Pistoia Docufilm Festival, il cinema che dà voce alla storia

Nato per raccontare la storia attraverso il documentario, il Pistoia Docufilm Festival è diventato in cinque anni un punto di riferimento culturale in Toscana e in Italia. Ogni estate Pistoia si trasforma in uno spazio aperto alla memoria, dove film e incontri invitano a riflettere sulle sfide passate e su quelle ancora attuali. In un’epoca in cui la narrazione autentica è sempre più preziosa, il festival offre una piattaforma per dare voce a storie e punti di vista spesso dimenticati o poco ascoltati.

Il Pistoia Docufilm Festival nasce da un’intuizione dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea della Provincia di Pistoia, e in particolare da un’idea di Francesca Perugi, maturata durante i mesi difficili del lockdown causato dalla pandemia di Covid-19. In un momento in cui il cinema sembrava sospeso e i tradizionali spazi di socialità a rischio di scomparire, è germogliata la volontà di creare nuovi luoghi di incontro. Il documentario è stato scelto come mezzo ideale: un linguaggio capace di affrontare temi complessi con profondità, restando però accessibile e coinvolgente per tutti.

Un altro traguardo essenziale del festival è stato quello di mettere in dialogo diverse professionalità – storici, ricercatori, registi – accomunate dalla passione per la storia e la narrazione documentaristica, per offrire al pubblico un’esperienza culturale ricca, sfaccettata e stimolante. Inoltre, il pubblico non è mero spettatore, ma è invitato a partecipare attivamente agli incontri e ai dibattiti finali, diventando così protagonista di una riflessione collettiva e viva.

Dal 2021 il Pistoia Docufilm Festival si è affermato come uno spazio unico per riflettere sul potere del documentario come strumento di racconto della realtà. La prima edizione ha preso le mosse dalla definizione stessa di documentario – “film senza aggiunta di elementi fantastici”, secondo la Treccani – per esplorare insieme al pubblico come si realizzano documentari di qualità, come i registi scelgono i temi e le immagini tra migliaia di possibilità. Nel 2022 il tema si è spostato su “Come raccontare la storia?” affrontando la storia con la S maiuscola. Il festival ha proposto quattro serate per dialogare con registi e storici su fatti significativi della storia contemporanea. Il 2023 ha portato il pubblico a riflettere su “Geografie umane: storie di comunità”. Le serate hanno proposto documentari recenti che raccontano storie di comunità da tutta Italia, dalla resilienza ai conflitti, passando per sfide e progressi che hanno lasciato un’impronta nella storia collettiva. Nel 2024 il tema è stato “Per non confondere i confini del nostro campo visivo con i confini del mondo”. L’edizione ha esplorato il tema dei confini e delle migrazioni, attraversando la storia dei migranti italiani del dopoguerra, i primi arrivi dall’Albania negli anni ’90, fino alle recenti vicende al confine tra Italia e Francia. Tre film hanno raccontato come le migrazioni siano un fenomeno naturale e i confini solo linee artificiali da interrogare e superare.

Fin dalla prima edizione, il Pistoia Docufilm Festival si è avvalso di collaborazioni con realtà di spicco nel mondo del documentario e della ricerca storica. Tra i principali partner figurano il Festival dei Popoli di Firenze, la Cineteca di Bologna, l’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico di Roma e l’Associazione Italiana di Storia Orale (AISO). Il Festival dei Popoli, tra i più antichi e prestigiosi festival internazionali di cinema documentario, promuove il documentario come strumento di conoscenza e testimonianza. La Cineteca di Bologna, fondamentale per la conservazione e il restauro del patrimonio cinematografico, contribuisce a mantenere viva la memoria visiva. L’Archivio Audiovisivo di Roma conserva testimonianze sui movimenti operai e democratici. L’AISO valorizza le testimonianze orali, offrendo un punto di vista umano che integra il racconto visivo del documentario. A queste collaborazioni si aggiunge quest’anno TVL – Televisione Libera Pistoia, che amplia la diffusione del festival trasmettendo alcune produzioni, raggiungendo così un pubblico più ampio.

La quinta edizione del Pistoia Docufilm Festival, in programma nei giorni 7, 14 e 21 luglio 2025 all’Arena Cinema Porta al Borgo, porta quest’anno un focus speciale sulle voci dei registi toscani. Il tema scelto, “Simboli. Storie, bandiere e canti di libertà”, offre una riflessione sui simboli e sui linguaggi della lotta per i diritti, attraverso documentari che raccontano storie di impegno, resistenza e mobilitazione sociale.

Tre serate di cinema e incontri accompagneranno il pubblico nel racconto di chi ha lottato per dignità, pace e giustizia. Si parte lunedì 7 luglio con Il rovescio della medaglia (1974), film di Alvaro Bizzarri, regista pistoiese emigrato in Svizzera, che descrive con uno sguardo partecipe le dure condizioni dei lavoratori stagionali italiani.

La seconda serata, lunedì 14 luglio, è dedicata a Bella ciao – Song of Rebellion (2021), documentario di Andrea Vogt che ripercorre la storia del celebre canto popolare italiano, simbolo internazionale di libertà e resistenza.

Il festival si chiude lunedì 21 luglio con Bandiere della pace (2023), di Silvia Folchi e Alessandro Bartoli, che racconta le mobilitazioni delle campagne italiane del dopoguerra contro il riarmo e per una giustizia sociale duratura.

Nel contesto del festival, martedì 8 luglio l’emittente TVL – Televisione Libera Pistoia trasmetterà il film Lo stagionale, sempre di Alvaro Bizzarri, ampliando così l’omaggio al regista di origini pistoiesi.

Il Pistoia Docufilm Festival 2025 è promosso dall’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Pistoia in collaborazione con TVL, l’Istituto Ernesto de Martino, il Festival dei Popoli e l’Associazione Italiana di Storia Orale (AISO), con il sostegno della Fondazione Caript e grazie al contributo della Direzione Generale Educazione, Ricerca e Istituti Culturali del Ministero della Cultura.

Tutte le serate sono a ingresso gratuito.

 

 

Francesca Perugi è una storica specializzata nella storia contemporanea della Chiesa cattolica. Vicepresidente dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea della Provincia di Pistoia, è l’ideatrice del Pistoia Docufilm Festival.
Autrice di numerosi podcast, articoli e libri, ha completato un dottorato e un post-dottorato presso l’Università Cattolica di Milano. Attualmente insegna in una scuola secondaria superiore.
Appassionata di cinema e divulgazione, Francesca unisce ricerca storica e linguaggi audiovisivi per raccontare storie spesso poco conosciute, con l’obiettivo di coinvolgere il pubblico in un dialogo critico e partecipato.




Farestoria Festival, I edizione

Questa importante iniziativa nasce dalla volontà di arricchire l’offerta culturale della provincia pistoiese con un festival dedicato alla storia contemporanea, trasformando temi di ricerca accademica in un’occasione di dialogo e confronto aperti con la cittadinanza. A questo proposito le iniziative saranno ospitate in alcuni luoghi simbolo della vita pistoiese – la Libreria Lo Spazio, la Sala Soci Coop e il Polo culturale Puccini-Gatteschi – per rendere il territorio urbano vero protagonista di confronti nati dalla collettività e consolidare il rapporto tra l’Istituto e la città di Pistoia.

L’iniziativa si pone pertanto anche come esperimento di public history, prevedendo una partecipazione attiva del pubblico alla discussione e rendendo accessibili i risultati della ricerca storica ad un pubblico ampio e diversificato, contribuendo per quanto possibile alla formazione di una cittadinanza consapevole con strumenti critici per la comprensione del mondo contemporaneo.

In questo senso l’ambizione del festival è quella di trattare temi di respiro internazionale, da una riflessione sull’antifascismo attraverso un secolo di storia, passando per una problematizzazione delle categorie di dissidenza e resistenza nei conflitti del secolo attuale, fino alla storia della Palestina, del vicino oriente e all’attenzione per l’ambientalismo. Tutti questi temi, ognuno con le proprie specificità, sono tra loro intrecciati e sono tenuti insieme dalla convinzione che possano contribuire a gettare una nuova luce sul significato e sull’interpretazione di “Resistenza” nel mondo contemporaneo. La scelta degli eventi e delle tematiche caratterizza quindi un percorso di riflessione che trova in questa categoria il proprio filo conduttore, con l’intento di rinnovare il dibattito sulla “Resistenza” (e sulle resistenze) non come categoria appartenuta al passato, bensì come un fenomeno quanto mai attuale e vitale per comprendere le dinamiche del mondo di oggi.

Inoltre, tra i vari momenti in programma, particolare attenzione sarà rivolta alla didattica della storia, che farà da trait d’union con l’appuntamento finale del festival dedicato ai giochi da tavolo a tema storico.

 

 

Luca Cappellini è dottore magistrale in Scienze Storiche presso l’Università di Firenze ed è studioso dell’età contemporanea. È docente presso le scuole superiori Mantellate di Pistoia. Fa parte dal 2018 dell’Istituto Storico della Resistenza di Pistoia, dove è responsabile della biblioteca e con cui collabora come ricercatore e divulgatore. Ha pubblicato “Genova 2001. Una memoria multimediale” in «Farestoria», III, n.1, 2021; ha pubblicato con Stefano Bartolini e Francesco Cutolo “Public History: laboratori partecipativi e memoria pubblica”, in «Clionet», Vol. VII, (2023).

 




MUSA LIBERTARIA. Virgilia D’Andrea

Le ricerche storiche talvolta nascono da semplici curiosità, salvo poi rivelare imprevisti motivi d’interesse, e questo è uno di quei casi.
Di Virgilia D’Andrea, sindacalista anarchica, poeta e propagandista vi sono diverse biografie, ma in nessuna di queste avevo trovato traccia di una sua conferenza di cui sapevo soltanto il titolo, insolito: Musa libertaria.
Ne ero venuto a conoscenza, nel corso di una ricerca sulla storia della Camera sindacale del lavoro di Livorno, fra il 1920 e il ’22, prima del fascismo.
Infatti, la sera del 15 giugno 1922, Virgilia D’Andrea, allora trentaquattrenne, tenne una partecipata conferenza presso la Camera sindacale, aderente all’USI, situata in viale Caprera, nel popolare quartiere della Nuova Venezia.
Nei giorni precedenti in varie zone della città erano avvenuti ripetuti scontri tra fascisti e sovversivi, anche con rivoltellate, e la tensione era alta così come lo sarebbe stata nelle settimane seguenti, per cui il titolo di quella conferenza poteva apparire quanto meno fuori luogo, anche se per l’anarchica di Sulmona la poesia era un’arma.
Questo il sintetico resoconto della serata che venne pubblicato sul periodico degli anarchici livornesi «Il Seme» del 18 giugno 1922:

Improvvisamente il giorno 12 corr. un telegramma giunto alla Camera del Lavoro Sindacale, annunciava l’arrivo della valorosa compagna Virgilia D’Andrea, invitando a preparare una conferenza per il giovedì sera.
Per quanto il tempo fosse ristretto la C.d.L.S. fece subito delle circolari di avviso a tutte le sezioni aderenti, nonché ai gruppi ed ai partiti di avanguardia, invitandoli a fare la necessaria propaganda per la riuscita della conferenza, disponendo poi per l’affissione di un manifesto murario che ne avesse dato l’annuncio, ma che all’ultim’ora la Questura non volle permettere con la scusa dell’ordine pubblico.
Inutile commentare intorno a questo artificioso sabottamento [sic] dell’imprevista conferenza, che però non è riuscito ad impedire che la vasta sala fosse gremita di lavoratori tra cui buon numero di donne e fanciulle.
Alle ore 21, presentata con acconce parole, dal nostro [Riccardo] Sacconi, la compagna D’Andrea imprese il suo dire, svolgendo maestrevolmente il tema: Musa libertaria.
Ci è impossibile seguire la valente oratrice nella sua fine e forbita dicitura, solo ci limitiamo a dire che simili conferenze dovrebbero essere fatte più spesso ed ascoltate anche da chi dimentico di ogni forma di vivere civile vive compiendo le più tristi azioni non escluso il delitto.
L’impressione dell’uditorio fu superiore all’attesa, ed in tutti è rimasto vivo il desiderio di potere al più presto provare ancora un simile godimento intellettuale, che noi speriamo la buona compagna non vorrà negarci.

Sfogliando le cronache del quotidiano anarchico «Umanità nova», si apprende che nei mesi precedenti Virgilia D’Andrea aveva proposto e svolto un tour di conferenze pro-Umanità nova in varie città, richiedendo che il costo del biglietto per assistervi fosse di almeno una lira; i temi proposti erano Musa libertaria, Il valore del sentimento nella vita, I nostri prigionieri, «che meglio si addicono al suo temperamento oratorio e alle sue facoltà».
Da «Umanità nova» del 4 gennaio 1922 si apprende che la sera del 31 gennaio 1921, presso un teatro di Rimini, nonostante i problemi frapposti dalla polizia, aveva tenuto, a sostegno del giornale anarchico, una conferenza dal titolo analogo: Musa liberatrice:

la compagna D’Andrea [che] per oltre un’ora tenne il pubblico legato alla parola sua vibrante e commossa. Rievocò il periodo di calma tranquilla dell’anteguerra, disse dell’ubbriacatura guerresca e continuò declamando le sue poesie, tutte vibranti di pura ed umana passione.

Come avvenuto a Rimini e Livorno, però i relativi resoconti di tali iniziative non riferivano i temi toccati nel corso della conferenza e, a quanto mi risulta, il testo della stessa non è mai stato pubblicato e comunque non figura nelle diverse raccolte edite delle sue conferenze, suscitando dunque almeno in chi scrive un certo interesse.
Probabilmente, per la stessa ammissione dei militanti autori di tali resoconti, vi era imbarazzo a descrivere le suggestioni letterarie e le emozioni da queste suscitate tra i proletari e i compagni presenti; d’altronde, come avrebbe annotato Virgilio Mazzoni, nel recensire positivamente su «Umanità nova» del 27 luglio 1922, i «versi ribelli» di Tormento, «sebbene nel nostro campo, la poesia non abbia gran fortuna… commerciale».
La mia curiosità è quindi rimasta a lungo senza risposta ma, per caso, è stata almeno parzialmente soddisfatta avendo di recente trovato nella cronaca romana di «Umanità nova» del 22 marzo 1922, un articolo che raccontando della stessa conferenza svoltasi il 19 marzo a Roma, ne tratta in modo abbastanza circostanziato, tanto da meritare d’essere trascritto integralmente.

Come fu accennato ieri, la conferenza tenuta dalla compagna Virgilia D’Andrea domenica mattina al Salone dei Parrucchieri, è riuscita splendidamente.
Benchè fosse a pagamento, organizzata pro Circolo di Studi Sociali, il pubblico è accorso ugualmente numerosissimo e molti compagni e simpatizzanti affollavano il salone di via Cavour.
La compagna D’Andrea venne presentata dal compagno Billi, studente universitario, e parlò circa un’ora fra l’attenzione vivissima e commossa del pubblico, che dimostrò una comprensione una sensibilità vivissima.
Con il lirismo semplice ma suggestivo che le è abituale, con le parole vibranti di commozione interiore che ella sa dire e che sanno sì bene trovare l’animo dell’uditorio e scuoterlo profondamente, l’oratrice evocò gli episodi più salienti della vita del popolo italiano dalla guerra al fascismo, incastonando nel discorso che appunto aveva per tema «Musa libertaria», brani di poesie ed intere liriche di sua composizione (esse verranno tra breve raccolte in volume), le quali scritte sotto l’impressione immediata degli avvenimenti man mano che si svolgevano in questi ultimi tempi e aventi perciò tutta la naturalezza delle cose spontanee, non potevano non avvincere e non appassionare l’uditorio.
«Cieco di guerra», «Decimazione», «Il ritorno dell’esule» (riferentesi al rimpatrio del nostro Malatesta), «Presa e resa delle fabbriche», tutti questi episodi, queste tappe del faticoso cammino dei lavoratori verso il suo domani, verso le sue conquiste, ebbero nei versi della nostra buona compagna tale impeto comunicativo, che tutti i presenti non potettero astenersi dal manifestare nel modo più tangibile la loro commozione.
Noi siamo sicuri che trattenimenti artistici e sociali ad un tempo come questi, giovino assai alla propaganda ed all’educazione delle masse.
Il proletariato, i giovani, gli uomini del lavoro, hanno bisogno , non solo della conferenza critica e polemica, non solo della fanfara, ma anche della melodia. Sono queste delle sublimazioni dello spirito il cui giovamento non è affatto da mettersi in dubbio.
In questa conferenza si è verificato quel che accade quando l’oratore riesce ad avvincere l’anima ed il cervello di chi ascolta. Il pubblico applaude; ma è più forte in lui il bisogno di trattenere l’applauso per non turbare lo stato di godimento spirituale in cui è versato. Ma l’applauso trattenuto è poi scoppiato scrosciante quando l’oratrice, ricordando tutte le nostre vittime, tutti i morti sulla via della lotta rivoluzionaria ha chiuso con i magnifici versi del Carducci:
«… Sangue dei morti affretta
I rivi tuoi vermigli e i fati
Al ciel vapora e di vendetta
Inebria i nostri figli!».

L’annunciato libro era Tormento, con prefazione di Errico Malatesta e copertina scarlatta, pubblicato a Milano nello stesso anno dalla Tipografia Zerboni, e nel marzo del 1923 l’Autrice venne denunciata per vilipendio e istigazione all’odio di classe, con mandato di cattura, proprio in relazione a quella sua raccolta di poesie che, evidentemente, oltre a commuovere il proletariato lo invitavano alla rivolta.
Nel patetico tentativo di sintetizzare il contenuto della raccolta di poesie, uno zelante funzionario di questura scrisse: «Il libro è scritto in versi, ed i versi sono trasmodanti di felina bile contro l’Italia nei suoi poteri e nel suo assetto sociale: sono versi scritti pensatamente e con studio per istigare a delinquere, eccitare all’odio e vilipendere l’Esercito».
Prima però di soffermarsi sulle “trasmodanti” poesie presentate da Virgilia nel corso della conferenza, faccio qualche ipotesi sulla parte di questa in cui, come accennato dall’anonimo redattore romano, aveva evocato «gli episodi più salienti della vita del popolo italiano dalla guerra al fascismo».
Presumibilmente furono, più o meno, gli stessi temi e protagonisti ripresi nelle innumerevoli conferenze che avrebbe tenuto tra il 1929 e il 1932 negli Stati Uniti dove era emigrata, assieme al compagno di vita, ideali e militanza Armando Borghi, per sfuggire alle persecuzioni fasciste e poliziesche.
In particolare, nelle conferenze Tenebre e fiamme nella tragedia italiana e Le Tradizioni italiane rinnegate e tradite dal fascismo, partendo dalle pagine della letteratura italiana, non sottomesse per amore di libertà alle precedenti dominazioni, Virgilia D’Andrea aveva sostenuto che «il fascismo fu ed è l’antitesi profonda del pensiero italiano», citando anche Vittorio Alfieri: «L’arte mia sono le muse; la predominante mia passione l’odio della tirannide».
Tenendo conto che quelle conferenze americane erano rivolte ad un pubblico composto soprattutto da lavoratori immigrati dall’Italia, verso cui il regime fascista svolgeva un’intensa propaganda incentrata sul patriottismo, attraverso i giornali e le conferenze organizzate dai Fasci costituiti anche negli Stati uniti, si comprende il senso antifascista delle conferenze culturali dell’instancabile anarchica.
Delle quattro poesie recitate a Roma, e quasi sicuramente anche a Livorno, Cieco di guerra (agosto 1920) e Decimazione (settembre 1919) erano contro gli orrori della Prima guerra mondiale, con la maledizione della retorica patriottica «irridente insulto», e ne Il ritorno dell’esule (dicembre 1919), dedicato al rientro clandestino di Malatesta in un’Italia attraversata dai sommovimenti rivoluzionari, vi era l’attesa «Per l’urto immane della «rossa» storia», mentre La presa e la resa delle fabbriche (ottobre 1920) era una sorta di amaro bilancio politico dell’Occupazione delle fabbriche, conclusasi pochi mesi prima, «sotto il cielo nero».
Tutte questioni che urlavano vendetta e giustizia sociale, facendo pericolosamente appello al cuore non meno che all’intelligenza di ogni oppresso e di ogni sfruttata.

 




Alcune note su Letteratura e Resistenza: la storia nell’uomo da Vittorini e Pavese fino a Calvino, Cassola e Fenoglio.

Quando mi è stato chiesto di tenere questo discorso e di parlare di Letteratura e Resistenza, il tema mi è sembrato subito, perlomeno, immenso e il compito affidatomi arduo sia per la quantità di opere pubblicate negli anni che seguirono la fine della guerra sia per la qualità dei contributi critici già esistenti sull’argomento. Senza considerare la complessità e la delicatezza di alcuni dei nodi teorici che hanno occupato fino a oggi l’attenzione della critica e degli scrittori, tanto da mobilitare in molti casi il dibattito intorno al tema del Neorealismo, delle sue forme e del suo stile, e del rapporto tra letteratura e politica in una fase delicatissima della ricostruzione del Paese e della nascita della Repubblica.
All’indomani della Liberazione una foltissima schiera di ex partigiani, combattenti e reduci pubblicarono infatti una lunga lista di diari, testimonianze, memorie, poesie e racconti.
L’urgenza di raccontare confluiva improvvisamente in quel «noi» collettivo di cui parlerà Calvino nell’Introduzione al Sentiero dei nidi di ragno del 1964, in un unico lungo racconto orale. Solo le donne iniziarono a parlare della loro esperienza molto più tardi, negli anni ’70, quando – interrogate – uscirono dal silenzio per testimoniare la loro guerra «senza armi» (come l’hanno definita Anna Bravo e Anna Maria Bruzzone nel 1995) perché non avevano mai immaginato che la loro lotta avesse lo stesso valore di quella che avevano combattuto i loro mariti o i loro figli.
Era necessario riscattare l’Italia dalla sua partecipazione alla guerra come alleata della Germania, raccontare un’altra verità, ricordare quei fatti in modo da porre un netto discrimine tra chi aveva fatto una scelta e chi ne aveva fatta un’altra; era poi anche un risarcimento nei confronti dei compagni caduti perché, scriveva Cesare Pavese in La casa in collina, «ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione».
Forse allora, per recuperare uno dei possibili fili di questo discorso vasto come «alto mare aperto» (Inferno, XXVI), può essere oggi utile ripartire da un saggio di Jean Starobinski, medico e critico letterario ginevrino, che a gennaio del 1943 pubblicò sulla rivista «Lettres» un contributo intitolato Introduzione alla poetica dell’evento (che cito nella traduzione italiana di Walter Pedullà uscita su «il caffè illustrato», n. 23, marzo-aprile 2005, pp. 40-42). Egli rifletteva su come «dinnanzi ad alcuni eventi gravi e assoluti, il testimone, colpito nel profondo, prorompe nel canto» in un grido liberatore e catartico. Il canto (la poesia dunque e la letteratura insieme) sono «l’ammirevole intermediario attraverso cui la circostanza (l’evento singolo, storico) raggiunge l’eternità» (ibid., p. 40). Ma affinché questo canto diventi l’espressione vera di una testimonianza, raggiunga ciò l’eterno (e aggiungiamo, diventi un ‘classico’) deve assumere quei caratteri di universalità in cui tutti possano riconoscersi, ed è necessario che il poeta sappia far coincidere il suo dramma personale con il dramma della storia, che si verifichi una «contrazione del tempo storico nel tempo personale» (ibid. p. 42). La catastrofe che si stava svolgendo in Europa richiedeva allora a chiunque facesse uso della ‘parola’ di scrivere, dando un preciso valore poetico e universale al suo racconto ma tenendo conto dell’individualità del singolo in modo da farne scaturire una narrazione ‘interiorizzata’: la vera poesia – continua Starobinski – dona all’evento storico la qualità dell’evento interiore.
Non si stratta, dunque di vedere l’uomo nella storia, ma al contrario di «vedere la storia nell’uomo» (ibidem), nel singolo destino individuale e di indagare le conseguenze del tutto umane di quegli eventi, nella loro risonanza interiore, nelle presa di coscienza e nella responsabilità individuale del singolo.
Ciò ha una ricaduta anche sullo stile, non si tratta infatti di scrivere una cronaca oggettiva (che servirebbe solo per una ricostruzione storica) ma di fare letteratura, cioè di interpretare e trasfigurare quei fatti in un racconto che guardi all’universalità dell’esperienza della guerra, attraverso lo sguardo del singolo e della sua percezione interiore, attraverso una parola poetica, schietta e precisa, scevra dalla retorica, dal giudizio offerto a posteriori e da un’esortazione che risulti in fin dei conti troppo semplicistica.
Ora, che significato ha tutto ciò rispetto alla letteratura della Resistenza? Soprattutto oggi, a distanza di 80 anni da quegli avvenimenti? Innanzitutto pone un discrimine preciso che ci permette di distinguere, tra le numerose testimonianze di cui si accennava all’inizio, quelli che sono rimasti i veri ‘classici’ della Letteratura della Resistenza, ma anche di comprendere cosa ha reso alcuni racconti particolarmente significativi, rispetto ad altri, e i motivi per cui non sempre essi furono accolti positivamente dalla critica e dal pubblico, assegnando loro il peso che meritavano.
Se tra i caratteri del ‘classico’ c’è anche la possibilità che il testo abbia in sé il potere di parlare del particolare in senso universale, offrendo al lettore un mezzo in cui leggere la propria interiorità, aldilà dell’epoca e dei fatti specifici in cui è ambientata, esso ci permette, infine, di leggere la storia in modo che questa sia ‘nell’uomo’, e non fuori. Non è importante se si sta parlando di prima o di seconda guerra mondiale, della guerra di Troia o delle battaglie risorgimentali, è solo nella rappresentazione letteraria degli ‘stati d’animo’ che l’individuo racconta e riconosce se stesso, che si crea un effetto specchio tra scrittore e lettore per cui quest’ultimo parteciperà alla vicenda pur non avendola vissuta, riconoscendo come propri i valori in essa contenuti.
Ecco l’importanza della letteratura per la trasmissione dei valori della Resistenza per cui, in virtù di quel saper leggere ‘la storia nell’uomo’, essa ci permette di evitare che la narrazione di quell’esperienza sfoci nel pedagogismo e nella vuota retorica, in un livellamento del pensiero che oggi mina la nostra capacità critica, la possibilità di distinguere tra chi ha compiuto una scelta, giusta, e chi una sbagliata, tra chi ha agito seguendo la propria responsabilità personale e chi invece è stato semplicemente un criminale.
Procederemo allora, e necessariamente, per sommi capi considerando ora solo alcuni di quegli scrittori che hanno segnato un’importante stagione letteraria e, in vario modo, hanno anche partecipato alla lotta di Liberazione.
A guerra finita si trovarono di fronte al problema di come rendere il loro tributo letterario alla Resistenza: come trasporre sulla pagina quei venti mesi di lotta? Cosa raccontare e come? Come rendere in forma poetica quel mondo che, scrive Calvino, per loro era stato ‘il mondo’? Per molti di loro quel racconto fu il ‘primo libro’, un libro fondativo, anche quando non fu un esordio.
Fu Elio Vittorini a inaugurare quella stagione con Uomini e no uscito da Bompiani immediatamente dopo la Liberazione, a giugno del 1945. Il romanzo era stato composto l’anno precedente, durante i mesi trascorsi nella villa dei Varisco sul sacro monte di Varese, dove Vittorini si era dovuto nascondere per sfuggire alla cattura. Sullo sfondo del racconto c’è la lotta partigiana dei Gap milanesi, i Gruppi di azione patriottica che operavano in città e di cui aveva fatto parte; ma il romanzo risentiva ancora del clima letterario degli anni ’30 e dello stile poetico che aveva caratterizzato l’ermetismo. La prosa di Vittorini risultò poco efficace e il romanzo fu attaccato e criticato anche perché il protagonista, nome di battaglia Enne2, è un uomo bloccato tra la dimensione pubblica (quella della lotta) e quella privata (l’amore impossibile per Berta). Un dualismo che Enne2 non riuscirà a risolvere e che lo porterà a compiere un’ultima azione eroica che ne provocherà la morte.
Vittorini apparteneva in effetti, con Pavese, alla generazione nata a inizio secolo, che nel ’43 aveva già raggiunto la maturità – anche letteraria – e il loro rapporto con la Resistenza appare più problematico; così anche nella Casa in collina di Pavese, uscito da Einaudi nel 1948, il protagonista – apatico e indifferente – non riesce ad unirsi alla lotta e si rifugia tra le colline in piena crisi esistenziale. Alla fine del romanzo sarà invece Dino, quello che immagina essere suo figlio, a raggiungere i partigiani mentre Pavese si toglierà la vita, qualche anno dopo, in un albergo di fronte alla stazione di Torino Porta Nuova, il 27 agosto del 1950.
Pavese e Vittorini erano nati entrambi nel 1908 e nel ’43 avevano 35 anni. Senza cadere in facili semplificazioni, è stato sottolineato dalla critica che il discorso cambierà per la generazione successiva, per quegli scrittori che si erano uniti alla Resistenza quando avevano vent’anni, nel pieno delle loro forze: Carlo Cassola, tra questi, era nato nel 1917, mentre Italo Calvino – ancora più giovane – nel 1923.
Per Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno – pubblicato da Einaudi a ottobre del 1947 – è, e resterà sempre, il ‘primo libro’ quello in cui sono contenuti in nuce tutti i temi della sua futura poetica. Forse, aggiungerà lo scrittore negli anni nel 1964, «avrei potuto scrivere quell’unico libro». Calvino diventa scrittore grazie alla Resistenza alla quale partecipò nei mesi di lotta più cruenta: sarà lui stesso a dichiarare che la Resistenza lo aveva ‘messo al mondo’, anche come scrittore e che tutto quello che aveva fatto dopo partiva da quell’esperienza. La Resistenza era però per lui un argomento troppo grande e complesso da affrontare, così, direttamente. Il rischio era appunto quello di cadere nella retorica, di chi voleva un racconto agiografico, con un eroe socialista asservito alla poetica del neorealismo. Allora Calvino decise di affrontare il racconto di scorcio, attraverso lo sguardo di un bambino che si trova coinvolto in fatti più grandi di lui.
Calvino scriverà così un racconto picaresco, in cui la storia con la ‘s’ minuscola è la protagonista, una storia nell’uomo (come suggeriva Starobinski) interiorizzata e osservata dal basso.
Al posto degli eroi socialisti, nel Sentiero dei nidi di ragno Calvino, come per provocazione, decide di non inserire nessun eroe, nessuno che si faccia portatore di un’ideologia, né di una lotta di classe. La storia di Pin non illustra in effetti una tesi già data, non mostra i migliori ma i peggiori tra i partigiani. Eppure, osserva lo scrittore, anche i peggiori tra noi sono meglio di voi, dei fascisti: il discrimine è questo. Quello che conta nel romanzo è la spinta di riscatto umano che la lotta di Liberazione offre ai suoi personaggi.
In maniera molto simile, Carlo Cassola esordisce nel genere romanzo (pur avendo pubblicato durante la guerra una serie di racconti) con Fausto e Anna, una storia d’amore tormentata, ambientata tra Volterra e San Ginesio durante la lotta per la Liberazione. Il romanzo, scritto nel ’49, esce nel 1952 nei «Gettoni» Einaudi, e non a caso quella collana era stata ideata e diretta proprio da Vittorini.
Anche in questo caso il protagonista, Fausto (che ha alcuni tratti autobiografici), non è un eroe, anzi, vive di continue contraddizioni, tali che lo porteranno al fallimento sia del suo rapporto con Anna sia con il Partito Comunista a cui preferirà il Partito d’Azione.
L’esperienza personale è trasposta in chiave letteraria con un’attenzione particolare alla sfera emotiva e sentimentale dei personaggi. Fausto, ma anche Bube nel romanzo successivo, sono dei giovani in formazione e come tali si avvicinano in maniera problematica alla vita e agli eventi storici in cui sono calati e che spesso non comprendono del tutto:

«Perché ho dato loro questo dispiacere […] camminando rapidamente per il viottolo, Fausto interrogava se stesso ma non trovava risposta a quel perché. Perché mi vado a cacciare nei pericoli? E se dovessi morire? Per un momento fu certo che sarebbe stato ucciso. Essere ucciso perché? Per quale scopo? Baba, Nello, Piero potevano anche morire, essi credevano che fosse necessario lottare per un mondo migliore. Ma lui non credeva a nulla. Non credeva che il comunismo potesse rendere migliore il mondo. Comunque era una faccenda che non lo riguardava, perché lo faccio allora? Perché? Non trovava risposta. Gli pareva assurdo quello che stava facendo. Si sentiva spossato, le gambe gli si piegavano. Lo zaino gli pesava terribilmente» (in Fausto e Anna, Einaudi, Torino, 1952).

A distanza di anni possiamo oggi comprendere più facilmente l’importanza notevolissima del primo romanzo di Cassola: come osserva Giuliano Manacorda, nel suo Invito alla lettura di Cassola (Mursia, Milano, 1973) per la prima volta si dava conto, in sede letteraria, della fine dell’epoca delle grandi ideologie e della retorica che le aveva accompagnate. Nell’interiorità di Fausto compaiono tutti i dubbi e le domande che è lecito un uomo si ponga di fronte alla storia, pur comprendendo che quella che ha fatto è la scelta giusta. Ma resta una scelta individuale poiché Fausto in realtà non crede a nulla.
Si spiega così anche la polemica a cui andò incontro lo scrittore dopo l’uscita del suo romanzo sulle pagine della rivista «Rinascita» (n. 3, a. IX, marzo 1952) quando fu accusato di aver denigrato la Resistenza poiché aveva descritto «i partigiani come un branco di fifoni e di assassini» e i «tedeschi come poveri figli di mamma» (ibid, p. 252). Osservazioni che – continua il critico – si possono leggere in qualunque giornaletto «democristiano e neofascista» (ibidem). Nel numero successivo Cassola rispose alle accuse con una lettera al direttore Palmiro Togliatti. Il suo romanzo, si difende Cassola, era stato giudicato solo in funzione di criteri ideologici e non estetici. La Letteratura della Resistenza non può avere «un compito apologetico, agiografico e fumettistico» (in «Rinascita», n. 4, a. IX, aprile 1952, p. 249). Nella polemica intervenne poi anche Togliatti ammettendo che, in quegli anni, giudizio estetico e politico spesso si sovrapponevano creando storture diffuse; ma ciò senza di fatto scagionare Cassola dalle accuse.
Il fatto è che Fausto e Anna non era in fondo un romanzo sulla Resistenza, ma un romanzo di formazione a cui la Resistenza fa da sfondo e in cui Fausto è un ulteriore esempio di anti-eroe che, messo a contatto con eventi più grandi di lui, non riesce a comprenderli né a identificarvisi completamente. È la storia di Fausto che interessa al Cassola scrittore, quella del suo ‘partigiano per sbaglio’ e si dovrebbe allora ribadire che il Cassola-uomo la Resistenza l’aveva invece fatta, davvero, e per scelta; ma egli non indulgeva sulla facile ‘presa’ che in quegli anni avevano avuto sulle masse altri racconti, in cui il contenuto apologetico riscattava la forma e presentava la Resistenza come un unicum pacificato ed eroico.
Ma il romanzo sulla Resistenza «che tutti avevamo sognato» scrive Calvino nella sua già citata Introduzione del 1964, arrivò «quando nessuno più se l’aspettava […] E fu il più solitario di tutti […] a scriverlo e nemmeno a finirlo» perché Una questione privata, di Beppe Fenoglio, fu pubblicato postumo, dopo essere stato ritrovato in bozza tra le sue carte. L’anno di pubblicazione per i tipi Einaudi è il 1963.
Il giudizio di Calvino non può essere, ad oggi, che confermato, a distanza di oltre 60 anni dall’uscita di quel romanzo che arrivò dopo una lunga elaborazione e dopo una serie di tentativi intrapresi e poi abbandonati, come accadde anche nel caso del Partigiano Johnny, anch’esso lasciato in un cassetto a livello di scartafaccio e pubblicato postumo.
Fenoglio aveva tentato a più riprese di raccontare in forma romanzesca la sua esperienza nella Resistenza ma il desiderio di scrivere un racconto partigiano si scontrava (come osserva Gabriele Pedullà nel 2006 nella sua prefazione alla ristampa einaudiana di Una questione privata, a p. XXII) in maniera netta con i principi dell’estetica lukàcsiana allora in voga che chiedeva, nell’ottica del realismo socialista, di rappresentare il ‘tipico’, cioè in sostanza un partigiano modello che riassumesse in sé i tratti generali e oggettivi di un positivo eroe proletario. Al contrario, Fenoglio assume, a partire proprio dal Partigiano Johnny ma anche in Primavera di bellezza e nella raccolta I 23 giorni della città di Alba, un punto di vista del tutto individuale sulla Resistenza.
Nemmeno questi tentativi gli sembrarono soddisfacenti: Fenoglio era convinto che in quelle prove la cronaca avesse ancora il sopravvento sul romanzesco, che le esperienze, i combattimenti, le imboscate e le fughe di Johnny fossero rimaste un semplice susseguirsi di eventi, raccontate in maniera cronachistica senza avere la forza di attirare il lettore verso un nucleo narrativo forte, evidente e stringente, attorno al quale rappresentare ‘l’uomo nella Resistenza’ e non la Resistenza come mero sfondo storico di un racconto, in sostanza, autobiografico.
Così aveva fatto per esempio Cassola in Fausto e Anna: «io credo – aveva dichiarato nel 1959 sulla rivista «Nuovi Argomenti» – che la storia debba essere soltanto la cornice, lo sfondo delle vicende e dei destini individuali. La storia romanzata non mi persuade più di quanto mi persuada l’ideologia romanzata». E in effetti il suo primo romanzo aveva mantenuto la Resistenza sullo sfondo, come cornice dell’amore mancato tra i due protagonisti.
Qual è dunque la soluzione narrativa del tutto originale a cui arriva Fenoglio in Una questione privata? Tale da rendere il suo romanzo un unicum ? È l’essere riuscito a far convergere la Storia in una vicenda individuale, intrecciando destino privato e destino collettivo per farli confluire in un unico intreccio narrativo. La storia non resta ‘sullo sfondo’ ma è parte attiva della vicenda e dipende, e si muove, insieme al protagonista. Al centro della vicenda c’è un partigiano badogliano il cui nome di battaglia, Milton, richiama alla memoria il più celebre scrittore inglese del Paradiso perduto (si sa che Fenoglio era innamorato della letteratura inglese e americana). Anche la vicenda esistenziale del Milton-Partigiano è un ‘paradiso perduto’.
Anche qui l’amore è il motore della storia poiché tutto l’intreccio è costruito intorno alla passione impossibile di Milton per Fulvia, una ragazza di Torino sfollata per un breve periodo ad Alba e poi tornata in città dopo l’8 settembre. A lei il protagonista si sente legato, pur non essendoci mai stato tra i due un vero e proprio legame sentimentale.
Un giorno, durante uno dei suoi sopralluoghi tra le colline delle Langhe, Milton si trova con un compagno davanti alla villa in cui, l’anno precedente, aveva trascorso i suoi pomeriggi con Fulvia e con un altro amico, Giorgio, anche lui ora entrato nella Resistenza. La voglia di rivivere quei momenti, spingono Milton a entrare nella casa per rivedere quei luoghi e ricordare i discorsi, il volto e il sorriso di Fulvia. Poi l’incontro con la governante, l’unica rimasta, getta un’ombra – un sospetto sconvolgente e inquietante – nell’animo di Milton quando la donna gli lascia intendere che tra Fulvia e Giorgio ci sarebbe stata una relazione poiché, prima dell’8 settembre, i due erano soliti incontrarsi di nascosto, di notte, in un luogo e in un modo però che la governante non sa spiegare ulteriormente.
Questo ‘non detto’ genera un tarlo, diventa un ‘chiodo fisso’, potremmo dire, nella mente e nel cuore di Milton per cui da quel momento la sua vera missione diventa quella di trovare Giorgio e chiedere ragione di quella relazione, conoscere la verità.
Il fatto è che Giorgio è stato appena catturato dai tedeschi, durante una missione notturna in cui le Langhe vengono sommerse da una fitta nebbia e la brigata di Giorgio si disperde tra le colline; Giorgio si ferma o perde la direzione. Il giorno dopo arriva la notizia che è stato catturato e portato in carcere ad Alba.
Da questo momento per Milton la Resistenza diventa, appunto, ‘una questione privata’ e gli eventi della Storia si muovono intorno a una ricerca ossessiva della verità: la storia privata e la storia collettiva convergono nella vicenda individuale del soggetto. Ed è in questo movimento dal pubblico al privato che il romanzo trova la sua forza, mentre la storia di Milton è completamente immersa nel fitto della storia della Resistenza.
L’individualità del singolo emerge, con tutti i suoi dubbi e le sue contraddizioni, ma l’unità di azione accompagna il lettore attraverso gli eventi. Tutta la vicenda è filtrata attraverso i ricordi e i pensieri del protagonista:

«Milton partì di lì e si fermò non prima dell’arco al principio del paese. Guardò lungo in direzione di Benevello e Roddino. La nebbia si era sollevata dappertutto, in basso non ne restava che qualche francobollo appiccicato sulla fronte nera delle colline. La pioggia cadeva sottile e regolare, senza disturbare minimamente la visibilità. Torse la testa dall’altra parte e guardò in profondo verso Alba. Il cielo sulla città era più cupo che altrove, decisamente violetto, segnato da una pioggia molto più violenta. Pioveva a dirotto su Giorgio prigioniero, forse su Giorgio giù cadavere, pioveva a dirotto sulla sua verità di Fulvia, cancellandola per sempre: «Non potrò saperlo mai più. Me ne andrò senza sapere». (Una questione privata, Einadi, Torino, 2006, pp. 50-51).

Il pericolo che Giorgio venga fucilato prima che Milton possa ottenere un ufficiale fascista con cui tentare uno scambio, rende quella missione una lotta contro il tempo. Il protagonista è dunque impegnato in una ricerca continua, esposto al freddo e ai pericoli, per la maggior parte del tempo sporco di fango e coperto di fatica.
Per questo Calvino ha potuto paragonare Una questione privata all’Orlando furioso di Lodovico Ariosto: come il paladino, anche Milton diventa folle per amore e inizia a inseguire qualcosa che non conosce (che lui chiama ‘verità’), fino a perdere del tutto il senno, tanto da minacciare con il suo comportamento le sorti della guerra e producendo nel suo errare, da un distaccamento all’altro, tutta una serie di conseguenze non previste, compresa la morte di due ragazzini per mano dei fascisti.
Il significato ultimo del romanzo è dunque nella constatazione che ogni azione umana ha sempre le sue conseguenze, anche quando crediamo di essere nel giusto: Milton non mette mai in dubbio la vittoria dei partigiani né quella della possibilità di una democrazia futura; ma sa che in una guerra civile, come quella che sta combattendo, nessuno può considerarsi del tutto innocente, nemmeno lui, che nel tentativo di salvare un amico, provoca involontariamente la morte di due giovanissimi partigiani.
Per Fenoglio ciò che distingue partigiani e repubblichini è, però, proprio questa consapevolezza, il sapersi assumere le proprie responsabilità, con tutto il loro peso, come necessaria conseguenza di una scelta morale reclamata come necessaria e inevitabile per il bene suo e della libertà per la quale sta combattendo. È questo il prezzo da pagare: «ricordati – scrive Fenoglio – che senza i morti, i loro ed i nostri, nulla avrebbe senso» (Il partigiano Johnny, Einaudi, Torino, 1968, cap. 11).
Una consapevolezza drammatica, come drammatiche sono le scelte che in quel frangente storico bisognava fare per porre un discrimine, segnare un confine tra il ‘noi’ e il ‘loro’.
Fenoglio mette così in scena tutta la problematicità di una scelta che, comunque, andava fatta nonostante non ci fosse in quel momento nessuna risposta né assicurazione futura, se non all’interno della Storia stessa, all’interno delle conseguenze che quelle scelte avrebbero avuto sull’Italia del domani.
Concludendo, perché parlare proprio oggi di Letteratura e di Resistenza? Perché probabilmente la prima, la letteratura, ha dato alla storia della Liberazione molto di più di quello che non le abbia dato la storia dell’Italia repubblicana, raccontandola nei suoi risvolti più umani e concreti, aldilà di ogni omologazione e di eroismo, di ogni discorso di vuota retorica, mostrando la Resistenza in tutta la sua intensa umanità: «sentendo com’è grande un uomo quando è nella sua normale dimensione umana», scriveva Fenoglio nel Partigiano Johnny, chiudendo il quarto capitolo. Sarà allora forse la letteratura a salvarci?
A salvare noi e quella parola d’inesauribile segreto che, diceva Saba, giace al fondo?
Che ci insegnerà che ogni nostra azione può avere delle conseguenze di cui bisogna pur prendersi la responsabilità in un’epoca in cui nessuno più vuole farlo?
Che esiste un discrimine preciso e invalicabile tra gli uni e gli altri e che quel confine è sacro, come è sacra la dimensione altra che accoglie i caduti di ogni guerra?

«Il vostro perire – scriveva Andrea Zanzotto nei suoi versi – nel sacro di primavera – mi sembrava la radice stessa di ogni sacro. Anche se per noi certo non lo era».
Il canto lirico è testimonianza, partecipazione dolorosa, intermediario tra il passato e il presente. Ci restituisce il sentimento di un’epoca, il senso di una stagione che ci appare oggi tristemente dissolta in un pericoloso ed esecrabile buonismo che tutto azzera e livella.

Come ci mostrano Vittorini, Pavese, Calvino, Cassola, Fenoglio e molti altri che per ragioni di spazio non ho potuto menzionare, la dimensione umana del dubbio, della molteplicità e perché no, dell’anti-eroismo con l’ammissione della fragilità umana è la sola dimensione che può farci veramente capire come procede la storia, quella con la ‘s’ minuscola, in cui tutti siamo immersi ma verso la quale è necessario oggi saper porre dei confini netti tra chi sa prendersi le proprie responsabilità morali e chi invece non lo fa.

Monica Schettino, laureata in Lettere moderne a Torino nel 2002 con una tesi in Letteratura greca, è ora dottoranda di ricerca presso l’Università di Friburgo (CH); tra i suoi studi, il carteggio tra Achille Giovanni Cagna e Giovanni Faldella, Un incontro scapigliato: carteggio 1876-1927 (Interlinea, 2008) e un saggio monografico su Cesare Vico Lodovici (Società editrice apuana, 2023). È stata docente a contratto dell’Università del Piemonte orientale e dell’Università di Torino. Attualmente collabora con l’Istituto storico per la Resistenza e la società contemporanea nel Biellese, Vercellese e in Valsesia per il quale ha curato l’edizione dell’autobiografia di Anna Marengo, Una storia non ancora finita(2014) e con la Biblioteca F. Serantini Istituto di storia sociale, della Resistenza e dell’età contemporanea della provincia di Pisa. Collabora inoltre con la casa editrice Loescher di Torino e scrive sulle pagine culturali della «Gazzetta di Parma».

Articolo pubblicato nel maggio 2024.




Calcio Sovietico in Toscana

Gli studi che dimostrano il valore del calcio nella ricerca storica sono molti. Augé ha evidenziato il valore antropologico del football e come esso permetta un’identificazione o un’opposizione all’altro. In alcune partite svoltesi in Toscana, l’altro è stato l’Unione Sovietica.
Il calcio russo ha avuto una storia complessa; osteggiato in origine, divenne strumento pedagogico, propagandistico e diplomatico. Fu uno dei campi nei quali poteva essere dimostrata la supremazia socialista, secondo la Pravda divenne “un mezzo efficace per spezzare il blocco imposto dai capitalisti” e avrebbe permesso di “issare la bandiera sovietica nelle menti e nei cuori del popolo”.
Dunque, è difficile ignorare il valore storico delle manifestazioni sportive che hanno coinvolto squadre sovietiche in Toscana. I sovietici vennero in Italia più volte per trascorrere il periodo invernale; la Toscana metteva a disposizione il Centro Tecnico Federale di Coverciano, dove era possibile studiare le innovazioni tecnico-tattiche dell’Occidente. Erano pochi i Paesi dell’avanguardia calcistica disposti a ospitarli, mentre l’Italia e la Toscana potevano offrire la propria competenza e la presenza di molte amministrazioni amiche. La comparazione della partecipazione, dell’organizzazione, della rilevanza sociale delle partite nel corso dei decenni, ci dicono molto sulla percezione del valore e della solidità delle radici del simbolo comunista tra la
popolazione locale. Nel settembre 1955 la Dinamo Mosca giocò allo stadio Artemio Franchi di Firenze un’amichevole con la Fiorentina. La Dinamo era la squadra del Ministero dell’Interno, tra i suoi dirigenti vi erano uomini della Čeka, la polizia politica. Alla fine del secondo conflitto mondiale, la Dinamo venne mandata in tournée in Inghilterra e per diversi decenni dominò il calcio sovietico. Inoltre, nella rosa dei moscoviti vi era il leggendario portiere Lev Jašin. La città si mobilitò per accogliere i sovietici in un clima di festa. I giocatori comunisti vennero ricevuti a Santa Maria Novella con mazzi di garofani e fecero un Grand Tour della città, concludendo con una cerimonia in Palazzo Vecchio. L’evento non fu prettamente sportivo ed è chiaro che ebbe una rilevanza il peso politico degli ospiti. La partita si disputò davanti a 60.000 persone circa e vide la mitica Fiorentina del ’56 imporsi per 1 a 0.
Assume connotati diversi la partita che la nazionale sovietica giocò nel febbraio del 1979 a Prato. Secondo quanto riportato da La Nazione, l’amichevole fu voluta dalla dirigenza del Prato per attirare l’attenzione dell’amministrazione cittadina e dei pratesi sul club, in un match che ebbe poco da dire sul piano puramente sportivo. Quindi la presenza dell’11 sovietico funse da cassa di risonanza e venne ritenuto funzionale da parte della dirigenza. In quell’occasione i sovietici fecero un allenamento a Castelnuovo dei Sabbioni (Arezzo), dove nel 1978 era stato inaugurato un parco intitolato al partigiano sovietico Bujanov. Nel 1988 l’URSS era in preparazione per i campionati Europei e divise il suo ritiro tra Coverciano e la Garfagnana. Sotto la guida tecnica di Lobanovskij disputò alcune amichevoli per prepararsi alla competizione che la vedrà cadere soltanto in finale. Le amichevoli furono disputate con squadre dilettantistiche in quanto la FIGC mise il veto sugli incontri con squadre professionistiche prima dell’amichevole clou a Bari con la nazionale italiana. Dunque, la squadra del pallone d’oro Blochin si ritrovò a dover giocare a Pontassieve e fare appello per trovare qualche altro avversario disponibile e dotato di campo. Il Firenze Ovest, squadra della provincia fiorentina, propose il suo campo in terra battuta e con grande sorpresa i sovietici accettarono. Per gli abitanti di Brozzi fu l’occasione incredibile di vedere una nazionale maggiore sotto casa ma «La Nazione» descrisse così: “Clamorosa gaffe della FIGC, l’URSS costretta a giocare a Brozzi”.
Per i sovietici la partecipazione a match internazionali fu una testa di ponte per disgelare e rafforzare alcune relazioni diplomatiche; questo è evidente nei primi due incontri in analisi. La partita con la Dinamo di Mosca è anche una celebrazione della fratellanza che lega Firenze a Mosca, più che un evento calcistico sembra l’inizio di un interscambio che avrà luogo e si affievolirà nei decenni successivi. Lo vediamo già con la partita della nazionale a Prato; l’invito ai sovietici è già ormai mirante ad avere effetti solo sul raggio locale ed il rimando al ruolo di polo di riferimento assunto da Mosca dopo la Seconda guerra mondiale è già molto più tenue. Si celebra il passato, lontani dai centri amministrativi principali e si cerca di ottenere il massimo dalla presenza di quella che rimane una nazionale prestigiosa in grado di smuovere ancora gli entusiasmi. A Brozzi invece il ruolo politico dell’URSS, se percepito, è addirittura d’ostacolo. Una nazionale maggiore osteggiata al punto che parrebbe un’ospite sgradita e lasciata all’attenzione di una piccola polisportiva. Dalla pompa magna del 1955 alla gaffe del 1988 era evidente che l’URSS aveva perso la sua partita più importante col blocco capitalista.

Emanuele Federico Russo è laureato in Scienze Storiche presso l’Università di Firenze, docente di scuola secondaria di secondo grado, consulente storico e ricercatore presso l’Istituto storico della Resistenza di Pistoia. Ha collaborato alla pubblicazione de “Il Mito Sovietico nel PCI in Toscana” curato da Andrea Borelli (Pistoia, 2023) e ha pubblicato “Prima guerra mondiale e videogiochi, il caso di Valiant Hearts” per Farestoria (vol. 1, 2023) a cura di Edoardo Lombardi.

Articolo pubblicato nel marzo 2024.




Una giornata della Tecnica

4 Maggio 1941. É un giorno che cade di domenica, ma le scuole sono aperte, i laboratori funzionanti, i corridoi percorsi da torme di visitatori. Non è una situazione che si verifica dappertutto: chiusi sono i licei, e così le scuole elementari e le nuove scuole medie. Ad aprire le porte sono soltanto istituti tecnici, scuole d’avviamento e scuole tecniche. Così infatti il governo fascista, e soprattutto il Ministro dell’Educazione Nazionale Giuseppe Bottai, avevano programmato di celebrare la ricorrenza della neonata “Giornata della Tecnica”, che varata nel novembre 1939, aveva conosciuto la sua prima celebrazione il 2 Giugno 1940. A sancirne la nascita, un radiodiscorso del Ministro, pronto a evidenziare il ruolo che la manifestazione avrebbe dovuto assumere nel convincere giovani e famiglie a preferire
l’istruzione tecnica e professionale a quella liceale verso cui, asseriva, troppo alto continuava a essere il numero di iscritti.
Se istruzione tecnica e professionale appaiono unite in questa manifestazione, questo non vuol dire che non costituissero, oggi come allora, due percorsi nettamente divisi. Più lunga e consolidata la vicenda temporale dell’Istituto tecnico: sorto con la riforma Casati del 1859, era stato riformato dalla Legge Gentile che aveva previsto, come collegamento tra scuola elementare e Istituto tecnico superiore, un corso intermedio (denominato Istituto tecnico inferiore) di quattro anni dove centrale appare lo studio del latino. Frastagliato appare invece il percorso dell’istruzione professionale, che fino al 1928 fu sempre prerogativa di Ministeri di carattere industriale ed economico: basti qui sapere che le scuole di avviamento propriamente dette sorsero nel 1929 dalla fusione tra il corso post-elementare (sesta, settima, ottava elementare), le scuole complementari e le scuole professionali gestite fino ad allora dal Ministero dell’Economia Nazionale.
Lungi dal rivelarsi come un cruccio di natura esclusivamente fascista, le preoccupazioni ministeriali, così simili a quelle che avevano motivato il varo della riforma Gentile, traevano le proprie radici da un sostrato primo-novecentesco e liberal-conservatore – che, già in età giolittiana, innalzava alti lai contro la pur moderata crescita di iscritti che le scuole post-elementari, allora frequentate da un selezionatissimo numero di studenti (mai più del 7% delle coorti di età corrispondente), registrarono in quegli anni. Erano ansie destinate a saldarsi, e a giustificare, molti punti della “Carta della scuola” che proprio in quei mesi, dopo aver ottenuto l’approvazione del Gran Consiglio, Bottai si stava apprestando a concretizzare – invero con conseguenze assai limitate, se pensiamo che di tutta l’architettura prospettata solo la scuola media vide la luce, con il Regio Decreto 1° luglio 1940. Proprio l’istruzione media, e in particolare quella tecnico-professionale, era il principale oggetto delle attenzioni della “Carta”. Da una parte, infatti, la nuova scuola media avrebbe unificato i primi tre anni del ginnasio, dell’istituto tecnico inferiore e
dell’istituto magistrale; caratterizzata dalla corposa presenza dello studio del latino, si presentava come una scuola destinata alle élite, come dimostrava anche la presenza di un esame di ammissione tutt’altro che formale. Dall’altra, la scuola di avviamento professionale, teoricamente destinata alle fasce socialmente ed economicamente più deboli della società, sarebbe stata “sdoppiata” da due nuove scuole, entrambe di durata triennale: la scuola professionale, da fondarsi nelle città medio-grandi, e la scuola artigiana, che sarebbe stata invece inaugurata in tutti gli altri centri urbani e rurali. Più limitate erano le prospettive che questi due istituti, in confronto alla scuola di avviamento professionale, aprivano: mentre i licenziati dalla scuola professionale potevano proseguire i propri studi soltanto iscrivendosi alla biennale scuola tecnica, gli iscritti alla scuola artigiana non disponevano di ulteriori canali di formazione. Passati, come documentano gli Annuari Statitici Italiani del 1932 e del 1943, da 67224 iscritti nel 1930 (dato comprensivo delle scuole soppresse nel 1929 per dar luogo agli avviamenti) a 288558 iscritti nel 1941, gli avviamenti erano diventati, in quegli anni, l’istituto di istruzione media maggiormente frequentato in terra italica. Proprio per questo motivo, il disegno assumeva una caratura politica e sociale marcatamente conservatrice, che andava a intaccare la (pur ridotte) potenziale mobilità sociale assunta dalla scuola di avviamento professionale, che, attraverso la frequenza di un anno di corso integrativo oppure di un esame, consentiva l’iscrizione all’Istituto tecnico – e, in misura nettamente minoritaria, all’Istituto magistrale e persino al Liceo scientifico.
L’istituzione della “Giornata della Tecnica” coincideva dunque con un periodo delicato per il Ministero, coinvolto, nonostante le contingenze belliche, nell’attuazione di una riforma prima procrastinata, poi accantonata in misura definitiva. È sotto la luce di questa contingenza che possiamo leggere il corposo fondo che, nel 1941, i Provveditorati, dietro impulso governativo, produssero, editando monografie incentrate sullo sviluppo dell’istruzione tecnico-professionale nella propria provincia. Un corpus bibliografico che, nella generale carenza di informazioni disponibili per questo segmento scolastico, si rivela inaspettatamente prezioso: l’intento propagandistico, chiaramente evidente e anzi rimarcato anche dai documenti ufficiali e dalle riviste di Regime, consente infatti di vagliare quali, secondo Provveditori e Presidi, costituivano le caratteristiche più salienti delle scuole professionali da loro dirette, e soprattutto quale ruolo dovevano giocare nell’assetto socio-economico italiano: quello di preservare un ordine sociale da tutelare nella sua fissità? Oppure quello di favorire, nel caso di alunni particolarmente meritevoli, la
prosecuzione degli studi? Non derogano a questa diade le monografie dei Provveditorati toscani. Corsi integrativi di collegamento tra scuole di avviamento e istituti tecnici, innanzitutto, sono segnalati soprattutto negli istituti agrari, spesso privi, a differenza dei loro omologhi, di un corso inferiore: corsi integrativi sono infatti in funzione presso gli Istituti agrari di Pescia e Grosseto. Anche gli episodici accenni al collocamento dei licenziati e alla provenienza sociale degli studenti sembrano tradire un quadro socialmente composito: degli ex- studenti che avevano frequentato negli ultimi dieci anni la scuola di avviamento “Margaritone” di Arezzo, il 20,8% degli studenti continuava gli studi; tra gli iscritti alla scuola di avviamento di Foiano della Chiana, il 20% proviene da famiglie di commercianti e industriali e il 15% da nuclei di impiegati. È un quadro composito che convive con le dissonanti sfaccettature con cui, nel presentare a famiglie e funzionari ministeriali le loro scuole, i Presidi toscani, similmente ai colleghi del resto d’Italia, mostrano di nutrire concezioni differenti, a volte dissonanti, sulle prospettive che le scuole di avviamento avrebbero dovuto aprire ai loro licenziati. Se infatti a Chiusi della Verna il Preside afferma che «Numerosi sono gli alunni usciti da questi tre soli anni di avviamento i quali non interrompono i loro studi, ma li proseguono, frequentando le Scuole Tecniche e gli istituti Tecnici Industriali, animati dal desiderio di perfezionare le loro conoscenze, desiderio sorto in parte accanto alle macchine di questa scuola», per converso, il collega della scuola di avviamento “Giuseppe Giusti” di Pescia rimarca come «tale scuola della durata di tre anni ha carattere eminentemente popolare, ed accoglie, subito dopo la quinta elementare, i figli dei lavoratori e della piccola borghesia per avviarli ad un mestiere o ad un impiego s’intende di natura modesta». Emerge qui, nuovamente, la dimensione di contenimento sociale che l’istruzione professionale, fin dalla metà del XIX secolo, ha assunto negli occhi e nella mente di classi dirigenti per le quali le occasioni di mobilità sociale inducevano a preoccupazione e spavento.

Chiara Martinelli è docente a contratto in Storia dell’educazione presso l’Università degli studi di Firenze, dove collabora con il Laboratorio di Public History of Education. Membro della segreteria editoriale di “Rivista di storia dell’educazione” e della redazione della rivista “Farestoria”, è, dal 2016, parte del direttivo dell’Istituto storico della Resistenza di Pistoia. Ha all’attivo numerose pubblicazioni in storia dell’istruzione professionale, memorie scolastiche e letteratura per l’infanzia. Tra le sue ultime pubblicazioni, segnaliamo “Educare alla Tecnica. Istituti tecnici e professionali alla “Giornata della Tecnica” (McGraw Hill, 2023).

Articolo pubblicato nel febbraio 2024.




Uno scritto giovanile di Ferdinando di Targetti

Proponiamo, con lievi modifiche, ai lettori di ToscanaNovecento il testo di un intervento tenuto il 7 dicembre 2023 presso la Biblioteca Roncioniana di Prato per illustrare il contenuto di uno scritto giovanile di Ferdinando Targetti.

Ferdinando Targetti è un nome ben noto a chi si occupa di storia del movimento operaio e socialista. Nato a Firenze nel 1881, Targetti, pur appartenendo ad una famiglia di grandi industriali (uno dei suoi fratelli, Raimondo, sindaco della città all’epoca del regicidio, fu anche presidente della Confindustria), maturò assai presto la scelta di campo socialista, lasciando la sua quota in azienda ad un altro fratello e vivendo solo dei proventi della professione di avvocato. Fu il primo sindaco socialista di Prato (1912-1914) e venne poi eletto deputato alle politiche del 1919. Antifascista fermo e coerente, scampò per caso alla morte in occasione della famigerata «notte di San Bartolomeo» fiorentina (3 ottobre 1925) e dovette poi trasferirsi a Milano ed in Svizzera, ma non cessò mai di battersi contro il regime. Nel secondo dopoguerra fu vicepresidente della Costituente e successivamente della Camera dei deputati (carica dalla quale si dimise nel 1953 in segno di protesta contro la cosiddetta «legge truffa»). Negli anni del conflitto egli aveva maturato il convincimento che l’unità proletaria, intesa come costituzione di un partito unico dei lavoratori comprendente socialisti e comunisti, fosse la condizione imprescindibile per la difesa della pace, la conquista del potere e la realizzazione del socialismo. Socialismo che per lui significava superamento del capitalismo, il che spiega il suo rifiuto del cosiddetto centrosinistra organico e l’adesione al Partito socialista italiano di unità proletaria nel 1964. Morì a Milano quattro anni dopo.

L’opuscolo che costituisce il tema di questo intervento fu pubblicato da Targetti nel 1902, all’età di ventun anni: a quanto ci risulta, la Biblioteca Roncioniana è l’unica in tutta Italia a possederne una copia. Si tratta di uno scritto d’occasione – composto per le nozze della cugina Emma Indri col professor Mariano Desideri – che si intitola La nuova tendenza della nostra letteratura. Appunti critici: in esso Targetti delinea gli stadi di sviluppo della letteratura italiana dal Risorgimento in poi.

Targetti comincia con l’osservare che, nel periodo risorgimentale, la letteratura italiana aveva avuto un «carattere eminentemente politico», dato che il problema della cacciata dello straniero e della realizzazione dell’unità nazionale era allora di gran lunga il più importante ed occupava anche la mente e l’animo degli artisti.
Conclusosi il Risorgimento – osserva l’Autore – e venuta meno la tensione ideale che lo aveva animato, la nostra letteratura attraversò un periodo di crisi, caratterizzato da un’evidente carenza sul piano dei contenuti e dal prevalere di motivi intimistici e di atmosfere languidamente sentimentali: Aleardo Aleardi, Giovanni Prati, Giacomo Zanella (cui si deve l’ode Sopra una conchiglia fossile) ed i tanti epigoni di Alessandro Manzoni sono i rappresentanti di questa fase di decadenza che indusse il pubblico italiano a rivolgersi ad opere di autori stranieri, in primo luogo francesi (ed infatti, in quel torno di tempo, non era infrequente trovare nella biblioteca di tante famiglie, anche di livello culturale non elevato, opere di autori transalpini, magari in un’edizione a dispense, a cominciare dai Miserabili di Victor Hugo). Dalla letteratura francese – prosegue Targetti – presero spunto anche i poeti ed i romanzieri italiani, che cominciarono a svolgere nuovi temi traendo ispirazione dai fatti concreti ed umani ed inaugurando così una tendenza al reale che diede nerbo alle loro opere. Fra gli esempi del nuovo indirizzo letterario spiccava il nome di Giovanni Pascoli, che sentì il bisogno di ispirarsi ad avvenimenti correnti (come, ad esempio, la morte di William Ewart Gladstone – nella poesia La quercia d’Hawarden – o l’assassinio di Elisabetta d’Austria, avvenuto nel 1898 per mano dell’anarchico Luigi Lucheni – nella poesia Nel carcere di Ginevra, contenuta in Odi e inni) ma anche il romanzo (con Piccolo mondo moderno di Antonio Fogazzaro, Il marchese di Roccaverdina di Luigi Capuana ed Il vecchio della montagna di Grazia Deledda) palesò la stessa tendenza realistica. Da questo filone letterario di matrice francese, ispirato ai principi del realismo, scaturì poi un filone più propriamente sociale: lo spettacolo fornito dallo sfruttamento degli operai e dei contadini fece nascere in alcuni scrittori un vero e proprio odio per la società, che si tradusse in un aperto invito alla rivolta, mentre in altri generò un profondo desiderio di pace, di apertura verso le esigenze del popolo ispirata all’idea di fratellanza. Del primo gruppo facevano parte Giovanni Cena (Gli ammonitori), Lorenzo Stecchetti (Postuma) e Mario Rapisardi (Lucifero), del secondo Ada Negri, Annie Vivanti ed alcuni minori. Tutto questo – concludeva l’Autore – induceva a ritenere che in futuro la letteratura italiana avrebbe avuto «un contenuto in prevalenza sociale» e che «il valore delle manifestazioni artistiche [sarebbe stato] … determinato dall’utilità sociale».

Lo scritto di cui parliamo non è particolarmente originale e contiene delle affermazioni opinabili (ovviamente il fatto che un artista parteggi per i più deboli e che le sue opere abbiano un contenuto sociale non è di per sé sufficiente a garantire la qualità della sua produzione: Targetti trascura a questo proposito l’insegnamento di Francesco De Sanctis – che certamente non ignorava – a proposito dell’arte come contenuto formalizzato, come perfetta sintesi di contenuto e forma), ma, cionondimeno, esso è di grande interesse per lo storico. In parte perché esso costituisce una prova della vastità della cultura e degli interessi di Targetti (che qui non si occupa né di politica né di diritto, come in altri suoi lavori), ma soprattutto perché consente di far luce su un punto finora rimasto oscuro nella biografia politica del Nostro, cioè il momento della sua adesione al socialismo: nell’opuscolo, infatti, non solo Targetti mostra di apprezzare l’indirizzo realistico di parte della nostra letteratura, in accordo con i principi del marxismo (che dà una valutazione positiva dell’arte realistica in quanto essa, col suo contenuto di verità, rappresenta la realtà com’è effettivamente e non come la dipinge la classe dominante), ma afferma anche con chiarezza che la letteratura stessa sarebbe stata in futuro strettamente legata alle trasformazioni socioeconomiche del Paese, rifacendosi con ogni evidenza a quanto sostenuto da Marx e da Engels a proposito del rapporto fra struttura e sovrastruttura. In altre parole, l’opuscolo in questione è un lavoro scritto da un marxista: si può pertanto affermare con ragionevole certezza che nel 1902 Targetti, poco più che ventenne, avesse già maturato la sua adesione al marxismo e, verosimilmente, al Partito socialista. Il documento posseduto dalla Biblioteca Roncioniana consente quindi di aggiungere un altro importante tassello alla storia del movimento socialista in città.

Articolo pubblicato nel gennaio 2024.




Il nuovo inventario dell’Archivio dell’Istituto Storico della Resistenza Senese e dell’Età contemporanea

Nelle prossime settimane sarà presentato al pubblico il nuovo Inventario dell’Archivio dell’Istituto Storico della Resistenza Senese e dell’Età contemporanea – ISREC (consultabile qui), realizzato con il patrocinio del Ministero della Cultura, e già disponibile e scaricabile in formato PDF dal sito istituzionale, nella sezione ‘Archivio e Biblioteca’. Questo testo nasce dall’esigenza di aggiornare e dare una nuova forma a quello che era stato redatto al momento della catalogazione curata da Antonietta Cutillo e Cecilia Rosa nel 1999. Da allora l’Archivio dell’ISRSEC ha acquisito nuova documentazione e preso in deposito diversi fondi archivistici di persona, donati dai diretti interessati o da eredi, e catalogati via via da Aldo Di Piazza e da altri collaboratori dell’Istituto, in singoli file di lavoro, disponibili presso la Sala studio dell’Ente. Il progetto iniziato tra la fine del 2022 ed il 2023, si è prefisso lo scopo di compiere una revisione di tutti questi cataloghi, frutto del lavoro di mani diverse, ed elaborati in tempi diversi, al fine uniformare il testo e di ottenere uno strumento di ricerca completo ed esaustivo, ma di facile lettura per l’utente che fosse interessato a compiere ricerche all’interno del vasto materiale che compone l’Archivio storico dell’Istituto.

Il risultato è un inventario che si compone della descrizione dei documenti raccolti dall’ISREC nel corso della sua attività, prevalentemente materiali, in originale ed in copia, relativi agli eventi che hanno interessato Siena durante il Governa fascista, la Seconda Guerra Mondiale e la lotta di Resistenza partigiana; la serie che risulta senz’altro essere quella più consistente, è quella che raggruppa la documentazione prodotta dalle Brigate partigiane e dei Gruppi di combattimento, in particolare quella relativa all’attività della Brigata Garibaldi “Spartaco Lavagnini”, operante con i suoi distaccamenti in buona parte della provincia senese. Il catalogo passa poi a descrivere gli archivi aggregati, come ad esempio quelli che raccolgono i documenti relativi all’attività dell’ANPI, a partire dal 1945, e dell’ANPIA, ma soprattutto archivi di persona. Questa sezione è ampia e composita: alcuni fondi raccolgono poche carte specificatamente legate alla Resistenza e all’attività politica – come quelli di Giorgio Salvi e di Giovanni Guastalli –, altri molto consistenti raccontano anche la vita privata e lavorativa dei loro produttori. Così incontriamo, uno dopo l’altro, gli archivi personali del libraio ed editore senese Nello Ticci, di Vittorio Meoni – unico sopravvissuto all’eccidio del Montemaggio, ma anche presidente per molti anni dell’Istituto Storico della Resistenza Senese e dell’ANPI provinciale di Siena –, di Sergio Vieri – partigiano e in seguito esponente del Partito Comunista Italiano e dirigente della CGIL –, di Martino Bardotti – Deputato della Repubblica sotto le fila della Democrazia Cristiana –, e di Fortunato Avanzati – partigiano, presidente dell’ANPI provinciale di Siena, assessore al Comune di Siena e membro della Segreteria della Federazione senese del PCI. I documenti raccolti in questa serie di archivi aggregati sono variegati e ricchi di contenuti; lo studio e l’approfondimento di questi materiali possono fornire allo studioso della storia contemporanea del territorio senese – e non solo- ampi spunti di indagine.

Questo nuovo strumento di ricerca, al momento consultabile unicamente in formato digitale, ha lo scopo di guidare il ricercatore a comprendere la quantità di tematiche diverse, che è possibile approfondire con lo studio attento di questi documenti, e di dare conto della consistenza e di una sintetica descrizione dei contenuti, per un primo approccio dell’utente all’Archivio. Una guida insomma, che non ha l’intento di descrivere analiticamente, carta per carta, tutto quello che si conserva presso l’Istituto storico della Resistenza senese, ma di invogliare gli studenti delle scuole, gli universitari, gli studiosi che si occupano della storia recente di questo territorio, a visitare questo archivio così ricco di informazioni, che raccontano episodi, più o meno noti, del nostro recente passato.