«Ecco ancora una volta la voce solenne dell’Etruria antica nella Maremma». Note sull’uso politico della storia antica nella Grosseto fascista [1]

«I nostri localisti sparirebbero, come gruppo organico,

se fosse possibile dimostrare, ciò che è augurabile,

che gli Etruschi non sono mai esistiti»[2]

 

La colonna romana collocata nel 1938 sul Bastione Mulino a vento,, oggi collocata nel Giardino dell’Archeologia

Il 24 maggio 1938 il prefetto di Grosseto, Enrico Trotta, su sollecitazione del R. Provveditore agli studi Niccolò Piccinni, inviò una lettera alla Presidenza del Consiglio dei ministri per invitare ufficialmente il ministro dell’Educazione nazionale Giuseppe Bottai a presenziare ad alcune cerimonie organizzate in diversi centri della provincia. Con ogni probabilità, l’invito mirava a richiamare l’attenzione del ministro su una grave anomalia: a Grosseto mancava una sede autorizzata a svolgere gli esami di abilitazione magistrale e di maturità classica, circostanza che la rendeva l’unico capoluogo di provincia in Italia in tale condizione. Si trattava, come si sottolineava, di una «questione di prestigio» per una città in rapida crescita demografica, ormai avviata verso la trasformazione da borgo rurale a moderno centro di servizi, nonché di un «riconoscimento di una legittima aspettativa dei cittadini, delle autorità e delle gerarchie fasciste»[3].

Il viaggio, previsto «possibilmente verso la metà del prossimo giugno», avrebbe visto la partecipazione del ministro all’«inaugurazione di oltre duecento gagliardetti delle scuole elementari» e alla «posa della prima pietra dell’Istituto tecnico minerario di Massa Marittima» che coronava «un’annosa aspirazione di quella città» a dotarsi di un istituto che formasse i quadri della maggiore industria del territorio. Tra le due iniziative, era poi stata programmata una cerimonia dall’alto valore simbolico: «l’inaugurazione di una colonna romana sulle mura medicee del capoluogo, in ricordo della celebrazione del bimillenario di Augusto»[4].

La mancata partecipazione del Ministro – impossibilitato a raggiungere la provincia per i «troppi impegni per l’anno in corso»[5] – non impedì tuttavia il regolare svolgimento della celebrazione augustea, il 17 di giugno, che si aprì con un’orazione pubblica del prof. Francesco Moggio del R. Liceo ginnasio “Carducci-Ricasoli” e vide la consegna «da parte delle scuole di una colonna romana, tratta dagli scavi dell’antica Roselle ed eretta sui bastioni della città, per significare la continuità dell’idea di Roma da Augusto a Mussolini», accompagnata dall’esecuzione, da parte del coro dell’Istituto magistrale, «dell’inno a Roma e degli altri della Patria fascista»[6].

Espressione di quella tendenza all’occupazione del tempo sociale, all’imposizione di un nuovo senso della Storia e alla riorganizzazione del calendario civile precocemente espressa dal regime[7], la celebrazione del bimillenario della nascita di Augusto costituì «l’apice dell’identificazione del fascismo con la romanità»[8]. A seguito della conquista dell’Etiopia, il regime aveva infatti accentuato la propria identificazione con un immaginario di tipo imperiale, elaborato e diffuso anche grazie all’opera di storici e intellettuali militanti, che contribuirono a trasformare Mussolini in «un vero e proprio alter ego di Augusto»[9].

Diversamente da altri anniversari legati a personaggi della res publica, come quelli dedicati alla nascita di Orazio (1930) e di Virgilio (1935), il bimillenario augusteo fu accompagnato da un articolato programma di celebrazioni. Sul piano nazionale esso trovò la sua espressione più evidente nell’inaugurazione della Mostra Augustea della Romanità, aperta a Roma il 23 settembre 1937 in concomitanza con la riapertura della Mostra della Rivoluzione fascista[10]. Parallelamente, a livello locale furono promosse iniziative di varia natura, nelle quali si realizzarono le più disparate pratiche di «appropriazione/reinvenzione della storia di Roma» in funzione propagandistica[11].

Area degli scavi archeologici di Roselle (Credits: https://museitoscana.cultura.gov.it)

A Grosseto, come si è visto, le celebrazioni assunsero la forma di una vera e propria riconsacrazione di un reperto archeologico elevato a simbolo della romanità. Ciò serviva a richiamare la filiazione diretta del capoluogo della Maremma dall’antica Roselle, oggetto di scavi nella seconda metà degli anni Venti sull’onda di un crescente interesse storico e identitario. Importante centro della dodecapoli etrusca, poi conquistata dai Romani e ulteriormente sviluppatasi a cavallo tra il III e il II secolo a.C. – quando fornì grano e legname per la flotta di Publio Cornelio Scipione diretta sulle coste cartaginesi – Roselle era divenuta sede vescovile tra il IV e il V secolo d.C. Fu progressivamente abbandonata dai suoi abitanti nei secoli successivi, e nel 1138 la cattedra vescovile venne trasferita nel borgo di Grosseto, sorto lungo la via Aurelia in una posizione più facilmente difendibile dagli attacchi provenienti dal mare[12].

Tra il 1937 e il 1938, parallelamente alle iniziative promosse in occasione del bimillenario augusteo, videro la luce alcuni contributi storico-archeologici dedicati al capoluogo e a diversi centri della provincia di Grosseto. Si trattava di lavori generalmente di modesto valore scientifico e poco inclini a confrontarsi con la ricerca accademica, ma che ben si prestavano a essere utilizzati come strumenti di celebrazione della romanità fascista[13]. Gli autori appartenevano ai diversi filoni della cultura erudita locale e avevano aderito con anticipo e convinzione alle politiche culturali del regime; la loro attenzione era orientata – per usare un’espressione di Luciano Bianciardi – verso il «problema delle origini»[14], in contrasto con l’approccio degli intellettuali più giovani, impegnati invece a costruire, attraverso la letteratura e le arti figurative, l’immagine di una provincia “redenta” dalla bonifica integrale e destinata ad assumere un ruolo di rilievo nella cultura nazionale[15].

A. Salvetti, 1929, Ritratto di Monsignor Antonio Cappelli, olio su tela, conservato nel Museo di arte sacra della Diocesi di Grosseto

Tra le figure più rilevanti di questo gruppo spiccava Antonio Cappelli – il «canonico dottissimo e sordo» ricordato da Geno Pampaloni[16] – punto di riferimento della cultura grossetana. Cappelli dirigeva il Museo civico, il Museo diocesano e la Biblioteca Chelliana, oltre al “Bollettino della Società storica maremmana”, rivista che nei primi anni aveva ospitato contributi di Gioacchino Volpe e del giovane Ranuccio Bianchi Bandinelli, prima di trasformarsi, nel 1931, nell’organo del locale Istituto fascista di cultura[17]. Fu proprio Cappelli a impegnarsi con particolare costanza nella costruzione di una mitologia storica fondativa del capoluogo, incentrata soprattutto sul periodo medievale[18].

Assai più attento agli studi e alla divulgazione delle più recenti scoperte archeologiche era il pubblicista Pietro Raveggi, fondatore del Civicum antiquarium annesso alla biblioteca di Orbetello e, dal 1936, membro della locale Commissione propaganda. A lui si devono ricerche sulla città lagunare, su Ansedonia-Cosa, Talamone e sull’area meridionale della provincia, caratterizzate da un livello scientifico più rigoroso rispetto alla produzione coeva[19]. Come Cappelli, Raveggi ricopriva da molti anni l’incarico di Regio ispettore onorario per le antichità e l’arte nella provincia, funzione che gli fu confermata proprio nell’anno del bimillenario augusteo[20].

Lo studioso che nel biennio 1937-1938 si impegnò più sistematicamente nella valorizzazione della romanità in chiave fascista – espressione di quel «filone erudito più attento alla retorica di campanile che al rigore della ricerca»[21] – fu tuttavia Adone Innocenti, autore di due contributi dedicati a Roselle. In un breve articolo, L’antica via Aurelia attraverso il territorio rosellano, egli ripercorreva la genesi di «una delle più famose e magnifiche strade romane», insistendo sulla sovrapposizione di parte del suo tracciato con un’arteria più antica che collegava Roselle e Vetulonia: «Ecco ancora una volta la voce solenne dell’Etruria antica nella Maremma, che vide le legioni romane marciare sulle strade consolari al cospetto del “Mare nostrum” solcato dalla potenza marinara di Roma»[22].

Come si evince da questo testo, anche per gli intellettuali locali più allineati all’ideologia fascista appariva molto complesso celebrare la presunta romanità di Grosseto senza far riferimento alla persistenza di un radicato “sostrato etrusco” che, fin dalla metà dell’Ottocento, era divenuto un elemento costitutivo dell’identità maremmana[23] inizialmente condivisa dalle élites cittadine e, in seguito, grazie al crescente numero di scoperte archeologiche, divenuto patrimonio della cittadinanza intera[24].

Il canonico Giovanni Chelli

A conferma di ciò – e riproponendo una polemica, di ascendenza sette-ottocentesca, nei confronti di Roma e della sua eredità storica – alcuni intellettuali cittadini, ancora alla fine degli anni Venti, continuavano a contrapporre etruschi e romani, richiamandosi alla narrazione codificata dal canonico Giovanni Chelli nel 1849, fondatore del museo e della biblioteca cittadini, il quale accusava i Romani di aver sfruttato in modo irrazionale le risorse naturali e di aver compromesso l’equilibrio ambientale della regione[25].

Un esempio significativo di tali frizioni, che ostacolarono sul piano locale la completa assimilazione degli Etruschi all’interno del «mito unitario della romanità»[26], è offerto dal fascicolo dedicato a Grosseto della collana Cento città d’Italia illustrate, pubblicato sul finire degli anni Venti da Sonzogno. Riflettendo sulla decadenza delle città etrusche e, più in generale, della Maremma, l’autore del saggio, il preside del R. Liceo-ginnasio “Carducci Ricasoli” Enrico Fatini, scriveva:

Cento città d’Italia illustrate, numero dedicato a Grosseto

Forse giova pensare che i Romani abbiano incontrata accanita resistenza nell’assoggettare questo popolo generoso e fiero, e però si siano mostrati inesorabili con esso, sino a disperderne la memoria per poterne soffocare con questa ogni anelito di libertà. Sotto i Romani, il paese, trascurato e disertato, iniziò il suo disfacimento[27].

Queste dinamiche legate all’identità etrusca non si spiegano soltanto in termini di continuità culturale. Dal canto suo, il regime fascista aveva promosso, a partire dal 1925, «un processo di istituzionalizzazione dello studio degli Etruschi» sul piano nazionale: dalla creazione della prima cattedra di Etruscologia all’Università di Roma, alla convocazione dei primi convegni nazionali, fino all’organizzazione dell’Istituto di studi etruschi[28]. Il fascismo mirava a individuare nel popolo etrusco l’origine di un primigenio laboratorio dell’italianità, che avrebbe trovato pieno compimento nella civiltà romana; dal punto di vista “razziale”, gli Etruschi venivano inoltre considerati l’anello iniziale di una continuità di sangue e di stirpe che, attraverso Roma, conduceva linearmente all’Italia di Mussolini, respingendo ogni ipotesi relativa a una loro presunta origine non autoctona.

Ascia bipenne rinvenuta nella c.d. Tomba del Littore a Vetulonia nel 1898

A sostegno di tale genealogia veniva spesso richiamata l’origine etrusca del simbolo stesso del regime: il fascio littorio, la cui legittimazione archeologica era affidata al ritrovamento, avvenuto a Vetulonia nel 1898, di un’ascia bipenne racchiusa da lamine in metallo rinvenuta nella cosiddetta Tomba del Littore[29].

Sul piano locale, l’idea di una filiazione diretta tra l’Etruria e la “Terza Roma” mussoliniana trovò terreno fertile tra gli intellettuali coinvolti nell’organizzazione della cultura e della propaganda. Come scriveva Pietro Raveggi a proposito della città di Heba, «il problema etrusco si confonde con quello delle origini stesse della civiltà italica» e solo grazie al fascismo e al Duce era stato possibile «dar vita e forma a questo rifiorente culto verso la nostra antica tradizione»[30].

Nel 1943 si ebbe invece un intervento culturale di più ampio respiro, promosso direttamente dal provveditorato agli studi. In quell’anno venne infatti avviata la pubblicazione, a cura dello stesso provveditorato, di una collana di monografie sugli etruschi da distribuire nelle scuole medie della provincia. Nella Premessa del primo volume, ristampa di una ricerca dell’etruscologo Pericle Ducati del 1933, il provveditore Ernesto Lama sottolineava il ruolo primigenio della civiltà etrusca nella genealogia italica:

gli Etruschi potrebbero rivendicare una precisa funzione, oltre che nell’etnogenesi italiana, anche nella formazione storica di Roma, che dalla cultura e dalla potenza degli Etruschi trasse efficaci elementi, specie nel primo periodo, per la sua grandiosa costruzione[31]

Successivamente Lama si rivolgeva agli alunni della Maremma, motivando le ragioni dell’iniziativa editoriale con queste parole, che richiamavano la necessità di integrare il piano dell’identità locale e di quella nazional-patriottica:

Il fascino e l’ansia che sospingono l’odierna Maremma a ricercare l’origine della sua gente nel proprio sottosuolo, disseminato di tombe e di avanzi gloriosi, sembra perpetuare una volontà di potenza giammai estinta, oltre che costituire una nobile rivendicazione dello spirito severo degli antichissimi padri, della loro vita operosa ed espansiva, delle loro molteplici e gloriose attività. Portare un qualche contributo a questa nobile aspirazione dei Maremmani e, nello stesso tempo, chiarire, precisare e divulgare problemi di cultura che valgano ad illuminare la perenne gloria legata in ogni epoca, sin dalle antichissime età, alla storia d’Italia, sono i motivi e le finalità che hanno ispirato questa raccolta di brevi monografie, la cui pubblicazione si inizia in un momento fatidico ed augurale della nostra Italia, come per trarre dal profondo della storia gli auspici per l’avvenire[32].

In conclusione, appare evidente come già in epoca fascista il culto della romanità fascista non avesse trovato, nel marginale contesto sociale e culturale grossetano, un terreno realmente fertile. Da questa discrepanza, si avviò così una dinamica destinata a emergere con particolare nettezza nel secondo dopoguerra, quando, tanto nell’ambito archeologico quanto nell’opinione pubblica locale, si sarebbe progressivamente consolidata una tradizione filoetrusca, mentre il disinteresse per l’eredità romana sarebbe risultato sempre più evidente, nonostante la presenza sul territorio di scavi di grande rilievo[33]. La forte identità etrusca della Maremma, costruita dalle élite intellettuali cittadine fin dall’Ottocento, non solo resistette alle pressioni ideologiche del regime, ma finì anzi per rimodulare almeno in parte e secondo una logica di continuità locale, la stessa ricezione della politica culturale fascista.

Note

[1] L’autore ringrazia Michele Gandolfi, Adolfo Turbanti ed Elena Vellati per aver letto e commentato la prima stesura di questo contributo.

[2] Luciano Bianciardi, I localisti in «La Gazzetta», 13 settembre 1952 ora in Id., Tutto sommato. Scritti giornalistici 1952-1971, vol. 1, ExCogita, Milano 2022, pp. 101-102.

[3] Archivio di Stato di Grosseto (ASG), R. Prefettura, Gabinetto, b. 690, lettera del prefetto Trotta alla Direzione generale dell’Istruzione media classica del ministero dell’Educazione nazionale, 26 aprile 1938. Sul peculiare sviluppo sociale e urbanistico di Grosseto si veda Gian Franco Elia, Città malgrado. Profilo dello sviluppo urbano, in Simone Neri Serneri, Luciana Rocchi (a cura di), Società locale e sviluppo locale. Grosseto e il suo territorio, Carocci, Roma 2003, pp. 105 e ss.

[4] ASG, R. Prefettura, Gabinetto, b. 691, lettera del prefetto Trotta alla Presidenza del Consiglio dei ministri, 24 maggio 1938.

[5] ASG, R. Prefettura, Gabinetto, b. 691, lettera del Ministro Bottai al prefetto Trotta, 10 giugno 1938.

[6] ASG, R. Prefettura, Gabinetto, b. 691, invito per la celebrazione del bimillenario augusteo, 14 giugno 1938.

[7] Cfr. Piergiorgio Zunino, L’ideologia del fascismo. Miti, credenze e valori nella stabilizzazione del regime, Il Mulino, Bologna 1985, pp. 63-129; Claudio Fogu, The Historic Imaginary: Politics of History in Fascist Italy, Toronto University Press, Toronto 2016; Paola S. Salvatori (a cura di), Il fascismo e la storia, Edizioni della Normale, Pisa 2020.

[8] Aristotle Kallis, “Framing” Romanità: The Celebrations for the Bimillenario Augusteo and the Augusteo-Ara Pacis Project, in “Journal of Contemporary History”, vol. 46, n. 4, 2011, pp. 809-831 [traduzione mia].

[9] Andrea Giardina, André Vauchez, Il mito di Roma. Da Carlo Magno a Mussolini, Laterza, Roma-Bari 2000, p. 248.

[10] Cfr. Alessandro Cavagna, Il «benefico impulso di Roma»: la Mostra augustea della romanità e le province, in Paola S. Salvatori (a cura di), Il fascismo e la storia, cit., pp. 51-72.

[11] Cfr. Piergiovanni Genovesi, Propaganda di regime tra centro e periferia. Una celebrazione “locale” della romanità fascista, in “SPES”, n. 9, 2019, pp. 71-91

[12] Doro Levi, Il Museo di Grosseto e gli scavi di Roselle, “Maremma. Bollettino della società storica maremmana”, n. 3, 1926-1927, pp. 81-87.

[13] Cfr. ad esempio Adone Innocenti, Roselle e il suo territorio, Tipografia Fascista La Maremma, Grosseto 1938; Ildebrandino Rosso, Saturnia, Tipografia Fascista La Maremma, Grosseto 1938; Pietro Raveggi, Ansedonia, Tipografia Fascista La Maremma, Grosseto 1937; Id., Sull’identificazione di Talamone etrusco-romano, Bollettino di Statistica del Comune di Grosseto, aprile 1938, pp. 1-8

[14] Luciano Bianciardi, Il lavoro culturale, Feltrinelli, Milano 2009 [1957], pp. 5-12. Per una panoramica su queste figure si rimanda a Carlo Citter, Il progresso degli studi fra’800 e ‘900: la nascita dell’archeologia e i primi studiosi locali in Id., Antonia Arnoldus-Huyzendveld (a cura di), Archeologia urbana a Grosseto. Vol. I: La città nel contesto geografico della bassa valle dell’Ombrone. Origine e sviluppo di una città medievale nella “Toscana delle città deboli”, All’insegna del giglio, Firenze 2007, pp. 5-6.

[15] Centrale fu l’esperienza della rivista di arti e letteratura Ansedonia diretta da Antonio Meocci. Cfr. Simone Giusti, «Ansedonia» e «Mal’aria», due riviste di letteratura e arte in Maremma in Enrico Crispolti, Anna Mazzanti, Luca Quattrocchi (a cura di), Arte in Maremma nella prima metà del Novecento, Silvana, Milano, 2006, pp. 305-309. Sul contesto generale mi permetto di rimandare a Stefano Campagna, «Dobbiamo aver coscienza del nostro provincialismo culturale». Intellettuali, politica e cultura a Grosseto dal fascismo al miracolo economico di prossima pubblicazione nel Quaderno n. 20 della Fondazione Luciano Bianciardi.

[16] Geno Pampaloni, Prefazione in Antonio Meocci, Maramad, Barulli, Roma 1969, p. 12. Su Antonio Cappelli si veda Mariagrazia Celuzza, Il canonico Antonio Cappelli (1868-1939) in Cristina Gnoni Mavarelli, Laura Martini (a cura di), La cattedrale di San Lorenzo a Grosseto. Arte e storia dal XIII al XIX secolo, Silvana, Milano 1996, pp. 105-116.

[17] Fondato nel 1923 da un comitato promotore composto da studiosi locali e di rilevanza nazionale, il Bollettino della società storica maremmana cessò definitivamente le sue pubblicazioni nel 1936. Sarà poi rifondato negli anni Sessanta. Cfr. Mariagrazia Celuzza, Etruschi per forza: l’archeologia della Maremma e l’identità del territorio in Ead., Elena Vellati (a cura di), La grande trasformazione. Maremma tra epoca lorenese e tempo presente, Isgrec-Effigi, Arcidosso 2019, p. 156.

[18] A questo proposito si veda Antonio Cappelli, La signoria degli Abati del Malia e la repubblica senese in Grosseto, Tipografia Fascista La Maremma, Grosseto 1931.

[19] Cfr. ad esempio Pietro Raveggi, La Sub-Cosa e il Vico Cosano: contributo allo studio dei suburbii e vichi etruschi in Alcune comunicazioni presentate al 1. Convegno nazionale etrusco, Stabilimento tipografia sociale, Cortona, 1926. Su Raveggi si veda Giovanni Damiani, Pietro Raveggi. La vita e le opere, Effigi, Arcidosso, 2015.

[20] Cfr. ASG, R. Prefettura, Gabinetto, b. 690, lettere della R. Sovraintendenza all’arte medievale e moderna per la Toscana al prefetto Trotta, 13 gennaio 1938.

[21] Carlo Citter, Il progresso degli studi fra’800 e ‘900, cit., p. 5.

[22] Adone Innocenti, L’antica Via Aurelia attraverso il territorio Rosellano, Tipografia Fascista La Maremma, Grosseto 1938, p. 6.

[23] Sulla lunga durata di questo fenomeno identitario cfr. Mariagrazia Celuzza, Luciano Bianciardi, gli etruschi, il medioevo e Grosseto: una questione di identità? in Valentino Nizzo, Antonio Pizzo (a cura di), Antico e non antico. Scritti multidisciplinari offerti a Giuseppe Pucci, Milano, Mimesis 2018, pp. 105-106.

[24] Cfr. Ead, Etruschi per forza, cit. pp. 146-155.

[25] «Sì, questi crudeli dominatori […] non furono lenti a rapire quanto nel mio seno si conteneva di bello e raro, ad arrogarsi il godimento di ciò che non potevano rapirmi, cioè la fecondità prodigiosa del mio suolo, le miniere inesauribili, le immense foreste necessarie un tempo alla costruzione navigli […]. Ma costoro ricambiarono tanti miei benefizi colla più nera ingratitudine; perché è da essi che io ripeto la prima cagione della insalubrità del mio clima» (Giovanni Chelli, La Maremma personificata che narra le sue passate e presenti vicende, Stamperia sulle logge del grano, Firenze 1846, pp. 54-55, cit. in ivi, p. 147)

[26] Andrea Avalli, Il mito della prima Italia. L’uso politico degli Etruschi tra fascismo e dopoguerra, Viella, Roma 2024, p. 6 [versione ebook].

[27] Le cento città d’Italia illustrate. Grosseto, la Maremma risanata, Sonzogno, Milano, s.d. [1926-1929], pp. 3-4.

[28] Cfr. Andrea Avalli, Il mito della prima Italia, cit., pp. 51-87 [versione ebook].

[29] Cfr. Paola S. Salvatori, Romanità e fascismo: il fascio littorio in “Forma Urbis”, n. 6, 2013, pp. 34-52.

[30] Pietro Raveggi, Heba e la sua necropoli, in “Maremma. Bollettino della società storica maremmana”, n. 3, 1934, p. 3.

[31] Ernesto Lama, Introduzione in Pericle Ducati, La formazione del popolo etrusco, R. provveditorato agli studi di Grosseto, Grosseto 1943 [1933], p. VII.

[32] Ivi, p. VIII.

[33] Cfr. Mariagrazia Celuzza, Etruschi per forza, cit. pp. 158.




Pistoia Docufilm Festival, il cinema che dà voce alla storia

Nato per raccontare la storia attraverso il documentario, il Pistoia Docufilm Festival è diventato in cinque anni un punto di riferimento culturale in Toscana e in Italia. Ogni estate Pistoia si trasforma in uno spazio aperto alla memoria, dove film e incontri invitano a riflettere sulle sfide passate e su quelle ancora attuali. In un’epoca in cui la narrazione autentica è sempre più preziosa, il festival offre una piattaforma per dare voce a storie e punti di vista spesso dimenticati o poco ascoltati.

Il Pistoia Docufilm Festival nasce da un’intuizione dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea della Provincia di Pistoia, e in particolare da un’idea di Francesca Perugi, maturata durante i mesi difficili del lockdown causato dalla pandemia di Covid-19. In un momento in cui il cinema sembrava sospeso e i tradizionali spazi di socialità a rischio di scomparire, è germogliata la volontà di creare nuovi luoghi di incontro. Il documentario è stato scelto come mezzo ideale: un linguaggio capace di affrontare temi complessi con profondità, restando però accessibile e coinvolgente per tutti.

Un altro traguardo essenziale del festival è stato quello di mettere in dialogo diverse professionalità – storici, ricercatori, registi – accomunate dalla passione per la storia e la narrazione documentaristica, per offrire al pubblico un’esperienza culturale ricca, sfaccettata e stimolante. Inoltre, il pubblico non è mero spettatore, ma è invitato a partecipare attivamente agli incontri e ai dibattiti finali, diventando così protagonista di una riflessione collettiva e viva.

Dal 2021 il Pistoia Docufilm Festival si è affermato come uno spazio unico per riflettere sul potere del documentario come strumento di racconto della realtà. La prima edizione ha preso le mosse dalla definizione stessa di documentario – “film senza aggiunta di elementi fantastici”, secondo la Treccani – per esplorare insieme al pubblico come si realizzano documentari di qualità, come i registi scelgono i temi e le immagini tra migliaia di possibilità. Nel 2022 il tema si è spostato su “Come raccontare la storia?” affrontando la storia con la S maiuscola. Il festival ha proposto quattro serate per dialogare con registi e storici su fatti significativi della storia contemporanea. Il 2023 ha portato il pubblico a riflettere su “Geografie umane: storie di comunità”. Le serate hanno proposto documentari recenti che raccontano storie di comunità da tutta Italia, dalla resilienza ai conflitti, passando per sfide e progressi che hanno lasciato un’impronta nella storia collettiva. Nel 2024 il tema è stato “Per non confondere i confini del nostro campo visivo con i confini del mondo”. L’edizione ha esplorato il tema dei confini e delle migrazioni, attraversando la storia dei migranti italiani del dopoguerra, i primi arrivi dall’Albania negli anni ’90, fino alle recenti vicende al confine tra Italia e Francia. Tre film hanno raccontato come le migrazioni siano un fenomeno naturale e i confini solo linee artificiali da interrogare e superare.

Fin dalla prima edizione, il Pistoia Docufilm Festival si è avvalso di collaborazioni con realtà di spicco nel mondo del documentario e della ricerca storica. Tra i principali partner figurano il Festival dei Popoli di Firenze, la Cineteca di Bologna, l’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico di Roma e l’Associazione Italiana di Storia Orale (AISO). Il Festival dei Popoli, tra i più antichi e prestigiosi festival internazionali di cinema documentario, promuove il documentario come strumento di conoscenza e testimonianza. La Cineteca di Bologna, fondamentale per la conservazione e il restauro del patrimonio cinematografico, contribuisce a mantenere viva la memoria visiva. L’Archivio Audiovisivo di Roma conserva testimonianze sui movimenti operai e democratici. L’AISO valorizza le testimonianze orali, offrendo un punto di vista umano che integra il racconto visivo del documentario. A queste collaborazioni si aggiunge quest’anno TVL – Televisione Libera Pistoia, che amplia la diffusione del festival trasmettendo alcune produzioni, raggiungendo così un pubblico più ampio.

La quinta edizione del Pistoia Docufilm Festival, in programma nei giorni 7, 14 e 21 luglio 2025 all’Arena Cinema Porta al Borgo, porta quest’anno un focus speciale sulle voci dei registi toscani. Il tema scelto, “Simboli. Storie, bandiere e canti di libertà”, offre una riflessione sui simboli e sui linguaggi della lotta per i diritti, attraverso documentari che raccontano storie di impegno, resistenza e mobilitazione sociale.

Tre serate di cinema e incontri accompagneranno il pubblico nel racconto di chi ha lottato per dignità, pace e giustizia. Si parte lunedì 7 luglio con Il rovescio della medaglia (1974), film di Alvaro Bizzarri, regista pistoiese emigrato in Svizzera, che descrive con uno sguardo partecipe le dure condizioni dei lavoratori stagionali italiani.

La seconda serata, lunedì 14 luglio, è dedicata a Bella ciao – Song of Rebellion (2021), documentario di Andrea Vogt che ripercorre la storia del celebre canto popolare italiano, simbolo internazionale di libertà e resistenza.

Il festival si chiude lunedì 21 luglio con Bandiere della pace (2023), di Silvia Folchi e Alessandro Bartoli, che racconta le mobilitazioni delle campagne italiane del dopoguerra contro il riarmo e per una giustizia sociale duratura.

Nel contesto del festival, martedì 8 luglio l’emittente TVL – Televisione Libera Pistoia trasmetterà il film Lo stagionale, sempre di Alvaro Bizzarri, ampliando così l’omaggio al regista di origini pistoiesi.

Il Pistoia Docufilm Festival 2025 è promosso dall’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Pistoia in collaborazione con TVL, l’Istituto Ernesto de Martino, il Festival dei Popoli e l’Associazione Italiana di Storia Orale (AISO), con il sostegno della Fondazione Caript e grazie al contributo della Direzione Generale Educazione, Ricerca e Istituti Culturali del Ministero della Cultura.

Tutte le serate sono a ingresso gratuito.

 

 

Francesca Perugi è una storica specializzata nella storia contemporanea della Chiesa cattolica. Vicepresidente dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea della Provincia di Pistoia, è l’ideatrice del Pistoia Docufilm Festival.
Autrice di numerosi podcast, articoli e libri, ha completato un dottorato e un post-dottorato presso l’Università Cattolica di Milano. Attualmente insegna in una scuola secondaria superiore.
Appassionata di cinema e divulgazione, Francesca unisce ricerca storica e linguaggi audiovisivi per raccontare storie spesso poco conosciute, con l’obiettivo di coinvolgere il pubblico in un dialogo critico e partecipato.




Farestoria Festival, I edizione

Questa importante iniziativa nasce dalla volontà di arricchire l’offerta culturale della provincia pistoiese con un festival dedicato alla storia contemporanea, trasformando temi di ricerca accademica in un’occasione di dialogo e confronto aperti con la cittadinanza. A questo proposito le iniziative saranno ospitate in alcuni luoghi simbolo della vita pistoiese – la Libreria Lo Spazio, la Sala Soci Coop e il Polo culturale Puccini-Gatteschi – per rendere il territorio urbano vero protagonista di confronti nati dalla collettività e consolidare il rapporto tra l’Istituto e la città di Pistoia.

L’iniziativa si pone pertanto anche come esperimento di public history, prevedendo una partecipazione attiva del pubblico alla discussione e rendendo accessibili i risultati della ricerca storica ad un pubblico ampio e diversificato, contribuendo per quanto possibile alla formazione di una cittadinanza consapevole con strumenti critici per la comprensione del mondo contemporaneo.

In questo senso l’ambizione del festival è quella di trattare temi di respiro internazionale, da una riflessione sull’antifascismo attraverso un secolo di storia, passando per una problematizzazione delle categorie di dissidenza e resistenza nei conflitti del secolo attuale, fino alla storia della Palestina, del vicino oriente e all’attenzione per l’ambientalismo. Tutti questi temi, ognuno con le proprie specificità, sono tra loro intrecciati e sono tenuti insieme dalla convinzione che possano contribuire a gettare una nuova luce sul significato e sull’interpretazione di “Resistenza” nel mondo contemporaneo. La scelta degli eventi e delle tematiche caratterizza quindi un percorso di riflessione che trova in questa categoria il proprio filo conduttore, con l’intento di rinnovare il dibattito sulla “Resistenza” (e sulle resistenze) non come categoria appartenuta al passato, bensì come un fenomeno quanto mai attuale e vitale per comprendere le dinamiche del mondo di oggi.

Inoltre, tra i vari momenti in programma, particolare attenzione sarà rivolta alla didattica della storia, che farà da trait d’union con l’appuntamento finale del festival dedicato ai giochi da tavolo a tema storico.

 

 

Luca Cappellini è dottore magistrale in Scienze Storiche presso l’Università di Firenze ed è studioso dell’età contemporanea. È docente presso le scuole superiori Mantellate di Pistoia. Fa parte dal 2018 dell’Istituto Storico della Resistenza di Pistoia, dove è responsabile della biblioteca e con cui collabora come ricercatore e divulgatore. Ha pubblicato “Genova 2001. Una memoria multimediale” in «Farestoria», III, n.1, 2021; ha pubblicato con Stefano Bartolini e Francesco Cutolo “Public History: laboratori partecipativi e memoria pubblica”, in «Clionet», Vol. VII, (2023).

 




MUSA LIBERTARIA. Virgilia D’Andrea

Le ricerche storiche talvolta nascono da semplici curiosità, salvo poi rivelare imprevisti motivi d’interesse, e questo è uno di quei casi.
Di Virgilia D’Andrea, sindacalista anarchica, poeta e propagandista vi sono diverse biografie, ma in nessuna di queste avevo trovato traccia di una sua conferenza di cui sapevo soltanto il titolo, insolito: Musa libertaria.
Ne ero venuto a conoscenza, nel corso di una ricerca sulla storia della Camera sindacale del lavoro di Livorno, fra il 1920 e il ’22, prima del fascismo.
Infatti, la sera del 15 giugno 1922, Virgilia D’Andrea, allora trentaquattrenne, tenne una partecipata conferenza presso la Camera sindacale, aderente all’USI, situata in viale Caprera, nel popolare quartiere della Nuova Venezia.
Nei giorni precedenti in varie zone della città erano avvenuti ripetuti scontri tra fascisti e sovversivi, anche con rivoltellate, e la tensione era alta così come lo sarebbe stata nelle settimane seguenti, per cui il titolo di quella conferenza poteva apparire quanto meno fuori luogo, anche se per l’anarchica di Sulmona la poesia era un’arma.
Questo il sintetico resoconto della serata che venne pubblicato sul periodico degli anarchici livornesi «Il Seme» del 18 giugno 1922:

Improvvisamente il giorno 12 corr. un telegramma giunto alla Camera del Lavoro Sindacale, annunciava l’arrivo della valorosa compagna Virgilia D’Andrea, invitando a preparare una conferenza per il giovedì sera.
Per quanto il tempo fosse ristretto la C.d.L.S. fece subito delle circolari di avviso a tutte le sezioni aderenti, nonché ai gruppi ed ai partiti di avanguardia, invitandoli a fare la necessaria propaganda per la riuscita della conferenza, disponendo poi per l’affissione di un manifesto murario che ne avesse dato l’annuncio, ma che all’ultim’ora la Questura non volle permettere con la scusa dell’ordine pubblico.
Inutile commentare intorno a questo artificioso sabottamento [sic] dell’imprevista conferenza, che però non è riuscito ad impedire che la vasta sala fosse gremita di lavoratori tra cui buon numero di donne e fanciulle.
Alle ore 21, presentata con acconce parole, dal nostro [Riccardo] Sacconi, la compagna D’Andrea imprese il suo dire, svolgendo maestrevolmente il tema: Musa libertaria.
Ci è impossibile seguire la valente oratrice nella sua fine e forbita dicitura, solo ci limitiamo a dire che simili conferenze dovrebbero essere fatte più spesso ed ascoltate anche da chi dimentico di ogni forma di vivere civile vive compiendo le più tristi azioni non escluso il delitto.
L’impressione dell’uditorio fu superiore all’attesa, ed in tutti è rimasto vivo il desiderio di potere al più presto provare ancora un simile godimento intellettuale, che noi speriamo la buona compagna non vorrà negarci.

Sfogliando le cronache del quotidiano anarchico «Umanità nova», si apprende che nei mesi precedenti Virgilia D’Andrea aveva proposto e svolto un tour di conferenze pro-Umanità nova in varie città, richiedendo che il costo del biglietto per assistervi fosse di almeno una lira; i temi proposti erano Musa libertaria, Il valore del sentimento nella vita, I nostri prigionieri, «che meglio si addicono al suo temperamento oratorio e alle sue facoltà».
Da «Umanità nova» del 4 gennaio 1922 si apprende che la sera del 31 gennaio 1921, presso un teatro di Rimini, nonostante i problemi frapposti dalla polizia, aveva tenuto, a sostegno del giornale anarchico, una conferenza dal titolo analogo: Musa liberatrice:

la compagna D’Andrea [che] per oltre un’ora tenne il pubblico legato alla parola sua vibrante e commossa. Rievocò il periodo di calma tranquilla dell’anteguerra, disse dell’ubbriacatura guerresca e continuò declamando le sue poesie, tutte vibranti di pura ed umana passione.

Come avvenuto a Rimini e Livorno, però i relativi resoconti di tali iniziative non riferivano i temi toccati nel corso della conferenza e, a quanto mi risulta, il testo della stessa non è mai stato pubblicato e comunque non figura nelle diverse raccolte edite delle sue conferenze, suscitando dunque almeno in chi scrive un certo interesse.
Probabilmente, per la stessa ammissione dei militanti autori di tali resoconti, vi era imbarazzo a descrivere le suggestioni letterarie e le emozioni da queste suscitate tra i proletari e i compagni presenti; d’altronde, come avrebbe annotato Virgilio Mazzoni, nel recensire positivamente su «Umanità nova» del 27 luglio 1922, i «versi ribelli» di Tormento, «sebbene nel nostro campo, la poesia non abbia gran fortuna… commerciale».
La mia curiosità è quindi rimasta a lungo senza risposta ma, per caso, è stata almeno parzialmente soddisfatta avendo di recente trovato nella cronaca romana di «Umanità nova» del 22 marzo 1922, un articolo che raccontando della stessa conferenza svoltasi il 19 marzo a Roma, ne tratta in modo abbastanza circostanziato, tanto da meritare d’essere trascritto integralmente.

Come fu accennato ieri, la conferenza tenuta dalla compagna Virgilia D’Andrea domenica mattina al Salone dei Parrucchieri, è riuscita splendidamente.
Benchè fosse a pagamento, organizzata pro Circolo di Studi Sociali, il pubblico è accorso ugualmente numerosissimo e molti compagni e simpatizzanti affollavano il salone di via Cavour.
La compagna D’Andrea venne presentata dal compagno Billi, studente universitario, e parlò circa un’ora fra l’attenzione vivissima e commossa del pubblico, che dimostrò una comprensione una sensibilità vivissima.
Con il lirismo semplice ma suggestivo che le è abituale, con le parole vibranti di commozione interiore che ella sa dire e che sanno sì bene trovare l’animo dell’uditorio e scuoterlo profondamente, l’oratrice evocò gli episodi più salienti della vita del popolo italiano dalla guerra al fascismo, incastonando nel discorso che appunto aveva per tema «Musa libertaria», brani di poesie ed intere liriche di sua composizione (esse verranno tra breve raccolte in volume), le quali scritte sotto l’impressione immediata degli avvenimenti man mano che si svolgevano in questi ultimi tempi e aventi perciò tutta la naturalezza delle cose spontanee, non potevano non avvincere e non appassionare l’uditorio.
«Cieco di guerra», «Decimazione», «Il ritorno dell’esule» (riferentesi al rimpatrio del nostro Malatesta), «Presa e resa delle fabbriche», tutti questi episodi, queste tappe del faticoso cammino dei lavoratori verso il suo domani, verso le sue conquiste, ebbero nei versi della nostra buona compagna tale impeto comunicativo, che tutti i presenti non potettero astenersi dal manifestare nel modo più tangibile la loro commozione.
Noi siamo sicuri che trattenimenti artistici e sociali ad un tempo come questi, giovino assai alla propaganda ed all’educazione delle masse.
Il proletariato, i giovani, gli uomini del lavoro, hanno bisogno , non solo della conferenza critica e polemica, non solo della fanfara, ma anche della melodia. Sono queste delle sublimazioni dello spirito il cui giovamento non è affatto da mettersi in dubbio.
In questa conferenza si è verificato quel che accade quando l’oratore riesce ad avvincere l’anima ed il cervello di chi ascolta. Il pubblico applaude; ma è più forte in lui il bisogno di trattenere l’applauso per non turbare lo stato di godimento spirituale in cui è versato. Ma l’applauso trattenuto è poi scoppiato scrosciante quando l’oratrice, ricordando tutte le nostre vittime, tutti i morti sulla via della lotta rivoluzionaria ha chiuso con i magnifici versi del Carducci:
«… Sangue dei morti affretta
I rivi tuoi vermigli e i fati
Al ciel vapora e di vendetta
Inebria i nostri figli!».

L’annunciato libro era Tormento, con prefazione di Errico Malatesta e copertina scarlatta, pubblicato a Milano nello stesso anno dalla Tipografia Zerboni, e nel marzo del 1923 l’Autrice venne denunciata per vilipendio e istigazione all’odio di classe, con mandato di cattura, proprio in relazione a quella sua raccolta di poesie che, evidentemente, oltre a commuovere il proletariato lo invitavano alla rivolta.
Nel patetico tentativo di sintetizzare il contenuto della raccolta di poesie, uno zelante funzionario di questura scrisse: «Il libro è scritto in versi, ed i versi sono trasmodanti di felina bile contro l’Italia nei suoi poteri e nel suo assetto sociale: sono versi scritti pensatamente e con studio per istigare a delinquere, eccitare all’odio e vilipendere l’Esercito».
Prima però di soffermarsi sulle “trasmodanti” poesie presentate da Virgilia nel corso della conferenza, faccio qualche ipotesi sulla parte di questa in cui, come accennato dall’anonimo redattore romano, aveva evocato «gli episodi più salienti della vita del popolo italiano dalla guerra al fascismo».
Presumibilmente furono, più o meno, gli stessi temi e protagonisti ripresi nelle innumerevoli conferenze che avrebbe tenuto tra il 1929 e il 1932 negli Stati Uniti dove era emigrata, assieme al compagno di vita, ideali e militanza Armando Borghi, per sfuggire alle persecuzioni fasciste e poliziesche.
In particolare, nelle conferenze Tenebre e fiamme nella tragedia italiana e Le Tradizioni italiane rinnegate e tradite dal fascismo, partendo dalle pagine della letteratura italiana, non sottomesse per amore di libertà alle precedenti dominazioni, Virgilia D’Andrea aveva sostenuto che «il fascismo fu ed è l’antitesi profonda del pensiero italiano», citando anche Vittorio Alfieri: «L’arte mia sono le muse; la predominante mia passione l’odio della tirannide».
Tenendo conto che quelle conferenze americane erano rivolte ad un pubblico composto soprattutto da lavoratori immigrati dall’Italia, verso cui il regime fascista svolgeva un’intensa propaganda incentrata sul patriottismo, attraverso i giornali e le conferenze organizzate dai Fasci costituiti anche negli Stati uniti, si comprende il senso antifascista delle conferenze culturali dell’instancabile anarchica.
Delle quattro poesie recitate a Roma, e quasi sicuramente anche a Livorno, Cieco di guerra (agosto 1920) e Decimazione (settembre 1919) erano contro gli orrori della Prima guerra mondiale, con la maledizione della retorica patriottica «irridente insulto», e ne Il ritorno dell’esule (dicembre 1919), dedicato al rientro clandestino di Malatesta in un’Italia attraversata dai sommovimenti rivoluzionari, vi era l’attesa «Per l’urto immane della «rossa» storia», mentre La presa e la resa delle fabbriche (ottobre 1920) era una sorta di amaro bilancio politico dell’Occupazione delle fabbriche, conclusasi pochi mesi prima, «sotto il cielo nero».
Tutte questioni che urlavano vendetta e giustizia sociale, facendo pericolosamente appello al cuore non meno che all’intelligenza di ogni oppresso e di ogni sfruttata.

 




Alcune note su Letteratura e Resistenza: la storia nell’uomo da Vittorini e Pavese fino a Calvino, Cassola e Fenoglio.

Quando mi è stato chiesto di tenere questo discorso e di parlare di Letteratura e Resistenza, il tema mi è sembrato subito, perlomeno, immenso e il compito affidatomi arduo sia per la quantità di opere pubblicate negli anni che seguirono la fine della guerra sia per la qualità dei contributi critici già esistenti sull’argomento. Senza considerare la complessità e la delicatezza di alcuni dei nodi teorici che hanno occupato fino a oggi l’attenzione della critica e degli scrittori, tanto da mobilitare in molti casi il dibattito intorno al tema del Neorealismo, delle sue forme e del suo stile, e del rapporto tra letteratura e politica in una fase delicatissima della ricostruzione del Paese e della nascita della Repubblica.
All’indomani della Liberazione una foltissima schiera di ex partigiani, combattenti e reduci pubblicarono infatti una lunga lista di diari, testimonianze, memorie, poesie e racconti.
L’urgenza di raccontare confluiva improvvisamente in quel «noi» collettivo di cui parlerà Calvino nell’Introduzione al Sentiero dei nidi di ragno del 1964, in un unico lungo racconto orale. Solo le donne iniziarono a parlare della loro esperienza molto più tardi, negli anni ’70, quando – interrogate – uscirono dal silenzio per testimoniare la loro guerra «senza armi» (come l’hanno definita Anna Bravo e Anna Maria Bruzzone nel 1995) perché non avevano mai immaginato che la loro lotta avesse lo stesso valore di quella che avevano combattuto i loro mariti o i loro figli.
Era necessario riscattare l’Italia dalla sua partecipazione alla guerra come alleata della Germania, raccontare un’altra verità, ricordare quei fatti in modo da porre un netto discrimine tra chi aveva fatto una scelta e chi ne aveva fatta un’altra; era poi anche un risarcimento nei confronti dei compagni caduti perché, scriveva Cesare Pavese in La casa in collina, «ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione».
Forse allora, per recuperare uno dei possibili fili di questo discorso vasto come «alto mare aperto» (Inferno, XXVI), può essere oggi utile ripartire da un saggio di Jean Starobinski, medico e critico letterario ginevrino, che a gennaio del 1943 pubblicò sulla rivista «Lettres» un contributo intitolato Introduzione alla poetica dell’evento (che cito nella traduzione italiana di Walter Pedullà uscita su «il caffè illustrato», n. 23, marzo-aprile 2005, pp. 40-42). Egli rifletteva su come «dinnanzi ad alcuni eventi gravi e assoluti, il testimone, colpito nel profondo, prorompe nel canto» in un grido liberatore e catartico. Il canto (la poesia dunque e la letteratura insieme) sono «l’ammirevole intermediario attraverso cui la circostanza (l’evento singolo, storico) raggiunge l’eternità» (ibid., p. 40). Ma affinché questo canto diventi l’espressione vera di una testimonianza, raggiunga ciò l’eterno (e aggiungiamo, diventi un ‘classico’) deve assumere quei caratteri di universalità in cui tutti possano riconoscersi, ed è necessario che il poeta sappia far coincidere il suo dramma personale con il dramma della storia, che si verifichi una «contrazione del tempo storico nel tempo personale» (ibid. p. 42). La catastrofe che si stava svolgendo in Europa richiedeva allora a chiunque facesse uso della ‘parola’ di scrivere, dando un preciso valore poetico e universale al suo racconto ma tenendo conto dell’individualità del singolo in modo da farne scaturire una narrazione ‘interiorizzata’: la vera poesia – continua Starobinski – dona all’evento storico la qualità dell’evento interiore.
Non si stratta, dunque di vedere l’uomo nella storia, ma al contrario di «vedere la storia nell’uomo» (ibidem), nel singolo destino individuale e di indagare le conseguenze del tutto umane di quegli eventi, nella loro risonanza interiore, nelle presa di coscienza e nella responsabilità individuale del singolo.
Ciò ha una ricaduta anche sullo stile, non si tratta infatti di scrivere una cronaca oggettiva (che servirebbe solo per una ricostruzione storica) ma di fare letteratura, cioè di interpretare e trasfigurare quei fatti in un racconto che guardi all’universalità dell’esperienza della guerra, attraverso lo sguardo del singolo e della sua percezione interiore, attraverso una parola poetica, schietta e precisa, scevra dalla retorica, dal giudizio offerto a posteriori e da un’esortazione che risulti in fin dei conti troppo semplicistica.
Ora, che significato ha tutto ciò rispetto alla letteratura della Resistenza? Soprattutto oggi, a distanza di 80 anni da quegli avvenimenti? Innanzitutto pone un discrimine preciso che ci permette di distinguere, tra le numerose testimonianze di cui si accennava all’inizio, quelli che sono rimasti i veri ‘classici’ della Letteratura della Resistenza, ma anche di comprendere cosa ha reso alcuni racconti particolarmente significativi, rispetto ad altri, e i motivi per cui non sempre essi furono accolti positivamente dalla critica e dal pubblico, assegnando loro il peso che meritavano.
Se tra i caratteri del ‘classico’ c’è anche la possibilità che il testo abbia in sé il potere di parlare del particolare in senso universale, offrendo al lettore un mezzo in cui leggere la propria interiorità, aldilà dell’epoca e dei fatti specifici in cui è ambientata, esso ci permette, infine, di leggere la storia in modo che questa sia ‘nell’uomo’, e non fuori. Non è importante se si sta parlando di prima o di seconda guerra mondiale, della guerra di Troia o delle battaglie risorgimentali, è solo nella rappresentazione letteraria degli ‘stati d’animo’ che l’individuo racconta e riconosce se stesso, che si crea un effetto specchio tra scrittore e lettore per cui quest’ultimo parteciperà alla vicenda pur non avendola vissuta, riconoscendo come propri i valori in essa contenuti.
Ecco l’importanza della letteratura per la trasmissione dei valori della Resistenza per cui, in virtù di quel saper leggere ‘la storia nell’uomo’, essa ci permette di evitare che la narrazione di quell’esperienza sfoci nel pedagogismo e nella vuota retorica, in un livellamento del pensiero che oggi mina la nostra capacità critica, la possibilità di distinguere tra chi ha compiuto una scelta, giusta, e chi una sbagliata, tra chi ha agito seguendo la propria responsabilità personale e chi invece è stato semplicemente un criminale.
Procederemo allora, e necessariamente, per sommi capi considerando ora solo alcuni di quegli scrittori che hanno segnato un’importante stagione letteraria e, in vario modo, hanno anche partecipato alla lotta di Liberazione.
A guerra finita si trovarono di fronte al problema di come rendere il loro tributo letterario alla Resistenza: come trasporre sulla pagina quei venti mesi di lotta? Cosa raccontare e come? Come rendere in forma poetica quel mondo che, scrive Calvino, per loro era stato ‘il mondo’? Per molti di loro quel racconto fu il ‘primo libro’, un libro fondativo, anche quando non fu un esordio.
Fu Elio Vittorini a inaugurare quella stagione con Uomini e no uscito da Bompiani immediatamente dopo la Liberazione, a giugno del 1945. Il romanzo era stato composto l’anno precedente, durante i mesi trascorsi nella villa dei Varisco sul sacro monte di Varese, dove Vittorini si era dovuto nascondere per sfuggire alla cattura. Sullo sfondo del racconto c’è la lotta partigiana dei Gap milanesi, i Gruppi di azione patriottica che operavano in città e di cui aveva fatto parte; ma il romanzo risentiva ancora del clima letterario degli anni ’30 e dello stile poetico che aveva caratterizzato l’ermetismo. La prosa di Vittorini risultò poco efficace e il romanzo fu attaccato e criticato anche perché il protagonista, nome di battaglia Enne2, è un uomo bloccato tra la dimensione pubblica (quella della lotta) e quella privata (l’amore impossibile per Berta). Un dualismo che Enne2 non riuscirà a risolvere e che lo porterà a compiere un’ultima azione eroica che ne provocherà la morte.
Vittorini apparteneva in effetti, con Pavese, alla generazione nata a inizio secolo, che nel ’43 aveva già raggiunto la maturità – anche letteraria – e il loro rapporto con la Resistenza appare più problematico; così anche nella Casa in collina di Pavese, uscito da Einaudi nel 1948, il protagonista – apatico e indifferente – non riesce ad unirsi alla lotta e si rifugia tra le colline in piena crisi esistenziale. Alla fine del romanzo sarà invece Dino, quello che immagina essere suo figlio, a raggiungere i partigiani mentre Pavese si toglierà la vita, qualche anno dopo, in un albergo di fronte alla stazione di Torino Porta Nuova, il 27 agosto del 1950.
Pavese e Vittorini erano nati entrambi nel 1908 e nel ’43 avevano 35 anni. Senza cadere in facili semplificazioni, è stato sottolineato dalla critica che il discorso cambierà per la generazione successiva, per quegli scrittori che si erano uniti alla Resistenza quando avevano vent’anni, nel pieno delle loro forze: Carlo Cassola, tra questi, era nato nel 1917, mentre Italo Calvino – ancora più giovane – nel 1923.
Per Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno – pubblicato da Einaudi a ottobre del 1947 – è, e resterà sempre, il ‘primo libro’ quello in cui sono contenuti in nuce tutti i temi della sua futura poetica. Forse, aggiungerà lo scrittore negli anni nel 1964, «avrei potuto scrivere quell’unico libro». Calvino diventa scrittore grazie alla Resistenza alla quale partecipò nei mesi di lotta più cruenta: sarà lui stesso a dichiarare che la Resistenza lo aveva ‘messo al mondo’, anche come scrittore e che tutto quello che aveva fatto dopo partiva da quell’esperienza. La Resistenza era però per lui un argomento troppo grande e complesso da affrontare, così, direttamente. Il rischio era appunto quello di cadere nella retorica, di chi voleva un racconto agiografico, con un eroe socialista asservito alla poetica del neorealismo. Allora Calvino decise di affrontare il racconto di scorcio, attraverso lo sguardo di un bambino che si trova coinvolto in fatti più grandi di lui.
Calvino scriverà così un racconto picaresco, in cui la storia con la ‘s’ minuscola è la protagonista, una storia nell’uomo (come suggeriva Starobinski) interiorizzata e osservata dal basso.
Al posto degli eroi socialisti, nel Sentiero dei nidi di ragno Calvino, come per provocazione, decide di non inserire nessun eroe, nessuno che si faccia portatore di un’ideologia, né di una lotta di classe. La storia di Pin non illustra in effetti una tesi già data, non mostra i migliori ma i peggiori tra i partigiani. Eppure, osserva lo scrittore, anche i peggiori tra noi sono meglio di voi, dei fascisti: il discrimine è questo. Quello che conta nel romanzo è la spinta di riscatto umano che la lotta di Liberazione offre ai suoi personaggi.
In maniera molto simile, Carlo Cassola esordisce nel genere romanzo (pur avendo pubblicato durante la guerra una serie di racconti) con Fausto e Anna, una storia d’amore tormentata, ambientata tra Volterra e San Ginesio durante la lotta per la Liberazione. Il romanzo, scritto nel ’49, esce nel 1952 nei «Gettoni» Einaudi, e non a caso quella collana era stata ideata e diretta proprio da Vittorini.
Anche in questo caso il protagonista, Fausto (che ha alcuni tratti autobiografici), non è un eroe, anzi, vive di continue contraddizioni, tali che lo porteranno al fallimento sia del suo rapporto con Anna sia con il Partito Comunista a cui preferirà il Partito d’Azione.
L’esperienza personale è trasposta in chiave letteraria con un’attenzione particolare alla sfera emotiva e sentimentale dei personaggi. Fausto, ma anche Bube nel romanzo successivo, sono dei giovani in formazione e come tali si avvicinano in maniera problematica alla vita e agli eventi storici in cui sono calati e che spesso non comprendono del tutto:

«Perché ho dato loro questo dispiacere […] camminando rapidamente per il viottolo, Fausto interrogava se stesso ma non trovava risposta a quel perché. Perché mi vado a cacciare nei pericoli? E se dovessi morire? Per un momento fu certo che sarebbe stato ucciso. Essere ucciso perché? Per quale scopo? Baba, Nello, Piero potevano anche morire, essi credevano che fosse necessario lottare per un mondo migliore. Ma lui non credeva a nulla. Non credeva che il comunismo potesse rendere migliore il mondo. Comunque era una faccenda che non lo riguardava, perché lo faccio allora? Perché? Non trovava risposta. Gli pareva assurdo quello che stava facendo. Si sentiva spossato, le gambe gli si piegavano. Lo zaino gli pesava terribilmente» (in Fausto e Anna, Einaudi, Torino, 1952).

A distanza di anni possiamo oggi comprendere più facilmente l’importanza notevolissima del primo romanzo di Cassola: come osserva Giuliano Manacorda, nel suo Invito alla lettura di Cassola (Mursia, Milano, 1973) per la prima volta si dava conto, in sede letteraria, della fine dell’epoca delle grandi ideologie e della retorica che le aveva accompagnate. Nell’interiorità di Fausto compaiono tutti i dubbi e le domande che è lecito un uomo si ponga di fronte alla storia, pur comprendendo che quella che ha fatto è la scelta giusta. Ma resta una scelta individuale poiché Fausto in realtà non crede a nulla.
Si spiega così anche la polemica a cui andò incontro lo scrittore dopo l’uscita del suo romanzo sulle pagine della rivista «Rinascita» (n. 3, a. IX, marzo 1952) quando fu accusato di aver denigrato la Resistenza poiché aveva descritto «i partigiani come un branco di fifoni e di assassini» e i «tedeschi come poveri figli di mamma» (ibid, p. 252). Osservazioni che – continua il critico – si possono leggere in qualunque giornaletto «democristiano e neofascista» (ibidem). Nel numero successivo Cassola rispose alle accuse con una lettera al direttore Palmiro Togliatti. Il suo romanzo, si difende Cassola, era stato giudicato solo in funzione di criteri ideologici e non estetici. La Letteratura della Resistenza non può avere «un compito apologetico, agiografico e fumettistico» (in «Rinascita», n. 4, a. IX, aprile 1952, p. 249). Nella polemica intervenne poi anche Togliatti ammettendo che, in quegli anni, giudizio estetico e politico spesso si sovrapponevano creando storture diffuse; ma ciò senza di fatto scagionare Cassola dalle accuse.
Il fatto è che Fausto e Anna non era in fondo un romanzo sulla Resistenza, ma un romanzo di formazione a cui la Resistenza fa da sfondo e in cui Fausto è un ulteriore esempio di anti-eroe che, messo a contatto con eventi più grandi di lui, non riesce a comprenderli né a identificarvisi completamente. È la storia di Fausto che interessa al Cassola scrittore, quella del suo ‘partigiano per sbaglio’ e si dovrebbe allora ribadire che il Cassola-uomo la Resistenza l’aveva invece fatta, davvero, e per scelta; ma egli non indulgeva sulla facile ‘presa’ che in quegli anni avevano avuto sulle masse altri racconti, in cui il contenuto apologetico riscattava la forma e presentava la Resistenza come un unicum pacificato ed eroico.
Ma il romanzo sulla Resistenza «che tutti avevamo sognato» scrive Calvino nella sua già citata Introduzione del 1964, arrivò «quando nessuno più se l’aspettava […] E fu il più solitario di tutti […] a scriverlo e nemmeno a finirlo» perché Una questione privata, di Beppe Fenoglio, fu pubblicato postumo, dopo essere stato ritrovato in bozza tra le sue carte. L’anno di pubblicazione per i tipi Einaudi è il 1963.
Il giudizio di Calvino non può essere, ad oggi, che confermato, a distanza di oltre 60 anni dall’uscita di quel romanzo che arrivò dopo una lunga elaborazione e dopo una serie di tentativi intrapresi e poi abbandonati, come accadde anche nel caso del Partigiano Johnny, anch’esso lasciato in un cassetto a livello di scartafaccio e pubblicato postumo.
Fenoglio aveva tentato a più riprese di raccontare in forma romanzesca la sua esperienza nella Resistenza ma il desiderio di scrivere un racconto partigiano si scontrava (come osserva Gabriele Pedullà nel 2006 nella sua prefazione alla ristampa einaudiana di Una questione privata, a p. XXII) in maniera netta con i principi dell’estetica lukàcsiana allora in voga che chiedeva, nell’ottica del realismo socialista, di rappresentare il ‘tipico’, cioè in sostanza un partigiano modello che riassumesse in sé i tratti generali e oggettivi di un positivo eroe proletario. Al contrario, Fenoglio assume, a partire proprio dal Partigiano Johnny ma anche in Primavera di bellezza e nella raccolta I 23 giorni della città di Alba, un punto di vista del tutto individuale sulla Resistenza.
Nemmeno questi tentativi gli sembrarono soddisfacenti: Fenoglio era convinto che in quelle prove la cronaca avesse ancora il sopravvento sul romanzesco, che le esperienze, i combattimenti, le imboscate e le fughe di Johnny fossero rimaste un semplice susseguirsi di eventi, raccontate in maniera cronachistica senza avere la forza di attirare il lettore verso un nucleo narrativo forte, evidente e stringente, attorno al quale rappresentare ‘l’uomo nella Resistenza’ e non la Resistenza come mero sfondo storico di un racconto, in sostanza, autobiografico.
Così aveva fatto per esempio Cassola in Fausto e Anna: «io credo – aveva dichiarato nel 1959 sulla rivista «Nuovi Argomenti» – che la storia debba essere soltanto la cornice, lo sfondo delle vicende e dei destini individuali. La storia romanzata non mi persuade più di quanto mi persuada l’ideologia romanzata». E in effetti il suo primo romanzo aveva mantenuto la Resistenza sullo sfondo, come cornice dell’amore mancato tra i due protagonisti.
Qual è dunque la soluzione narrativa del tutto originale a cui arriva Fenoglio in Una questione privata? Tale da rendere il suo romanzo un unicum ? È l’essere riuscito a far convergere la Storia in una vicenda individuale, intrecciando destino privato e destino collettivo per farli confluire in un unico intreccio narrativo. La storia non resta ‘sullo sfondo’ ma è parte attiva della vicenda e dipende, e si muove, insieme al protagonista. Al centro della vicenda c’è un partigiano badogliano il cui nome di battaglia, Milton, richiama alla memoria il più celebre scrittore inglese del Paradiso perduto (si sa che Fenoglio era innamorato della letteratura inglese e americana). Anche la vicenda esistenziale del Milton-Partigiano è un ‘paradiso perduto’.
Anche qui l’amore è il motore della storia poiché tutto l’intreccio è costruito intorno alla passione impossibile di Milton per Fulvia, una ragazza di Torino sfollata per un breve periodo ad Alba e poi tornata in città dopo l’8 settembre. A lei il protagonista si sente legato, pur non essendoci mai stato tra i due un vero e proprio legame sentimentale.
Un giorno, durante uno dei suoi sopralluoghi tra le colline delle Langhe, Milton si trova con un compagno davanti alla villa in cui, l’anno precedente, aveva trascorso i suoi pomeriggi con Fulvia e con un altro amico, Giorgio, anche lui ora entrato nella Resistenza. La voglia di rivivere quei momenti, spingono Milton a entrare nella casa per rivedere quei luoghi e ricordare i discorsi, il volto e il sorriso di Fulvia. Poi l’incontro con la governante, l’unica rimasta, getta un’ombra – un sospetto sconvolgente e inquietante – nell’animo di Milton quando la donna gli lascia intendere che tra Fulvia e Giorgio ci sarebbe stata una relazione poiché, prima dell’8 settembre, i due erano soliti incontrarsi di nascosto, di notte, in un luogo e in un modo però che la governante non sa spiegare ulteriormente.
Questo ‘non detto’ genera un tarlo, diventa un ‘chiodo fisso’, potremmo dire, nella mente e nel cuore di Milton per cui da quel momento la sua vera missione diventa quella di trovare Giorgio e chiedere ragione di quella relazione, conoscere la verità.
Il fatto è che Giorgio è stato appena catturato dai tedeschi, durante una missione notturna in cui le Langhe vengono sommerse da una fitta nebbia e la brigata di Giorgio si disperde tra le colline; Giorgio si ferma o perde la direzione. Il giorno dopo arriva la notizia che è stato catturato e portato in carcere ad Alba.
Da questo momento per Milton la Resistenza diventa, appunto, ‘una questione privata’ e gli eventi della Storia si muovono intorno a una ricerca ossessiva della verità: la storia privata e la storia collettiva convergono nella vicenda individuale del soggetto. Ed è in questo movimento dal pubblico al privato che il romanzo trova la sua forza, mentre la storia di Milton è completamente immersa nel fitto della storia della Resistenza.
L’individualità del singolo emerge, con tutti i suoi dubbi e le sue contraddizioni, ma l’unità di azione accompagna il lettore attraverso gli eventi. Tutta la vicenda è filtrata attraverso i ricordi e i pensieri del protagonista:

«Milton partì di lì e si fermò non prima dell’arco al principio del paese. Guardò lungo in direzione di Benevello e Roddino. La nebbia si era sollevata dappertutto, in basso non ne restava che qualche francobollo appiccicato sulla fronte nera delle colline. La pioggia cadeva sottile e regolare, senza disturbare minimamente la visibilità. Torse la testa dall’altra parte e guardò in profondo verso Alba. Il cielo sulla città era più cupo che altrove, decisamente violetto, segnato da una pioggia molto più violenta. Pioveva a dirotto su Giorgio prigioniero, forse su Giorgio giù cadavere, pioveva a dirotto sulla sua verità di Fulvia, cancellandola per sempre: «Non potrò saperlo mai più. Me ne andrò senza sapere». (Una questione privata, Einadi, Torino, 2006, pp. 50-51).

Il pericolo che Giorgio venga fucilato prima che Milton possa ottenere un ufficiale fascista con cui tentare uno scambio, rende quella missione una lotta contro il tempo. Il protagonista è dunque impegnato in una ricerca continua, esposto al freddo e ai pericoli, per la maggior parte del tempo sporco di fango e coperto di fatica.
Per questo Calvino ha potuto paragonare Una questione privata all’Orlando furioso di Lodovico Ariosto: come il paladino, anche Milton diventa folle per amore e inizia a inseguire qualcosa che non conosce (che lui chiama ‘verità’), fino a perdere del tutto il senno, tanto da minacciare con il suo comportamento le sorti della guerra e producendo nel suo errare, da un distaccamento all’altro, tutta una serie di conseguenze non previste, compresa la morte di due ragazzini per mano dei fascisti.
Il significato ultimo del romanzo è dunque nella constatazione che ogni azione umana ha sempre le sue conseguenze, anche quando crediamo di essere nel giusto: Milton non mette mai in dubbio la vittoria dei partigiani né quella della possibilità di una democrazia futura; ma sa che in una guerra civile, come quella che sta combattendo, nessuno può considerarsi del tutto innocente, nemmeno lui, che nel tentativo di salvare un amico, provoca involontariamente la morte di due giovanissimi partigiani.
Per Fenoglio ciò che distingue partigiani e repubblichini è, però, proprio questa consapevolezza, il sapersi assumere le proprie responsabilità, con tutto il loro peso, come necessaria conseguenza di una scelta morale reclamata come necessaria e inevitabile per il bene suo e della libertà per la quale sta combattendo. È questo il prezzo da pagare: «ricordati – scrive Fenoglio – che senza i morti, i loro ed i nostri, nulla avrebbe senso» (Il partigiano Johnny, Einaudi, Torino, 1968, cap. 11).
Una consapevolezza drammatica, come drammatiche sono le scelte che in quel frangente storico bisognava fare per porre un discrimine, segnare un confine tra il ‘noi’ e il ‘loro’.
Fenoglio mette così in scena tutta la problematicità di una scelta che, comunque, andava fatta nonostante non ci fosse in quel momento nessuna risposta né assicurazione futura, se non all’interno della Storia stessa, all’interno delle conseguenze che quelle scelte avrebbero avuto sull’Italia del domani.
Concludendo, perché parlare proprio oggi di Letteratura e di Resistenza? Perché probabilmente la prima, la letteratura, ha dato alla storia della Liberazione molto di più di quello che non le abbia dato la storia dell’Italia repubblicana, raccontandola nei suoi risvolti più umani e concreti, aldilà di ogni omologazione e di eroismo, di ogni discorso di vuota retorica, mostrando la Resistenza in tutta la sua intensa umanità: «sentendo com’è grande un uomo quando è nella sua normale dimensione umana», scriveva Fenoglio nel Partigiano Johnny, chiudendo il quarto capitolo. Sarà allora forse la letteratura a salvarci?
A salvare noi e quella parola d’inesauribile segreto che, diceva Saba, giace al fondo?
Che ci insegnerà che ogni nostra azione può avere delle conseguenze di cui bisogna pur prendersi la responsabilità in un’epoca in cui nessuno più vuole farlo?
Che esiste un discrimine preciso e invalicabile tra gli uni e gli altri e che quel confine è sacro, come è sacra la dimensione altra che accoglie i caduti di ogni guerra?

«Il vostro perire – scriveva Andrea Zanzotto nei suoi versi – nel sacro di primavera – mi sembrava la radice stessa di ogni sacro. Anche se per noi certo non lo era».
Il canto lirico è testimonianza, partecipazione dolorosa, intermediario tra il passato e il presente. Ci restituisce il sentimento di un’epoca, il senso di una stagione che ci appare oggi tristemente dissolta in un pericoloso ed esecrabile buonismo che tutto azzera e livella.

Come ci mostrano Vittorini, Pavese, Calvino, Cassola, Fenoglio e molti altri che per ragioni di spazio non ho potuto menzionare, la dimensione umana del dubbio, della molteplicità e perché no, dell’anti-eroismo con l’ammissione della fragilità umana è la sola dimensione che può farci veramente capire come procede la storia, quella con la ‘s’ minuscola, in cui tutti siamo immersi ma verso la quale è necessario oggi saper porre dei confini netti tra chi sa prendersi le proprie responsabilità morali e chi invece non lo fa.

Monica Schettino, laureata in Lettere moderne a Torino nel 2002 con una tesi in Letteratura greca, è ora dottoranda di ricerca presso l’Università di Friburgo (CH); tra i suoi studi, il carteggio tra Achille Giovanni Cagna e Giovanni Faldella, Un incontro scapigliato: carteggio 1876-1927 (Interlinea, 2008) e un saggio monografico su Cesare Vico Lodovici (Società editrice apuana, 2023). È stata docente a contratto dell’Università del Piemonte orientale e dell’Università di Torino. Attualmente collabora con l’Istituto storico per la Resistenza e la società contemporanea nel Biellese, Vercellese e in Valsesia per il quale ha curato l’edizione dell’autobiografia di Anna Marengo, Una storia non ancora finita(2014) e con la Biblioteca F. Serantini Istituto di storia sociale, della Resistenza e dell’età contemporanea della provincia di Pisa. Collabora inoltre con la casa editrice Loescher di Torino e scrive sulle pagine culturali della «Gazzetta di Parma».

Articolo pubblicato nel maggio 2024.




Calcio Sovietico in Toscana

Gli studi che dimostrano il valore del calcio nella ricerca storica sono molti. Augé ha evidenziato il valore antropologico del football e come esso permetta un’identificazione o un’opposizione all’altro. In alcune partite svoltesi in Toscana, l’altro è stato l’Unione Sovietica.
Il calcio russo ha avuto una storia complessa; osteggiato in origine, divenne strumento pedagogico, propagandistico e diplomatico. Fu uno dei campi nei quali poteva essere dimostrata la supremazia socialista, secondo la Pravda divenne “un mezzo efficace per spezzare il blocco imposto dai capitalisti” e avrebbe permesso di “issare la bandiera sovietica nelle menti e nei cuori del popolo”.
Dunque, è difficile ignorare il valore storico delle manifestazioni sportive che hanno coinvolto squadre sovietiche in Toscana. I sovietici vennero in Italia più volte per trascorrere il periodo invernale; la Toscana metteva a disposizione il Centro Tecnico Federale di Coverciano, dove era possibile studiare le innovazioni tecnico-tattiche dell’Occidente. Erano pochi i Paesi dell’avanguardia calcistica disposti a ospitarli, mentre l’Italia e la Toscana potevano offrire la propria competenza e la presenza di molte amministrazioni amiche. La comparazione della partecipazione, dell’organizzazione, della rilevanza sociale delle partite nel corso dei decenni, ci dicono molto sulla percezione del valore e della solidità delle radici del simbolo comunista tra la
popolazione locale. Nel settembre 1955 la Dinamo Mosca giocò allo stadio Artemio Franchi di Firenze un’amichevole con la Fiorentina. La Dinamo era la squadra del Ministero dell’Interno, tra i suoi dirigenti vi erano uomini della Čeka, la polizia politica. Alla fine del secondo conflitto mondiale, la Dinamo venne mandata in tournée in Inghilterra e per diversi decenni dominò il calcio sovietico. Inoltre, nella rosa dei moscoviti vi era il leggendario portiere Lev Jašin. La città si mobilitò per accogliere i sovietici in un clima di festa. I giocatori comunisti vennero ricevuti a Santa Maria Novella con mazzi di garofani e fecero un Grand Tour della città, concludendo con una cerimonia in Palazzo Vecchio. L’evento non fu prettamente sportivo ed è chiaro che ebbe una rilevanza il peso politico degli ospiti. La partita si disputò davanti a 60.000 persone circa e vide la mitica Fiorentina del ’56 imporsi per 1 a 0.
Assume connotati diversi la partita che la nazionale sovietica giocò nel febbraio del 1979 a Prato. Secondo quanto riportato da La Nazione, l’amichevole fu voluta dalla dirigenza del Prato per attirare l’attenzione dell’amministrazione cittadina e dei pratesi sul club, in un match che ebbe poco da dire sul piano puramente sportivo. Quindi la presenza dell’11 sovietico funse da cassa di risonanza e venne ritenuto funzionale da parte della dirigenza. In quell’occasione i sovietici fecero un allenamento a Castelnuovo dei Sabbioni (Arezzo), dove nel 1978 era stato inaugurato un parco intitolato al partigiano sovietico Bujanov. Nel 1988 l’URSS era in preparazione per i campionati Europei e divise il suo ritiro tra Coverciano e la Garfagnana. Sotto la guida tecnica di Lobanovskij disputò alcune amichevoli per prepararsi alla competizione che la vedrà cadere soltanto in finale. Le amichevoli furono disputate con squadre dilettantistiche in quanto la FIGC mise il veto sugli incontri con squadre professionistiche prima dell’amichevole clou a Bari con la nazionale italiana. Dunque, la squadra del pallone d’oro Blochin si ritrovò a dover giocare a Pontassieve e fare appello per trovare qualche altro avversario disponibile e dotato di campo. Il Firenze Ovest, squadra della provincia fiorentina, propose il suo campo in terra battuta e con grande sorpresa i sovietici accettarono. Per gli abitanti di Brozzi fu l’occasione incredibile di vedere una nazionale maggiore sotto casa ma «La Nazione» descrisse così: “Clamorosa gaffe della FIGC, l’URSS costretta a giocare a Brozzi”.
Per i sovietici la partecipazione a match internazionali fu una testa di ponte per disgelare e rafforzare alcune relazioni diplomatiche; questo è evidente nei primi due incontri in analisi. La partita con la Dinamo di Mosca è anche una celebrazione della fratellanza che lega Firenze a Mosca, più che un evento calcistico sembra l’inizio di un interscambio che avrà luogo e si affievolirà nei decenni successivi. Lo vediamo già con la partita della nazionale a Prato; l’invito ai sovietici è già ormai mirante ad avere effetti solo sul raggio locale ed il rimando al ruolo di polo di riferimento assunto da Mosca dopo la Seconda guerra mondiale è già molto più tenue. Si celebra il passato, lontani dai centri amministrativi principali e si cerca di ottenere il massimo dalla presenza di quella che rimane una nazionale prestigiosa in grado di smuovere ancora gli entusiasmi. A Brozzi invece il ruolo politico dell’URSS, se percepito, è addirittura d’ostacolo. Una nazionale maggiore osteggiata al punto che parrebbe un’ospite sgradita e lasciata all’attenzione di una piccola polisportiva. Dalla pompa magna del 1955 alla gaffe del 1988 era evidente che l’URSS aveva perso la sua partita più importante col blocco capitalista.

Emanuele Federico Russo è laureato in Scienze Storiche presso l’Università di Firenze, docente di scuola secondaria di secondo grado, consulente storico e ricercatore presso l’Istituto storico della Resistenza di Pistoia. Ha collaborato alla pubblicazione de “Il Mito Sovietico nel PCI in Toscana” curato da Andrea Borelli (Pistoia, 2023) e ha pubblicato “Prima guerra mondiale e videogiochi, il caso di Valiant Hearts” per Farestoria (vol. 1, 2023) a cura di Edoardo Lombardi.

Articolo pubblicato nel marzo 2024.




Una giornata della Tecnica

4 Maggio 1941. É un giorno che cade di domenica, ma le scuole sono aperte, i laboratori funzionanti, i corridoi percorsi da torme di visitatori. Non è una situazione che si verifica dappertutto: chiusi sono i licei, e così le scuole elementari e le nuove scuole medie. Ad aprire le porte sono soltanto istituti tecnici, scuole d’avviamento e scuole tecniche. Così infatti il governo fascista, e soprattutto il Ministro dell’Educazione Nazionale Giuseppe Bottai, avevano programmato di celebrare la ricorrenza della neonata “Giornata della Tecnica”, che varata nel novembre 1939, aveva conosciuto la sua prima celebrazione il 2 Giugno 1940. A sancirne la nascita, un radiodiscorso del Ministro, pronto a evidenziare il ruolo che la manifestazione avrebbe dovuto assumere nel convincere giovani e famiglie a preferire
l’istruzione tecnica e professionale a quella liceale verso cui, asseriva, troppo alto continuava a essere il numero di iscritti.
Se istruzione tecnica e professionale appaiono unite in questa manifestazione, questo non vuol dire che non costituissero, oggi come allora, due percorsi nettamente divisi. Più lunga e consolidata la vicenda temporale dell’Istituto tecnico: sorto con la riforma Casati del 1859, era stato riformato dalla Legge Gentile che aveva previsto, come collegamento tra scuola elementare e Istituto tecnico superiore, un corso intermedio (denominato Istituto tecnico inferiore) di quattro anni dove centrale appare lo studio del latino. Frastagliato appare invece il percorso dell’istruzione professionale, che fino al 1928 fu sempre prerogativa di Ministeri di carattere industriale ed economico: basti qui sapere che le scuole di avviamento propriamente dette sorsero nel 1929 dalla fusione tra il corso post-elementare (sesta, settima, ottava elementare), le scuole complementari e le scuole professionali gestite fino ad allora dal Ministero dell’Economia Nazionale.
Lungi dal rivelarsi come un cruccio di natura esclusivamente fascista, le preoccupazioni ministeriali, così simili a quelle che avevano motivato il varo della riforma Gentile, traevano le proprie radici da un sostrato primo-novecentesco e liberal-conservatore – che, già in età giolittiana, innalzava alti lai contro la pur moderata crescita di iscritti che le scuole post-elementari, allora frequentate da un selezionatissimo numero di studenti (mai più del 7% delle coorti di età corrispondente), registrarono in quegli anni. Erano ansie destinate a saldarsi, e a giustificare, molti punti della “Carta della scuola” che proprio in quei mesi, dopo aver ottenuto l’approvazione del Gran Consiglio, Bottai si stava apprestando a concretizzare – invero con conseguenze assai limitate, se pensiamo che di tutta l’architettura prospettata solo la scuola media vide la luce, con il Regio Decreto 1° luglio 1940. Proprio l’istruzione media, e in particolare quella tecnico-professionale, era il principale oggetto delle attenzioni della “Carta”. Da una parte, infatti, la nuova scuola media avrebbe unificato i primi tre anni del ginnasio, dell’istituto tecnico inferiore e
dell’istituto magistrale; caratterizzata dalla corposa presenza dello studio del latino, si presentava come una scuola destinata alle élite, come dimostrava anche la presenza di un esame di ammissione tutt’altro che formale. Dall’altra, la scuola di avviamento professionale, teoricamente destinata alle fasce socialmente ed economicamente più deboli della società, sarebbe stata “sdoppiata” da due nuove scuole, entrambe di durata triennale: la scuola professionale, da fondarsi nelle città medio-grandi, e la scuola artigiana, che sarebbe stata invece inaugurata in tutti gli altri centri urbani e rurali. Più limitate erano le prospettive che questi due istituti, in confronto alla scuola di avviamento professionale, aprivano: mentre i licenziati dalla scuola professionale potevano proseguire i propri studi soltanto iscrivendosi alla biennale scuola tecnica, gli iscritti alla scuola artigiana non disponevano di ulteriori canali di formazione. Passati, come documentano gli Annuari Statitici Italiani del 1932 e del 1943, da 67224 iscritti nel 1930 (dato comprensivo delle scuole soppresse nel 1929 per dar luogo agli avviamenti) a 288558 iscritti nel 1941, gli avviamenti erano diventati, in quegli anni, l’istituto di istruzione media maggiormente frequentato in terra italica. Proprio per questo motivo, il disegno assumeva una caratura politica e sociale marcatamente conservatrice, che andava a intaccare la (pur ridotte) potenziale mobilità sociale assunta dalla scuola di avviamento professionale, che, attraverso la frequenza di un anno di corso integrativo oppure di un esame, consentiva l’iscrizione all’Istituto tecnico – e, in misura nettamente minoritaria, all’Istituto magistrale e persino al Liceo scientifico.
L’istituzione della “Giornata della Tecnica” coincideva dunque con un periodo delicato per il Ministero, coinvolto, nonostante le contingenze belliche, nell’attuazione di una riforma prima procrastinata, poi accantonata in misura definitiva. È sotto la luce di questa contingenza che possiamo leggere il corposo fondo che, nel 1941, i Provveditorati, dietro impulso governativo, produssero, editando monografie incentrate sullo sviluppo dell’istruzione tecnico-professionale nella propria provincia. Un corpus bibliografico che, nella generale carenza di informazioni disponibili per questo segmento scolastico, si rivela inaspettatamente prezioso: l’intento propagandistico, chiaramente evidente e anzi rimarcato anche dai documenti ufficiali e dalle riviste di Regime, consente infatti di vagliare quali, secondo Provveditori e Presidi, costituivano le caratteristiche più salienti delle scuole professionali da loro dirette, e soprattutto quale ruolo dovevano giocare nell’assetto socio-economico italiano: quello di preservare un ordine sociale da tutelare nella sua fissità? Oppure quello di favorire, nel caso di alunni particolarmente meritevoli, la
prosecuzione degli studi? Non derogano a questa diade le monografie dei Provveditorati toscani. Corsi integrativi di collegamento tra scuole di avviamento e istituti tecnici, innanzitutto, sono segnalati soprattutto negli istituti agrari, spesso privi, a differenza dei loro omologhi, di un corso inferiore: corsi integrativi sono infatti in funzione presso gli Istituti agrari di Pescia e Grosseto. Anche gli episodici accenni al collocamento dei licenziati e alla provenienza sociale degli studenti sembrano tradire un quadro socialmente composito: degli ex- studenti che avevano frequentato negli ultimi dieci anni la scuola di avviamento “Margaritone” di Arezzo, il 20,8% degli studenti continuava gli studi; tra gli iscritti alla scuola di avviamento di Foiano della Chiana, il 20% proviene da famiglie di commercianti e industriali e il 15% da nuclei di impiegati. È un quadro composito che convive con le dissonanti sfaccettature con cui, nel presentare a famiglie e funzionari ministeriali le loro scuole, i Presidi toscani, similmente ai colleghi del resto d’Italia, mostrano di nutrire concezioni differenti, a volte dissonanti, sulle prospettive che le scuole di avviamento avrebbero dovuto aprire ai loro licenziati. Se infatti a Chiusi della Verna il Preside afferma che «Numerosi sono gli alunni usciti da questi tre soli anni di avviamento i quali non interrompono i loro studi, ma li proseguono, frequentando le Scuole Tecniche e gli istituti Tecnici Industriali, animati dal desiderio di perfezionare le loro conoscenze, desiderio sorto in parte accanto alle macchine di questa scuola», per converso, il collega della scuola di avviamento “Giuseppe Giusti” di Pescia rimarca come «tale scuola della durata di tre anni ha carattere eminentemente popolare, ed accoglie, subito dopo la quinta elementare, i figli dei lavoratori e della piccola borghesia per avviarli ad un mestiere o ad un impiego s’intende di natura modesta». Emerge qui, nuovamente, la dimensione di contenimento sociale che l’istruzione professionale, fin dalla metà del XIX secolo, ha assunto negli occhi e nella mente di classi dirigenti per le quali le occasioni di mobilità sociale inducevano a preoccupazione e spavento.

Chiara Martinelli è docente a contratto in Storia dell’educazione presso l’Università degli studi di Firenze, dove collabora con il Laboratorio di Public History of Education. Membro della segreteria editoriale di “Rivista di storia dell’educazione” e della redazione della rivista “Farestoria”, è, dal 2016, parte del direttivo dell’Istituto storico della Resistenza di Pistoia. Ha all’attivo numerose pubblicazioni in storia dell’istruzione professionale, memorie scolastiche e letteratura per l’infanzia. Tra le sue ultime pubblicazioni, segnaliamo “Educare alla Tecnica. Istituti tecnici e professionali alla “Giornata della Tecnica” (McGraw Hill, 2023).

Articolo pubblicato nel febbraio 2024.




Uno scritto giovanile di Ferdinando di Targetti

Proponiamo, con lievi modifiche, ai lettori di ToscanaNovecento il testo di un intervento tenuto il 7 dicembre 2023 presso la Biblioteca Roncioniana di Prato per illustrare il contenuto di uno scritto giovanile di Ferdinando Targetti.

Ferdinando Targetti è un nome ben noto a chi si occupa di storia del movimento operaio e socialista. Nato a Firenze nel 1881, Targetti, pur appartenendo ad una famiglia di grandi industriali (uno dei suoi fratelli, Raimondo, sindaco della città all’epoca del regicidio, fu anche presidente della Confindustria), maturò assai presto la scelta di campo socialista, lasciando la sua quota in azienda ad un altro fratello e vivendo solo dei proventi della professione di avvocato. Fu il primo sindaco socialista di Prato (1912-1914) e venne poi eletto deputato alle politiche del 1919. Antifascista fermo e coerente, scampò per caso alla morte in occasione della famigerata «notte di San Bartolomeo» fiorentina (3 ottobre 1925) e dovette poi trasferirsi a Milano ed in Svizzera, ma non cessò mai di battersi contro il regime. Nel secondo dopoguerra fu vicepresidente della Costituente e successivamente della Camera dei deputati (carica dalla quale si dimise nel 1953 in segno di protesta contro la cosiddetta «legge truffa»). Negli anni del conflitto egli aveva maturato il convincimento che l’unità proletaria, intesa come costituzione di un partito unico dei lavoratori comprendente socialisti e comunisti, fosse la condizione imprescindibile per la difesa della pace, la conquista del potere e la realizzazione del socialismo. Socialismo che per lui significava superamento del capitalismo, il che spiega il suo rifiuto del cosiddetto centrosinistra organico e l’adesione al Partito socialista italiano di unità proletaria nel 1964. Morì a Milano quattro anni dopo.

L’opuscolo che costituisce il tema di questo intervento fu pubblicato da Targetti nel 1902, all’età di ventun anni: a quanto ci risulta, la Biblioteca Roncioniana è l’unica in tutta Italia a possederne una copia. Si tratta di uno scritto d’occasione – composto per le nozze della cugina Emma Indri col professor Mariano Desideri – che si intitola La nuova tendenza della nostra letteratura. Appunti critici: in esso Targetti delinea gli stadi di sviluppo della letteratura italiana dal Risorgimento in poi.

Targetti comincia con l’osservare che, nel periodo risorgimentale, la letteratura italiana aveva avuto un «carattere eminentemente politico», dato che il problema della cacciata dello straniero e della realizzazione dell’unità nazionale era allora di gran lunga il più importante ed occupava anche la mente e l’animo degli artisti.
Conclusosi il Risorgimento – osserva l’Autore – e venuta meno la tensione ideale che lo aveva animato, la nostra letteratura attraversò un periodo di crisi, caratterizzato da un’evidente carenza sul piano dei contenuti e dal prevalere di motivi intimistici e di atmosfere languidamente sentimentali: Aleardo Aleardi, Giovanni Prati, Giacomo Zanella (cui si deve l’ode Sopra una conchiglia fossile) ed i tanti epigoni di Alessandro Manzoni sono i rappresentanti di questa fase di decadenza che indusse il pubblico italiano a rivolgersi ad opere di autori stranieri, in primo luogo francesi (ed infatti, in quel torno di tempo, non era infrequente trovare nella biblioteca di tante famiglie, anche di livello culturale non elevato, opere di autori transalpini, magari in un’edizione a dispense, a cominciare dai Miserabili di Victor Hugo). Dalla letteratura francese – prosegue Targetti – presero spunto anche i poeti ed i romanzieri italiani, che cominciarono a svolgere nuovi temi traendo ispirazione dai fatti concreti ed umani ed inaugurando così una tendenza al reale che diede nerbo alle loro opere. Fra gli esempi del nuovo indirizzo letterario spiccava il nome di Giovanni Pascoli, che sentì il bisogno di ispirarsi ad avvenimenti correnti (come, ad esempio, la morte di William Ewart Gladstone – nella poesia La quercia d’Hawarden – o l’assassinio di Elisabetta d’Austria, avvenuto nel 1898 per mano dell’anarchico Luigi Lucheni – nella poesia Nel carcere di Ginevra, contenuta in Odi e inni) ma anche il romanzo (con Piccolo mondo moderno di Antonio Fogazzaro, Il marchese di Roccaverdina di Luigi Capuana ed Il vecchio della montagna di Grazia Deledda) palesò la stessa tendenza realistica. Da questo filone letterario di matrice francese, ispirato ai principi del realismo, scaturì poi un filone più propriamente sociale: lo spettacolo fornito dallo sfruttamento degli operai e dei contadini fece nascere in alcuni scrittori un vero e proprio odio per la società, che si tradusse in un aperto invito alla rivolta, mentre in altri generò un profondo desiderio di pace, di apertura verso le esigenze del popolo ispirata all’idea di fratellanza. Del primo gruppo facevano parte Giovanni Cena (Gli ammonitori), Lorenzo Stecchetti (Postuma) e Mario Rapisardi (Lucifero), del secondo Ada Negri, Annie Vivanti ed alcuni minori. Tutto questo – concludeva l’Autore – induceva a ritenere che in futuro la letteratura italiana avrebbe avuto «un contenuto in prevalenza sociale» e che «il valore delle manifestazioni artistiche [sarebbe stato] … determinato dall’utilità sociale».

Lo scritto di cui parliamo non è particolarmente originale e contiene delle affermazioni opinabili (ovviamente il fatto che un artista parteggi per i più deboli e che le sue opere abbiano un contenuto sociale non è di per sé sufficiente a garantire la qualità della sua produzione: Targetti trascura a questo proposito l’insegnamento di Francesco De Sanctis – che certamente non ignorava – a proposito dell’arte come contenuto formalizzato, come perfetta sintesi di contenuto e forma), ma, cionondimeno, esso è di grande interesse per lo storico. In parte perché esso costituisce una prova della vastità della cultura e degli interessi di Targetti (che qui non si occupa né di politica né di diritto, come in altri suoi lavori), ma soprattutto perché consente di far luce su un punto finora rimasto oscuro nella biografia politica del Nostro, cioè il momento della sua adesione al socialismo: nell’opuscolo, infatti, non solo Targetti mostra di apprezzare l’indirizzo realistico di parte della nostra letteratura, in accordo con i principi del marxismo (che dà una valutazione positiva dell’arte realistica in quanto essa, col suo contenuto di verità, rappresenta la realtà com’è effettivamente e non come la dipinge la classe dominante), ma afferma anche con chiarezza che la letteratura stessa sarebbe stata in futuro strettamente legata alle trasformazioni socioeconomiche del Paese, rifacendosi con ogni evidenza a quanto sostenuto da Marx e da Engels a proposito del rapporto fra struttura e sovrastruttura. In altre parole, l’opuscolo in questione è un lavoro scritto da un marxista: si può pertanto affermare con ragionevole certezza che nel 1902 Targetti, poco più che ventenne, avesse già maturato la sua adesione al marxismo e, verosimilmente, al Partito socialista. Il documento posseduto dalla Biblioteca Roncioniana consente quindi di aggiungere un altro importante tassello alla storia del movimento socialista in città.

Articolo pubblicato nel gennaio 2024.