1

Monumenti, lapidi, segni e luoghi di memoria della Seconda guerra mondiale e della Resistenza maremmana

La Resistenza rappresentò la fusione tra paesaggio e persone
Italo Calvino

 

Nessuno di questi monumenti parla davvero del passato: sono al contrario tutti espressione di una storia che è ancora viva e che, ci piaccia o no, continua a governare le nostre vite
Keith Lowe

 

A ottant’anni dalla Liberazione dei nostri territori dal nazifascismo è utile riflettere sulla memoria della Resistenza, provando a capire quale sia l’impatto di lungo periodo o, meglio, l’eredità della Resistenza ai nostri giorni. Di fatto, perché l’anniversario di quest’anno rappresenti nel discorso pubblico un momento significativo per porre all’attenzione il tema, come lo sono stati gli anniversari “tondi” che ci hanno preceduto, è necessario accompagnare le celebrazioni della Liberazione toscana e, nello specifico maremmana, a una riflessione profonda sul senso del parlare di Resistenza oggi, sui termini in cui farlo e sulle modalità memoriali che hanno caratterizzato questi ottant’anni trascorsi dall’estate del 1944, che vide la conclusione per la provincia di Grosseto dell’esperienza della lotta armata.

Philip Cooke scrive che c’è ancora il bisogno di colmare quello che lui definisce come “il divario fra l’indagine storica e l’analisi culturale”, per indagare quella doppia elica costituita dalla politica italiana e dalla cultura della Resistenza italiana, “due filamenti legati fra loro […] componenti strutturali del DNA dell’Italia contemporanea” che aiutano a comprendere la natura profonda di un paese che sulla memoria della Resistenza è in parte divisa (L’eredità della Resistenza. Storia, culture, politiche dal dopoguerra a oggi, 2015). Senza poter qui approfondire la questione per gli anni più recenti, come il bel volume di Philip Cooke fa, è necessario però almeno partire da questo ragionamento per evidenziare le diverse fasi nella costruzione della memoria della Resistenza che riguardano direttamente l’argomento di questo articolo (ovvero l’immediato dopoguerra, il decennio successivo che potremmo definire della “canonizzazione” del discorso resistenziale e gli anni Sessanta che sono caratterizzati dalla presenza del tema della “Resistenza tricolore”).

Su tale costruzione memoriale agiscono diversi vettori legati alla storia culturale come la letteratura, le arti figurative, il discorso pubblico e la memoria istituzionale (ad esempio, il calendario civile), la comunicazione politica, i testi giornalistici, le culture popolari, il cinema, la televisione, la musica, la rappresentazione fotografica; si tratta di alcuni dei temi a cui sono state maggiormente dedicati studi specifici, a partire soprattutto dagli anni Ottanta. Scarseggia invece, anche per quanto riguarda la provincia di Grosseto, una specifica attenzione al tema dei monumenti e dei segni di memoria dedicati alla Resistenza e questo nonostante il fatto che, se si considera la Resistenza come religione civile dell’Italia repubblicana, proprio i monumenti condensino di fatto riti, simboli e commemorazioni che fanno parte di questa tradizione memoriale.

Sul perché questo avviene Iara Meloni pone, a partire dal caso piacentino (saggio in Piedistallo della storia, a cura di S.Nannini e E. Pierazzoli, Viella 2022), alcune riflessioni molto interessanti a livello generale, a partire dalla considerazione evidente che rispetto al caso delle “memorie di pietra” della Prima guerra mondiale, su cui invece gli studi abbondano, non ci siano stati per la Resistenza miti unificanti, come ad esempio quello della mater dolorosa, e non esista una figura unica come quella del soldato in armi, richiamata dalle diverse forme di monumentalizzazione legate al milite ignoto: esistono invece una moltitudine di protagonisti e, di conseguenza, anche una moltitudine di atteggiamenti, comportamenti, azioni e quindi narrazioni diverse a cui gli studi sulla memoria della lotta di Liberazione dal nazifascismo devono fare riferimento. Altro aspetto da tenere in considerazione è anche la diffidenza, che in quel momento storico si impose con forza, nei confronti di tutta quella serie di retoriche celebrative e di miti patriottici, che erano stati retaggio del bagaglio culturale fascista e che nel dopoguerra invece si volle nettamente evitare, proprio per segnare una cesura con quell’esperienza. In questo senso, Iara Meloni parla di una vera e propria volontà di “smonumentalizzazione”, evidente sia nella modalità di creazione dei diversi segni di memoria, sia nell’assenza di studi specifici su di essi.

In provincia di Grosseto, negli anni, sono stati tentati progetti di mappatura delle “memorie di pietra” del territorio, facendo interagire monumenti, lapidi e segni di memoria con un approfondimento storico che potesse narrare e approfondire le vicende da essi ricordate (si veda, ad esempio, il progetto Cantieri della memoria. Dalle pietre al digitale). Ma al di là di alcuni tentativi portati avanti da diversi soggetti, fra cui l’Isgrec, non c’è stato un tentativo di contestualizzazione di quei monumenti che abbia coinvolto tutto il quadro provinciale, ovvero non si è guardato a quelle tracce del passato resistenziale con uno sguardo d’insieme che ne indagasse genesi e caratteri specifici.

Altro aspetto che caratterizza i primi anni dopo la fine del conflitto è il concentrarsi dell’asse della narrazione memoriale in località periferiche, in luoghi isolati e poco frequentati che però sono i luoghi che vengono riconosciuti significativi per singole comunità o per specifici gruppi sociali o politici. Si struttura in quei primi anni, insomma, un vero e proprio binomio fra evento e luogo, per cui il monumento – e il ricordo – si colloca nel luogo in cui l’evento avviene. Se teniamo presente che la memoria a livello locale della Resistenza è per lo più innervata in singole comunità[1], il ragionamento che ne deriva è che proprio lo spazio comunitario alla fine della guerra diventa una delle modalità principali attraverso cui la storia della Resistenza inizia a farsi discorso pubblico e a essere narrata, con modalità che ovviamente cambiano nel tempo[2].

In questa fase immediatamente successiva alla Liberazione si vedono chiaramente nascere gli archetipi di quella che sarà la successiva rappresentazione della Resistenza.

Lapide in memoria di Giovanni Pastasio

Cippi e monumenti sorgono numerosi nei luoghi di uccisione di partigiani o, in alcuni casi, di vittime del fascismo; nell’immediato dopoguerra, infatti, la precisa volontà di non dimenticare i caduti del periodo squadrista e di tornare a commemorare persone che non si erano potute commemorare fino ad allora porta alla creazione di alcune targhe e monumenti legati alle vicende degli anni Venti[3]. Già il 17 agosto 1945, ad esempio, a Gavorrano viene apposta una lapide che ricorda il luogo e il giorno in cui nel 1921, Giovanni Pastasio, giovane minatore antifascista, fu ucciso durante un’incursione di squadristi di Follonica, mentre a Scarlino viene collocata una targa in ricordo di Gabriello Dani, capolega dei contadini del territorio, ucciso l’11 settembre 1921 da una spedizione fascista.

Di contrasto, nella toponomastica si evidenzia la necessità impellente di una vera e propria epurazione simbolica rispetto a quel retaggio culturale fascista che aveva segnato profondamente le architetture delle città ma anche appunto i nomi delle strade, in particolare in riferimento al periodo squadrista.

In un documento del Comune di Grosseto dell’agosto 1943 (quindi ancora prima dell’inizio della Resistenza) appare evidente come già a seguito del 25 luglio ci si ponesse immediatamente la problematica di cambiare alcuni di questi toponimi (tornando in questo caso a quelli precedenti): ad esempio, a Grosseto si eliminò Piazza Rino Daus, martire del fascismo, squadrista senese della prima ora che aveva partecipato alla cosiddetta “presa di Grosseto” del giugno 1921; nella stessa logica avvenne la trasformazione in Via Piave di Via Ivo Saletti, squadrista che aveva partecipato alla spedizione punitiva su Roccastrada del luglio 1921, colpito poi sulla strada del ritorno o da un’imboscata o per fuoco amico – secondo due ricostruzioni contrapposte difficilmente verificabili –, alla cui morte seguì l’uccisione per rappresaglia da parte dei fascisti di dieci cittadini del paese.

Cippo di Boccheggiano in ricordo dei partigiani Ghiribelli, Malossi e Tompetrini

Se in merito alla memoria dello squadrismo il centenario della marcia su Roma nel 2022 ha avviato una riflessione complessiva, in questo primo tentativo di indagine è difficile pensare di poter anche solo citare, invece, i moltissimi cippi che a partire dal 1945 vengono dedicati ai caduti partigiani, spesso collocati in località davvero impervie e isolate, per cui si rimanda alla mappatura realizzata sul sito ResistenzaToscana creato della Federazione Regionale Toscana delle Associazioni Antifasciste e della Resistenza di cui fanno parte fra le altre ANPI, ANED e FIAP, a partire dal 2003. Fondamentale, però, è soprattutto sottolineare come questi luoghi diventino centrali nelle prime commemorazioni del 25 aprile o in cerimonie che avvengono nella ricorrenza delle date in cui le persone ricordate sono state uccise: i monumenti in questione diventano fin da subito, insomma, luoghi di ricorrente vivificazione rituale del ricordo, incarnando tutta una serie di rituali commemorativi che li hanno tenuti vivi come luoghi di memoria fino ad oggi.

Lapide a Campo al Bizzi (Monterotorndo Marittimo)

Quello che però è soprattutto utile, in quest’ottica, è guardare ad alcuni luoghi che sono centrali nella narrazione “canonica” della Resistenza maremmana, senza alcuna pretesa di esaustività, ma solo come riflessione di partenza sul tema. Ad esempio, la lapide di campo al Bizzi che ricorda l’Eccidio del Frassine (Monterotondo Marittimo) avvenuto il 16 febbraio 1944: posta sul casale che fu bruciato durante il rastrellamento del gruppo di giovani partigiani, in cui persero la vita Otello Gattoli di Massa Marittima, Silvano Benedici di Volterra, Pio Fidanzi di Prata, Salvatore Mancuso di Catania e Remo Meoni di Montale (Pt), è un esempio lampante di tutte le caratteristiche finora evidenziate perché nonostante il notevole isolamento del luogo la lapide (che oggi è stata spostata dal casale, che sta cadendo a pezzi, e inserita in un monumento scultoreo collocato nelle immediate vicinanze) è tuttora commemorata annualmente alla presenza di moltissime persone che la raggiungono dopo una lunga escursione a piedi organizzata dall’Anpi e dal Comune di Monterotondo Marittimo.

Commemorazione al cippo in memoria del tenente Gino (2021)

Simile per perifericità, anche se più elaborato dal punto di vista stilistico, il monumento commemorativo al Tenente Luigi Canzanelli, noto come “tenente Gino”, caduto insieme al suo attendente, il soldato Giovanni Conti, il 7 maggio 1944, a seguito di un’imboscata tesa da un gruppo di nazifascisti, nei pressi di Murci, frazione di Scansano; in questo caso il ricordo si colloca nell’ambito della Resistenza “con le stellette”, trattandosi di militari che aderiscono alle formazioni partigiane e, in questo caso, le guidano. Interessante è notare come questo monumento, collocato nel luogo dell’imboscata, sia stato restaurato nel 2021 dal Comando dei Carabinieri, un soggetto diverso da quelli che tipicamente agiscono quali vettori di memoria. Del resto, la stessa caserma del Comando provinciale dell’Arma di Grosseto è intitolata proprio a Luigi Canzanelli.

Monumento a Ponte del Ricci

Altro monumento particolarmente precoce in provincia di Grosseto è quello di Ponte del Ricci, nel Comune di Roccastrada. Collocato di fatto a un semplice bivio stradale, lontano dai paesi e isolato, si situa in un luogo che si trovò in prossimità del passaggio del fronte, dove il 17 giugno 1944 persero la vita quattro giovani partigiani della formazione “Gramsci” di Roccastrada, fra cui il comandante del distaccamento dei “Lupi rossi” di Montemassi. La memoria di questo episodio si è modificata nel corso del tempo grazie alla ricostruzione storica: dapprima identificato come una strage di civili, grazie alla ricerca di Cinzia Pieraccini del 2005, è stato riconosciuto come un episodio avvenuto durante un combattimento, legato, quindi, a uno scontro a fuoco tra partigiani e tedeschi in ritirata. Il monumento che oggi è presente, e che ha sostituito un semplice cippo con i nomi dei caduti, è stato realizzato nel 1973 dallo scultore Vittorio Basaglia.

Se lo spontaneismo è spesso all’origine di questi primi luoghi di memoria, con gli anni Cinquanta la monumentalizzazione risente maggiormente del discorso nazionale che si struttura sulla Resistenza.  Nell’Italia del centrismo democristiano e dell’alleanza occidentale la tradizione diviene infatti il serbatoio più rassicurante a cui la politica della memoria può attingere; anche per parlare di Resistenza ci si rifà a nodi narrativi che si legano alla pietas o che si rifanno all’interpretazione della Resistenza come a un secondo Risorgimento e che, quindi, interpretano le figure dei partigiani caduti secondo uno schema narrativo che si richiama alla lettura nazional-patriottica del martirio eroico.

Addirittura, a Grosseto la Chiesa cattolica e in particolare la figura del Vescovo Galeazzi contribuiscono negli anni Cinquanta a sottolineare questo aspetto della pietas cristiana fino al punto di cristallizzare in qualche modo la memoria di una “guerra senza Resistenza”. La costruzione della cripta della Chiesa del Sacro Cuore, infatti, contribuisce a incentrare la narrazione della guerra appena trascorsa sulle vittime civili, ricordando in particolare la “strage delle giostre” del 26 aprile 1943, quando nel corso del primo bombardamento subito da Grosseto, persero la vita 134 cittadini tra cui decine di bambini. [4] La narrazione del bombardamento di Pasquetta si manterrà incardinata al registro della pietas anche successivamente; ritroviamo la stessa impostazione, infatti, anche in monumenti successivi che continuano a fare riferimento a un universo simbolico prettamente religioso.

Cripta della Basilica del Sacro Cuore – Memoriale alle vittime dei bombardamenti (anni Cinquanta)

 

Monumento alle vittime dei bombardamenti di Grosseto (2003)

In merito, invece, al topos della Resistenza come “secondo Risorgimento” va precisato che, sebbene il racconto di taglio patriottico fosse già emerso durante la guerra per narrare la Resistenza come sforzo corale del popolo italiano, si strutturerà soprattutto in seguito in contrasto con la narrazione egemonica da parte comunista. Un’altra delle caratteristiche su cui riflettere nei monumenti della Resistenza del primo dopoguerra e degli anni Cinquanta è, quindi, la tendenza diffusa ad aggiungere (o comunque ad affiancare negli spazi pubblici) i nomi dei caduti del 1940-45 e dei caduti della Resistenza ai monumenti dedicati ai caduti della Prima guerra mondiale.

Memoriale ai caduti di Massa Marittima

In questa logica della Resistenza come secondo Risorgimento, in sostanza, essi vengono in qualche modo inseriti, come evidenzia anche Iara Meloni, in un “patriottico abbraccio cumulativo” (Massimo Baioni, Vedere per credere. Il racconto museale dell’Italia unita, 2020).

 

Per esemplificare in relazione al contesto grossetano, non si può non citare il memoriale dei Caduti di Massa Marittima, luogo chiuso al pubblico (aperto solo in alcune occasioni), che raccoglie i caduti delle guerre di indipendenza, i caduti della Prima guerra mondiale, i caduti della campagna di Russia e i caduti della Seconda guerra mondiale, fra cui alcuni partigiani.

Monumento ai caduti della Resistenza, cimitero di Sterpeto (Grosseto)

Allo stesso modo, si può fare riferimento alla terminologia impiegata nel monumento ai caduti della Resistenza realizzato nel 1954 nel cimitero di Sterpeto a Grosseto. Nelle lapidi laterali che fanno parte di questo monumento è interessante soffermarsi sul linguaggio, sulla retorica: una delle targhe recita “i partigiani caduti non risposero ad alcun bando, non alzarono bandiera, l’Italia li aveva chiamati per il suo tricolore morirono” (entra qui in gioco il tricolore, come simbolo evocativo del patriottismo), mentre sulla seconda lapide viene richiamato il “sangue versato per la patria”, in uno schema discorsivo chiaramente inserito in questa logica.

Il terzo tema cui si accennava, evidentemente collegato, è quello della memoria pubblica, militare e combattentistica, quasi epica, della Resistenza a cui si lega la figura dell’eroe, commemorato attraverso un vero e proprio “culto del martire”. Questa interpretazione martirologica della Resistenza è evocata nelle poche rappresentazioni figurative di quegli anni in Maremma, di cui un esempio fra tutti è il cippo di Potassa (la cui rappresentazione scultorea è in questo senso autoevidente). Fu dedicato al partigiano Flavio Agresti, Medaglia d’Argento al valor militare con la seguente motivazione: “In un tragico periodo della Patria invasa dal nemico, si faceva organizzatore ed animatore del Fronte Clandestino di Liberazione nel paese di Scarlino. Offertosi spontaneamente per una difficile e rischiosa missione di collegamento, tra un gruppo e l’altro di patrioti, veniva catturato dai reparti tedeschi. Sottoposto a stringente interrogatorio e ad ogni specie di sevizia e di tortura, onde rivelare l’entità dei patrioti e la missione a lui affidata, si rifiutava decisamente.

Monumento in memoria del partigiano Flavio Agresti

Legato, poi, dietro a un barroccino con le braccia incatenate dietro la schiena e trascinato per diversi chilometri, non avendo voluto tradire i compagni, veniva barbaramente finito da una raffica di fucile mitragliatore, chiudendo, così gloriosamente, una vita interamente dedicata alla Patria”.

Il rapporto fra i concetti di “eroe” e “martire”, ma anche lo slittamento semantico da “vittima” a “caduto per la lotta di Liberazione”, del resto, variano anch’essi al variare dell’evoluzione del discorso pubblico sulla Resistenza, quindi in base al contesto storico di riferimento. Ad esempio, la spinta a una narrazione eroica della Resistenza può essere interpretata come una reazione al clima della fine degli anni Quaranta con il fallimento dell’epurazione e l’avviarsi dei primi processi ai partigiani. Si rifugge in questo momento dal rischio di una “memoria debole”, sia attribuendo anche alle vittime delle stragi nazifasciste la qualifica di caduti per la lotta di Liberazione, sia ricorrendo al lemma del martirio e quindi quasi imponendo al lutto un senso a posteriori, determinato dalla scelta di donare la vita per la causa della lotta partigiana. Ci troviamo di fronte a una forma di narrazione estremamente ricorrente, che permane significativamente anche in monumenti di molto successivi.

Monumento ai Martiri dell’antifascismo e della Resistenza (Monumento ai deportati), Cittadella dello Studente (Grosseto)

Ad esempio, nel monumento ai Martiri dell’antifascismo e della Resistenza (Monumento ai deportati), che pure è del 1985: una composizione architettonica in cemento e metallo, “tempietto moderno”, costituito da linee strutturali orizzontali e verticali, alternate a linee curve, immerso nel verde. Fu progettato da Maria Paola Mugnaini, allora studentessa del Liceo Artistico di Grosseto, in preparazione dell’esame di maturità, con la guida e la collaborazione dell’architetto Pietro Pettini, già docente del Liceo. La Provincia di Grosseto lo realizzò in occasione del quarantesimo Anniversario della Liberazione e fu collocato nella sede attuale, all’interno della Cittadella degli Studi. Si tratta di un monumento completamente astratto, ma al cui interno una targa recita “La mia giovinezza è spezzata ma sono sicuro che servirà da esempio  – Uno studente fucilato dai nazifascisti il 4 maggio 1944”.

Una riflessione che può essere ampliata grazie agli spunti offerti dallo storico inglese Keith Lowe che, nel 2021, facendo riferimento alle molteplici categorie memoriali di “eroi, martiri, mostri, apocalisse, rinascita”, ha evidenziato che “queste cinque declinazioni della memoria non solo si fanno forza ma si amplificano a vicenda. L’idea dell’Armageddon fornisce il contesto perfetto per l’immaginario condiviso della guerra come scontro titanico intorno all’anima dell’umanità. Gli eroi sono più eroici di fronte al male assoluto contro il quale lottavano; e i mostri sono più mostruosi se ci soffermiamo sull’innocenza dei martiri che hanno torturato. Il fine ultimo è collegare tutte queste immagini, per ottenere la fede in un mondo nuovo, che rinasce dalle ceneri di quello vecchio” (Prigionieri della storia. Che cosa ci insegnano i monumenti della Seconda guerra mondiale sulla memoria di noi stessi, 2021).

Monumento ai martiri d’Istia realizzato dal Comune di Magliano in Toscana a Maiano Lavacchio nel 1964

Un ragionamento estremamente interessante da applicare, in particolare, ai monumenti dedicati ai martiri d’Istia e alle vittime della strage di Niccioleta, su cui ci si soffermerà quindi in conclusione. Nel primo caso, si fa riferimento alla strage fascista avvenuta a Maiano Lavacchio, nel Comune di Magliano in Toscana, il 22 marzo 1944: furono fucilati dai fascisti 11 giovani che avevano rifiutato di arruolarsi nel costituendo esercito della Repubblica sociale italiana, 11 inermi nel sentire popolare, “11 agnelli” nei primissimi canti in ottava rima che diedero forma alla precoce narrazione (strutturata in forme capaci di “passare di bocca in bocca”) di una vicenda che lasciò una cicatrice profondissima nella memoria collettiva grossetana, per la giovane età delle vittime, l’immagine della loro innocenza, per la crudeltà e la barbarie dei carnefici, per il gesto coraggioso del parroco d’Istia d’Ombrone, don Omero Mugnaini, che sfidò le autorità fasciste opponendosi al divieto di dare sepoltura alle vittime.

Successivamente il discorso pubblico che si stava strutturando intorno alla Resistenza trasformerà gli 11 ragazzi giocoforza in partigiani combattenti, partecipi anche da morti dello sforzo corale del popolo maremmano per la Liberazione della provincia. La ricostruzione storica, avviatasi con la raccolta di materiali e fonti documentarie che l’Isgrec ha portato avanti nel corso di ricerche pluriennali (confluite nel volume di Marco Grilli Per noi il tempo s’è fermato all’alba. Storia dei Martiri d’Istia del 2014), ha dimostrato però che sulla possibile scelta partigiana sono possibili solo congetture, mentre di fatto da testimonianze di familiari e amici emerge con forza la scelta di Resistenza civile e non in armi dei ragazzi. Bisogna quindi contestualizzare quella memoria, ricordando che nel dopoguerra la possibilità di una scelta di forte e netta opposizione non in armi al nazifascismo, come quella forse degli 11 “martiri d’Istia”, è preclusa dall’orizzonte del riconoscimento morale: siamo ancora ben lontani da quell’accettazione di una complessità di esperienze e percorsi impostasi poi anche nel senso comune grazie alla feconda categoria interpretativa di Resistenza civile.

La “chiesina” di Maiano Lavacchio

La memoria degli 11 ragazzi di Maiano Lavacchio è impressa in molti luoghi; a Maiano Lavacchio, è presente un tempietto votivo, conosciuto da tutti come “la chiesina”, fatto costruire dalla famiglia Matteini proprio nel punto in cui i ragazzi furono uccisi. Poco distante, il monumento fatto installare dal Comune di Magliano nel 1964, semplice obelisco sormontato da una lanterna funebre. Al suo fianco è presente anche la Casa della memoria al futuro dell’Isgrec, un “progetto partecipato” da cittadini e Istituzioni che ha trasformato un edificio presente sul luogo della strage in uno spazio culturale per la comunità, un laboratorio dove promuovere e produrre arte, cultura e formazione, attraverso l’aggregazione, la coesione e l’inclusione sociale. Un luogo di memoria dove ospitare studenti e stagisti, pensato per custodire una biblioteca ed essere sede di incontri, che è stato inaugurato il 22 marzo 2023 in occasione della 79° commemorazione ufficiale dei Martiri d’Istia.

La Casa della memoria al futuro a Maiano Lavacchio

Altri monumenti e segni di memoria sono dislocati nei paesi di origine delle vittime, a Grosseto, a Cinigiano, a Istia d’Ombrone, ma anche a Ispica in Sicilia e a Serre in provincia di Salerno, da cui provenivano due dei “martiri”, e sono stati mappati e presentati dalla mostra online realizzata dall’Isgrec nel 2021 (https://martiridistia.weebly.com/). Monumento, nel senso più elevato del termine, è anche la lavagna su cui uno dei due giovanissimi fratelli Matteini, nei momenti precedenti la fucilazione, scrisse un messaggio per la mamma, quello straziante “Mamma, Lele e Corrado un bacio” che è diventato uno dei simboli identitari dell’antifascismo grossetano. Oggi la lavagna è conservata nel Municipio di Grosseto, nell’ufficio del primo cittadino, a ricordo indelebile del valore fondante su cui si basa la Costituzione e la convivenza nella civitas.

La lavagna con l’ultimo saluto alla madre dei fratelli Matteini

Come dimostra il caso di Maiano Lavacchio, quella delle stragi è del resto memoria specifica all’interno della più ampia memoria resistenziale dell’intero territorio provinciale. Una memoria che genera un processo di monumentalizzazione estremamente ampio e diffuso a livello territoriale, già evidente nel caso della strage di Maiano Lavacchio e che si riconferma anche nel caso della strage con il più ampio numero di vittime della provincia di Grosseto, quella del villaggio minerario di Niccioleta del 13-14 giugno 1944:[5] in questo episodio le vittime furono 83 minatori, che provenivano dalla provincia intera ed erano arrivati nel piccolo villaggio minerario, soprattutto dal monte Amiata, in cerca di un lavoro, faticoso e pericoloso, ma che potesse garantire vita e sostentamento per sé e per i propri familiari. L’istituzionalizzazione del ricordo si legò di conseguenza ai diversi momenti di traslazione delle salme nei cimiteri di origine[6], in occasione dei quali furono collocati la maggior parte dei monumenti e delle lapidi più antichi.

Tabernacolo dedicato alle vittime di Niccioleta

 

Lastra in memoria di Aurelio Cappelletti, morto a Niccioleta, collocata a Tatti in occasione della traslazione della salma nel 1945

 

Monumento ai caduti di Niccioleta nel Cimitero di Castellazzara, collocato nel dopoguerra in occasione della traslazione delle salme, s.d. (la stele ai caduti di Niccioleta e di tutte le guerre è invece stata collocata nel 1990)

 

Monumento di Giulio Porcinai in memoria dei martiri dell’eccidio di Niccioleta nel Cimitero comunale di Santa Fiora (1951)

 

Lapide a Massa Marittima

 

Lapide a Massa Marittima

La memoria dell’eccidio vide così declinarsi numerose narrazioni su pietra non soltanto a Niccioleta e Castelnuovo Val di Cecina, luoghi delle uccisioni degli 83 minatori, ma in tutta la provincia, sia in monumenti dedicati sia con l’inserimento delle vittime nelle targhe dedicate ai caduti dai differenti Comuni maremmani di origine.

Si tratta inoltre di una monumentalizzazione che si colloca in varie fasi storiche, modificando le sue caratteristiche nel corso del tempo, e che quindi risulta estremamente utile da considerare in relazione al tipo di analisi che si è tentato qui. Un aspetto che si può mettere in evidenza, ad esempio, è quello relativo agli anni Sessanta quando i monumenti, salvo rare eccezioni, si spostano dal luogo degli eccidi nelle piazze principali dei centri abitati, venendo a occupare uno spazio centrale nella narrazione pubblica, come ad esempio succede a Castelnuovo, dove nel ventennale del 1964 oltre al monumento presente nel vallino della fucilazione, viene costruito il Monumento ai Caduti della Niccioleta nella centrale piazza Matteotti. Nello stesso anno a Massa Marittima il carrarese ex partigiano Nardo Duchi realizza il monumento di Parco di Poggio a Massa Marittima: la collocazione è in questo caso simbolica quanto il monumento stesso, che vede i martiri alzare le mani per proteggere la città presente nel panorama immediatamente sottostante.

Massa Marittima (Parco di Poggio), Monumento ai caduti di Niccioleta, scolpito dall’artista carrarese e ex partigiano Nardo Durchi nel 1964

 

Monumento ai Caduti della Niccioleta – Castelnuovo Val di Cecina, piazza Matteotti (1964)

Lo stesso fenomeno di occupazione dello spazio urbano è evidente nel piccolo villaggio di Niccioleta dove alla targa sulla parete prospiciente il cortile dove avvenne la prima fucilazione di sei minatori si sono aggiunti nel corso degli anni a qualche metro di distanza, ma in posizione chiaramente centrata rispetto allo spazio urbano, il cippo commemorativo del 2004 e la targa con i nomi dei minatori uccisi nel 2005, in un processo che satura il luogo simbolico di memorie sovrapposte collocate durante i diversi anniversari.

Lapide a Niccioleta

 

Cippo a Niccioleta

 

Lapide a Niccioleta

Evidente da quest’ultimo esempio è anche come la monumentalizzazione della strage di Niccioleta, dopo una fase di oblio abbastanza prolungato (scrive Paolo Pezzino che nel dopoguerra «la memoria è stata coltivata nelle zone di origine delle famiglie dei minatori, ma il fatto che questi fossero dispersi nell’Amiata, che poi l’eccidio sia avvenuto in un’altra terra ancora, Castelnuovo Val di Cecina, fa sì che la strage di Niccioleta, come altre in Italia, sia stata ben presto dimenticata») abbia ripreso vigore dalla fine degli anni Novanta, con l’avviarsi delle ricerche storiche che portarono a contestualizzare la vicenda nel fenomeno della ritirata aggressiva dell’esercito tedesco (Paolo Pezzino, Storie di guerra civile. L’eccidio di Niccioleta, 2001).

Lapide posta sul teatro-prigione di Castelnuovo Val di Cecina 2016

Segni di memoria sono comparsi quindi anche recentemente, ad esempio nel 2016 è stata apposta una lapide sul teatro-prigione di Castelnuovo Val di Cecina dove i prigionieri trasferiti da Niccioleta furono imprigionati, mentre dal 2022 Niccioleta è stata accolta nella rete dei Paesaggi della memoria.

Il luogo di memoria specifico relativo alla strage è comunque da sempre rappresentato dal Vallino dei Martiri a Castelnuovo Val di Cecina: qui, in mezzo al rumore assordante dei soffioni boraciferi, avvenne il 14 giugno la fucilazione di 77 minatori e qui inizialmente le salme furono seppellite in fosse senza nome. Sul luogo una semplice croce e un cartello individuarono fin da subito lo spazio simbolico della commemorazione; oggi nel Vallino esiste un museo diffuso, realizzato da Isgrec negli anni Duemila con l’apposizione di pannelli esplicativi.

Il vallino subito dopo la strage

 

Il vallino di Castelnuovo Val di Cecina

 

In seguito, in data imprecisata, ma probabilmente già nel 1945, venne costruito subito a monte un monumento che negli anni ha subito una piccola ma significativa trasformazione (emersa grazie al raffronto con le foto storiche, ma non ancora indagata attraverso le fonti d’archivio): sulla facciata del monumento, alla targa originaria, che era molto evocativa ma non faceva riferimento ai fatti, pare sia stata aggiunta in un secondo momento – imprecisato – una parte iniziale descrittiva dell’episodio (mentre sul retro una seconda lapide ricorda i nomi dei 77 minatori uccisi); quasi che il passare del tempo avesse reso necessario un chiarimento rispetto alla vicenda, non più ritenuta autoevidente per chi incappava nel monumento.

Se per luoghi di memoria intendiamo quei luoghi che «sono percepiti dalle popolazioni che li abitano o li conoscono come espressivi di identità legate al loro vissuto, ai racconti dei loro genitori e nonni» è evidente che la capacità di questi luoghi di dialogare con le comunità di riferimento cambia nel tempo, si perde o semplicemente si trasforma con il passare delle generazioni. I segni di pietra della Seconda guerra mondiale e della Resistenza, a ottant’anni dai fatti, paiono sempre più necessitare quindi dell’attenzione degli storici e dell’esercizio attivo di memoria da uomini e donne, singolarmente o in gruppo. Solo così pare possibile preservare ciò che questi monumenti e segni di memoria hanno tutti, quell’aspirazione a raccontare «qualcosa di universale per eccellenza: sia l’opposizione alla tirannia, all’ingiustizia o sia la lotta per i diritti e la libertà, per la liberazione della patria» (Massimo Dadà, Paesaggi della memoria. Dai luoghi alla rete, e viceversa, 2018).

Note
[1] Si veda l’esistenza datata ormai al 2017 dei Paesaggi della memoria, rete di musei e luoghi di memoria dell’Antifascismo, della Deportazione, della Seconda Guerra Mondiale, della Resistenza e della Liberazione in Italia che fa da contraltare all’assenza, fino ad oggi, di un museo a livello nazionale (www.paesaggidellamemoria.it).
[2] Per capire come alla Resistenza del territorio maremmano si è guardato nei diversi momenti storici si possono considerare le diverse opere che al tema si sono approcciate nel contesto locale: ad esempio, I minatori della Maremma di Luciano Bianciardi e Carlo Cassola del 1956; Visi sporchi coscienze pulite. Storia di un piccolo paese minerario della Toscana di Mauro Tognoni, che è del 1975; il racconto autobiografico di Aristeo Banchi, Si va pel mondo. Il partito comunista dalle origini al 1944 che è del 1993. Si tratta di scritti sulla Resistenza o memorialistici che, se comparati, possono ben darci il senso di come è cambiata questa narrazione.
[3] Sui limiti della memoria e della ricostruzione storica dello squadrismo maremmano si veda Ilaria Cansella, L’avvio dello squadrismo in provincia di Grosseto: il 1921 e i fatti di Roccastrada, in Roberto Bianchi (a cura di), 1921. Squadrismo e violenza politica in Toscana, Olschki, 2022.
[4] Cfr. Adolfo Turbanti, Stefano Campagna, Antifascismo, guerra e Resistenze in Maremma, Effigi, Quaderno Isgrec n. 8, 2021.
[5] Cfr. Katia Taddei, Il massacro dei minatori di Niccioleta. 13-14 giugno 1944, su https://www.toscananovecento.it/custom_type/il-massacro-dei-minatori-di-niccioleta-13-14-giugno-1944/.
[6] La prima cerimonia avvenne a Massa Marittima alla fine del settembre 1944. Una grande folla seguì gli autocarri che trasportavano i feretri. In quell’occasione, al parco  della Rimembranza parlò a nome dell’intera cittadinanza il socialista Emilio Zannerini.



La Repubblica sociale italiana e il primo neofascismo toscano

Il recente convegno «Le fiamme dal basso». Neofascismo e destre estreme in provincia: protagonisti, strutture, prospettive di ricerca, organizzato il 19-20 ottobre 2023 dall’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea “Vittorio Meoni” di Siena, ha riportato al centro del dibattito storiografico l’importanza della dimensione locale nello studio dei neofascismi, evidenziando le potenzialità di questo approccio per meglio indagare, nella loro concretezza, culture, prassi politiche e classi dirigenti dell’estrema destra italiana[1]. Il presente contributo, sintetizzando la relazione discussa in quella sede, cerca quindi di riflettere su come l’esperienza combattentistica ed esistenziale di Salò abbia contribuito a definire, nei primi anni del dopoguerra, i tratti identitari e la cultura politica del neofascismo toscano e, in special modo, del neonato Movimento sociale italiano (MSI), che dell’ultimo fascismo avrebbe raccolto l’eredità materiale oltre che ideale.

Il caso toscano appare in tal senso un terreno d’indagine particolarmente fecondo, tanto per il peso storico assunto dal fascismo nella regione quanto poi per le oggettive difficoltà ambientali che avrebbero caratterizzato la ripresa neofascista in un contesto sociale e politico ben diverso da quello del Centro-Sud Italia, principale bacino di voti e di affermazione del MSI. Un aspetto, quest’ultimo, che ha fortemente condizionato la disponibilità odierna di fonti interne al partito, pressoché assenti per le province toscane, e che ha costretto a rivolgersi primariamente verso fonti di polizia, non prive di limiti e criticità ma rivelatesi, specie in taluni contesti, estremamente preziose e in parte ancora inesplorate (Parlato 2020, pp. 15-21).

Ciò detto, va altresì notato come l’esperienza del fascismo repubblicano abbia assunto nella regione tratti per molti versi peculiari: dettati non solo e non tanto dalla folta presenza di gerarchi toscani nella compagine di governo saloina, capaci a loro volta di mobilitare una fitta rete clientelare locale, quanto piuttosto perché in questo spazio si impongono e sovrappongono, tra il 1943 e il 1944, contesti di occupazione, guerra civile e scontro aperto tra eserciti in lotta, che dilaniarono un tessuto sociale già duramente colpito dallo stragismo fascista e nazista. Lo sfollamento di migliaia di fascisti toscani al di là della linea Gotica, fuggiti nell’estate del 1944 dinanzi all’avanzata alleata, avrebbe infine reso ancor più dolorosa e traumatica la prospettiva di una sconfitta ormai imminente (Mazzoni 2006; Rossi 2000).

All’indomani della Liberazione, lo straniamento per la perdita di ogni riferimento politico e ideale si associava quindi, per molti fascisti di Salò, alla difficile prova del carcere e dell’internamento così come all’apertura di procedimenti giudiziari ed epurativi che avrebbero indelebilmente segnato – al di là degli esiti contradditori di tale processo – il vissuto e la memoria dei vinti. Parallelamente, il brusco rientro alla vita civile verrà poi a caratterizzarsi per l’ostracizzazione delle proprie comunità, talvolta sfociata in forme di giustizia sommaria volte a sfogare la rabbia della popolazione per le privazioni e i lutti subiti durante il conflitto (Dondi 1999, pp. 91 sgg.; Martini 2019, pp. 77-95).

È in questo contesto che maturava quindi l’esigenza quasi istintiva di «ritrovarsi», di «riconoscersi» tra ex-commilitoni, tentando di reagire di fronte a un paese ormai percepito come estraneo. Già nei mesi a cavallo tra il 1945 e il 1946, le carte di polizia testimoniano anche in Toscana l’attivarsi di alcune prime cellule neofasciste, spesso animate da giovani e giovanissimi legati all’esperienza della RSI e impegnate, solitamente, in azioni poco più che dimostrative quali imbrattamenti con scritte murarie, apposizione di emblemi fascisti e diffusione di manifestini esaltanti il fascismo repubblicano – il “vero fascismo” non inquinato dai compromessi imposti dal regime – e prospettanti la punizione verso i “traditori”, padroni ora del campo. Iniziative incapaci di superare la «soglia della testimonianza» ma non per questo prive di significato per la più amplia platea di nostalgici e reduci (Mammone 2005, pp. 263-269, Tonietto 2019, pp. 95 sgg.).

Particolarmente interessante è il ricercato simbolismo che in diversi casi assumono queste prime manifestazioni: colpisce, per fare un esempio, l’operato di una presunta cellula delle Squadra d’Azione Mussolini (SAM) attiva a Firenze, che nella notte tra il 27 e il 28 aprile 1946, primo anniversario della morte del duce, riusciva ad apporre una bandiera tricolore recante il fascio repubblicano sulla torre di Maratona dell’odierno stadio Artemio Franchi – già intitolato al martire fascista Giovanni Berta – laddove nel marzo 1944 erano stati fucilati cinque renitenti alla leva condannati dal tribunale militare di Firenze. Altrettanto esplicite erano le scritte rinvenute nel luogo dell’eccidio, che si richiamavano alla dimensione mitopoietica del martirologio fascista quale esempio per i superstiti e le future generazioni[2].

 

 

Ci muoviamo, com’è evidente, entro un immaginario nel quale la memoria bruciante della guerra civile e della disfatta avrebbe alimentato un pervasivo «culto della vendetta», rappresentando al contempo un tenace strumento identitario per lo sparso universo neofascista, incapace di rassegnarsi alla sconfitta politica e morale patita dal fascismo (Panvini 2017, pp. 156-158). Solo in taluni casi tuttavia, l’attività di questi primi gruppi clandestini avrebbe assunto una qualche consistenza numerica: è il caso di Pisa, dove un gruppo di studenti universitari, diversi dei quali reduci dal campo di prigionia di Coltano, veniva a riunirsi agli inizi del 1946 attorno alla carismatica figura di Rutilio Sermonti, già ufficiale della divisione SS italiana e destinato a una lunga militanza tra le fila del MSI e quindi nelle formazioni dell’estrema destra extra-parlamentare. Interessante soffermarsi sulle dinamiche aggregative del gruppo e sull’autorappresentazione fornita da questi giovani reduci, particolarmente importante per i futuri sviluppi politici dell’organizzazione neofascista.

 

Tutti furono concordi nell’affermare – riferiva il prefetto di Pisa – che, ritornati dopo la liberazione del Nord […], si erano sentiti accumunati nello stesso sentimento di unirsi, considerandosi ormai dei relitti di una società travolta dalla disfatta e che lo scopo delle loro riunioni si concretava nella necessità di sorreggersi scambievolmente, di trovare un partito che […] potesse […] permetter loro di concorrere alla resurrezione del Paese.

 

Posizione ribadita dallo stesso Sermonti, che in sede di interrogatorio chiariva come

 

a Pisa continuai a coltivare le amicizie con i miei compagni d’arme e di fede politica. La nuova politica fatta dai partiti di sinistra contro i fascisti aveva accumunati noialtri che […] ci sentivamo estraniati completamente dalla vita politica italiana. Fu così che sorse in me il proposito di riunire, in qualche […] movimento la maggior parte dei fascisti da me conosciuti[3].

 

Non a caso, i primi tra cui si cerchi di fare proselitismo erano proprio ex-commilitoni già internati a Coltano, sfruttandone poi la rete di conoscenze per tentare di ampliare il raggio d’azione del gruppo nelle province limitrofe. Indizi questi che confermano l’importanza che tanto la traumatica prova della guerra civile quanto quella, altrettanto sofferta, della prigionia o dell’internamento avrebbero rappresentato per i reduci di Salò e, più in generale, per l’immaginario neofascista, rinsaldando il senso di «continuità» con il recente passato e cementando, al contempo, forti sentimenti anticomunisti e antidemocratici (Parlato 2006, pp. 117 sgg.)

In questo scenario, la nascita del MSI verrà quindi a svolgere un importante ruolo di catalizzatore e di aggregazione per gli ex-fascisti, rappresentando in un contesto ambientale particolarmente ostile una nuova prospettiva politica entro cui far coesistere, pur non senza attriti, i diversi volti del neofascismo. Siamo di fronte, anche nel caso toscano, a una comunità inizialmente formata per la gran parte da reduci del conflitto mondiale e dell’esperienza di Salò; un vissuto che avrebbe rappresentato una tappa qualificante nella socializzazione politica dei quadri intermedi e inferiori del MSI, spesso costituiti da uomini relativamente giovani – nuovi quindi a qualche un impegno politico – o, laddove già attivi nelle organizzazioni del fascismo, confinati in posizioni defilate e in tal senso più facilmente spendibili nello scenario politico postbellico (Borri 2013, pp. 83-84).

Si pensi al caso senese, dove il movimento missino si strutturava attorno a Giovanni Viti, già fascista repubblicano fuggito nel Nord Italia e circondatosi da numerosi ex-commilitoni a loro volta attivi tra le schiere del PFR. Ma anche a Livorno i primi «organizzatori» e «aderenti» al MSI erano «tutti ex fascisti ed ex appartenenti alla Repubblica di Salò», nella cui sede, perquisita dagli agenti della Questura, campeggiava accanto all’effige del duce un ritratto del maresciallo Graziani, già ministro delle Forze armate della RSI e tra i “padri nobili” del partito della fiamma. Parallelamente, la sezione pistoiese vedeva tra i suoi primi animatori diversi ex-prigionieri di guerra, tra cui lo stesso segretario Alix Fiaschi, rimpatriato agli inizi del 1947 e spesosi immediatamente per l’organizzazione del nuovo partito. Un’esperienza, quella della prigionia e della “non collaborazione” con gli Alleati che avrebbe segnato – non a caso – il destino politico di altre figure di spicco del MSI toscano, quali Danilo Ravenni, per molti anni ispettore regionale e tra i fondatori del partito in Lucchesia, e Giuseppe Niccolai, dirigente di punta del MSI a Pisa e quindi deputato dal 1968[4].

Nei primi mesi del 1947 muoveva i primi passi anche la federazione fiorentina, inizialmente guidata dal colonnello in congedo Mario Fani. In questo caso, il tentativo di uscire dall’anonimato si concretizzata con l’organizzazione del cosiddetto “giornale parlato”, trasmesso ogni domenica mattina a partire dal 4 maggio 1947 dagli altoparlanti posti presso la sede del MSI, nel centro storico cittadino. Un appuntamento presto trasformatosi in occasione di scontri, anche piuttosto violenti, con gli oppositori e il cui risalto mediatico era abilmente sfruttato dagli organizzatori missini per “rioccupare” un pur marginale spazio politico e testimoniare a un più ampio pubblico i propri sforzi, denunciando al contempo le spinte antidemocratiche e antinazionali del partito comunista. Le trascrizioni degli interventi letti in queste occasioni, conservate nei fascicoli della Questura fiorentina, offrono importanti elementi per indagare l’orizzonte politico-culturale del primo neofascismo toscano. In particolare, nel testo letto in apertura del primo “giornale parlato”, l’oratore esordiva ricordando come «il MSI è nato dopo l’aspra prova della guerra e della disfatta», resa possibile da coloro che «ponendosi contro il proprio Paese in guerra, ne ha sabotato lo sforzo e […] ha voluto assassinare la propria Nazione». All’opposto, i militanti neofascisti si presentavano ribadendo come «noi siamo dei soldati, reduci, ex combattenti dei vari fronti [di guerra]», e dunque «uomini d’onore» che con la propria coerenza ideale avrebbero posto «sopra ogni altra Idea, […] il culto e l’idea di Patria» [5].

Quello che si presenta ai fiorentini ad appena due anni dalla fine del conflitto è dunque un partito dichiaratamente ancorato all’esperienza della guerra e della guerra civile, mosso da un immaginario venuto a radicalizzarsi di fronte al fallimento militare del fascismo, al cedimento del fronte interno e quindi nelle cupe atmosfere della RSI. Una retorica attraverso la quale i confini tra guerra e dopoguerra finivano per annullarsi e che pur rivolgendosi, in prima battuta, a coloro che quella guerra avevano combattuto e perso, tentava al contempo di gettare un ponte tra le diverse anime del neofascismo, difendendo le ragioni della guerra, agitando lo spettro anticomunista e richiamandosi alla «rivoluzione» in campo sociale tentata dal fascismo repubblicano.

Sintomatico inoltre il fatto che di fronte all’offensiva governativa imbastita a partire dal 1950 contro il partito della fiamma, le federazioni toscane tornassero a fare appello a questo patrimonio simbolico e identitario, anche nel tentativo di rinsaldare un’organizzazione partitica segnata da crescenti contrasti interni che – semplificando – vedevano contrapporsi la compagine più “istituzionale” legata alla segreteria di De Marsanich a quella “intransigente”, solitamente rappresentata dalle componenti giovanili e reducistiche (Tonietto 2019, pp. 203-259). In una serie di manifesti affissi in diverse città toscane, i dirigenti missini locali difendevano quindi la legittimità politica del proprio partito, richiamandosi all’eredità del «sangue versato» nella «sfortunata guerra perduta»: nel partito della fiamma, ribadiva con orgoglio il segretario della sezione pratese, militavano infatti «tutti i soldati [dell’]onore, i reduci di tutte le guerre, quindi i Combattenti di Spagna e di Russia» che avevano combattuto per «difende[re] la civiltà occidentale», al contrario di coloro – primi fra tutti gli esponenti della Democrazia Cristiana – che avrebbero «diserta[to] il campo» tradendo così la causa italiana, nel tentativo di «ingraziar[si] le belve scarlatte per avere, in un probabile futuro, […] salva la pellaccia»[6].

La memoria della RSI, della guerra civile e più in generale della sconfitta – di una disfatta militare ma non morale – avrebbe dunque rappresentato nel dopoguerra un collante importantissimo per tenere assieme la comunità politica e umana del MSI, fornendo una risorsa identitaria estremamente tenace e pervasiva cui ancorare la sopravvivenza della comunità dei vinti, specie in quei contesti – quali appunto la Toscana – dove il partito missino avrebbe sperimentato un’esistenza a lungo marginale e certamente precaria. In tal senso, la dimensione locale da modo di scandagliare nuovi percorsi d’indagine capaci di ampliare il nostro sguardo tanto sulle traiettorie di più lungo periodo del neofascismo, durante e dopo la guerra mondiale, ma anche sulla “riproduzione” e gli adattamenti che l’immaginario della RSI avrebbe avuto nella cultura politica dell’estrema destra italiana.

 

Riferimenti bibliografici:

 

– M. Borri, Il movimento sociale italiano in Toscana, dalla nascita al congresso di Viareggio. Appunti per una ricerca, in «Società e storia», (2023), n. 179, pp. 63-89.

 

– M. Dondi, La lunga liberazione. Giustizia e violenza nel dopoguerra italiano, Editori Riuniti, Roma 1999.

 

– A. Mammone, Gli orfani del duce. I fascisti dal 1943 al 1946, in «Italia contemporanea», (2005, b. 239-240, pp. 249-274.

 

– A. Martini, Dopo Mussolini. I processi ai fascisti e ai collaborazionisti (1944-1953), Viella, Roma 2019.

 

– M. Mazzoni, La Repubblica sociale italiana in Toscana, in M. Palla (a cura di), Storia della Resistenza in Toscana, Vol. I, Carocci, Roma 2006, pp. 147-187.

 

– G. Panvini, L’altro dopoguerra: i neofascisti e la legittimazione della violenza politica nell’Italia repubblicana, in E. Acciai, G. Panvini, C. Poesio, T. Rovatti (a cura di), Oltre il 1945. Violenza, conflitto sociale, ordine pubblico nel dopoguerra europeo, Viella, Roma 2017, pp. 153-166.

 

– G. Parlato, Fascisti senza Mussolini. Le origini del neofascismo in Italia, 1943-1948, Il Mulino, Bologna 2006.

 

– G. Parlato, Destra e neofascismo in Italia. Il contributo della storia locale, in L. La Rovere (a cura di), I “neri” in una provincia “rossa”. Destre e neofascismo a Perugia dal dopoguerra agli anni Settanta, Foligno, Editoriale Umbra, 2020, pp. 15-21.

 

– A. Rossi, Fascisti toscani nella Repubblica di Salò 1943-1945, BFS, Pisa 2000.

 

– N. Tonietto, La genesi del neofascismo in Italia. Dal periodo clandestino alle manifestazioni per Trieste italiana. 1943-1953, Le Monnier, Firenze 2019.

 

Note

 

[1] Gli atti del convegno sono in corso di pubblicazione. Per la registrazione dell’evento vedi la sezione “Multimedia” presente in questa pagina.

[2] Sull’episodio vedi la documentazione raccolta in Archivio centrale dello Stato, Ministero dell’Interno (ACS, MI), Gabinetto, 1944-46, b. 188, fasc. 21017.

[3] Ivi, b. 203, fasc. 21856, Relazione del prefetto di Pisa, 10 aprile 1946 e Interrogatorio di Rutilio Sermonti, 14 marzo 1946. Ai primi di marzo 1946, molti dei componenti del gruppo erano individuati e arrestati dalla questura pisana prima di poter intraprendere una qualche concreta attività.

[4] Sulla prima organizzazione del MSI toscano si vedano in particolare i fascicoli raccolti nelle serie annuali del Gabinetto del ministero dell’Interno e della Direzione generale per la Pubblica sicurezza, conservati presso l’Archivio centrale dello Stato.

[5] Archivio di Stato di Firenze, Gabinetto di Questura (vers. 1963), ctg. A4b, b. 54, fasc. Movimento sociale italiano-Manifestazioni varie, Chi siamo e cosa volgiamo, s.d. [ma maggio 1947].

[6] Le citazioni sono tratte da alcuni manifesti affissi nel 1950 a Prato e a Pisa, conservati in ACS, MI, PS 1951, b. 36, fasc. K12-Firenze e Ivi, PS 1953, b. 40, fasc. K12-Pisa.




Calcio Sovietico in Toscana

Gli studi che dimostrano il valore del calcio nella ricerca storica sono molti. Augé ha evidenziato il valore antropologico del football e come esso permetta un’identificazione o un’opposizione all’altro. In alcune partite svoltesi in Toscana, l’altro è stato l’Unione Sovietica.
Il calcio russo ha avuto una storia complessa; osteggiato in origine, divenne strumento pedagogico, propagandistico e diplomatico. Fu uno dei campi nei quali poteva essere dimostrata la supremazia socialista, secondo la Pravda divenne “un mezzo efficace per spezzare il blocco imposto dai capitalisti” e avrebbe permesso di “issare la bandiera sovietica nelle menti e nei cuori del popolo”.
Dunque, è difficile ignorare il valore storico delle manifestazioni sportive che hanno coinvolto squadre sovietiche in Toscana. I sovietici vennero in Italia più volte per trascorrere il periodo invernale; la Toscana metteva a disposizione il Centro Tecnico Federale di Coverciano, dove era possibile studiare le innovazioni tecnico-tattiche dell’Occidente. Erano pochi i Paesi dell’avanguardia calcistica disposti a ospitarli, mentre l’Italia e la Toscana potevano offrire la propria competenza e la presenza di molte amministrazioni amiche. La comparazione della partecipazione, dell’organizzazione, della rilevanza sociale delle partite nel corso dei decenni, ci dicono molto sulla percezione del valore e della solidità delle radici del simbolo comunista tra la
popolazione locale. Nel settembre 1955 la Dinamo Mosca giocò allo stadio Artemio Franchi di Firenze un’amichevole con la Fiorentina. La Dinamo era la squadra del Ministero dell’Interno, tra i suoi dirigenti vi erano uomini della Čeka, la polizia politica. Alla fine del secondo conflitto mondiale, la Dinamo venne mandata in tournée in Inghilterra e per diversi decenni dominò il calcio sovietico. Inoltre, nella rosa dei moscoviti vi era il leggendario portiere Lev Jašin. La città si mobilitò per accogliere i sovietici in un clima di festa. I giocatori comunisti vennero ricevuti a Santa Maria Novella con mazzi di garofani e fecero un Grand Tour della città, concludendo con una cerimonia in Palazzo Vecchio. L’evento non fu prettamente sportivo ed è chiaro che ebbe una rilevanza il peso politico degli ospiti. La partita si disputò davanti a 60.000 persone circa e vide la mitica Fiorentina del ’56 imporsi per 1 a 0.
Assume connotati diversi la partita che la nazionale sovietica giocò nel febbraio del 1979 a Prato. Secondo quanto riportato da La Nazione, l’amichevole fu voluta dalla dirigenza del Prato per attirare l’attenzione dell’amministrazione cittadina e dei pratesi sul club, in un match che ebbe poco da dire sul piano puramente sportivo. Quindi la presenza dell’11 sovietico funse da cassa di risonanza e venne ritenuto funzionale da parte della dirigenza. In quell’occasione i sovietici fecero un allenamento a Castelnuovo dei Sabbioni (Arezzo), dove nel 1978 era stato inaugurato un parco intitolato al partigiano sovietico Bujanov. Nel 1988 l’URSS era in preparazione per i campionati Europei e divise il suo ritiro tra Coverciano e la Garfagnana. Sotto la guida tecnica di Lobanovskij disputò alcune amichevoli per prepararsi alla competizione che la vedrà cadere soltanto in finale. Le amichevoli furono disputate con squadre dilettantistiche in quanto la FIGC mise il veto sugli incontri con squadre professionistiche prima dell’amichevole clou a Bari con la nazionale italiana. Dunque, la squadra del pallone d’oro Blochin si ritrovò a dover giocare a Pontassieve e fare appello per trovare qualche altro avversario disponibile e dotato di campo. Il Firenze Ovest, squadra della provincia fiorentina, propose il suo campo in terra battuta e con grande sorpresa i sovietici accettarono. Per gli abitanti di Brozzi fu l’occasione incredibile di vedere una nazionale maggiore sotto casa ma «La Nazione» descrisse così: “Clamorosa gaffe della FIGC, l’URSS costretta a giocare a Brozzi”.
Per i sovietici la partecipazione a match internazionali fu una testa di ponte per disgelare e rafforzare alcune relazioni diplomatiche; questo è evidente nei primi due incontri in analisi. La partita con la Dinamo di Mosca è anche una celebrazione della fratellanza che lega Firenze a Mosca, più che un evento calcistico sembra l’inizio di un interscambio che avrà luogo e si affievolirà nei decenni successivi. Lo vediamo già con la partita della nazionale a Prato; l’invito ai sovietici è già ormai mirante ad avere effetti solo sul raggio locale ed il rimando al ruolo di polo di riferimento assunto da Mosca dopo la Seconda guerra mondiale è già molto più tenue. Si celebra il passato, lontani dai centri amministrativi principali e si cerca di ottenere il massimo dalla presenza di quella che rimane una nazionale prestigiosa in grado di smuovere ancora gli entusiasmi. A Brozzi invece il ruolo politico dell’URSS, se percepito, è addirittura d’ostacolo. Una nazionale maggiore osteggiata al punto che parrebbe un’ospite sgradita e lasciata all’attenzione di una piccola polisportiva. Dalla pompa magna del 1955 alla gaffe del 1988 era evidente che l’URSS aveva perso la sua partita più importante col blocco capitalista.

Emanuele Federico Russo è laureato in Scienze Storiche presso l’Università di Firenze, docente di scuola secondaria di secondo grado, consulente storico e ricercatore presso l’Istituto storico della Resistenza di Pistoia. Ha collaborato alla pubblicazione de “Il Mito Sovietico nel PCI in Toscana” curato da Andrea Borelli (Pistoia, 2023) e ha pubblicato “Prima guerra mondiale e videogiochi, il caso di Valiant Hearts” per Farestoria (vol. 1, 2023) a cura di Edoardo Lombardi.




La scelta di vita di Guido Battista Galeotti

Quando salì sul treno per Firenze e, via Bologna, arrivò alla stazione centrale del Milano da poco più di un anno le armi avevano cessato di sparare nelle martoriate contrade del nord d’Italia. Nel capoluogo lombardo si respirava un’aria che già sapeva di rinascita e la politica la incontravi dietro a ogni angolo di strada. Nella piazza principale, sovrastata dall’imponenza del Duomo, ogni sera si formavano capannelli di persone, uomini di tutte le età che discutevano sulle novità della giornata. Mescolato tra la gente, qualcuno più avveduto provava a immaginare il domani, il futuro del paese. Un giovane, un ragazzone diciassettenne, alto e magro, ascoltava ogni parola e non perdeva una battuta. Arrivato dalla periferia toscana, ascoltava e apprendeva. Ascoltava e ricomponeva nella sua mente il complesso mosaico del dopoguerra italiano. Ma cosa ci faceva in piazza Duomo a Milano quel toscano ancora imberbe e un po’ spaesato? E soprattutto chi era?

Tre anni prima.
Per uno scherzo della storia ai primi del 1944 furono proprio i tedeschi a dare a Guido Battista Galeotti il suo primo lavoro quando lungo la costa tirrenica bisognava allestire fortificazioni d’ogni tipo in previsione di sbarchi del nemico. Un lavoro per i nazisti, proprio a lui che in casa, dallo zio Beppe e dal padre Giannino, aveva sempre sentito parlare di antifascismo e alle adunate della gioventù fascista mai aveva partecipato. Ben presto, però, ancora adolescente avrebbe conosciuto la durezza della guerra.
Dopo la liberazione di gran parte della Versilia e di Pietrasanta, sua città natale, dalla fine di settembre del ’44 l’abitazione dei Galeotti venne a trovarsi da un giorno all’altro a poche decine di metri da una batteria americana che sparava colpi verso le ultime propaggini delle Alpi Apuane dove terminava (o iniziava) la linea Gotica, la fortificazione tedesca che tagliava in due l’Italia e giungeva, attraverso tutto l’Appennino tosco-emiliano, fino alla costa adriatica. Guido Battista, con la curiosità dei ragazzi, si intrufolò subito nel campo allestito dai soldati alleati. A comandarli era un certo Peter, unico bianco del battaglione, che tutte le sere andava a dormire nella cucina dei Galeotti, ritenendola la stanza più sicura perché più a sud e, dunque, meno esposta ai tiri dei tedeschi. Una convivenza con i soldati americani che per la famiglia Galeotti e in particolare per Guido Battista significò razioni extra di pane, alimenti in scatola e cioccolate. Cosa non da poco per quei tempi.
Dalle stragi nazifasciste di Sant’Anna e di numerose altre località versiliesi i Galeotti ne restarono fuori avendo deciso di non allontanarsi dalla loro abitazione del Verzieri, poco fuori le mura di Pietrasanta. Subito dopo il 25 Aprile 1945 Guido Galeotti si avvicinò e poi si iscrisse al Partito Comunista Italiano. La voglia di gettarsi in prima persona nel gorgo della politica lo spinse alla militanza attiva. Un passo che gli avrebbe cambiato la vita. Ma questo ancora non poteva saperlo. In un primo momento si dedicò all’organizzazione del Fronte della Gioventù (così si chiamava allora quella che sarà la Federazione Giovanile Comunista Italiana). Poco tempo dopo il suo impegno lo rivolse al partito impegnandosi nel popolare quartiere di Porta a Lucca, a due passi dalla sua casa, dove partecipò al comitato per l’assistenza invernale ai disoccupati maggiormente bisognosi. Un organismo inizialmente formato da soli comunisti che, in accordo con la Cooperativa di Consumo di Pietrasanta, gestì la somministrazione giornaliera e gratuita di quattrocento minestre calde ad altrettante bocche da sfamare. La cellula comunista del quartiere, attraverso la capillare rete organizzativa del Pci, doveva redigere gli elenchi di chi aveva diritto a quel tipo di assistenza. Regole rigide e severi controlli incrociati supportavano il lavoro giornaliero dei militanti comunisti e chi rientrava nei requisiti richiesti riceveva il buono pasto col quale recarsi alla mensa della Cooperativa. Galeotti visse in prima persona quello straordinario immediato dopoguerra. E ne fece tesoro.

Con Togliatti alla scuola comunista.
L’attivismo di Guido Battista Galeotti fu notato da un operaio marmista, Dino Fracassini, dirigente della locale sezione del Pci. Fracassini frequentava la federazione di Lucca e segnalò al segretario Fulvio Zamponi quel giovane comunista di Pietrasanta che, tra tutti gli iscritti affluiti al partito dopo la liberazione, si stava distinguendo per passione e capacità. Non passò molto tempo e la federazione mandò a chiamare Galeotti.
Senza troppi giri di parole mi venne proposto di partecipare a un corso di formazione di cinque mesi che si sarebbe svolto alla scuola di partito a Milano” ricorda Guido Battista. Le lezioni stavano per iniziare e una risposta doveva essere data molto presto.
La famiglia non si oppose a questa opportunità e così, dopo qualche giorno, Guido Battista in piena notte si trovò a bussare al portone di una grande villa, forse requisita a qualche gerarca fascista, in piazzale Libia a Milano. Spaesato, un po’ confuso, timoroso per quello che l’attendeva aveva fatto la sua scelta di vita.
Il paese stava vivendo una formidabile stagione. A marzo era iniziata la più lunga tornata elettorale della storia d’Italia, conclusasi solo in autunno per via di una mobilità viaria ancora ridotta o resa impossibile dalla guerra in certi comuni della penisola. Pertanto, le elezioni amministrative slittarono in alcune parti del territorio nazionale. Le donne votarono per la prima volta e poterono anche essere elette. Una grande conquista. In giugno, col referendum istituzionale, l’elettorato fu chiamato a scegliere tra monarchia e repubblica e contemporaneamente a eleggere l’Assemblea costituente.
Con Galeotti partecipavano al corso una quarantina di allievi, di età diverse e provenienti da varie regioni. “Vi trovai compagni che avevano combattuto in Spagna contro i franchisti, nelle Brigate internazionali e da quella presenza, per me come per altri, partì lo sforzo per una più approfondita presa di coscienza. Ero il più giovane di tutti. In quelle stanze scoprì lo studio approfondito della storia, un modo nuovo di guardare agli uomini e ai fatti accaduti e a quelli in corso”.
Per Guido Battista la permanenza a Milano non significò soltanto studiare e seguire con atten-zione le lezioni alla scuola di partito. Appena ambientatosi prese a uscire ogni sera. Ai capannelli di gente in piazza Duomo lo accompagnava con la moto Giulio Seniga, un partigiano di diversi anni più grande di lui che poi diventerà segretario di Pietro Secchia, il numero due del Pci, e causa del suo allontanamento dai vertici del partito. Altre volte Guido Battista visitò alcune fabbriche nel vi-cino comune di Sesto San Giovanni. Durante la sua permanenza a Milano ebbe anche la possibilità di andare alla Scala, subito ricostruita dopo le distruzioni dei bombardamenti, e dal loggione vide la “Bohème” di Puccini. Così i cinque mesi trascorsi alla scuola comunista furono un tutt’uno con il contesto urbano e con la società milanese, in un orizzonte che generosamente si allargò alle conoscenze di quel giovanissimo allievo.
Nella villa di piazzale Libia una mattina arrivò, inatteso, Palmiro Togliatti. L’emozione di Galeotti e di tutti i presenti fu grande davanti al capo dei comunisti italiani, il leggendario Ercoli, l’uomo della “svolta di Salerno” nella primavera del ’44 appena giunto da Mosca.
Il caloroso ma breve saluto di Togliatti agli allievi della scuola di Milano non consentì approfondimenti né tantomeno di parlare della novità del “partito nuovo”, delle sue caratteristiche ideolo-giche, politiche e organizzative. Temi sui quali Togliatti tornerà qualche giorno dopo nella sede della federazione in un rapporto ai quadri dirigenti milanesi. Anche in quella occasione Galeotti fu presente. “Ascoltare Togliatti era un piacere” ricorda Guido Battista Galeotti.

A Lucca, al lavoro in federazione.
Rientrato dalla scuola comunista, Galeotti venne chiamato a lavorare in Federazione per saggiarne sul campo le qualità e il grado di maturazione raggiunta. L’operazione però si rivelò prematura. Fu un’esperienza breve e tutto sommato sofferta come ricorda lui stesso. Da quel momento avrà inizio un intermezzo lungo una decina di anni, con l’attività politica e sindacale portate avanti prevalentemente nella sua città e nell’ambito del suo primo vero lavoro, l’impiego nella Cooperativa di Pietrasanta, grande complesso commerciale che si collocava ai vertici nazionali nel ramo del consumo. La costituzione della federazione comunista della Versilia, a fine 1958, si presenterà per Galeotti come seconda occasione per iniziare la carriera di “rivoluzionario di professione”. E questa volta sarà colta senza ripensamenti.

* * *

Guido Battista Galeotti l’11 ottobre 2023 ha festeggiato il novantacinquesimo compleanno. Con una memoria e una lucidità non frequenti per quell’età è tornato di recente con una riflessione sui tempi lontani che segnarono la sua adolescenza e i primi anni della maturità. Lo ha fatto con un libro, pubblicato, in relazione alla sua scelta di vita, col titolo emblematico di “Un amore così grande”.

 




Rivendicazione di diritti negati

Sono numerose le motivazioni per cui, in epoca contemporanea, si è perpetrata a lungo la posizione subordinata delle donne rispetto agli uomini, che ha comportato la loro esclusione dalla sfera pubblica e ha accentuato la divisione dei sessi a livello lavorativo. In Italia, le cose iniziarono a mutare, soprattutto a livello legislativo, dopo il 1945, nonostante già precedentemente ci fossero stati scioperi e manifestazioni che avevano avuto come protagonista la compagine femminile.

Durante la Seconda guerra mondiale, come già era accaduto nel conflitto precedente, le donne occuparono posizioni lavorative e sociali dalle quali erano state fino a quel momento escluse. Con il crollo del regime fascista e il ritorno definitivo degli uomini dal fronte, si iniziò a riflettere su come accorciare la distanza lavorativa, sociale e culturale che separava donne e uomini. Nonostante non si ripropose l’aggressività che aveva caratterizzato il primo dopoguerra, in un primo momento l’atteggiamento dei sindacati e dei partiti non sembrò mutare rispetto ai primi decenni del secolo: le rivendicazioni riguardanti il diritto al lavoro femminile e la parità salariale sembravano non rientrare nell’agenda politica comunista, molto più interessata ai problemi di disoccupazione operaia maschile.

A livello legislativo furono sicuramente fondamentali il decreto legislativo luogotenenziale n. 74 (10 febbraio 1946) – che riconosceva anche alle donne il diritto di voto rendendole cittadine a tutti gli effetti – e l’approvazione della legge n. 860 del 26 agosto 1950, sulla «Tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri», proposta da Teresa Noce (Pci) e sostenuta da Maria Federici (Dc).

Per quanto riguarda l’attività dei sindacati e delle organizzazioni femministe e democratiche, un momento di svolta fu rappresentato dalla Conferenza Nazionale della donna lavoratrice (Firenze, 23-24 gennaio 1954) patrocinata dalla Cgil e di cui ricorre quest’anno il 70° anniversario. In tale occasione si affrontarono le questioni considerate più urgenti e che la Costituzione italiana avrebbe dovuto garantire: il raggiungimento della parità salariale; il diritto al lavoro; la tutela della salute e della maternità; il rispetto della libertà nei luoghi di lavoro; l’attuazione di una legislazione che difendesse le categorie più sfruttate.

A gettare le basi per la Conferenza furono due distinti momenti nel 1952: il primo risalente all’aprile, quando su «Le nostre lotte» venne pubblicato un resoconto di quanto emerso il 25 marzo durante la riunione a Roma della Commissione Femminile Nazionale della Cgil. In quell’occasione si iniziò a riflettere sull’importanza di un’azione concreta, svolta attraverso riunioni e assemblee, per discutere delle problematiche che interessavano le lavoratrici. Dai momenti di confronto, sarebbero dovute scaturire «proposte, rivendicazioni, richieste concrete e precise che, raccolte in quaderni» sarebbero state studiate e analizzate, rappresentando la base per la loro realizzazione. La C.F. riteneva che per garantirsi l’appoggio dell’opinione pubblica sui diritti delle lavoratrici, fosse fondamentale il contributo dei comitati cittadini, delle organizzazioni sindacali e delle singole personalità che «con iniziative e attività, ciascuna nell’ambito che le è proprio, contribuisca alla liberazione delle lavoratrici dalla schiavitù e dall’oppressione ed al raggiungimento della loro completa emancipazione». Quanto emerso sarebbe poi culminato in una conferenza nazionale.

Il secondo momento in cui si parlò di una possibile conferenza nazionale fu durante il III Congresso Nazionale della Cgil (Napoli, 26 novembre-3 dicembre 1952), durante il quale si chiese al sindacato di patrocinare una conferenza di tutte le associazioni e gruppi femminili nazionali, che avrebbe portato all’elaborazione della «Carta dei Diritti» per un miglioramento della situazione non solo lavorativa, ma anche abitativa e sociale delle donne italiane.

I lavori di preparazione dell’evento iniziarono molto presto, intensificandosi a inizio autunno 1953. La Commissione di coordinamento e di direzione spronò il coinvolgimento alla mobilitazione delle lavoratrici iscritte alla Cisl e alla Uil, ma anche di coloro non sindacalizzate. Furono invitate a prendere parte all’iniziativa anche tutte le associazioni interessate ai diritti delle donne, tra cui l’Unione delle donne in Italia (Udi), che aveva organizzato a Roma, tra il 10 e il 12 aprile 1953, il Congresso della Donna Italiana. Nonostante si trattò di un evento distinto da quello patrocinato dalla Cgil, permise di iniziare a parlare di temi che sarebbero stati approfonditi durante la Conferenza fiorentina. La Commissione di coordinamento invitò, inoltre, le segreterie delle Camere Confederali del lavoro e le federazione a organizzare assemblee preparatorie e diede le indicazioni per l’elezione delle delegate che avrebbero presenziato a Firenze, scelte durante le assemblee aziendali o interaziendali.

Durante le assemblee provinciali avrebbero preso la parola le lavoratrici del territorio per portare le testimonianze delle condizioni nelle quali si trovavano, così da creare delle Carte rivendicative, attraverso cui avanzare le proprie richieste. Esse avrebbero dovuto indicare una serie di informazioni: tipo e numero di riunioni realizzate in preparazione della Conferenza provinciale e di quella nazionale; numero di partecipanti; azioni rivendicative già intraprese ed eventuali risultati raggiunti. La documentazione prodotta sarebbe stata poi raccolta in ‘album’ con anche materiali fotografici: oltre alle immagini che ritraevano le lavoratrici durante lo svolgimento delle assemblee, si chiedeva di inserire anche quelle che potessero testimoniare le loro condizioni di vita e di lavoro.

Molti risultati positivi dati dall’impegno alla preparazione della Conferenza si ebbero anche dalle attività svolte da alcune federazioni di categoria, tra cui la Federmezzadri, che riuscì ad organizzare un’Assise nazionale e che nella provincia di Firenze promosse la «Giornata della ragazza mezzadra», per dare rilievo anche alle condizioni in cui si trovavano le più giovani.

Per quel che riguarda l’organizzazione della Conferenza, in un primo momento Renato Bitossi sperò che la manifestazione si potesse svolgere al Teatro della Pergola, in quanto sede adatta ad accogliere le numerose persone in arrivo da tutta Italia, ma Eugenio Saccenti, a causa della programmazione del Teatro, non riuscì a soddisfare tale richiesta. Gli organizzatori decisero così di svolgere la prima giornata all’interno dei locali del Parterre, dove sorgeva anche il Palazzo delle Esposizioni, in Piazza della Libertà, mentre il discorso conclusivo di Giuseppe Di Vittorio – segretario generale della Cgil – del 24 gennaio si tenne al Teatro Apollo (già Cinema Rex e oggi Mercure Hotel).

La Conferenza si aprì con i saluti di Elsa Massai – responsabile della C.F. della Camera Confederale del Lavoro di Firenze – che sottolineò come «la emancipazione della donna, il rispetto e le affermazioni dei diritti delle lavoratrici sono elementi indispensabili per l’avvento di quella società giusta, civile, progredita, per cui oggi ci battiamo». Dopo di lei, Fernando Santi dichiarò che la Conferenza non era importante solo per le donne italiane, ma anche per il mondo del lavoro nella sua globalità. Egli evidenziò il carattere unitario e democratico della Conferenza, poiché a presenziare erano delegate di provenienza diversa con lo scopo di lottare per cancellare l’inuguaglianza e per realizzare la giustizia sociale. A portare i loro saluti ci furono inoltre le operaie licenziate dalla Magona di Piombino, che, attraverso i lavori della Conferenza, speravano di riappropriarsi del diritto al lavoro del quale erano state private.

Durante la prima giornata dell’evento, presero la parola anche esponenti arrivate dall’estero, a prova del fatto che la manifestazione fiorentina aveva l’attenzione internazionale. Mary Wolfard, a nome della Federazione sindacale mondiale, riconobbe nella lotta delle lavoratrici italiane quella di «tutte le donne di tutti i Paesi capitalistici e coloniali ed anche quella della Federazione Sindacale Mondiale». Allo stesso modo, Germaine Guillé – delegata della Confederazione Generale del Lavoro Francese – sottolineò come a muovere le lotte delle donne italiane e francesi ci fossero dei motivi e delle esperienze comuni.

Uno dei temi più dibattuti riguardò la parità salariale. Nella sua relazione, Rina Picolato – al vertice della Commissione Femminile Nazionale – sottolineò che l’accorciamento delle distanze tra la retribuzione maschile e quella femminile rappresentava un miglioramento per tutti e non solo per le donne, dal momento che «le basse retribuzioni del lavoro femminile sono spesso sfruttate come elemento di freno al miglioramento delle stesse retribuzioni maschili, al progredire di tutto lo schieramento del lavoro verso un migliore tenore di vita». Direttamente collegato alla questione economica, vi erano anche lo sfruttamento massiccio e i soprusi padronali ai quali venivano sottoposte le lavoratrici, di cui parlò nel suo intervento Gina Casetti – segretaria della C.I. della Pirelli di Torino.

Queste, insieme ad altre questioni portate in auge dagli interventi delle relatrici, sarebbero state affrontate ulteriormente attraverso un’inchiesta popolare – promossa durante la Conferenza – all’interno dei luoghi di lavoro. A intervenire e a portare la loro testimonianza furono operaie, braccianti agricole, impiegate, professoresse, delegate di associazioni di categoria e delle Camere del Lavoro provenienti da tutta la Penisola, a dimostrazione del fatto che la manifestazione fiorentina riuscì ad avere una larga risonanza nazionale. Gli interventi diedero prova delle situazioni difficili condivise da gran parte delle lavoratrici, anche se appartenenti a luoghi e contesti diversi.

Attraverso il discorso di chiusura, Giuseppe Di Vittorio evidenziò come le donne avessero acquisito, anche grazie al lavoro di preparazione della Conferenza, «una chiara coscienza che l’inferiorità cui le condanna la società, lo sfruttamento supplementare cui le sottopongono i signori agrari ed industriali, non sono cose inevitabili come si è voluto far credere e come qualcuno tenta di far credere ancora oggi». Egli denunciò il fatto che nonostante la Costituzione democratica italiana sancisse i principi di uguaglianza civile, economica e morale della donna rispetto all’uomo, ancora troppo spesso essi non venivano applicati: non solo a livello di remunerazione economica, ma anche per quel che riguardava la garanzia di igiene, sicurezza e protezione della lavoratrice. Per combattere contro le condizioni nelle quali si trovavano moltissime lavoratrici e per concretizzare le iniziative promosse dalla Conferenza, era necessario che le commissioni femminili sindacali si unissero alle altre organizzazioni democratiche che avevano a cuore queste questioni.

Alla luce delle carte rivendicative compilate durante le assemblee preparatorie e di quanto emerso durante la manifestazione fiorentina, venne emanata la Carta dei diritti della lavoratrice. Attraverso di essa, si chiedeva che «i principi sanciti dalla Costituzione – conquistata anche per il generoso contributo delle donne alle Lotte di Liberazione Nazionale – siano tradotti in operante realtà», tra questi il diritto al lavoro e l’accesso a tutte le carriere e professioni; retribuzione uguale per uguale lavoro; la protezione per la salute; la tutela per la maternità; il rispetto dei contratti di lavoro; il rispetto della personalità umana e delle libertà anche all’interno delle aziende. Con la Carta vennero inoltre promosse «La settimana dei diritti delle lavoratrici» (1°-8 marzo) e la già citata inchiesta popolare sulla situazione all’interno dei luoghi di lavoro.

La Conferenza ha rappresentato dunque un momento fondamentale di riflessione, aprendo un dialogo e un confronto a livello nazionale: nonostante fu necessario qualche anno per raggiungere risultati importanti, si ambiva a una «Patria democratica e indipendente, giusta e umana, per tutti i suoi figli».

Queste e altre questioni saranno i temi principali della mostra in occasione del 70° anniversario della Conferenza, che verrà inaugurata nella prima settimana di marzo 2024 presso il Complesso monumentale delle Murate di Firenze. Promossa dalla Cgil nazionale e Toscana e dallo SPI nazionale e toscano, in collaborazione con la Fondazione Valore Lavoro e l’Archivio storico nazionale della CGIL, e patrocinata dal Comune di Firenze e dalla Regione Toscana, sarà un’occasione per riflettere su quanta strada si è fatta finora e quanta ne resta da fare per il raggiungimento della piena parità tra donne e uomini.

Martina Lopa si è laureata in Scienzie Storiche all’Università degli Studi di Firenze, con una tesi sul ruolo avuto dalle donne nelle prime associazioni per la protezione degli animali, e collabora con la Fondazione Valore Lavoro, per la quale sta curando una mostra sul 70° anniversario della prima Conferenza nazionale della donna lavoratrice svoltasi a Firenze il 23-24 gennaio 1954.




Tombolo: storia e memoria di un mito politico

«E Tombolo diviene l’inferno del dopoguerra italiano»[1]. L’immagine che il giornalista livornese Aldo Santini restituisce nel capitolo di apertura di un suo libro di successo, edito nel 1990 da Rizzoli, viene da lontano ma rispecchia anche, in modo esemplare, una precisa stagione della memoria. Come insegna Maurice Halbwachs, la memoria collettiva adatta il passato ai bisogni, alle visioni e alle motivazioni ideali del presente. Il volume di Santini non sfugge a questa regola. Il suo anno di pubblicazione è di per sé significativo. La fine degli anni Ottanta, con la crisi della narrazione egemonica antifascista, portava infatti a riscoprire, al di sotto della celebrazione della guerra di liberazione contro il nazifascismo, la dimensione della “guerra civile” e della “guerra ai civili” (due concetti che, di lì a poco, avrebbero dominato la critica e la divulgazione storica). Da qui la fascinazione per gli aspetti più antieroici del conflitto totale, nel suo configurarsi come scontro crudele da entrambe le parti, crimini angloamericani inclusi. [1]
Fin dal 1946-47 la pineta di Tombolo – una striscia di litorale tirrenico tra Pisa e Livorno, che ospitò accampamenti e depositi militari alleati – è stata oggetto di un processo mitografico che ha fagocitato e banalizzato i fenomeni della prostituzione bellica e del mercato del sesso rivolto all’esercito occupante, a sua volta sincretizzati in una delle più fortunate icone dell’anti-italianità: La Segnorina[2]. La storia delle donne che si prostituirono clandestinamente con gli alleati ha suscitato la morbosa attenzione dell’opinione pubblica e degli attori della cultura di massa, perfino a livello internazionale. Visitata dalla cronaca nera, dalla pubblicistica e dal cinema dell’immediato dopoguerra, essa ha assunto lo status di luogo della memoria; a distanza di decenni ha acquisito una rinnovata visibilità, coerentemente col clima di revisione anti-antifascista e post-antifascista che si è imposto nel dibattito mediatico e nell’industria culturale. All’uscita del libro di Santini, i lettori del quotidiano più venduto nel Paese poterono essere istruiti sui peggiori cliché di una «torbida leggenda»: Tombolo come «centro di turpitudini, noto in tutto il mondo, [che] contraddistinse l’epoca non ancora dimenticata della degenerazione umana, del delitto, del sesso criminale, della rapina, della diserzione»; «Mecca d’una ricchezza facile e larga»; «linea del massimo livello toccato dalla degradazione e dalla voluttà animalesca d’un Paese costretto a sopravvivere senza pensare più a niente»; «Quotidiana festa panica», teatro di malfattori licenziosi e déracinés «antesignani d’una beffarda dolcevita»; popolata da «incredibili personaggi», segnorine, sciuscià, «», borsari neri, delinquenti e disertori[3]. Tali stereotipi venivano rimessi in circolazione in modo del tutto acritico, riproducendo senza alcun filtro le rappresentazioni create ai tempi della sortie de guerre.

Negli anni della presenza alleata, Livorno e Tombolo costituirono per l’appunto il palcoscenico di un racconto che mostrava al pubblico italiano l’intollerabile relazione tra GIs neri e donne di inesistente virtù. Grazie all’operazione inventiva di giornalisti, intellettuali e artisti, la realtà prosaica di una striscia di costa tra il mare e l’Aurelia fu trasfigurata nella quintessenza del proibito, dell’esotico e del dissoluto, sintesi di un mondo al contempo repellente e affascinante. «Città proibita», «perduta», «paradiso nero»: le varie sfumature di Tombolo, anche sul piano linguistico, denotano la plasticità di un manufatto culturale capace di intercettare gli umori di strati sociali diversi, per estrazione e appartenenza partitica. Tombolo è stato un dispositivo narrativo di grande efficacia, intrinsecamente politico nel rendere immediatamente percepibili i confini di una comunità (locale/nazionale) in via di rifondazione, e il profilo di una democrazia nascente che non intendeva sovvertire le gerarchie di genere e razza: in tal senso, un “mito politico”.
Si consideri, per esempio, la Gazzetta di Livorno. Tramite Tombolo il quotidiano social-comunista denunciò i guasti del capitalismo statunitense e rivendicò l’onore della stragrande maggioranza del popolo italiano, ritenuto antropologicamente estraneo alla corruzione delle «segnorine silvestri» cadute nelle reti dell’alleato nemico. Fu Gino Serfogli, già nel 1946, a scrivere per la Gazzetta un reportage a puntate, poi raccolte in un opuscolo di «cronache sensazionali» andato a ruba nelle edicole al costo di trenta lire. I pezzi su Tombolo, rilanciati dal Corriere d’informazione, conquistarono le pagine della stampa nazionale, codificando i contorni di una storia a metà tra il noir e il mélo. Insieme all’infelice destino delle prostitute, trattate con un misto di denigrazione, maschilismo e moralismo compassionevole, vennero esposte al giudizio del pubblico la depravazione del meticciato interrazziale e l’infelice sorte dei “mulattini”, frutto del malo incontro tra donne scostumate e selvaggi ubriachi, sfrenati e incivili[4]. Lo stesso Santini, all’epoca firma de Il Tirreno, fu tra i primi a descrivere i fatti della pineta, nella quale accompagnò personaggi come Curzio Malaparte e Federico Fellini, a loro volta richiamati dall’eco di turpi misfatti e relazioni pericolose. Il risultato dei “pellegrinaggi” nella mitica Tombolo furono scritti e pellicole cinematografiche che fissarono nella memoria del dopoguerra una narrazione romanzata, in cui rimaneva intrappolato lo sguardo dei narratori, animati dalla volontà di smascherare le nefandezze dell’esercito americano o l’immoralità della Livorno “rossa”, città simbolo del Partito Comunista Italiano, a seconda che a parlarne fossero Indro Montanelli, Arrigo Benedetti, Giorgio Ferroni, Fellini, Alberto Lattuada, Malaparte e altri ancora.
Montanelli ebbe un ruolo decisivo nel trasformare quel lembo di macchia mediterranea nell'”Africa di quaggiù”, applicando le figurazioni della letteratura coloniale al popolo della pineta. Tra gli sceneggiatori di Tombolo, paradiso nero, film uscito nel 1947 sotto la regia di Ferroni, l’ex-volontario in Etiopia aveva dedicato a Tombolo alcuni articoli sul Corriere d’Informazione: emblematica, tra questi, la storia di un fantomatico disertore afroamericano, nascosto nella pineta e impazzito dopo avere scoperto che il figlio «mulatto», avuto da una segnorina, era stato ucciso dalla madre, e avere a sua volta ucciso l’infanticida. Il «» veniva pensato come «il Tarzan e il King Kong» di Tombolo, vestito di una pelle di leopardo e ululante nella notte[5]. Rappresentazioni simili erano offerte da Malaparte, secondo cui nella foresta toscana «Les nègres avaient créé une espèce d’horrible casbah, une jungle habitée par des fauves à l’aspect humain»[6].
uell’immaginario giungeva dunque quasi inalterato in una memoria degli anni Novanta, che continuava a discettare di neri e di donne di malaffare, ricevendo il plauso della stampa italiana. Vale la pena interrogarsi sul perché di questo persistente successo, nonostante esistessero letture altre rispetto alla denigrazione pura e semplice delle segnorine e dei loro rapporti interrazziali. Basti pensare a Senza pietà di Lattuada (1948), la cui epica neorealista comportava, pur con innegabili ambiguità, uno sguardo indulgente verso i perdenti e le figure marginali/criminali, privo della sprezzante stigmatizzazione della promiscuità tra bianchi e neri che aveva segnato il canone dominante di Tombolo, paradiso nero. Innanzitutto, come già accennato, le descrizioni della pineta incorporavano e divulgavano categorie centrali nella ricostruzione dell’identità politica del dopoguerra, quelle di nazione, genere e razza. Attorno ad esse si concentravano questioni di vasta portata: il posizionamento a favore o contro gli Stati Uniti, la critica o l’assenso al capitalismo “d’importazione”, lo svincolarsi o meno dal retaggio razzista coloniale, l’affermazione di una nuova rispettabilità democratica e la difesa della reputazione internazionale italiana, alla quale si legava la condanna dell’amoralità femminile, sulla base di una reiterata concezione sessuata della comunità politica che trovava facile sponda nella contiguità tra la morale comunista e quella cattolica.eri
Anche il razzismo anti-nero valicò gli steccati politici, in modo più o meno consapevole ed esibito. Se il Corriere non lesinò le esternazioni apertamente afrofobiche e razziste, sul settimanale satirico socialista Il Pettirosso, collegato all’Avanti!, apparvero vignette e storie umoristiche che prendevano in giro le segnorine e gli afroamericani. L’immagine beffarda di un GI nero impacciato nel calzare un paio di scarpe, quasi fosse uno scimmione, mentre i civili italiani erano costretti a indossare sandali o a camminare scalzi per via della loro miseria, rende bene lo spirito della rivista[7]. Nelle fonti socialiste e comuniste, la derisione dei militari neri si combinò all’idea che le prostitute fossero espressione di una stanchezza morale, del desiderio di una vita più ricca e agiata. L’antiamericanismo di sinistra sfociò in banalizzazioni razziste che furono censurate dalla stampa afroamericana e dal giornale militare statunitense Stars and Stripes.
Tombolo racchiudeva le tensioni del dopoguerra: l’avvento dell’egualitarismo democratico insieme alla forza dei cliché discriminatori, l’antifascismo patriottico unito a un antiamericanismo corrosivo, fruibile sia da sinistra che da destra. Non solo: dalla bonifica di quell’anti-Italia passava l’emarginazione di un’umanità degenerata, composta da donne immorali, coi loro amanti afroamericani e una nutrita platea di criminali. Questo sacrificio sarebbe stato fondamentale per riaffermare l’onore e la bianchezza nazionale, lasciando alle spalle le colpe del fascismo, le rovine della guerra e l’onta di una sconfitta che la permanenza dell’alleato invasore rendeva palpabile (e talvoltun insopportabile). Proprio all’ombra di queste contraddizioni nasceva un mito profondamente evocativo, destinato a riemergere nei vari percorsi della memoria.

 

 

 

 

 

 

 

NOTA

  1. Aldo Santini, Tombolo, Milano, Rizzoli, 1990, p. 7.
  2. Cfr. Chiara Fantozzi, L’onore violato: stupri, prostituzione e occupazione alleata (Livorno, 1944-47), «Passato e Presente», 34, 99, 2016, pp. 87-111; Vinzia Fiorino, Smarrimenti e ricomposizioni. Il dopoguerra a Pisa 1946-1947, Pisa, Ets, 2012, pp. 39-41; Charles L. Leavitt IV, The Forbidden City: Tombolo between American Occupation and Italian Imagination, in Guido Bonsaver, Alessandro Carlucci e Matthew Reza (a cura di), Italy and the USA: Cultural Change Through Language and Narrative, Cambridge, Legenda, 2019, pp. 143-155.
  3. Così nella recensione di Silvio Bertoldi, Quella torbida leggenda delle «segnorine» di Tombolo, «Corriere della sera», 24 maggio 1990, p. 5.
  4. Chiara Fantozzi, Raccontare Tombolo. Prostituzione di guerra e confini della cittadinanza nella transizione alla democrazia, «L’italianista», 38, 3, 2018, pp. 418-432;
  5. Silvana Patriarca, Il colore della repubblica. «Figli della guerra» e razzismo nell’Italia postfascista, Einaudi, 2021.
  6. Indro Montanelli, C’è un pazzo che urla nella pineta, «Nuovo Corriere della Sera», 30 marzo 1947, p. 3.
  7. Curzio Malaparte, Deux Chapeaux de paille d’Italie, Parigi, Les Editions Denoël, 1948, p. 54.
  8. Scarpe, «Il Pettirosso», 4-11 febbraio 1945, p. 1.



Faccia a faccia con Gaetano Salvemini

Il breve testo di Maria Pichi offre un frammento di memoria su Gaetano Salvemini, “fotografato” negli ultimi anni del suo insegnamento dalla cattedra di Storia, presso l’Ateneo fiorentino. Siamo agli inizi degli anni ’50 a Firenze. Salvemini è da qualche anno rientrato dall’esilio cui l’aveva costretto il regime fascista. Dai ricordi dell’autrice affiora un inconsueto ritratto dell’anziano professore, colto in una situazione particolare. E’ al tempo stesso un piccolo spaccato di un’Italia che oggi non c’è più, dove poteva accadere che un protagonista della storia dell’antifascismo e della cultura militante potesse ricevere gli studenti in camera da letto – a causa di una indisposizione – e in tale inusitata sede svolgere la sessione di esame, pur di evitar loro di finire “fuori corso”. Sullo sfondo compaiono fugacemente, in veste di assistenti, due protagonisti della cultura fiorentina (e italiana) del dopoguerra, come Ernesto Ragionieri (all’autrice non particolarmente simpatico) ed Eugenio Garin.

Faccia a faccia con Salvemini

Gaetano Salvemini rivide l’Italia nel 1947: ne era espatriato da clandestino vent’anni prima e tornò a Firenze all’Università, quella stessa che allora lo aveva espulso dalla cattedra di storia moderna. La sua esistenza era stata sconvolta radicalmente per ben due volte: nel terremoto di Messina aveva perduto l’intera famiglia, moglie e sei figli, poi il regime fascista lo aveva messo in carcere e privato prima dell’insegnamento e poi della nazionalità.
Nel ritorno alla sua sede universitaria di quest’uomo anziano e provato dalla vita come non ammirare la capacità di resilienza? Ma, realisticamente, questo ritorno dovette creare qualche imbarazzo nel mondo accademico fiorentino: la cattedra di Storia Moderna era occupata lecitamente e degnamente dal professor Carlo Morandi. Su quella di Storia Medioevale (Salvemini aveva titoli anche per essa) sedeva Nicola Ottokar, che proprio con Salvemini, all’inizio del secolo, aveva avuto dei vivaci dissensi a proposito di Magnati e popolani nella Firenze del Duecento! Forse pesavano ancora? Certo è che Ottokar era ormai un signore malandato quanto al fisico e impigrito dal punto di vista didattico: della gioventù aveva conservato unicamente l’accento russo e un bastone col pomo d’avorio dono dello zar. Tuttavia non era collocabile a riposo.
Le difficoltà furono superate dotando la Facoltà di Lettere di una nuova disciplina: Storia del Risorgimento. La materia non era curriculare, ma solo facoltativa e le lezioni del professor Salvemini, va detto, non furono molto frequentate. Confesso con rimpianto – ed un certo disagio – di averne ascoltata una sola anch’io e fu ben più vivace, ben più interessante di quelle che certi colleghi tenevano nelle aule adiacenti. Infatti alcuni assolvevano alla funzione docente spesso declamando passi del libro che avevano dato loro fama anni prima: li sapevano a memoria e li recitavano con sentimento. Ne ricordo un altro che borbottava le sue riflessioni a testa bassa, tra sé e sé: noi studenti non ci guardava mai in faccia.
Stando così le cose nell’autunno del 1949, poiché per me cominciava il terzo anno di lettere, andai a chiedere la tesi al professor Morandi: al primo esame mi aveva dato trenta e disse di sì. Quanto a me accettai senza batter ciglio di studiare Romagnosi e presi a frequentare assiduamente varie biblioteche. In piazza San Marco non ci andavo mai. Probabilmente non avrei mai più avuto occasione di trovarmi faccia a faccia con Salvemini se nella primavera del ’50 il professor Morandi non fosse stato stroncato da un infarto.
Intorno alla nomina del successore, nella persona di Delio Cantimori, la facoltà di lettere si divise tra sostenitori e avversari. La lotta, che durò un anno intero, fu un episodio minimo della guerra fredda, o, per dirlo all’italiana, dell’opposizione al “fattore K”, perché Cantimori era un docente prestigioso della Normale di Pisa, ma anche un noto intellettuale comunista.
E diciamo pure che nel contesto generale fu un episodio minimo, ma certamente non fu sentito come tale da un certo numero di studenti che dovevano assolutamente sostenere l’esame di storia moderna entro l’anno solare 1950. Era la condizione sine qua non vuoi per ottenere l’esonero dalle tasse, vuoi per la conferma di borse di studio o per non finire fuori corso. E tra quelli c’ero anch’io.
Saltarono i due appelli di giugno e di luglio; saltò il primo appello autunnale e poiché noi interessati in fondo eravamo quattro gatti i nostri problemi non facevano notizia.
Quando si seppe che Salvemini era disposto a dare lui una mano era ormai la fine di novembre pioveva, faceva freddo e il medico gli aveva tassativamente prescritto di starsene ben riguardato, magari a letto, e di non uscire comunque da casa sua … che poi casa non era, ma la stanza di una pensioncina in via San Gallo.
Per farla breve, in un mattino uggioso di tardo autunno un gruppetto di studenti – ed io con loro – fra le otto e le nove si trovò nel corridoio di quella pensione. Dalle camere uscivano, e ci rientravano precipitosamente, le signore ospiti in vestaglia, con i bigodini in testa, sconcertate dalla nostra presenza. Eppure di goliardico non avevamo proprio niente, tutti composti, silenziosi, un po’ in ansia per la prova imminente.
Venne il mio turno ed ecco il colpo d’occhio: una cameretta in buona parte occupata da un letto e da due poltroncine ai lati della testiera, una per Ernesto Ragionieri, che era stato l’assistente del defunto Morandi, l’altra per il professor Eugenio Garin: era giovane allora, ma già molto autorevole.
Ai piedi del letto c’era giusto giusto lo spazio per lo sgabello destinato a me.
Si può avere un ricordo delizioso di un esame? Tra l’altro è un aggettivo che può avere qualcosa di melenso che non mi appartiene. Seduta sul mio panchetto, le mani sulle ginocchia, con le une e le altre sfioravo la peluria di un plaid, unica nota di confort e di colore in un ambiente dimesso. All’altro capo di quel plaid da “déjeuner sur l’erbe” emergeva dai cuscini il busto di Salvemini, con la barba bianca, lo sguardo ammiccante e gioioso di uno gnomo da favola.
Sì, si può avere un ricordo delizioso di un esame che fu anche serio perché Morandi esigeva dai suoi studenti una mole di letture notevoli e la commissione si attenne, senza fare sconti, al programma che egli aveva previsto.
Quell’anno vari testi riguardavano la Riforma e ricordo che il mio colloquio prese le mosse da un classico: L’etica protestante e lo spirito del capitalismo del Weber. Poi toccò altri argomenti che non ricordo, finché nel discorso, ma non per mia iniziativa, entrarono la mia futura tesi e il Romagnosi, intorno alla cui prosa oscura avevo cominciato ad arrabattarmi.
Salvemini rideva e scherzava: che anch’io sembrassi fare capolino dal plaid in fondo al letto? Perfino le labbra sottili di Garin abbozzavano sorrisi. Ragionieri no: inespressivo, impassibile se non addirittura imbronciato, non traeva alcun piacere da quella situazione anomala. Ad Ernesto buonanima – voglio dirlo – mancava il senso dell’umorismo.
Ma c’è di più: quel mugugno, forse, non era solo caratteriale, forse era un microscopico gesto politico. Ragionieri, comunista di stretta osservanza, probabilmente sedeva “obtorto collo” su quella poltroncina riguardosa alla sinistra di Salvemini, che recentemente aveva avuto uno scontro vivace con Togliatti.
Salvemini aveva l’aria di divertirsi davvero ed è possibile che ridesse per via dell’assistente ostile e immusonito non meno che per la ragazza che faceva capolino in fondo al suo letto.
A me piace pensare che proprio l’atmosfera un po’ surreale di quell’esame abbia consentito a Gaetano Salvemini di concludere “in letizia” la sua lunga e movimentata carriera universitaria.
Di lì a pochi mesi, ormai pensionato, commemorò solennemente Carlo e Nello Rosselli e lasciò Firenze. Avrebbe trascorso a Sorrento i suoi ultimi anni.
A me aveva dato trenta … o non fu forse trenta e lode ?

Maria Pichi in Lauretta *

Roma, 15 marzo 2023

* Maria Pichi in Lauretta è nata a Torino il 6 novembre 1928. Ancora bambina seguì la famiglia a Firenze, presso la cui Università si laureò in Storia, nell’anno accademico 1952-53, con Delio Cantimori, discutendo una tesi sul pensiero di Gian Domenico Romagnosi. Per decenni ha insegnato italiano in vari istituti superiori del Lazio e a Roma, dove ancora risiede.




Pier Carlo Masini (1923-2023)

A cento anni dalla nascita di Pier Carlo Masini (Cerbaia fraz. di S. Casciano Val di Pesa, 26 marzo 1923 ‒ Firenze, 19 ottobre 1998) si ricorda l’opera di un intellettuale che, tra tutti coloro che si sono occupati degli anarchici e delle radici “eretiche” del primo socialismo, è stato, se non il più importante, di certo uno degli storici più rigorosi e originali del Secondo Novecento. Masini, inoltre, non è stato solo un uomo di pensiero, ma anche un militante antifascista, condannato giovanissimo al Confino politico, vicesindaco di San Casciano Val di Pesa nei primi mesi della Liberazione, impegnato prima nelle fila del PCI poi in quelle dell’anarchismo e infine in quelle del socialismo democratico, oltre che un raffinato uomo di cultura e un bibliofilo competente e appassionato.

La passione per la storia in Masini ha radici lontane. Nell’autunno 1941 s’iscriveva alla facoltà di Scienze Politiche “Cesare Alfieri” dell’Università di Firenze. Tra i suoi docenti c’erano Giuseppe Maranini, che quell’anno teneva un corso sul costituzionalismo inglese; Pompeo Biondi, che proponeva il tema della sinistra hegeliana; soprattutto, Carlo Morandi, docente di Storia moderna, che svolgeva un corso sulla storia dei partiti politici italiani. Le lezioni di Morandi sono state importanti per la formazione e per l’approccio alla cultura storica del giovane Masini. In quel periodo Morandi era uno fra i più brillanti storici italiani, un innovatore del metodo della ricerca storica. Le sue ricerche sulle forze politiche moderate dell’Italia unita e sulle relazioni diplomatiche che legavano l’Italia all’Europa sin dall’inizio dell’età moderna, così come la sua opera più nota, I partiti politici in Italia dal 1848 al 1924, uscita pochi mesi dopo la fine del Secondo conflitto mondiale, sono ancora oggi un punto di riferimento per gli studiosi. Tra i suoi allievi vanno ricordati, tra gli altri, Giampiero Carocci, Giuliano Procacci ed Ernesto Ragionieri.
Morandi aveva consigliato a Masini di leggere il libro di Giacomo Perticone, Linee di storia del comunismo, uscito nel 1942 per le edizioni dell’Istituto Studi Politici Internazionali di Milano. Dopo tale lettura, seguiva quella di Linee di storia del socialismo (pubblicato nel 1941), dello stesso Perticone, dove Masini aveva potuto leggere per la prima volta il testo degli appelli contro la guerra dell’internazionalismo socialista di Zimmerwald (1915) e di Kienthal (1916). In questa fase Masini stava vivendo una prima, breve esperienza politica che lo aveva portato dalle iniziali simpatie per il fascismo eterodosso alla scelta antifascista, scelta che aveva causato la sua condanna al Confino di polizia per due anni. Rientrato a Firenze nell’autunno del 1943, fino alla primavera del 1945 aveva studiato presso la Biblioteca Nazionale di Firenze per preparare la sua tesi di laurea sulla diffusione del saintsimonismo in Toscana, approfondendo nel contempo le caratteristiche storiche e teoriche delle origini del socialismo [1].
Masini_Pier_Carlo_Anarchici_comunistiMasini fa parte a pieno titolo di quella giovane generazione di storici inquieti che, nel pieno della crisi politica, sociale ed economica italiana degli anni della guerra, sulle macerie lasciate dal fascismo e attraverso la sofferta strada della Lotta di liberazione, aveva maturato l’esigenza di ripensare la storia d’Italia attraverso lo studio del movimento operaio e del lavoro, facendola entrare nel panorama scientifico italiano come una nuova disciplina, con lo scopo di andare oltre le vecchie scuole storiografiche moderate, idealistiche e nazional-fasciste. La scelta di Masini non era diversa da quella compiuta anche da altri giovani intellettuali che si avvicinavano allo studio della storia e che nasceva, oltre che da un interesse culturale generale e dal percorso di studi, anche e soprattutto da una scelta di impegno etico politico [2].
L’intreccio tra storia e politica ha caratterizzato, come è stato più volte sottolineato in campo storiografico, la ricerca sulle origini del movimento socialista in Italia, diventando «il terreno prioritario» su cui si affermava «l’impegno della storiografia di sinistra». Si trattava di «una scelta politica precisa, volta a conferire dignità e legittimazione – entro l’ambito dello Stato democratico – al movimento operaio»[3].
Dopo una breve parentesi tra le fila comuniste durante la Resistenza, nell’estate del 1945 Masini sceglieva di schierarsi nel campo libertario. La sua adesione non era di tipo sentimentale. Egli si riconosceva in una definizione di Antonio Labriola, che distingueva con favore, all’interno dell’anarchismo, gli anarchici “ragionanti” dagli altri, precisando in tal senso la sua posizione nel solco del pensiero di Errico Malatesta, Luigi Fabbri, Francesco Saverio Merlino e Camillo Berneri, tracciando, di fatto, i lineamenti di una fisionomia umana e intellettuale che ha tutti i caratteri dell’autoritratto condotto ex post e fissato su carta soprattutto per sé:

Fin dal primo accostarmi all’anarchismo, ai profeti, esteti e poeti dell’anarchia preferii sempre gli anarchici positivi: quelli che sanno coniugare i principi di libertà con quelli dell’associazione e della solidarietà: che partono dall’individuo ma arrivano alla società; che sostengono le proprie ragioni ma che sanno ascoltare anche quelle degli altri e di ogni problema vedono, oltre la faccia visibile e certa, quella invisibile e controversa; che oltre i confini della propria parte ideologica, scoprono l’anarchismo, spesso inconsapevole, che pulsa per forza naturale, in uomini e gruppi di colore diverso, in un’area libertaria più vasta di quella professa e militante; che non si limitano alla protesta ma traducono l’utopia della vetta in proposte, programmi, progetti per cambiare il piano; che sono continuamente irrequieti, autoironici, insoddisfatti, autocritici del loro stesso anarchismo, che lo adoprano non come un metro per misurare e magari condannare gli altri, ma come una lente per leggere meglio in se stessi e nella società[4].

Masini_Pier_Carlo_EresieL’impegno politico di Masini in questi anni sarà totalizzante, coinvolgendolo a tempo pieno nella propaganda orale, nell’organizzazione di convegni e nella redazione di periodici, e facendone in breve uno dei principali leader giovanili del movimento libertario risorto dopo vent’anni di dittatura.
Masini si laureava nell’anno accademico 1945-1946 discutendo con Rodolfo De Mattei la tesi su I riflessi del santsimonismo in Toscana. Il suo interesse per Henri de Saint-Simon nasceva dalle ricerche sulle origini del moderno pensiero socialista e della storia risorgimentale italiana, temi tanto cari al professor Morandi.
Le indagini di Masini sull’Ottocento italiano erano finalizzate non solo a una più precisa ricognizione e messa a punto di momenti significativi dell’identità storico-politica dell’anarchismo italiano, ma anche alla rivisitazione della riflessione teorico-politica di quei momenti della storia italiana dell’800 nei quali si era posto il problema del cambiamento “rivoluzionario” della società. Va in questa direzione il suo saggio Dittatura e rivoluzione nei dibattiti del Risorgimento, in cui analizza il pensiero di Carlo Cattaneo, Giuseppe Ferrari, Giuseppe Montanelli, Carlo Pisacane[5]. In questo lavoro Masini distingueva il doppio significato del termine “dittatura”: quello che si riferisce al ruolo dominante dello Stato piemontese, verso cui la ripulsa dei rivoluzionari ottocenteschi era comune, e quello che intendeva la “dittatura” come possibile momento o forma rivoluzionaria. Su questo punto le posizioni divergevano, generando polemiche. L’osservazione iniziale che, a questo proposito, viene fatta da Masini, è illuminante circa le sue posizioni al contempo storiografiche e politiche:

Fu un’inutile polemica, allora; ma ritorna utile oggi come una nuova vena cristallina che riverberi i suoi riflessi sulle lotte contemporanee e ci illumini una più moderna interpretazione del Risorgimento. Qui considereremo il pensiero di alcuni noti eretici dell’Ottocento, anche per suffragare una tesi che ci è cara: essere l’anarchismo italiano una genuina espressione delle secolari esperienze del nostro popolo, un prodotto della sua più libera tradizione culturale, e non già − se ne persuadano i malevoli per ignoranza − un isolato vaneggiamento d’asceti od un improvviso sproloquio di folla[6].

Il 1946 è stato un anno particolare non solo perché, dopo la fine del conflitto mondiale, si era svolto il referendum istituzionale dal quale era nata l’Italia repubblicana, ma anche perché cadeva il centenario della nascita di Cafiero. Sul piano storiografico l’anniversario era stato anticipato da un articolo di Aldo Romano sulla scoperta, presso l’Archivio di Stato di Napoli, di tre lettere di Friedrich Engels a Cafiero[7]. A guidare la curiosità e gli studi di Masini era stata, in questo periodo, la lettura di un saggio di Carlo Morandi, pubblicato su «Belfagor», dal titolo esemplificativo: Per una storia del socialismo in Italia. Nel suo intervento Morandi sottolineava la necessità, per la nuova storiografia, di avviare un’indagine seria e rigorosa sulla storia del socialismo in Italia abbandonando fini apologetici e polemici. Lo storico scriveva che era necessario non solo studiare gli aspetti teorici della diffusione delle idee del socialismo, la “città del sole”, ma in particolare «raccogliere lo sguardo attento sulla “città dell’uomo”». Era un richiamo esplicito a indagare a fondo, andando alle radici della storia sociale e politica del movimento operaio, nelle città e nelle campagne, fin nelle più piccole località, dove si era espressa l’esperienza ideale e pratica del moderno socialismo in tutte le sue correnti. Nell’articolo, tra i vari argomenti e personaggi, veniva fatto riferimento alle correnti marxiste revisioniste, da Merlino a Mondolfo, alle esperienze bakuniniste della Prima Internazionale e ai suoi personaggi, ma soprattutto alla necessità di “vere biografie storiche” dei leader del movimento. Possiamo immaginare che per il giovane studioso e militante Masini la lettura dell’articolo di Morandi sia stata una sorta di appello all’arruolamento nelle nuove leve della ricerca storica.
Poco tempo dopo la pubblicazione del saggio di Morandi, sul periodico settimanale milanese «Il Libertario», diretto da Mario Mantovani, Masini pubblicava il suo primo lavoro su Cafiero, intitolato Pisacane e Cafiero[8]. In seguito, in occasione del centenario della nascita di Cafiero, sempre su «Il Libertario» Masini pubblicava l’articolo Per il Centenario della nascita di Carlo Cafiero (1° settembre 1846-1° settembre 1946). Note sparse[9], così come, su «Volontà» di Napoli, presentava un altro saggio dedicato al rivoluzionario pugliese, in particolare agli ultimi anni della sua militanza, quella più controversa e drammatica[10].
Masini_Pier_Carlo_1923_1998_ridCome si è detto, in Masini l’intreccio tra l’interesse storico e l’impegno politico in questo periodo è stato fortissimo, dunque non era un caso che la sua prima conferenza pubblica come militante della Federazione anarchica italiana, ma soprattutto come efficace divulgatore della storia ‒ si trattasse di figure legate alle vicende del movimento anarchico o a snodi storici come la formazione dei ceti moderati durante il Risorgimento – fosse significativamente dedicata al tema Carlo Cafiero pioniere del movimento operaio, tenuta il 30 marzo 1947 a Empoli presso la locale Università Popolare.
L’approccio di Masini alla storia in funzione del suo impegno etico politico non era affatto strumentale e ancor meno superficiale. Nella ricostruzione delle vicende del movimento libertario e socialista, infatti, la sua formazione e i suoi studi lo portavano ad utilizzare un metodo rigoroso, filologico e critico, anche quando scriveva per la stampa del movimento o del partito. A questa impostazione Masini rimarrà fedele per tutta la vita lasciandoci una grande eredità culturale e di metodo di cui i suoi scritti ne sono una testimonianza viva.

NOTE:

[1] Per un inquadramento generale della vita intellettuale e politica di P.C. Masini si rimanda ai seguenti volumi: Pier Carlo Masini. Un profilo a più voci. Atti della giornata di studi sulla figura e l’opera di Pier Carlo Masini, Bergamo, Sala Curò, 16 gennaio 1999, a cura di G. Mangini, Numero monografico di «Bergomum», Bollettino della Civica biblioteca Angelo Mai di Bergamo, 2001; Pier Carlo Masini. Impegno civile e ricerca storica tra anarchismo, socialismo e democrazia, a cura di F. Bertolucci e G. Mangini, Pisa, BFS, 2008.

[1] Cfr. L. Cortesi, Le origini degli studi sul movimento operaio in Italia in ricordo di Pier Carlo Masini, in Pier Carlo Masini. Un profilo a più voci …, cit., pp. 43-53.

[1] Cfr. G. Gozzini, La storiografia del movimento operaio in Italia: tra storia politica e sociale, in La storiografia sull’Italia contemporanea. Atti del convegno in onore di Giorgio Candeloro. Pisa, 9-10 novembre 1989, a cura di C. Cassina, Pisa, Giardini, 1991, pp. 241-276.

[1] Cfr. P.C. Masini, Introduzione in R. Bertolucci, A come anarchia o come Apua: un anarchico a Carrara, Ugo Mazzucchelli, Carrara, FIAP, [1989], p. VI.

[1] Il saggio esce in sei puntate, P.C. Masini, Dittatura e Rivoluzione nei dibattiti del Risorgimento, «Volontà», nn. 1-6 pubblicati dal 1° luglio al 1° dicembre 1947.

[1] Cfr. Id., Dittatura e Rivoluzione …, cit., prima puntata, p. 30.

[1] Cfr. A. Romano, Nuovi documenti per la storia del marxismo, «Rinascita», gennaio-febbraio 1946, pp. 27-28.

[1] Cfr. P.C. Masini, Pisacane e Cafiero, «Il Libertario», 23 luglio 1946, p. 2.

[1] Cfr. Id., Per il Centenario della nascita di Carlo Cafiero (1° settembre 1846-1° settembre 1946). Note sparse, «Libertario» numeri dal 21 agosto al 4 settembre 1946. In questi anni Masini entra in contatto e lo rimarrà per lungo tempo con Luigi Dal Pane, altro autorevole studioso del socialismo italiano, depositario di un importante archivio di documenti, alcuni dei quali da lui utilizzati proprio in occasione del centenario della nascita di Cafiero e pubblicati in un opuscolo illustrato da fotografie d’epoca. Cfr. In memoria di Carlo Cafiero nel primo centenario della nascita (1846-1946), a cura di L. Dal Pane, Ravenna, La Romagna socialista, dicembre 1946.

[1] P.C. Masini, Carlo Cafiero ed una controversia intorno alla sua ultima posizione politica, «Volontà», 1° marzo 1947, pp. 73-83. Cfr., inoltre, (a cura dell’archivista), Il giudizio di Cafiero: commemorando il “Manifesto dei comunisti” (febbraio 1848-febbraio 1948), «Umanità nova», 1° febbraio. 1948, p. 3.