerieri attraverso una fogna[7]. Nel pistoiese, Giuliana Giavazzi della Brigata GL, mentre si «intratteneva coi militi» della GNR lasciava il tempo ai compagni di introdursi nella caserma per sottrarre armi e munizioni[8]. La già citata Wanda Giorgi, informatrice della Divisione “Lunense” e prima di essa della 4° Brigata “Ligure” operante in Lunigiana, nubile, ventenne, presumibilmente avvenente, si manteneva «in continuo contatto con i soldati tedeschi e fascisti» a cui «sapeva estorcere le notizie più importanti». Anche quando catturata dai tedeschi il 5 dicembre 1944, aggiungeva il rapporto, «ella sosteneva lo stretto interrogatorio senza fare alcuna rivelazione che potesse nuocere ai suoi compagni»[9].

Quella informativa, lo si sa, è una delle mansioni, assieme a quella di staffette, in cui le donne bene o male si specializzano, anche perché, come riconoscono i comandi, a loro è concessa una libertà che i compagni maschi non possiedono. Scrive, a riguardo, nella sua relazione conclusiva Antonio Mattesini, maresciallo di fanteria già appartenete al comando del SIM prima dell’8 settembre e poi ideatore nell’aretino di un nucleo clandestino di informazioni militari poi inglobato nella 23° brigata Garibaldi “Pio Borri”: «si è notato che i più anziani di età e le donne in specie (…) sono sempre stati i più abilissimi informatori in quanto indisturbati penetrano con facilità nei ritrovi e nei luoghi attingendo le più sicure fonti militari»[10]. E pur tuttavia, nonostante questa ammissione, l’impiego effettivo dell’elemento femminile nel centro informativo del Mattesini risulta piuttosto minoritario. Su 41 agenti attivi, 39 sono uomini e solo 2 donne, per di più sorelle (Rosa e Savina Palombi), mentre ancora tra i collaboratori occasionali 28 sono uomini e 4 donne. Decisamente più nutrita risulta invece la rappresentanza femminile entro il Servizio Informazioni Militari della citata Divisione Garibaldi “Lunense”, la formazione ispirata nell’agosto 1944 da Roberto Battaglia al confine tra Garfagnana e Lunigiana. Il servizio dispone infatti di una dozzina di «addette a vari osservatori», sorta di «staffette di vigilanza» alle quali è dato il compito di osservare da punti prestabiliti, spesso coincidenti col luogo di residenza o la sede lavorativa, tutti gli eventuali spostamenti di fascisti e tedeschi che esse poi riferiscono al comando della Divisione. Questo personale femminile svolge talvolta anche missioni mobili che comportano anche il doversi infiltrare presso il nemico nel tentativo di estorcere informazioni. È il caso della già citata Wanda Giorgi o di Editta Pinelli “Annetta” «in frequente contatto con i soldati tedeschi e fascisti» ai quali – viene detto della seconda – «sapeva prendere le notizie più importanti»[11]. Molte di queste informatrici sono per lo più giovani, nubili, spesso insegnanti o impiegate pubbliche nei comuni della zona da dove accedono perciò a informazioni preziose sugli occupanti. Vi sono però altre che vengono da famiglie contadine, come nel caso di Fanny Pellegrini di Fivizzano, e che oltretutto vivono nel difficile contesto di guerra disagiate condizioni economiche. Altre ancora sono sposate e hanno famiglia e prole, fatto questo che le espone ulteriormente a un pericolo maggiore. Arduina Grassi Incerti ne ha addirittura sei di figli; Maria Altieri, casalinga, ha tre bimbi in tenerissima età coi quali, oltretutto, è costretta a passare il fronte quando la sua attività di informatrice viene scoperta ed è perciò letteralmente inseguita dai tedeschi che le devastano pure casa[12].

Il “mimetismo” relativo cui beneficiano le donne nel contesto dell’occupazione, dove sono gli uomini a esser di per sé stessi sospetti, le rendono perciò adatte per compiti di collegamento e raccolta di informazioni, attività che richiedono mobilità e, appunto, passare inosservate. Aspetto, questo, che registrano puntualmente le carte partigiane: «il servizio di collegamento», si legge negli incarti della Brigata “Buozzi” legata al Psiup fiorentino, «doveva esser fatto attraverso il nostro elemento femminile, dato che ad esso soltanto poteva esser permessa una certa libertà di circolazione»[13]. Similmente si esprime anche il comandante della Brigata Garibaldi “Gino Menconi” operante sulle Apuane: «è di valore incalcolabile l’opera svolta dalle donne nel campo dei collegamenti sia nei momenti di stasi che in quelli di combattimento. Il maggior numero di staffette fu sempre reclutato fra le donne ed esse si dimostrarono insuperabili in determinati servizi che richiedevano la massima prudenza»[14].

Sui rischi in cui le staffette possono incorrere la casistica è sterminata, come i pericoli nei quali possono potenzialmente incappare. Giusto alcuni esempi che le carte delle formazioni toscane ci riportano. Il 3 luglio 1944 le sorelle Lidia e Anna Lia Innocenti, staffette della 23° Brigata aretina “Pio Borri”, sono inviate attraverso le linee nemiche nell’area di Rigutino per appurare l’eventuale spostamento delle artiglierie tedesche. Svolgono il loro incarico egregiamente, ma sulla via del ritorno sono seguite da due militari tedeschi che, insospettiti, si fanno condurre presso l’abitazione delle due giovani. Qui, accusate di spionaggio, le costringono a un duro interrogatorio: «siccome le due donne tengono un contegno sprezzante», si legge nel report della formazione, i militari le violentano. Anna Lia viene tragicamente uccisa sul momento, assieme alla madre che tenta di opporsi, mentre Lidia rimane gravemente ferita[15]. Il 7 luglio, un’altra collaboratrice di una compagnia di un battaglione poi rifuso nella stessa Brigata “Pio Borri” viene uccisa dai tedeschi nella zona di Castiglion Fiorentino in Val di Chiana durante un’analoga missione oltre le linee volta ad accertare la dislocazione e la consistenza delle artiglierie tedesche. La donna è Gabriella Brogi, una cittadina belga che porta il cognome del marito italiano, Pericle Brogi (il nome effettivo, che le carte partigiane non dicono, è Gabriella Maria De Jaquier De Rosée), e che si era fatta collaboratrice del movimento locale di resistenza sin dalle prime fasi. Fatto abbastanza singolare, a seguito della sua tragica morte, le sarà intitolata la 2° compagnia (“Gabriella Brogi”) del 2° battaglione della 23° Brigata “Pio Borri”[16]. Nell’agosto del 1944, in piena battaglia di Firenze, ci sono staffette che, come Teresa Cantini passano più volte il fronte tedesco attestato sul Mugnone per collegare gli insorti nei quartieri sotto controllo nemico con i comandi militari partigiani installati nella parte già liberata della città[17]. La staffetta Dina Giannelli, mentre si reca a portare una comunicazione al comando del distaccamento SAP del PCI prima zona di Firenze, viene colpita a morte da raffiche di mitragliatrice, mentre poco dopo un ordigno colpisce una sua compagna, la staffetta Lida Salani, che rimane gravemente ferita[18]. Il 3 settembre 1944, Giuliana Barbetti, 23 anni, staffetta del comitato militare del CLN di Lucca, incaricata di portare attraverso le linee alle avanguardie alleate rilievi topografici sulle fortificazioni tedesche della Gotica, incappa in un infernale fuoco d’artiglieria ed è ferita gravemente da schegge di granata al fianco e alla gamba[19].

(ISRT) Tina Lorenzoni, crocerossina e staffetta della Brigata GL “V”. Catturata e uccisa dai tedeschi durante la battaglia di Firenze.

Contrariamente agli esempi sopra riportati, ci sono formazioni, operanti in contesti di periferia e dal relativo valore militare, che non sembrano invece voler esporre i propri effettivi femminili a rischi inutili, anche se non è chiaro fino in fondo se ciò sia conseguenza di una consapevole volontà di salvaguardia dell’elemento femminile o di un’implicita ammissione della loro inadeguatezza a mansioni di guerra, o entrambe le cose. La Sap di Fibbiana, Montelupo Fiorentino, ad esempio, ha solo due donne all’attivo: Clara Pozzolini, che è un’impiegata dello stato civile del comune a cui sono stati attribuiti compiti di vigilanza, e la staffetta Maria Cioni. Come ci tengono a sottolineare i comandi nella relazione, sono però i soli effettivi maschi della formazione che vengono «impiegati in azioni pericolose», anche se poi la Cioni, che grazie alla sua conoscenza dell’inglese si troverà a far da interprete con le avanguardie alleate, dovrà espletare comunque questa sua mansione «anche in momenti particolarmente pericolosi per il violento cannoneggiamento»[20]. D’altro canto, nelle aree in cui si combatte, qualsiasi funzione anche non direttamente marziale attribuita al personale femminile si rivela lo stesso rischiosa: «pericolosissimo pure era il servizio di raccolta e di porta feriti disbrigato in maniera lodevole dalle staffette femminili», si legge nei report della Brigata Garibaldi fiorentina “Sinigaglia”, una delle più combattive. La Brigata GL “Vittorio Sorani”, attiva nei giorni della battaglia per Firenze nel quartiere fiorentino di Rifredi, allora sotto occupazione tedesca, organizza un ambulatorio clandestino per l’assistenza alla popolazione civile. Una sua effettiva, Tina Lorenzoni, crocerossina e tra le più attive staffette fiorentine, accompagna una partoriente in condizioni non ottimali «attraverso la linea nemica sotto varie raffiche di mitragliatrice» fino nel centro della città, già in mano alleata[21]. Non molto dopo, come noto, la stessa Lorenzoni, nel corso di un’altra missione di infiltrazione oltre le linee nemiche sulle colline a nord di Firenze verrà catturata e fucilata dai tedeschi.

Nella documentazione partigiana, non di rado si trovano a riguardo del personale femminile notazioni che rimandano ad attività collaterali all’azione militare vera a propria, spesso legate al sabotaggio, le quali, se non implicano nella pratica l’uso delle armi, richiedono quantomeno il possesso di conoscenze tecniche o un minimo di dimestichezza bellica e balistica normalmente appannaggio delle componenti maschili. Le due staffette della citata Brigata “Buozzi”, Lidia Albertoni e Ludovica Marcella Paperini, mentre la formazione è impegnata a Firenze sulla linea del Mugnone, vengono incaricate di recarsi oltre il tracciato difensivo tedesco «per individuare i punti di collocamento delle mine» che devono esser fatte brillare per rallentare la ritirata tedesca[22]; un compito che, immaginiamo, presupponeva il possesso di qualche cognizione sul funzionamento e la portata degli esplosivi. Meno complessi, tecnicamente, ma non meno rischiosi risultano altri incarichi di sabotaggio, talvolta affidati a personale femminile interno o esterno alle bande. La signora Poggi, ad esempio, collaboratrice della formazione comandata dal capitano della regia Marina Giuseppe Cecchini e attiva nella bassa valle del Serchio, in provincia di Lucca, veniva spesso incaricata dal comando di «recarsi in determinati punti a tagliare i fili telefonici»[23].

La questione capitale del porto effettivo delle armi da parte del personale femminile sembra invece sfuggire o appena trapelare dalla documentazione collazionata per questa parziale ricognizione. Ogni volta che nelle carte si trovano descrizioni dettagliate su azioni militari e se ne indicano i membri che ne prendono parte, molto raramente compaiono tra essi nomi femminili. La ragione, naturalmente, è ovvia e rispecchia l’effettiva esiguità della partecipazione in armi da parte delle donne aggregate alle formazioni nel contesto di combattimenti. È oltremodo significativo, comunque, il fatto che le volte in cui si trovano nei documenti riferimenti di questo tipo non di rado è in conseguenza di un coinvolgimento improvviso e casuale da parte di staffette o componenti femminili in scontri col nemico . Nel resoconto relativo a un attacco subito dalla 4° compagnia del 1° battaglione della 23° Brigata aretina “Pio Borri”, ad esempio, delle patriote Detti Concetta, Ciofini Ester e Romani Anna Maria si specifica che «accorse sul posto di combattimento ad informare il comandante di compagnia circa i movimenti tedeschi vengono coinvolte con i partigiani nel combattimento e rimangono anch’esse ferite»[24]. Diversamente, in un contesto d’emergenza in cui gli effettivi partigiani scarseggiano, come accade ad esempio in una situazione di prima linea, può esser richiesto alle stesse staffette di svolgere attività di vigilanza armata e quindi, all’occorrenza, l’uso delle armi. Tra il 9 e il 10 agosto 1944, si riporta ad esempio in un report della 3° Brigata “Rosselli” impegnata nella liberazione di Firenze, «dato il precipitare della situazione tutti, indistintamente, dai comandanti alle staffette femminili, prestarono ininterrotto servizio armato».

La guerra partigiana nelle carte delle formazioni risulta principalmente affare per uomini. D’altra parte, la lente tradizionale attraverso la quale si legge da subito quell’esperienza è tipicamente maschile e mette al centro del discorso le virtù marziali, i valori combattentistici, la morte, gli eroismi. La partecipazione femminile, pur se molto più articolata, continua perciò a rimanere espressa con formule discorsive e retoriche prettamente ancillari, che ne mettono in luce semmai il ruolo di assistenza materiale e morale alla Resistenza in armi. Non è però questo sguardo, così parziale e soggettivo, esito esclusivo del fatto che a compilare le carte delle formazioni siano quasi sempre partigiani maschi. Appare significativo in tal senso che, anche per il caso toscano, questa visione ancillare della Resistenza delle donne trovi alcune conferme persino in quelle pochissime relazioni stese da attiviste e compagne responsabili di organizzazioni femminili legate alla Resistenza. Un esempio, tra altri, può essere la relazione stesa da Flora Giannini, responsabile del gruppo femminile della SAP di Carrara legata alla FAI (Federazione Anarchica Italiana). Si tratta di sette cartelle fitte che rivendicano al gruppo di donne in questione una gamma di attività in grado di spingersi ben oltre i meri aiuti materiali forniti ai partigiani delle Apuane e che abbraccia invece anche servizi di spionaggio, di porta armi e munizioni o di cura morale e psicologica ai combattenti. C’è, inoltre, racchiusa in quelle pagine, la netta rivendicazione di un’adesione indefessa e incondizionata da parte delle donne carrarine alla causa della Resistenza, adesione che non si cura dei sacrifici e delle difficoltà subite, e che anzi vuol porre in sodo la capacità di resistenza e adattamento delle donne della formazione alle stesse dure condizioni di vita in montagna che sperimentano i partigiani in armi. Ma, oltre a questo, pare emergere in filigrana come il loro ruolo, per quanto effettivo ed entusiasta, risponda a una vocazione orientata a dare tutto in funzione dei partigiani combattenti, che esse seguono infatti quasi come ombre, fornendo loro tutto ciò di cui essi abbisognano e non sono in grado di procurarsi. Una certa idea di sussidiarietà, forse imposta dalla forma mentis della società del tempo o forse in parte anche dalla volontà di toccare in chi doveva legger e valutare quel documento le giuste corde sentimentali e psicologiche, non era perciò del tutto assente nel modo con cui si descriveva da parte delle stesse protagoniste la collaborazione del gruppo femminile. Peraltro, il tutto espresso con un linguaggio intriso di patos sacrificale che non si discostava molto da quello infuso in molte altre relazioni partigiane di fatti d’armi:

Per le brave compagne non esistevano né pesi né fatiche, ma animate da quel coraggio che è forza e fede dell’ideale seguivano quei prodi da uno sganciamento all’altro, sotto il tiro del cannone e sotto il fischio della mitraglia, pur di portare loro il necessario: armi, munizioni e viveri abbondanti. Esse erano messaggere in tutti i pericoli, sempre pronte alla voce del dovere di giorno e di notte, non arrestandosi davanti a nessun ostacolo pur di portare a termine le loro missioni […] Esse con fulgido esempio sfuggendo alle insidie nemiche, salivano i monti affrontando tutti i pericoli, sfidando la morte per portare non solo il pane, nutrimento materiale, ma la loro buona parola che era conforto morale a quei prodi, che celati tra le creste frastagliate, passavano i giorni pieni di tristezza e privazioni, lontani dalle loro case, dai loro cari, dove un pensiero costante li portava ogni dì, dove l’attesa di quella libertà li tendeva frementi d’azione. Era vicino a loro, che esse si portavano dopo i duri combattimenti per raccogliere i feriti, prodigando loro cure ed attenzioni, dando sepolture occasionali e degne per toglierli dalle mani del nemico e toglierli al loro oltraggio.[25]

Anche quella della partigiana-Antigone che, come la grossetana Norma Parenti, a suo rischio personale sottrae i corpi dei compagni caduti all’oltraggio del nemico assicurandone contro il divieto di quest’ultimo degna sepoltura – una funzione caritatevole quanto rischiosa, coraggiosa quanto deflagrante sul piano della disobbedienza al comando della guerra nazifascista –, è elemento che trapela talvolta nelle stesse carte partigiane, anche se forse non in tutta la sua pienezza di significato.

(ToscanaNovecento) Norma Parenti, antifascista e partigiana grossetana, catturata, seviziata e uccisa dai tedeschi. Medaglia d’oro al valor militare.

Da questa ricognizione incerta e parziale, sfuggono invece molte altre questioni, sulle quali talvolta, ma non sempre, le carte partigiane tacciono o si mostrano reticenti, ma che proprio per questo sono però altrettanto importanti. Tra queste, ad esempio, il problema della convivenza e della condivisione degli stessi spazi e delle stesse condizioni di vita partigiana all’interno delle formazioni tra personale maschile e femminile, e dunque la questione della moralità e della disciplina che tali rapporti sollevano. Come ha ricordato tra altri Santo Peli, la presenza di donne giovani e potenzialmente desiderabili tra le file partigiane sollevò talvolta da parte dei comandi decisi «moralismi», volti a frenare l’insorgere nella truppa maschile di speculari «fantasie»[26], moralismi che lasciarono tracce entro i codici disciplinari che le singole formazioni si diedero e nei provvedimenti disciplinari che i comandi in alcuni casi sanzionarono. Tracce, queste, talvolta recuperabili nei carteggi e nella documentazione partigiana coeva.

Altra questione che trapela dagli incarti partigiani, con sensibile accelerazione a partire dalla vigilia della fine della guerra, è quella inerente il problema del riconoscimento partigiano per staffette e, più in generale, per il personale femminile. Considerazioni e sensibilità anche divergenti sul da farsi presero in quel frangente ad animarsi tre le stesse file partigiane. Sicuramente, da un lato, agì da parte di alcuni comandi la volontà di mantenere la guerra di Liberazione nell’alveo del paradigma combattentistico del maschio guerriero, certificandone perciò i suoi effettivi come tali e mantenendo di conseguenza la partecipazione femminile su di un piano meramente assistenziale. Dall’altro, invece, non mancarono preoccupazioni contrarie, perché si tenesse conto cioè, premiandolo adeguatamente, del valore non solo sussidiario e simbolico del contributo offerto alla Resistenza dalle donne. Il tenente di fanteria Luigi Geri, comandante della formazione “Valoris” collegata al PCI di Pistoia, ad esempio, dopo aver parlato dell’opera svolta dalle sue staffette Liana Pisaneschi e Marina Capponi chiudeva la sua relazione generale con queste parole: «Ritengo doveroso segnalare l’operato delle staffette che si sono prodigate sprezzando il pericolo, fino all’inverosimile, portando attraverso le maglie nemiche armi, munizioni e materiale di propaganda. A queste, pur non avendo partecipato a combattimenti deve spettare la qualifica di partigiane combattenti»[27].

Talvolta, come può leggersi nei carteggi che si scambiano i comandi partigiani toscani già a partire dalla fine del 1944, nella compilazione dei ruolini e nel rilascio dei primi attestati può succedere che alcuni di essi si dimostrino un po’ laschi nel concedere a collaboratrici e patriote il riconoscimento di partigiane combattenti, talvolta facendo ciò a scopi puramente assistenziali, talaltra seguendo anche logiche premiali su base politica o dietro mirate raccomandazioni. Situazioni che però si scontrarono spesso con chi, non solo insisteva perché il rilascio delle qualifiche rispecchiasse i criteri di legge, ma si dimostrava preoccupato di contenere l’esperienza resistenziale entro un canone puramente combattentistico e, come tale, eminentemente maschile. Di fronte alla troppo leggera concessione di alcuni tesserini attestanti la qualifica di partigiane combattenti per una ventina di donne della fiorentina Brigata Garibaldi “Sinigaglia”, un piccato esposto inviato nel settembre 1944 al comando delle Garibaldi fiorentine protestava asserendo trattarsi in quel caso di donne chiamate in realtà dalla formazione «a disimpegnare il lavoro di pulizia, di cucina e di sguattere». Valutata la situazione, in quel caso il comando garibaldino propose di considerarle perciò come «servizio ausiliario», includendole tra le richiedenti la qualifica di «patriota»; grado che poi la Commissione regionale toscana riconobbe per alcune di loro. Almeno una di esse, sappiamo,  fece ricorso alla Commissione di secondo grado per ottenere il titolo di partigiana combattente, che tuttavia le fu rigettato[28].

Che vi siano nella documentazione partigiana coeva spunti e appigli ancora utili per approfondire e problematizzare alcune fondamentali questioni potenzialmente in grado di illuminare non solo (o non tanto) il ruolo effettivo della partecipazione femminile alla Resistenza ma in senso più in generale la stessa conoscenza complessiva della vicenda resistenziale e partigiana è qualcosa per cui davvero può valer la pena di riprendere le carte d’archivio e interrogarle con dovuta acribia e rinnovata sensibilità.

 

 

 

[1] Comitato femminile antifascista, Donne e Resistenza in Toscana, La Giuntina, Firenze 1978.
[2] P. Gabrielli, Antifascisti e antifasciste, in M. Palla (a cura di), Storia della Resistenza in Toscana, vol. 1, Regione Toscana-Carocci, Roma 2006, p. 42.
[3] L. Mattei, La partecipazione delle donne, in AA.VV., Storia della Resistenza senese, Istituto Storico della Resistenza Senese e dell’Età Contemporanea “V. Meoni”, Betti editrice, Siena 2021, pp. 191-192.
[4] Per un esempio classico di questa interpretazione storiografica del modello resistenziale toscano cfr. R. Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Einaudi, Torino 1979, p. 357.
[5] Archivio Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età contemporanea (AISRT), Resistenza armata in Toscana, b. 3, fasc. 7.5.2 Divisione Garibaldi Lunense, Servizio Informazioni Militari, Relazione sull’attività svolta dal Servizio Informazioni Militari della Divisione Garibaldi Lunense, p. 26.
[6] Ivi, Elenco dei partigiani del S.I.M. (Servizio Informazioni Militari) della Divisione Garibaldi Lunense, p. 13.
[7] Ivi, b. 1, fasc. 3.1.3 XXII Brigata Fratelli Rosselli, Div. GL 32° Brigata Carlo Rosselli, si vedano i riferimenti alle date del 29 e 26 giugno 1944 nelle due diverse versioni presenti dell’Elenco delle azioni.
[8] Ivi, b. 5 [4], fasc. 15.13 Brigata GL Pistoia, relazione a firma del comandante la Brigata Riccardo Morosi e del comandante la XII zona Vincenzo Nardi, pp. 2-3.
[9] Ivi, b. 3, fasc. 7.5.2 Divisione Garibaldi Lunense, Servizio Informazioni Militari, Elenco dei partigiani del S.I.M. (Servizio Informazioni Militari) della Divisione Garibaldi Lunense, pp. 4-5.
[10] Ivi, b. 1, fasc. 1.1.16 XXIII Brigata Garibaldi “P. Borri”, III Btg., Relazione organico forza e sue variazioni centrale e compagnia “I”, Costituzione del nucleo clandestino d’informazioni di Castel Focognanon (Arezzo), p. 3
[11] Ivi, b. 3, fasc. 7.5.2 Divisione Garibaldi Lunense, Servizio Informazioni Militari, Elenco dei partigiani del S.I.M. (Servizio Informazioni Militari) della Divisione Garibaldi Lunense, p. 5.
[12] Ivi, pp. 4, 12, 14; ivi, Relazione sull’attività svolta dal Servizio Informazioni Militari della Divisione Garibaldi Lunense, p. 29.
[13] Ivi, b. 2, fasc. 5.1.2.13 Divisione Potente brigata B. Buozzi, Relazione sulle operazioni clandestine ed azioni di guerra della III zona settore S, 1 agosto 1944, p. 5.
[14] Ivi, b. 3, fasc. 7.3.1. Brigata Garibaldi “Gino Menconi”, Relazione Brigata Garibaldi “Gino Menconi”, collegamenti, p. 13.
[15] Ivi, b. 8 [Resistenza in Toscana], fasc. 29.3 Relazione sull’attività della 2° compagnia “Gabriella Brogi” del II battaglione della XXIII Brigata Garibaldi “Pio Borri”, 3 luglio 1944, pp. 21-22.
[16] Ivi, 7 luglio 1944, pp. 24-25.
[17] Ivi, b. 2, fasc. 5.1.2.13 Divisione Potente brigata B. Buozzi, Relazione dell’attività svolta dalla squadra socialista di Peretola nel periodo maggio-agosto 1944, p. 1.
[18] Ivi, b. 2, fasc. 5.1.5 Sap I zona PCI Firenze, Relazione dell’attività svolta dalla costutuzione delle Squadre d’azione SAP fino allo scioglimento, p. 12; ivi, Rapporto relativo all’attività svolta dalla 2° compagnia I zona, p. 2.
[19] Ivi, b. 3, fasc. 8.1 Comitato militare clandestino dei patrioti lucchesi, Relazione, ottobre 1944, p. 40.
[20] Ivi, b. 1, fasc. 3.1.4 Sap Fibbiana, Attività svolta, p. 1.
[21] Ivi, b. 2, fasc. 5.1.2.3 Brigata V, Relazione della Brigata “V”, 29 dicembre 1944, pp. 3,6,
[22] , b. 2, fasc. 5.1.2.13 Divisione Potente brigata B. Buozzi, Relazione sulle operazioni clandestine ed azioni di guerra della III zona settore S per la Liberazione di Firenze, p. 6.
[23] Ivi, b. 3, fasc. 8.8. Formazione Cecchini, Relazione del capitano della regia marina Cecchini Giuseppe, Lucca, 2 novembre 1944, p. 3.
[24] Ivi, b. 1, fasc. 1.1.8 XIII Brigata Garibaldi “Pio Borri” I Btg. IV Cpg., Attività operativa, 14 luglio 1944, p.
[25] Ivi, b. 3, fasc. 7.1.4 SAP F.A.I., Relazione militare femminile (Gruppo Flora) SAP-FAI, p. 2.

[26] S. Peli, La Resistenza in Italia. Storia e critica, Einaudi, Torino 1004, p. 215.
[27] Ivi, b. 5, fasc. 15.22, Banda Valoris, Relazione, Pistoia, 3 maggio 1946, p. 7.
[28] Ivi, Anpi Firenze, b. 3, fasc. Carteggio 1944 non datato, istanza a firma Marco Pieri al Comando Divisione Potente e ai vecchi comandanti della Brigata Sinigaglia e risposta a firma di “Gracco” e altri del 20 novembre 1945.




Prima della strage: gli anni Trenta, le relazioni industriali e l’opposizione al regime nella miniera di Niccioleta

L’ex miniera di Niccioleta – frazione del Comune di Massa Marittima in provincia di Grosseto – è nota soprattutto nella memoria pubblica per l’efferata strage1 nazifascista del 13-14 giugno 1944, quando 83 minatori furono massacrati tra il piccolo borgo minerario e Castelnuovo Val di Cecina (Pi), nei giorni della ritirata tedesca.

In questa sede non ci soffermeremo sull’analisi della dinamica di questo episodio già accuratamente studiato, ma sulla portata di quei comportamenti di dissidenza e opposizione al fascismo diffusi tra i minatori di questo villaggio minerario nel corso degli anni Trenta, ritenuti di massimo consenso al regime. A tal fine crediamo necessaria una panoramica sulle difficili condizioni socio-economiche degli operai di questo contesto produttivo, che alimentarono lo scontento e li indussero a manifestare il loro sentimento antifascista anche con gesti eclatanti, ben prima dell’antifascismo organizzato manifestatosi con la lotta di Liberazione.

Credits: autore Civilini, Lando (attr.) – Datazione: 1935 – 1949 – Luogo: Niccioleta (Collocazione: Milano (MI), Centro per la cultura d’impresa, fondo Edison, EDS_ST_DV_2056)

Dopo le prime operazioni di ricerca avviate dall’inizio degli anni Venti, la miniera2 di pirite di Niccioleta di proprietà della Società Montecatini entrò definitivamente in funzione nel 1929, quando fu stipulato il contratto di lavoro per i primi 150 operai. Era solo l’inizio di questa attività produttiva, che garantì al colosso della Montecatini il monopolio della pirite italiana, la materia prima fondamentale per la produzione di acido solforico, impiegato per le esigenze dell’industria chimica e per la produzione di fertilizzanti per l’agricoltura. Negli anni successivi i lavori furono rapidamente ampliati e crebbero sia le maestranze che la produzione3. In Maremma la Montecatini era già attiva dal 1899 e, per quanto riguarda la pirite, deteneva la proprietà anche delle miniere di Gavorrano e Boccheggiano. Nei primi anni Trenta fu inaugurato un imponente sistema di teleferiche, il più lungo d’Europa (oltre 40 km), che permetteva di collegare le tre miniere con Scarlino scalo: da qui il minerale estratto veniva caricato sui treni o condotto a Portiglioni per esser spedito via mare. All’inizio degli anni Trenta e fino al 1940 a Niccioleta fu dato avvio alla costruzione del vero e proprio villaggio minerario di impronta architettonica razionalista, organizzato secondo un ordine gerarchico e dotato dei principali servizi.

Le condizioni di vita degli addetti alle miniere non furono però mai facili. Già nel 1926 venivano denunciate le manchevolezze del sindacalismo fascista4 da parte del sindaco di Massa Marittima, Innocenzo Vecchioni, che riferiva sia «l’abbandono pressoché continuo di questa massa benemerita per parte di chi è preposto alla sua tutela economica e morale», sia le angherie di alcune direzioni di miniere verso le masse dei lavoratori organizzati nel sindacato fascista, riferendosi in particolare «ai licenziamenti o retrocessioni di grado per ripicche verso chi ha un grado nell’organizzazione, come è avvenuto nelle Miniere Niccioleta e Accesa»5. Dal canto suo, il segretario provinciale dei sindacati fascisti, Gino Finotello, rilevava il mancato rispetto dei concordati di lavoro da parte delle imprese, in primis nella parte riferita ai cottimi6. Nello stesso anno il segretario federale Ferdinando Pierazzi e Finotello7 si recarono a Roma presso i vertici delle organizzazioni politiche e sindacali, per far presente la necessità di rinnovare o elaborare contratti equi in favore delle maestranze operaie locali, i cui guadagni erano giudicati largamente insufficienti alle necessità di vita. Dopo la lunga e difficile opera di conciliazione per i patti collettivi di lavoro ispirati ai principi corporativi (nel 1928 furono stipulati quelli per i minatori e gli operai metallurgici), in provincia cominciò ad assumere proporzioni preoccupanti la disoccupazione, dovuta principalmente alla crisi dell’industria mineraria e al ristagno dell’edilizia. La concorrenza estera, la minor richiesta dei mercati, le carenze infrastrutturali, la scarsa competitività dovuta agli alti costi e alla bassa qualità di alcune produzioni erano le cause principali delle difficoltà economiche in Maremma, inserite nel ben più ampio contesto della grave crisi economico-finanziaria internazionale, il cui episodio più eclatante fu il crollo della borsa di Wall Street nell’ottobre 1929, che comportò anni di recessione.

Tra la fine degli anni Venti e i primi anni Trenta la crisi colpì principalmente le industrie estrattive, edili, chimiche, metallurgiche e del legno, traducendosi in sospensioni o chiusure di attività, riduzioni delle giornate lavorative, continui licenziamenti, all’interno di contesti produttivi divenuti sempre più minacciosi e autoritari.

Alla fine degli anni Venti, tra tutte le miniere della Montecatini la situazione era particolarmente critica a Gavorrano8, dove il lavoro era ridotto a cinque giorni settimanali, le paghe erano molto basse, quelle sui cottimi venivano periodicamente ridotte e le maestranze erano molto scontente e conducevano una vita di ristrettezze con forti ricadute sullo stato di salute, come dimostravano le statistiche degli ammalati. Solo il 30 novembre 1929 furono stabilite le nuove tariffe salariali9 per i minatori della Montecatini, dopo l’accordo siglato tra l’Unione industriale fascista della provincia di Grosseto e l’Unione provinciale dei sindacati fascisti dell’industria. Pur vantando che l’apertura della miniera di Niccioleta aveva rappresentato il segno della volontà di dar massimo impulso all’attività estrattiva, nell’ottobre 1931 la Montecatini fece presente la gravissima contrazione nei programmi commerciali di collocamento e vendita delle piriti estratte nelle miniere maremmane. In sei mesi fu accumulato uno stock per oltre 100mila tonnellate nonostante l’orario ridotto e i licenziamenti degli operai, poiché la Germania – principale mercato estero – aveva denunciato i contratti di forniture e rinunciato a nuovi acquisti, mentre la domanda era calata pure nel mercato interno per la diminuzione della produzione del susperfosfato per l’agricoltura10. La società optò, dunque, per i licenziamenti degli operai di minor resa nelle miniere di pirite maremmane. Il 1° ottobre 1931 persero il lavoro 88 operai della miniera di Niccioleta e 57 di quella di Boccheggiano. Un altro duro colpo per i minatori della Montecatini si verificò il 17 ottobre 1931, quando in sede ministeriale furono concordate le riduzioni salariali del 21%11. Il 21 ottobre 1931, durante il cambio turno, circa cento operai della miniera di Gavorrano rivolsero ingiurie al direttore della miniera e ripresero i lavori con mezz’ora di ritardo. Intervenne Solimeno Petri, commissario dell’Unione provinciale dei sindacati fascisti dell’industria, che chiese l’intervento del Comitato intersindacale al fine di riesaminare la questione della riduzione salariale (ristabilendo un guadagno giornaliero di almeno 12 lire per gli adulti e otto per donne e ragazzi), mantenere le cinque giornate lavorative settimanali e infine creare spacci aziendali – a cura della Montecatini – per alleviare lo stato di disagio dei lavoratori12.

Credits: autore Civilini, Lando (attr.) – Datazione: 1935 – 1949 – Luogo: Niccioleta (Collocazione: Milano (MI), Centro per la cultura d’impresa, fondo Edison, EDS_ST_DV_2057)

Il prefetto di Grosseto Giovanni Tafuri sollecitò l’intervento del Ministero delle Corporazioni, che nel dicembre 1931 cercò vanamente di convincere la Montecatini – che aveva già licenziato 350 operai – a mantenere le cinque giornate lavorative, evitando il licenziamento di altri 350 lavoratori. Quest’ultima non si mosse però dalle condizioni poste (riduzione a quattro delle giornate lavorative settimanali con il licenziamento di 350 lavoratori o mantenimento delle cinque giornate lavorative con il licenziamento di ben 700 operai), scegliendo la seconda opzione e facendo presente che solo per questioni di ordine politico non aveva ancora provveduto al licenziamento del secondo scaglione di 350 lavoratori13. Un episodio che dimostra la subalternità e la scarsa capacità d’imposizione dello stesso Ministero nei confronti della Montecatini.

La situazione era particolarmente critica pure alla miniera di Niccioleta e rischiava seriamente di compromettere il consenso al regime. Circa 200 dei 350 operai occupati nel borgo minerario non acconsentirono al pagamento dei contributi sindacali e al rinnovo della tessera per l’anno 1932, motivando tale dissenso con le loro disagiate situazioni economiche. Il Comando dei carabinieri di Massa Marittima dispose indagini per verificare che fra la massa operaia non vi fossero sobillatori che agivano per scopi antinazionali14. Stessa cosa era successa a Boccheggiano, dove 300 operai avevano rifiutato il rinnovo della tessera sindacale a causa del suo aumento da sei a 10 lire, mostrando al contempo un forte malcontento per le loro tristi condizioni economiche e per il generale disinteresse del sindacato verso le loro problematiche15.

Nell’aprile 1932 fu lo stesso Direttorio federale grossetano a richiedere la revisione dell’accordo salariale al Ministero delle Corporazioni, dopo aver constatato che gli operai dipendenti dalle miniere di Boccheggiano e Niccioleta percepivano un salario medio giornaliero di 10 lire lavorando cinque giorni a settimana. Si trattava di un guadagno ritenuto insufficiente alle più stringenti necessità quotidiane, che aveva depresso lo stato d’animo dei minatori con ripercussioni in campo politico16. In quel periodo la produzione annua totale delle tre miniere di pirite della Montecatini (Gavorrano Niccioleta e Boccheggiano), più quella di Ravi di proprietà della Società Marchi, ammontava a circa 400mila tonnellate. Il 15 giugno 1932 il prefetto Celi tornò dunque a invocare l’adozione di misure protezionistiche presso il Ministero delle Corporazioni, poiché, stando ai dati da lui recepiti, porre il divieto d’importazione alle 150mila tonnellate di pirite provenienti da Spagna e Grecia avrebbe giovato alla Montecatini, che sarebbe potuta tornare alle sei giornate lavorative nelle sue miniere, con l’assunzione di nuova manodopera17.

Nulla si mosse però a livello governativo. Il 30 luglio 1932 la direzione della miniera di Montecatini di Gavorrano affisse i manifesti che comunicavano il licenziamento di 250 operai. Scoppiarono così nuovi disordini, con circa 300 minatori che si radunarono davanti alla direzione stessa, emettendo grida ostili e lanciando pure qualche sasso contro gli uffici Bedeaux18. Quest’ultimo è il nome dell’inventore del sistema omonimo di razionalizzazione del lavoro volto ad aumentare la produttività, che fu introdotto anche nelle miniere maremmane della Montecatini a partire da quella di Gavorrano dal 1° marzo 1932, tra le lamentele degli operai e una notevole diffidenza anche da parte delle autorità fasciste. Tale sistema si basava sulla scomposizione analitica del lavoro e per le paghe si allacciava a meccanismi d’incentivi a partire dall’unità Bedeaux, corrispondente alla quantità di lavoro che poteva essere svolto da un operaio, in condizioni normali, in un minuto.

Il segretario federale Vecchioni, rivolgendosi al Ministero delle Corporazioni, considerò l’atteggiamento degli operai come diretta conseguenza degli inqualificabili sistemi della Montecatini e della mancanza di comprensione dei dirigenti della miniera. Le autorità fasciste maremmane temevano che il calo della produzione e i licenziamenti avrebbero avuto gravi conseguenze per il mantenimento del consenso al regime e dell’ordine pubblico a livello locale, ecco quindi la necessità di una continua mediazione con le forze imprenditoriali, avvantaggiate però proprio da quel sistema corporativo adottato dal fascismo, che per porre fine alla lotta di classe aveva minato libertà e diritti dei lavoratori.

L’ira delle autorità locali verso la Montecatini si manifestò anche nel corso della riunione del Comitato intersindacale del 23 luglio 1932. Petri si soffermò a lungo sulla questione degli operai della Montecatini, che in soli due anni avevano visto i loro salari dimezzati. Al di là delle riduzioni salariali elencò altre anomalie dovute al comportamento della società, quali: la mancata istituzione di spacci aziendali; l’introduzione arbitraria del sistema Bedeaux nella miniera di Gavorrano a partire dal 1° marzo 1932, che riduceva notevolmente i salari dei lavoratori (da una paga media giornaliera di 26,2 lire con la tariffa a cottimo pieno si scendeva alle 17,2 lire con i valori Bedeaux); la cessazione al 1° luglio 1932 della garanzia accordata per il mantenimento della paga media giornaliera a 17,2 lire; l’arbitrio nel conglobamento del carovita nel guadagno giornaliero; il licenziamento di 30 operai in seguito a un infortunio mortale verificatosi nella miniera di Gavorrano quale diretta conseguenza dell’introduzione del Bedeaux; l’annuncio della chiusura della miniera di Fenice Capanne a Massa Marittima; ed infine l’arbitraria riduzione apportata ai guadagni di alcune squadre di operai addetti ai lavori di rialzamento dei bacini. Il segretario federale Vecchioni condannò, invece, il metodo utilizzato dalla Montecatini, che provvedeva ai licenziamenti senza contrattazione con gli organismi sindacali interessati, «ai quali premerebbe che il numero dei licenziati non venisse a gravare su una sola località ma fosse sempre equamente ripartito fra i diversi paesi dai quali le miniere traggono la manodopera». Dal punto di vista politico Massa Marittima risultava il centro più vulnerabile della provincia, tanto che Vecchioni non esitò a definire come «antifascista» l’azione della Montecatini nei confronti del paese minerario. «Tale sistema, che può aver avuto, come conseguenza diretta una diminuzione notevole di fiducia verso gli organismi politici e sindacali della provincia, che, a dire degli stessi operai, non avrebbero saputo sufficientemente arginare l’azione della Montecatini, è riprovevolissimo», le durissime parole del federale19.

Il 7 agosto 1932 la Montecatini licenziò definitivamente i 250 operai già segnalati. Tra questi riuscirono a salvare il posto di lavoro solo 90 operai di Massa Marittima, in parte confermati a Gavorrano (35), in altra parte assunti a Niccioleta (55).

Niccioleta. Edificio dell’Associazione Nazionale Combattenti di Niccioleta
Credits: autore Civilini, Lando (attr.) – Datazione: 1935 – 1949  (Collocazione: Milano (MI), Centro per la cultura d’impresa, fondo Edison, EDS_ST_DV_2118)

Nel 1933 proseguirono le difficoltà nei mercati del rame, del mercurio e dei prodotti metallurgici. Petri ribadì che persisteva uno stato di depressione morale tra i minatori – in primis tra quelli di Niccioleta e Boccheggiano – visto il «considerevole malcontento sia per l’inadeguamento dei salari al bisogno della vita, sia per i noti metodi esotici di lavoro, arbitrariamente applicati»20. La questione dei minatori maremmani assunse una rilevanza nazionale e fu trattata perfino nella riunione del Direttorio nazionale del Pnf a Bari, nel settembre 1933. Intanto, i provvedimenti antidisoccupazione, rimasti a lungo lettera morta, trovarono una loro prima applicazione a partire dalla fine del 1934, sulla base di alcune misure cardine quali le 40 ore settimanali, l’abolizione del lavoro straordinario, la limitazione dell’impiego di donne e ragazzi alle prestazioni di loro competenza specifica e la sostituzione dei lavoratori pensionati. Fu una prima boccata d’ossigeno per le maestranze locali, con alcune industrie – tra cui quelle estrattive – che ripresero le assunzioni, ponendo un primo argine alle conseguenze drammatiche dell’assenza di lavoro, particolarmente sentite nell’area amiatina e in quella dell’Argentario. Tra il 10 e il 15 dicembre 1934, con l’applicazione delle 40 ore lavorative la Montecatini procedette all’assunzione di 167 operai, tra cui 32 a Niccioleta, 46 a Boccheggiano e 80 a Gavorrano21.

Era vicina anche la resa dei conti col sistema Bedeaux. L’introduzione di questo sistema di lavoro – applicato anche alle miniere di Gavorano, Boccheggiano, Ravi e Rigoloccio della Montecatini – aveva infatti originato una lunga vertenza che fu posta a livello nazionale. La maggiore intensità di lavoro richiesta agli operai si era risolta addirittura in una diminuzione delle paghe. La questione fu chiusa il 9 novembre 1934 con la mozione del Comitato corporativo centrale22, che ristabiliva il primato della regolazione collettiva per l’applicazione di qualsiasi sistema di salario o incentivi, mantenendo ai lavoratori la possibilità di conoscere con chiarezza e semplicità gli elementi che componevano la loro retribuzione. Tale atto sancì l’abolizione del Bedeaux e il ritorno alle tariffe a cottimo pieno nelle miniere della Montecatini, con piena soddisfazione delle autorità fasciste locali23.

L’episodio del Bedeaux costituì però un’eccezione. «Non potevano esserci dubbi ormai su quale fosse la collocazione del fascismo nel conflitto tra padroni e operai. La presenza sempre più diffusa in ruoli chiave della gerarchia della miniera – anche se soprattutto nelle mansioni inferiori di sorveglianza – di personale di esplicita appartenenza fascista, spesso di matrice squadrista, ne era la manifestazione più esplicita. L’identificazione del fascismo con il comando capitalistico, e viceversa, era netta. […] Emerse talvolta qualche residua frizione tra le autorità locali e la Montecatini, indotta dalla percezione dello strapotere che la società mineraria stava esercitando, ma nessuna giunse mai a incrinare la consonanza di fondo. Questo connubio Stato/capitale, o anche fascismo/capitale, sperimentato dai minatori già nel sottosuolo, si riproduceva in superficie, dove, insieme al ruolo primario di antagonista di classe, assumeva quello benevolo, ma sempre diffidente e all’occorrenza severo e perfino brutale, del padre di famiglia attento ai bisogni dei propri figli»24.

L’accordo per le tariffe salariali delle maestranze della Montecatini fu stipulato il 22 febbraio 1935. Furono stabilite le tariffe per i lavori a cottimo, i quali dovevano esser fissati mediante un biglietto rilasciato all’inizio del lavoro dal capo servizio al capo compagnia, contenente indicazioni sulle caratteristiche fisiche e tecniche del lavoro stesso: una loro mutazione poteva portare al diritto della revisione dei prezzi di cottimo. Per i lavori non previsti nelle tabelle allegate l’impresa era chiamata ad applicare nuove tariffe provvisorie della durata di due mesi, «tali da permettere agli operai laboriosi e di normale capacità lavorativa di raggiungere un guadagno non inferiore a quello delle categorie cui appartengono». Nella liquidazione dei guadagni di cottimo doveva risultare con semplicità ed evidenza il lavoro eseguito, con a parte le trattenute sul salario. Infine, furono stabilite delle maggiorazioni per il lavoro straordinario e festivo25. Tra gli operai della Montecatini si manifestò da subito una certa apprensione per la prima liquidazione in loro favore con il nuovo sistema: timori giudicati infondati dal prefetto di Grosseto Francesco Palici di Suni, che il 3 maggio 1935 scrisse che le nuove tariffe avevano migliorato, sia pure di poco, le condizioni salariali delle maestranze26. Ci possiamo chiedere se ci furono veramente questi miglioramenti salariali. Ci vengono in aiuto due importanti documenti. Il primo, prodotto dal sindacato provinciale fascista dei lavoratori dell’industria, specifica che le tariffe concordate nel 1935 erano ispirate al desiderio di assicurare all’operaio laborioso e di normale capacità produttiva il guadagno della paga ad economia maggiorata del minimo di cottimo. Nelle paghe non furono però conteggiate le operazioni passive, ossia i “tempi persi” che pure venivano considerati nell’unità Bedeaux, procurando così un danno economico per i lavoratori27. Ciò è confermato da un importante promemoria prefettizio del giugno 1939, che rivela come la trasformazione del Bedeaux in cottimo normale e tale mancato conteggio comportarono una diminuzione di circa il 12% dei salari. Inoltre, più in generale, calcolando tutte le riduzioni e gli aumenti per le maestranze della Montecatini dal 1930 al 1939, emergeva un quadro impietoso, ovvero un abbassamento dei salari del 36-40%28.

All’inizio del 1936 la miniera di Niccioleta poteva contare su circa mille lavoratori ed era in pieno sviluppo. Produceva, infatti, quasi 17mila tonnellate di pirite al mese, con un rendimento medio a operaio maggiore rispetto alle miniere di Gavorrano e Boccheggiano, dove si producevano rispettivamente 24mila e 12mila tonnellate con 1.660 e 800 operai. La situazione produttiva era in continuo miglioramento per i prezzi di vendita molto più remunerativi (1,6-1,7 lire per unità zolfo rispetto alle 1-1,1 del 1935), ma paradossalmente la situazione salariale delle maestranze era sempre più preoccupante, poiché con i loro guadagni i minatori non erano in grado di garantirsi il minimo indispensabile per soddisfare i loro bisogni materiali, tanto che ogni mese centinaia di lavoratori si dimettevano dalle miniere di pirite della Montecatini per cercare fortuna altrove29.

Il 25 giugno 1936 il questore di Grosseto riferì al prefetto lo stato di disagio dei minatori della miniera di Niccioleta per gli scarsi guadagni e la loro richiesta di un nuovo contratto di lavoro, specificando che «la stessa questione si agita nelle altre miniere dipendenti dalla Montecatini. Si rende pertanto necessario e urgente un radicale provvedimento prima che abbiano a verificarsi incidenti»30. Lo stesso prefetto Palici di Suni un mese prima aveva avvertito i ministeri competenti, facendo presente che le paghe in tutte le miniere della Montecatini continuavano ad essere estremamente basse – con massimi che raramente superavano le 12 lire – ed esprimendo quindi la necessità di concedere almeno un ritocco parziale ad alcune categorie di lavoratori31.

Credits: autore Civilini, Lando (attr.) – Datazione: 1935 – 1949 – Luogo: Niccioleta (Collocazione: Milano (MI), Centro per la cultura d’impresa, fondo Edison, EDS_ST_DV_2061)

Presso le confederazioni interessate si era aperta una vertenza per la revisione dei salari nella miniera della Niccioleta, che stava per essere deferita all’esame del ministero delle Corporazioni, poiché non era stato possibile raggiungere l’accordo sulla richiesta dei lavoratori di determinati salari base, oltre la maggiorazione di cottimo del 20%. Per il prefetto, più che insistere sulla determinazione sempre complessa e difficile dei salari base, sarebbe stato più utile estendere le tariffe di cottimo pieno in vigore nella miniera di Gavorrano alle altre miniere maremmane della Montecatini. Il 23 luglio 1936, presso il Ministero delle Corporazioni, fu stipulato l’accordo salariale integrativo per gli operai della miniera di Niccioleta (poi esteso a quella di Boccheggiano), che prevedeva a seconda delle categorie di lavoratori un aumento dal 7 al 20% sui salari fino al momento percepiti32. Per tutto il personale furono stipulate le paghe a economia e quelle con il 20% di cottimo. Le tariffe di cottimo dovevano essere fissate sul posto di lavoro nei primi cinque giorni del mese dal caposervizio in relazione alle condizioni fisiche e tecniche del lavoro. Fissati i prezzi, i capiservizio erano tenuti a rilasciare ai capicompagnia i biglietti contenenti le indicazioni delle caratteristiche fisiche e tecniche del lavoro ed i prezzi unitari, che dovevano essere sottoscritti dal capo compagnia. Erano previste inoltre maggiorazioni per le temperature nei cantieri interni, gli straordinari (20% in più per le prime due ore, 35% per le ore successive), i giorni festivi (50% in più della paga a economia) e le ore straordinarie notturne (60% in più della paga a economia)33.

La situazione però non migliorò e le controversie continuarono, soprattutto per quanto riguardava l’applicazione del minimo di cottimo, che la Montecatini intendeva riservare solo alle categorie di lavoratori sotto facile controllo e non, in caso di insufficiente produzione, ai singoli minatori che lavoravano «con una certa indipendenza a squadre nei sotterranei della miniera»34. Il prefetto cercò di convincere il segretario dell’Unione provinciale della Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria, Fernando Marino, a svolgere opera di persuasione presso le masse operaie per far loro comprendere l’equità degli accordi sottoscritti in sede ministeriale. Marino restò però fermo nelle sue posizioni, chiarendo che dopo l’entrata in vigore dell’accordo salariale per i minatori della Niccioleta e di Boccheggiano, ad un considerevole numero di minatori adibiti ai lavori a cottimo non era stata corrisposta la paga di 15,8 lire giornaliere indicata nel suddetto accordo35.

La questione in ballo era se al lavoratore a cottimo dovesse spettare in ogni caso, quindi indipendentemente dal risultato della lavorazione, la percentuale minima di maggiorazione oltre la paga base. Marino chiariva che la giurisprudenza era ormai concorde nel ritenere che la maggiorazione di cottimo spettasse indistintamente a tutti i cottimisti, portando a sostegno della sua tesi la sentenza del pretore di Massa Marittima del 12 dicembre 1936, che nella causa intentata dell’operaio della Niccioleta, Orlando Orioli, contro la Montecatini, aveva condannato quest’ultima a pagare la somma richiesta dal lavoratore (15,91 lire), più gli interessi e le spese del giudizio. Orioli, classe 1908, nato a Siena e residente a Massa Marittima, aveva citato la Montecatini innanzi al pretore di Massa Marittima per ottenere il pagamento di 15,8 lire a titolo di corresponsione della differenza fra il salario percepito nel mese di agosto 1936 (14,29 lire giornaliere) e quello che gli sarebbe spettato nella misura del minimo garantito per il lavoro a cottimo (paga base di 13,15 lire più il 20% di maggiorazione). La sentenza specificò che la quota di maggiorazione era dovuta a tutti i cottimisti e costituiva parte integrante del salario36. Marino confermava che il sistema di vigilanza attivo in miniera avrebbe impedito la mancanza di laboriosità, essendo previste inoltre le punizioni disciplinari e i demansionamenti degli operai. Quest’ultimi, a loro volta, erano sicuramente interessati a produrre per superare i minimi di paga. L’insufficienza produttiva non era quindi dovuta alla mancata laboriosità dei minatori ma ad un’errata fissazione dell’unità di cottimo o alle difficoltà verificatesi nel corso dei lavori, un fenomeno frequente causato dalla durezza della roccia, dal ritardato scoppio di una mina, dalla mancanza di legname e di armature o da altre imprevedibili circostanze37.

Una quarantina dei 250 minatori adibiti nei lavori a cottimo nella miniera della Niccioleta non percepivano il 20% di maggiorazione perché il minerale estratto non raggiungeva la quantità stabilita e la Montecatini non li considerava laboriosi e di normale capacità lavorativa, appellandosi all’articolo due del contratto provinciale di lavoro. Le compagnie erano formate da quattro o sei operai: solo in quelle che producevano il quantitativo di materiale stabilito la Montecatini corrispondeva la paga giornaliera di 15,8 lire stabilita dal contratto. La repressione di ogni atto di dissidenza all’interno della miniera era all’ordine del giorno. I carabinieri di Massa Marittima, venuti a sapere che fra la massa operaia di Niccioleta vi erano elementi «non laboriosi, che tentano di creare dissidi», svolsero accertamenti per identificare i presunti sobillatori, in realtà colpevoli solamente di richiedere il trattamento economico previsto dal contratto di lavoro. Il 13 gennaio 1937 fu identificato quale «autore principale di tale lagnanza«» l’operaio Gino Quintavalle, classe 1911, un reduce della guerra d’Etiopia, che si batteva affinché agli operai fosse corrisposta la paga prescritta dal contratto. Quintavalle fu licenziato per indisciplina ma il fascio locale non attribuì nessuna colpa alla Montecatini38. Perfino i carabinieri di Grosseto rivelarono però che serpeggiava il malcontento tra gli operai di Niccioleta anche per la severità e l’eccessivo autoritarismo dei dirigenti della miniera. Quest’ultimi avrebbero dovuto porre, quindi, una maggiore attenzione al riguardo, per evitare che questo di stato di cose, giudicato ancora non allarmante, si acuisse39.

Credits: Stefani, Bruno (1901/ 1978) – Datazione: 1936 – 1943 – Luogo: Niccioleta (Collocazione: Milano (MI), Centro per la cultura d’impresa, fondo Edison, EDS_ST_DV_2124)

Nel corso del 1937 continuarono le lamentele degli operai di Niccioleta sia per la totale inadeguatezza della paga minima giornaliera in relazione al costo della vita (il riferimento era soprattutto alle paghe giornaliere dei manovali, pari a 11,4 lire per i 225 manovali esterni e a 11,7 lire per i 191 interni), sia per lo sconsiderato rialzo dei prezzi degli spacci aziendali, che dopo l’aumento del 7% dei salari degli operai erano addirittura cresciuti del 20%. Il questore di Grosseto invitò, dunque, i carabinieri ad esercitare assidua vigilanza e a comunicare ogni emergenza riguardante l’ordine pubblico40. Il 15 gennaio 1938 entrò in vigore il contratto collettivo per la disciplina dei cottimi, che all’articolo due garantiva ai cottimisti il guadagno della paga ad economia più la maggiorazione del cottimo togliendo la condizione dell’”operaio laborioso e in normale capacità produttiva”, mentre all’articolo tre prevedeva che agli operai dovessero essere comunicate per iscritto e da subito le indicazioni del lavoro da eseguire e del compenso unitario corrispondente (tariffa di cottimo). La Montecatini, come rilevato dal sindacato fascista, non solo non assolse a tali doveri, ma aumentò considerevolmente il personale addetto alla sorveglianza degli stessi operai, al fine di ottenere da essi un aumento della produzione con mezzi coercitivi. «Pertanto gli operai che non riescono ad aumentare il proprio rendimento vengono, su indicazione degli stessi sorveglianti, chiamati in Direzione e diffidati di licenziamento. Gli operai temono fortemente che la Direzione miri a ottenere delle medie di rendimento assolutamente superiori alla loro normale capacità fisica, le quali non potrebbero essere mantenute, mentre potrebbero costituire dei precedenti di riferimento in caso di contestazioni o revisioni di tariffe di cottimo», scriveva il segretario dell’Unione provinciale della Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria, Luigi Turchi, che segnalò tale fenomeno alla competente federazione nazionale di categoria e chiese all’Unione fascista degli industriali di Grosseto di rispettare sia l’articolo 19 del vigente contratto collettivo nazionale di lavoro per l’industria mineraria, sia l’articolo tre del contratto collettivo per la disciplina dei cottimi41.

L’ultima modifica contrattuale degli anni Trenta si ebbe con il contratto collettivo per gli operai addetti alle aziende minerarie della provincia di Grosseto, siglato a Roma il 27 gennaio 1939 ad integrazione di quello nazionale stipulato il 9 maggio 1937. Per i lavoratori delle singole miniere della Montecatini furono stabiliti dei minimi di paga ad economia per la giornata lavorativa di otto ore, con i guadagni di cottimo adeguati a tali minimi e maggiorati della percentuale di cottimo (20% per le miniere di Niccioleta e Boccheggiano)42. Altre controversie sorsero però in merito all’accordo interconfederale per gli aumenti del ventennale, sottoscritto il 20 marzo 1939, che doveva essere applicato nella misura del 10% su tutti gli elementi di retribuzione. La Montecatini, però, rivalendosi su un presunto onere derivato dal nuovo contratto, dispose l’aumento del solo 5%, suscitando ancora una volta il malumore degli operai. Quest’ultimi, temendo di non vedersi concessi gli aumenti disposti dal duce, manifestarono al sindacato fascista la forte volontà di trasferirsi in altre province per poter guadagnare di più. La vertenza, risolta il 19 giugno 1939 dopo ampio esame presso le competenti federazioni nazionali, stabilì l’aumento del solo 7% da applicarsi su tutti i guadagni a cottimo o ad economia degli operai interessati, a far data dal 31 marzo 1939. La Montecatini si impegnò a corrispondere gli arretrati nella misura differenziale del 2% entro il mese di luglio43. Anche tale transazione non segnò la fine dei problemi per i minatori delle miniere di Gavoranno, Ravi e Rigoloccio della Montecatini: dopo la modifica unilaterale delle tariffe di cottimo da parte della direzione delle miniere fu infatti aperta una nuova vertenza collettiva44.

I minatori di Niccioleta rimasero stretti, da una parte, dalle rigidità del corporativismo fascista, subalterno alle esigenze del mondo imprenditoriale e incapace di migliorare le sorti degli operai nonostante gli apparenti sforzi – e i ben più rilevanti limiti – del sindacato dei lavoratori dell’industria, ridotto generalmente all’impotenza; dall’altra, dal crescente autoritarismo della Montecatini, spalleggiata dalle autorità locali fasciste e votata in primis a tutelare i suoi profitti.

Dopo questa lunga disamina, riteniamo che la complessità delle condizioni socio-economiche dei minatori nel corso degli anni Trenta sia stato un fattore che abbia contribuito a creare fra di loro un clima di diffusa ostilità al regime, in un territorio, il massetano45, dove tra l’altro nel corso del tempo si erano compenetrate varie tradizioni: repubblicana ottocentesca (mazziniano-garibaldina), anarchico-libertaria, socialista e comunista.

«Nelle miniere di Boccheggiano e Niccioleta, in tutto il periodo del fascismo si manifestarono avversioni alla dittatura. Gli antifascisti intensificarono la loro lotta con il reclutare nuovi proseliti alla causa contro la dittatura mussoliniana, quando ancora non tutti avvertirono che l’aggressione fascista alla giovane repubblica di Spagna avrebbe messo in pericolo la pace nel mondo, si era negli anni 1936-1937. Ebbene, a Massa Marittima fin da questi anni operava un gruppo di ispirazione anarchico-libertario, facente capo a Giuseppe Gasperi, operaio della miniera di Niccioleta. Nel 1938, a Boccheggiano, per iniziativa di Bandino Pimpinelli e Ideale Tognoni, si costituì una sezione clandestina comunista»46.

Lo scrittore Luciano Bianciardi, autore insieme a Carlo Cassola del libro inchiesta “I minatori della Maremma”, confidò nella lettera all’editore in cui spiegava come era nato il volume, che «negli anni del fascismo furono proprio certi minatori di Niccioleta che mi parlarono, per la prima volta, di Gramsci, quegli stessi minatori che da me volevano sentir parlare di Croce»47.

Negli anni Trenta possiamo isolare alcuni episodi di manifesta opposizione al regime nella miniera di Niccioleta. L’11 luglio 1935 furono arrestati quattro operai originari dell’Amiata, più precisamente di Abbadia San Salvatore (SI), traferitisi nel territorio di Massa Marittima dopo la chiusura delle miniere di mercurio amiatine, che aveva comportato il licenziamento di molti operai. Erano stati accusati di aver cantato canti sovversivi come “Bandiera Rossa”, di essersi fatti fotografare con delle maglie rosse per mettere in evidenza le loro idee politiche (e perfino di aver litigato con il fotografo perché nell’immagine non si scorgeva bene il colore rosso), nonché di aver rivolto offese all’effigie del duce riprodotta sui giornali, sputandovi pure sopra. La data scelta per compiere questi “atti sovversivi” non era per nulla casuale e fa capire molto di più: si trattava infatti del 1° maggio, il giorno della festa del lavoro, abolita dal regime il 20 aprile del 1923, in favore della ben più autarchica e individualista festa del lavoro italiano, fissata il 21 aprile, in coincidenza con la fondazione (Natale) di Roma.

Credits: Stefani, Bruno (1901/ 1978) – Datazione: 1936 – 1943 – Luogo: Niccioleta (Collocazione: Milano (MI), Centro per la cultura d’impresa, fondo Edison, EDS_ST_DV_7395)

I quattro giovani arrestati48 erano: Primo Vagnoli, classe 1901, comunista, dal 1935 domiciliato a Massa Marittima e minatore nella miniera di Niccioleta; Carlo Contorni, classe 1902, di fede comunista, che ad Abbadia San Salvatore non risultava avesse mai svolto propaganda o partecipato a manifestazioni sovversive; Mauro Capecchi, classe 1909, anche lui giunto alla miniera di Niccioleta nel 1935 dopo aver perso il posto di lavoro nelle miniere di mercurio dell’Amiata; Lorenzo Contorni, classe 1910, celibe, con due fratelli e tre sorelle, un minatore di idee comuniste privo di precedenti penali che ad Abbadia San Salvatore non aveva mai dato luogo a rilievi, trasferitosi a Massa Marittima nel 1935 per dare un sostegno alla famiglia. Il loro caso fu trattato dalla Commissione provinciale per i provvedimenti di polizia, che nella seduta del 23 luglio 1935 condannò al confino i quattro giovani minatori – considerati un pericolo per l’ordine nazionale – assegnando pene differenti: un anno per Vagnoli, due per Capecchi e Contorni Carlo, tre per Contorni Lorenzo.

Quest’ultimo ebbe la condanna più pesante nonostante gli accertamenti eseguiti avessero escluso che potesse trovarsi a cantare “Bandiera Rossa” con i compagni la sera del primo maggio. I carabinieri reali della tenenza di Massa Marittima non escludevano però la sua partecipazione ad altre manifestazioni sovversive, riferendosi ad atti raccolti a suo tempo e dichiarando che i suoi ideali e comportamenti erano di dominio pubblico sia nel suo paese di nascita, sia nell’ambiente in cui lavorava. Tutto ciò bastò per la condanna a tre anni, a dimostrazione di quanto fosse sommaria l’amministrazione della giustizia nella dittatura fascista.

Lorenzo Contorni49 fu assegnato al confino di Ponza (LT), dove «tenne cattiva condotta, affiancando i comunisti più pericolosi e non dando prova di ravvedimento». Fu prosciolto il 10 marzo 1937 e munito di foglio di via obbligatorio per Siena. Neanche il confino placò però il suo antifascismo, visto che ottenne la qualifica di patriota per la sua attività svolta all’interno della III Brigata Garibaldi SAP di Campiglia (Livorno), dal marzo 1944 fino al 25 giugno dello stesso anno50.

Carlo Contorni51, invece, fu confinato a Ventotene (LT), mantenne sempre le sue idee e continuò a frequentare i comunisti della colonia, senza dar luogo a particolari rilievi. Trasferito a Fuscaldo (Cs) il 15 settembre 1936, fu dimesso dal confino il 10 luglio 1937 e tornò a svolgere il lavoro di minatore nella miniera di Sirai-Pozzo Tanas in Sardegna. Scontò due anni di confino a Ventotene pure Mauro Capecchi, che prese poi le armi nella lotta di Liberazione nel territorio amiatino. Fu infatti partigiano combattente dal 12 settembre 1943 al 20 luglio 1944 all’interno della Brigata Garibaldi “Spartaco Lavagnini”, dove ricoprì pure la carica di comandante del VII distaccamento (nome di battaglia “Faro”)52.

La pena minore toccò invece a Primo Vagnoli53, che fu tradotto a Palazzo San Gervasio (Mt) e dopo aver scontato un anno di confino andò a vivere nella provincia di Siena, dove era nato e aveva domicilio.

Almeno due dei quattro protagonisti di questo primo gesto eclatante di antifascismo all’interno della miniera di Niccioleta condividono un lungo percorso di opposizione al regime, sfociato nella lotta partigiana. La dura realtà di vita di miniera negli anni Trenta, non solo a livello lavorativo ma anche per la difesa delle proprie idee di libertà e giustizia, è ben restituita dallo stesso racconto di Mauro Capecchi.

«Il lavoro era duro è in mezzo a noi erano sempre presenti spie fasciste, ma anche operai che, in caso di necessità, si sarebbero prestati al gioco dei fascisti: gente debole, paurosa e soprattutto affamata. Iniziai a prendere contatto con i minatori. Loro esprimevano lamentele ed eravamo tutti d’accordo nell’attribuire al governo fascista la colpa dei mali che ci affliggevano. […] Come ho detto, la vita a Niccioleta era assai dura. Nelle pause di lavoro discutevamo e i nostri nuovi compagni recepivano con piacere i nostri rilievi contro i padroni e il fascismo. Mi ricordo che la domenica andavamo a Massa Marittima, dove si ritrovava la maggior parte degli operai; si faceva merenda e si beveva il vino, che era la medicina che faceva riprendere le energie a chi era costretto a fare un lavoro così pesante. Intanto ad Abbadia il fascio locale, a nostra insaputa, prendeva misure per controllarci: spesso a Niccioleta venivano operai che si spacciavano per minatori di altre miniere e che erano pronti ad unirsi alle critiche contro il fascismo, per poi riferire alla polizia quanto avevano sentito dire da noi»54.

Servivano dunque tanto coraggio, una coscienza vigile ed occhi accorti per fare un minimo di propaganda e mantenere almeno una piccola opposizione interna nei luoghi di lavoro, ora che il fascismo al potere aveva spazzato via ogni forma di libertà e compresso i diritti dei lavoratori all’interno dell’ideologia corporativa. Tutto era più complicato soprattutto negli anni Trenta, considerati periodo di massimo consenso al regime.

Eppure qualcosa in miniera continuava a muoversi ed ancor prima della guerra di Spagna, che segnò un periodo di ripresa per l’antifascismo. Perfino il capo servizio della miniera di Niccioleta, l’impiegato Corrado Rossetti, classe 1895, originario di Vercelli, finì nel mirino del regime per la sua attività considerata ostile. I fatti si riferiscono al febbraio 1935, quando l’ingegnere Mario Delfino, addetto alla miniera e fiduciario del fascio, venne a conoscenza che alcuni operai dipendenti dal capo servizio Rossetti non volevano aderire al versamento delle quote in favore dell’Ente opere assistenziali (EOA). La responsabilità ricadde sullo stesso Rossetti, accusato di non aver svolto adeguata attività propagandistica fra i lavoratori. Fu dunque sollecitato da Delfino ad adoperarsi affinché quest’ultimi comprendessero «l’alto fine sociale e umanitario delle suddette ritenute». Interrogato dai carabinieri, Rossetti dichiarò che avrebbe rifiutato tal compito, perché contrario a qualsiasi forma di collaborazione e dubbioso sul reale impiego delle trattenute. In generale, l’impiegato non iscritto al Partito nazionale fascista (Pnf) era descritto come individuo dal carattere impulsivo e contrario al regime, non ossequiente alle leggi e non ben visto sia dalla maggioranza della popolazione, sia dalle autorità politiche locali, che lo ritenevano capace di esplicare propaganda sovversiva. Pur risultando di buona condotta morale e privo di precedenti penali, Rossetti non partecipava mai alle cerimonie patriottiche del posto, né frequentava persone di sicura fede fascista. In relazione alla nota della Prefettura di Grosseto del 29 maggio 1935, fu diffidato ai sensi dell’articolo 174 del Testo Unico di Pubblica Scurezza dal prefetto di Trento, poiché dopo tale episodio era stato trasferito a Calceranica (TN), sempre alle dipendenze della Montecatini. Qui Rossetti fu adeguatamente vigilato e chiamato a desistere da tali atteggiamenti sconvenienti, pena provvedimenti di polizia di maggior rigore. In seguito, mantenne una buona condotta e fu radiato dal Casellario politico centrale il 19 novembre 193655. Quel che aveva dichiarato non può però passare inosservato: la mancata propaganda a favore delle opere assistenziali del regime, così come la mancata fiducia verso la reale destinazione dei fondi raccolti, testimoniano una consapevolezza abbastanza diffusa sui frequenti casi di peculato, corruzione, conflitto d’interessi, nepotismo e favoritismi vari che contraddistinguevano l’operato del partito fascista nelle province, compresa quella di Grosseto, provocando disservizi e un generale malcontento nella popolazione, oltre a un forte scetticismo sulla moralità dei personaggi pubblici in camicia nera56. D’altronde, per fare solo un esempio simile a quello di Niccioleta riguardante la provincia di Grosseto, sempre nel 1935, ad Arcidosso la sezione del fascio locale era talmente screditata a causa dei molti casi di malaffare, che gran parte dei cittadini del posto preferirono inviare le fedi direttamente al duce, senza alcuna mediazione del partito, in occasione della giornata della fede del 18 dicembre 1935, organizzata per consegnare l’oro alla patria dopo le sanzioni contro l’Italia a causa dell’invasione dell’Etiopia57.

Dalle fonti di polizia la miniera di Niccioleta risulta particolarmente temuta per l’ordine pubblico, tanto da esser costantemente vigilata. Il 15 settembre 1936 il Comando della tenenza dei carabinieri reali di Massa Marittima richiese l’allontanamento dai lavori della miniera dei fratelli Pizzetti (Bruno ed Elvezio), minatori comunisti, e di altri individui sovversivi tutti originari di Abbadia San Salvatore (Settimio Rosati, Corrado Forti, Temistocle Coppi e Giuseppe Pacchierini), «perché capaci di svolgere opera deleteria sul buon andamento del lavoro e di inculcare nell’animo dei compagni sentimenti antifascisti e contrari alle nostre istituzioni»58.

Il durissimo lavoro in miniera comportò anche un alto numeri di morti sul lavoro, a causa sia delle malattie professionali (in primis la silicosi), sia degli incidenti dovuti alle scarse condizioni di sicurezza. Negli anni Trenta 11 persone persero la vita nelle operazioni lavorative in miniera: tra questi vi fu Gino Cini, un ventinovenne minatore di Prata, che morì il 30 marzo 1938 a causa di una frana nel cantiere adiacente alla miniera, dove effettuava lavori nella galleria di scolo. I compagni decisero l’astensione dal lavoro fino al seppellimento della salma, rifiutandosi di obbedire ai voleri della Montecatini che reclamava la ripresa del lavoro per i turni di mezzanotte e commentando con risentimento la decisione della Società59.

Tre anni più tardi, i minatori della Niccioleta sempre provenienti dall’Amiata furono autori di un clamoroso gesto di ribellione verso le autorità fasciste, originato dalla volontà di celebrare l’antico rito farsesco del carnevale morto. Si tratta di una festa satirica e goliardica, ancora oggi celebrata durante il mercoledì delle ceneri soprattutto in alcune parti dell’Italia centro-meridionale, che decreta la fine del carnevale mettendo in scena «la denuncia sociale e il ribaltamento dei ruoli, in forma di parodia delle autorità costituite e di protesta ritualizzata». Attualmente il funerale del carnevale più noto è quello di Montuorio al Vomano (TE), le cui origini paiono risalire proprio agli anni Venti del Novecento, quando alcuni giovani universitari del posto che studiavano a Napoli recuperarono tale tradizione osservata in Campania come forma di opposizione al regime fascista, che provvide a proibirla nel giro di pochi anni. «A Reggello, nel Valdarno, a Marroneto, nel grossetano, ad Amalfi, nel golfo di Salerno, il Carnevale morto era o è incarnato da una persona scelta fra gli abitanti del paese, secondo un modello onnipresente nelle regioni centro-meridionali della Penisola»60.

Difficile non leggere la volontà di criticare il regime anche nella mascherata organizzata dai minatori di Niccioleta per l’ultimo giorno di carnevale, che fu vietata dal segretario del fascio di Massa Marittima, Francesco Casanova. Nonostante il permesso non concesso, il 1° marzo 1938, verso le ore 23, una quarantina di minatori – tra cui undici col viso dipinto di nero – iniziarono a circolare per il borgo minerario, trasportando in barella un compagno che rappresentava il carnevale moribondo. Verso mezzanotte la comitiva giunse dinanzi alla sede del Dopolavoro dove era in corso una festa da ballo: i minatori cercarono di forzare l’ingresso ma il segretario amministrativo del fascio che si trovava sulla porta, Umberto Bellini, cercò di respingerli prima di essere colpito con un pugno al viso dall’operaio Mario Ghilardi, che dette il via all’irruzione nel locale. Dopo esser stato informato su quanto stava succedendo, Casanova si recò sul posto e fu aggredito con alcuni pugni dagli operai, non riportando conseguenze e riuscendo infine a far uscire dal locale i minatori, grazie all’aiuto di Bellini e della guardia giurata della miniera, Luigi Torrini. L’intervento dei carabinieri di Massa Marittima condusse all’arresto di undici operai per violenza contro pubblico ufficiale, tra cui un comunista, due ex sovversivi, cinque apolitici, due giovani fascisti e un fascista.

Retro della scheda anagrafica di Duilio Rosati con la qualifica di Caduto per la lotta di Liberazione (Credits: Fondo Ricompart)

Tra gli arrestati cinque erano originari di Santa Fiora, ovvero i due giovani fascisti Mario e Raffaello Ghilardi, entrambi del 1915, oltre a: Giacomo Bani (cl.1883), il più anziano del gruppo che prima dell’avvento del fascismo professava idee socialiste; Luigi Vagaggini (cl.1906), con precedenti penali ma considerato di buona condotta politica; Armando Dondolini (cl.1913) e Guido Martellini (cl.1914), ambedue privi di precedenti e di buona condotta in genere. Provenivano da Castell’Azzara Flavio Testi (cl.1891) e Agostino Mastacchini (cl.1900), da Abbadia San Salvatore Flavio Paganini (cl.1909) e da Piancastagnaio Duilio Rosati (cl.1907), tutti fino al momento considerati di buona condotta politica61. Fu evidentemente subito rilasciato l’undicesimo componente della carnevalata, il comunista Corrado Fortini. Gli altri dieci, ad eccezione di Mario Ghilardi, furono messi in libertà provvisoria il 17 marzo 1938, circa un mese dopo l’accaduto. Tornarono dunque alla miniera di Niccioleta alle dipendenze della Montecatini mentre il processo era ancora in fase istruttoria. «Quando li liberarono – intervenne anche il Dottor Mori per chiedere la liberazione, perché erano bravi operai – rivennero a Niccioleta e c’era un posto chiamato Poggio della Madonna, un podere con grandi querci. E si ritrovarono tutti su – familiari, amici – e fecero una merenda. Cantavano…tanto è vero che quando tornai a casa chiesi cosa cantavano. Era un motivo, una canzone che non conoscevo, non sapevo. E ‘l mi’ babbo, dopo un pò di tempo mi disse che era ‘L’internazionale’. Però non si vide nessuno», la testimonianza di Stelio Olivelli, cugino di Guido Martellini62. Cinque degli undici giovani minatori che avevano sfidato il regime con quell’irriverente rito carnevalesco, ovvero lo stesso Martellini, Mario Ghilardi, Agostino Mastacchini, Flavio Paganini e Duilio Rosati, trovarono la morte a Castelnuovo Val Di Cecina il 14 giugno 1944, massacrati dai nazisti. I loro nomi risultano nel fondo Ricompart con la qualifica “caduti nella lotta di Liberazione”. Non erano, infatti, partigiani combattenti ma avevano presumibilmente preso parte ai turni di guardia per salvare la miniera (e quindi i loro posti di lavoro) dai possibili atti di devastazione da parte dell’esercito tedesco in ritirata. L’elenco con i nominativi di coloro che svolsero la vigilanza armata agli impianti della miniera fu recuperato dal reparto responsabile della strage, il III Polizei-Freiwillingen-Bataillon-Italien. Se la strage s’inserisce nella logica della “ritirata aggressiva tedesca” che mirava a far terra bruciata e a diffondere il terrore nella popolazione civile, il perché di questa ferocia sui minatori può esser spiegato con la loro «estraneità al fascismo che poi era diventata ostilità acclarata, duratura e quasi unanime nei suoi confronti e quindi nei confronti dei suoi alleati. Un’ostilità che […] trovava proprio nel paese il luogo ove coagularsi»63.

Il miglior ritratto dei minatori di Niccioleta rimasti vittime nella strage emerge dalle accalorate parole di Padre Ernesto Balducci, l’autore de “L’uomo planetario”, originario di Santa Fiora, che di tanti di quei lavoratori era stato amico d’infanzia e compagno di scuola.

«I miei compagni non ebbero modo né tempo di scrivere lettere. Ma non avrebbero saputo che cosa scrivere, dato che non sono morti per la patria, non sono morti per la libertà, sono morti perché hanno fatto, nel luogo di lavoro, quello che dovevano fare. La miniera era il loro inferno, dove morivano un po’ ogni giorno, ma era anche il pane delle loro famiglie. Era la morte e la vita, il luogo della loro servitù e della loro potenza virile. Gli impianti che volevano salvare erano del padrone, ma erano anche parte di loro, gli strumenti della loro fecondità. Morendo per salvarli ci hanno lasciato un messaggio che sarebbe toccato a noi tradurre in un nuovo diritto di proprietà. E invece i padroni si ripresero le miniere. Anzi, si ripresero l’Italia64.

 

 

NOTE:

1Sulla strage vedi: P. Pezzino, Storie di guerra civile. L’eccidio di Niccioleta, Il Mulino, Bologna, 2001; K. Taddei (a cura di), Coro di voci sole. Nuove verità sull’eccidio degli 83 minatori della Niccioleta, Effigi, Arcidosso -Gr, 2017.

2Sulla storia della miniera vedi: R. Zipoli (a cura di), Niccioleta. Fotografie e memoria di una comunità mineraria, Biblioteca comunale “Gaetano Badii” di Massa Marittima, 2022. Per un’ampia e completa bibliografia su Niccioleta si rimanda allo stesso volume pp. 461-472. Il 3 dicembre 2023 a Niccioleta è stato inaugurato il percorso della memoria, un itinerario urbano pedonale che con l’ausilio di 14 pannelli ripercorre le tappe salienti della storia di questo villaggio minerario. Il progetto, realizzato dal Comune di Massa Marittima e dal Parco nazionale delle Colline Metallifere con il contributo della Regione Toscana e di Massa Marittima Multiservizi, ha ottenuto il patrocinio del Comitato provinciale Anpi “Norma Parenti” e dell’Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’Età contemporanea (Isgrec).

3ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 666. Relazione situazione maestranze dipendenti della miniera di pirite ella Niccioleta della S.A. Montecatini (18/5/1936).

4Prima ancora della fase corporativa, il sindacalismo fascista in Maremma conobbe una sonora sconfitta con la destituzione di Luigi di Castri, il segretario provinciale dei sindacati fascisti che nell’estate 1924 guidò la mobilitazione dei minatori al fine di promuovere uno sciopero generale della categoria, per recuperare parte delle conquiste del Biennio rosso che erano state cancellate nel contratto del 1923. Di Castri sfidò la stessa Montecatini, che stava diventando uno dei maggiori sostegni del regime nell’ambito dell’economia nazionale. A fine 1924 fu deposto da ogni incarico, espulso dall’organizzazione e costretto a lasciare Grosseto. Successivamente, con la svolta totalitaria ed i patti di Palazzo Vidoni (2/10/1925), la Confederazione generale dell’industria e quella delle corporazioni fasciste si riconobbero reciprocamente quali unici rappresentati del capitale e del lavoro, abolendo le commissioni interne di fabbrica. Seguì la legge 3 aprile 1926 n. 563, che segnò la fine dei sindacati non fascisti, disciplinò giuridicamente i contratti di lavoro, istituì il ministero delle Corporazioni, creò la Magistratura del Lavoro per la risoluzione delle controversie ed abolì serrate e scioperi. Il 21 aprile 1927 fu emanata la Carta del Lavoro, il documento simbolo del corporativismo fascista. Sulla questione Di Castri vedi A. Turbanti, La classe operaia delle miniere nella guerra e nella Resistenza, in S. Campagna e A. Turbanti (a cura di), Antifascismo, guerra e Resistenze in Maremma, Isgrec-Effigi, Arcidosso -Gr, 2021, pp. 228-233.

5ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 504. Lettera del sindaco di Massa Marittima Innocenzo Vecchioni al prefetto di Grosseto (22/4/1926).

6ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 504. Lettera del segretario provinciale dei sindacati fascisti Gino Finotello all’Unione industriale grossetana (16/9/1926).

7Le sorti di Gino Finotello, segretario dei sindacati fascisti della provincia di Grosseto dal maggio 1924 al maggio 1927, non furono migliori di quelle del suo predecessore Di Castri. In seguito ai forti contrasti con il segretario federale Ferdinando Pierazzi, denunciò le ingerenze della Federazione provinciale del Pnf sull’organizzazione interna e l’autonomia dei sindacati, chiese urgentemente l’invio di un ispettore confederale per porre termine al dissidio tra la Federazione provinciale del Pnf e l’Ufficio provinciale dei sindacati fascisti, difese il proprio operato e richiese il trasferimento in altra provincia (21/5/1927). Secondo Finotello, le gerarchie politiche premevano per affidare compiti sindacali di notevole importanza all’interno dell’Ufficio a uomini di cultura limitata e completamente digiuni di sindacalismo. In seguito, un passaggio fondamentale fu lo “sbloccamento” dei sindacati fascisti del 22 novembre 1928, che comportò lo scioglimento della Confederazione nazionale dei sindacati fascisti con la conseguente costituzione delle Confederazioni autonome di categoria, privando di ulteriore forza contrattuale il sindacato, ormai ridotto al totale controllo governativo. ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 498.

8ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 595. Lettera del podestà di Massa Marittima Innocenzo Vecchioni al prefetto di Grosseto (30/8/1928).

9Le nuove tariffe salariali per i minatori della Montecatini ne “La Maremma” (8/12/1929).

10ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 596. Lettera della Società Montecatini al prefetto di Grosseto (5/10/1931).

11ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 596. Tabelle salariali delle maestranze della miniera di Niccioleta della Società Montecatini dopo le riduzioni del 21%.

12ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 596. Lettera del commissario dell’Unione provinciale dei sindacati fascisti dell’industria Solimeno Petri al segretario federale e al prefetto di Grosseto (27/10/1931).

13ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 596. Lettera del ministero delle Corporazioni al prefetto di Grosseto (30/12/1931).

14ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 569 bis. Circolare del Comando tenenza dei carabinieri reali di Massa Marittima. Oggetto: situazione economica e politica a Massa Marittima (1/3/1932).

15ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 569 bis. Biglietto postale di stato urgente del Comando tenenza dei carabinieri reali di Massa Marittima (28/2/1932).

16ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 596. Ordine del giorno della riunione del Direttorio federale del 2/4/1932, trasmesso al prefetto di Grosseto e al ministero delle Corporazioni (19/4/1932).

17ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 596. Circolare del prefetto di Grosseto Giuseppe Celi ai ministeri delle Corporazioni, dell’Interno e delle Comunicazioni (15/6/1932).

18ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 596. Telegramma del Comando tenenza dei carabinieri reali di Massa Marittima al prefetto di Grosseto (30/7/1932).

19ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 569 bis. Verbale della riunione del Comitato intersindacale del 23 luglio 1932.

20ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 538. Rapporto mensile sulla situazione industriale della provincia, stilato dal commissario dell’Unione provinciale dei sindacati fascisti dell’industria, Solimeno Petri (27/12/1933).

21ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 634.

22«[…] Un ordinamento come quello fascista nel quale il capitale e il lavoro sono sullo stesso piede di uguaglianza dinanzi allo Stato, non può e non deve servire ad una Compagnia straniera a carattere commerciale, per fare i suoi interessi permettendo lo sfruttamento della nostra più grande ricchezza: l’uomo. […] I primi a fare la grande esperienza del nordico sistema di meccanizzazione umana sono stati proprio i forti minatori di Gavorrano e Boccheggiano non abituati certo né a cronometrare lo sforzo generoso delle proprie braccia, né a numerare le gocce del loro sudore. Istintiva e naturale è stata, sin dal primo momento, la loro avversione al Bedeaux […] Per la sua unilateralità il sistema stesso sfuggiva ad ogni controllo, ad ogni disciplina sindacale, ed i rappresentanti degli operai, nei loro tentativi di tutelare gli interessi dei lavoratori, sempre si trovavano di fronte agli ostacoli creati dalla sfuggente tortuosità del sistema. Così per due anni è stata la nostra provincia il campo di questa battaglia senza clamore, combattuta dalle forze sane della nuova economia nazionale contro la prepotente invadenza della tendenza esotica. […] Oggi l’intervento del Duce ha sciolto il nodo inestricabile ed ha aperto la strada maestra alla soluzione del problema. E la provincia di Grosseto […] terra che ha per primo promosso la crociata del diritto e della giustizia, esulta oggi che il grande gesto di giustizia è compiuto, ed al Duce magnifico rivolge il tributo di gratitudine e devota riconoscenza». Giustizia mussoliniana, ne “La Maremma” (17/11/1934).

23Collaborazione fascista in atto, ne “La Maremma” (2/2/1935).

24A. Turbanti, La classe operaia delle miniere nella guerra e nella Resistenza, op. cit., pp. 234, 236.

25Dopo l’abolizione del Bedeaux: la stipulazione dell’accordo per le tariffe salariali degli operai della Montecatini, ne “La Maremma” (23/2/1935).

26«[…] Si sono così dimostrati pienamente infondati gli allarmi diffusi prima della liquidazione tra la massa operaia, e le diffidenze di questa verso l’organizzazione sindacale dei lavoratori, i cui dirigenti, centrali e periferici, hanno invece dimostrato in quest’occasione di saper tutelare gli interessi degli operai con avvedutezza ed energia». ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 645. Relazione mensile sulla situazione politica ed economica della provincia, inviata dal prefetto di Grosseto Francesco Palici Di Suni al Capo del Governo, ministro dell’Interno (3/5/1935).

27ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 703. Lettera del segretario dell’Unione provinciale della Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria, Luigi Turchi, all’Ispettorato corporativo, Circolo di Firenze (14/7/1939).

28ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 703. Promemoria sulle applicazioni degli aumenti del ventennale alle maestranze minerarie della Società Montecatini della provincia di Grosseto (17/6/1939).

29ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 666. Relazione prefettizia sulla situazione delle maestranze dipendenti dalle miniere di pirite della Niccioleta della Società Montecatini (18/5/1936).

30ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 666. Lettera del questore di Grosseto Francesco Fiocca al prefetto di Grosseto (25/6/1936).

31ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 666. Lettera del prefetto di Grosseto Francesco Palici di Suni al ministero delle Corporazioni e p.c. al ministero dell’Interno. Oggetto: miniera della Niccioleta, vertenze salariali (23/5/1936).

32ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 666. Lettera del ministero delle Corporazioni, Direzione generale del lavoro, previdenza e assistenza, al prefetto di Grosseto. Oggetto: accordo integrativo salariale per gli operai della miniera di Niccioleta (24/7/1936).

33ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 640. Accordo integrativo salariale del contratto provinciale per le miniere della Provincia di Grosseto, da valere per gli operai dipendenti dalla Miniera di Niccioleta della Società Montecatini (23/7/1936).

34ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 666. Lettera della Società Montecatini al prefetto di Grosseto (12/9/1936).

35ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 666. Lettera del segretario dell’Unione provinciale della Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria, Fernando Marino, al prefetto di Grosseto (3/10/1936).

36 Il testo della sentenza chiariva che «[…] la quota di maggiorazione è dovuta a tutti i cottimisti e fa parte integrante del salario onde il datore di lavoro non può in nessun caso corrispondere al lavoratore una retribuzione inferiore a quella resultante dalla paga base e dalla percentuale minima di lavorazione. […] Il contratto di cottimo non è fatto per gli operai inferiori al tipo normale per laboriosità e capacità. La laboriosità e la normale capacità sono dunque qualità che devono sussistere in ogni operaio che viene adibito al lavoro a cottimo. La dichiarazione XIV della Carta del Lavoro prescrive dunque che il lavoratore a cottimo di normale laboriosità e capacità deve conseguire un minimo di guadagno oltre la paga base; dal che può desumersi che essendo i lavoratori adibiti al cottimo tutti presumibilmente forniti delle supradette qualità, tutti gli operai che lavorano a cottimo devono conseguire quel minimo di retribuzione che è costituito dalla paga base più la maggiorazione di cottimo». ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 666.

37ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 679 bis. Lettera del segretario dell’Unione provinciale della Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria, Fernando Marino, al prefetto di Grosseto. Oggetto: garanzia minimi di cottimo operai miniera Boccheggiano-Niccioleta (12/1/1937).

38ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 679 bis. Lettera del comandante del Gruppo carabinieri reali di Grosseto, Ettore Chiurazzi, al prefetto di Grosseto. Oggetto: paghe degli operai della miniera di Niccioleta (29/1/1937).

39ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 679 bis. Lettera del comandante del Gruppo carabinieri reali di Grosseto, Ettore Chiurazzi, al prefetto di Grosseto. Oggetto: malcontento negli operai addetti alla miniera Niccioleta della S.A. “Montecatini” di Massa Marittima (23/4/1937).

40ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 679 bis.

41ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 688. Lettera del segretario dell’Unione provinciale della Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria, Luigi Turchi, al prefetto di Grosseto (31/1/1938).

42ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 709. Contratto collettivo integrativo a quello nazionale per l’industria mineraria, da valere per gli operai addetti alle aziende minerarie della provincia di Grosseto (27/1/1939).

43 ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 703.

44 La modifica consisteva nell’includere nelle voci di cottimo già esistenti delle nuove operazioni (ad esempio la colmata di carrello, lo spostamento di carrello ecc.) precedentemente pagate a parte. In pratica, mentre prima l’arrivo del carrello carico di minerale alla bocca del fosso comprendeva numerose operazioni separatamente retribuite, con il nuovo metodo la Montecatini mirava a retribuire le squadre operaie complessivamente per ogni carrello giunto alla bocca del fosso. Si cercava quindi di ottenere dagli operai un maggior rendimento con la stessa retribuzione. I lavoratori furono invitati a squadre per accettare i nuovi prezzi di cottimo: chi rifiutò di accettare tali condizioni senza aver prima consultato l’organizzazione sindacale competente fu passato al sistema di retribuzione a economia, con una riduzione di guadagno del 10% e l’ammonizione di severi provvedimenti disciplinari in caso di un calo di rendimento. Il sistema in pratica eludeva l’articolo due del contratto nazionale sulla disciplina del lavoro a cottimo, permettendo di non aumentare le tariffe insufficienti. Il malcontento tra gli operai crebbe, mentre la Montecatini, spalleggiata dall’Unione degli industriali, accusava di demagogia gli esponenti dei sindacati. I carabinieri di Grosseto riferirono che l’influenza della Montecatini era tale che gli stessi ambienti locali avrebbero preferito soffocare la tesi dei sindacati pur di conservare la benevolenza della Società. La situazione era definita preoccupante per ragioni economiche, di equità e per il mantenimento dell’ordine pubblico. ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 703. Lettera del Comando del gruppo carabinieri reali di Grosseto al prefetto di Grosseto (20/5/1939).

45Al Comune di Massa Marittima è stata attribuita la medaglia d’argento al Valor Militare per il suo contributo alla lotta di Liberazione. Nella motivazione è stata citata anche la difesa degli impianti minerari di Niccioleta.

46M. Tanzini, “Sui martiri di Niccioleta”, in “Tracce…percorsi storici, culturali e ambientali per Santa Fiora“, anno IX, Effigi, Arcidosso, 2004. Su Giuseppe Gasperi vedi: www.bfscollezionidigitali.org/entita/13539-gasperi-giuseppe. Sulla cellula comunista di Boccheggiano vedi: R. Zago, O-3-R. Nascita e primi anni di attività clandestina dell’organizzazione comunista rivoluzionaria di Boccheggiano, in “Toscana Novecento” (www.toscananovecento.it).

47L. Bianciardi, C. Cassola, “I minatori della Maremma“, Laterza, Bari, 1956 (ultima edizione Minimum Fax, Roma, 2019).

48ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 645, relazioni sulla situazione politica della provincia inviate dal questore Francesco Fiocca al prefetto di Grosseto (30/7/1935 e 31/7/1935).

49ASGR, Fondo Questura, schedario politico CPC, b. 422, f. Contorni Lorenzo.

50https://partigianiditalia.cultura.gov.it/persona/?id=5bf7d1c42b689817c8bac296

51ASGR, Fondo Questura, schedario politico CPC, b. 449, f. Contorni Carlo.

52https://partigianiditalia.cultura.gov.it/persona/?id=5bf7d1852b689817c8bab62e

53ASGR, Fondo Questura, schedario politico CPC, b. 471, f. Vagnoli Primo.

54F. Avanzati, Gente e fatti dell’Amiata. Abbadia S. Salvatore fra storia, mito e memoria 1900-1937, La Pietra, Milano, 1989, pp. 220-221.

55ASGR, Fondo Questura, schedario politico CPC, b. 466, f. Rossetti Corrado.

56 P. Corner, Italia fascista. Politica e opinione popolare sotto la dittatura, Carocci, Roma, 2015; M. Grilli, Il governo della città e della provincia, in V. Galimi (a cura di), Il fascismo a Grosseto. Figure e articolazioni del potere in provincia (1922-1938), Isgrec-Effigi, Arcidosso -Gr, 2018.

57Per la situazione politico-amministrativa di Arcidosso vedi: ASGR, fondo R. Prefettura, b. 628; ACS, MI, DGAC, Podestà e consulte municipali, b. 168, f. 1007, s.f. 1, Arcidosso.

58ASGR, Fondo Questura, Istruzioni relative ad affari riservati, b. 518.

59ASGR, Fondo Questura, Istruzioni relative ad affari riservati, b. 519. Per le statistiche sui morti sul lavoro nella miniera di Niccioleta vedi: S. Polvani, Miniere e minatori. Il lavoro, le lotte, l’impresa, Leopoldo II, Follonica -Gr, 2002, pp. 40-41.

60www.gransassolagaich.it/riti-e-pratiche-sociali/allegro-funerale/

61Tutta la documentazione su questo episodio in: ASGR, Fondo Questura, Istruzioni relative ad affari riservati, b. 519.

62L. Niccolai, Resistenza e guerra di Liberazione sul Monte Amiata (ottobre 1943-giugno1944), in AA.VV., Miniere e società, Giornate di Studio. Dal “memoriale unico” del 1919 alla strage di Niccioleta”, in “Tracce…percorsi storici culturali e ambientali per Santa Fiora”, anno IX, Effigi, Arcidosso -Gr, 2004, pp. 67.

63A. Turbanti, La classe operaia delle miniere nella guerra e nella Resistenza, op. cit., p. 265.

64E. Balducci, Quei miei compagni di scuola diventati minatori e fucilati, ne “L’Unita”, (20/6/1984).