Il progetto “Resistenze, femminile plurale. Storie di donne in Toscana”



Sai chi sei? Sai a che cosa sei chiamata? Per cosa vale la pena vivere e morire? Che cosa è giusto fare? 

Rompere con clamore o resistere in silenzio nel quotidiano. Tuffarsi al centro del campo di battaglia o restare ai margini – parete, pilastro, confine, protezione; grembo e custode del dolore degli altri. O entrambe le cose? 

Invisibile o sfrontata, mani impeccabili o spellate, sporche d’inchiostro o di farina, mitra in spalla o in casa a dar di pedale sulla macchina da cucire. In quanti modi puoi lottare? 

(Benedetta Tobagi, La Resistenza delle donne, Einaudi, 2022)

 

Il progetto Resistenze, femminile plurale. Storie di donne in Toscana vuole accompagnare le celebrazioni dell’80esimo della Liberazione dell’Italia dal nazifascismo, ponendo al centro dell’attenzione il tema della Resistenza femminile con una campagna social divulgativa.

Sulla base della documentazione raccolta negli archivi della Rete toscana degli Istituti della Resistenza e dell’età contemporanea si è voluto impostare un “album di famiglia” che ritraesse alcune delle donne coinvolte, con vari e diversificati ruoli, nella lotta di Liberazione dei nostri territori.

Vera Vassalle

50 biografie di donne toscane saranno proposte sui social (facebook e instagram) degli Istituti della rete dal 14 aprile all’8 maggio, due al giorno, e ampliate confluiranno progressivamente in questa pagina di ToscanaNovecento, con l’intento di farne la base per un futuro database sul partigianato femminile in Toscana, via via aggiornabile e quindi preludio a ulteriori e più approfondite ricerche.

Laura Seghettini a Parma nella manifestazione dopo la Liberazione (Archivio ISRA)

Al di là di una complessa e forse impossibile ricostruzione quantitativa, infatti, ciò che è apparso necessario – e ha costituito la spinta per tutto questo – è stato fare, a 80 anni di distanza, il punto sullo stato dell’arte delle conoscenze sulla Resistenza femminile in Toscana. Un obiettivo possibile se si radunano in questo unico spazio virtuale le ricostruzioni realizzate dagli istituti nel corso degli anni, a partire da questo primo nucleo, a campione, di cinquanta donne su cui tracce documentarie sono presenti all’interno degli archivi degli Istituti storici della rete toscana. Fra loro cinque delle diciannove medaglie d’oro al valor militare conferite a donne nel dopoguerra, ma anche storie molto meno note che pur meritano la stessa attenzione.

Un lavoro da continuare, quindi, che richiede risorse finanziarie e i tempi lunghi della ricerca storica, ma che si è voluto simbolicamente avviare a 80 anni dalla fine della guerra di Liberazione. Cosa rimane nella memoria di oggi di quelle vicende cruciali per l’Italia, infatti, è tema dibattuto. Ma quale sia la conoscenza dei percorsi biografici delle donne che a quella lotta presero parte è certamente ben poca, al di là dell’immagine standardizzata delle staffette diffusamente loro attribuita.

Francesca Rola con i partigiani della formazione “Ulivi” (Archivio ISRA)

Le loro storie a volte non sono emerse nemmeno nella narrazione resistenziale del dopoguerra. In quel racconto del partigianato, eroico e tutto al maschile, avviatosi fin dal 1945, rimaneva infatti un tabù il tema del rapporto fra le donne e l’uso della violenza. Una riflessione che le “poche feroci” (secondo la definizione di Jean Bethke Elshtain) ci consegnano attuale anche oggi, in un momento in cui la rappresentazione della Resistenza pare a volte farsi tutta disarmata.

Invece, come dimostrano molte delle biografie proposte da questo progetto, la Resistenza, o meglio le diverse Resistenze delle donne implicano differenti gradi di coinvolgimento nelle azioni armate su cui sarebbe opportuno tornare a riflettere, come hanno iniziato recentemente a fare alcuni storici, per analizzare concretamente i molteplici ruoli rivestiti dalle resistenti e l’attività da loro effettivamente compiuta in un contesto a prevalenza maschile.

Francobollo commemorativo di Tina Lorenzoni

La storia delle donne, anche toscane, ha del resto proprio nell’esperienza della guerra e della Resistenza uno dei suoi punti nodali, forse il più importante momento di cesura: da lì in poi le loro vicende si sviluppano con traiettorie esistenziali variegate che le portano a uscire dalla dimensione prettamente domestica e a cominciare ad agire nello spazio pubblico.

La loro partecipazione alla Resistenza è indubbiamente variegata: sono partigiane, patriote, resistenti. Per la maggior parte di loro vale ciò che scrive la storica Anna Rossi Doria quando sottolinea come nella scelta delle donne di prendere parte al movimento di Liberazione vi sia un passaggio dalla compassione (vicina a quella categoria del “maternage di massa” introdotta da Anna Bravo nel 1991) alla solidarietà, e dalla solidarietà all’impegno politico in prima persona.

Fra le molte qui raccontate, infatti, ci sono alcune che fin dall’8 settembre prendono parte o sostengono la lotta armata, sulla scia di un antifascismo le cui origini possiamo ricercare nel contesto familiare o nella rete delle relazioni fra i pari. Ma vi sono anche le altre che, a partire da pratiche di autodifesa sociale necessarie durante la guerra, sviluppano quella che si può definire un’intenzione antinazista e da lì si muovono più o meno gradatamente sui percorsi variegati della Resistenza civile.

Da sinistra Israele (Lele) Bemporad, Liliana Cecchi, Bumeliana Ferretti Pisaneschi, Enzo Giorgetti (in secondo piano e con il volto parzialmente coperto dal fucile), Marino Gabbani, Lina Cecchi, un uomo russo non identificato e Lea Cutini (o Ilva Raffaella Ferretti) (© Press Association, Inc. )

Proprio le biografie femminili, del resto, hanno portato storiograficamente all’attenzione quell’insieme di comportamenti che hanno come matrice comune il disconoscimento della legalità fascista e che oggi riunifichiamo sotto questa categoria interpretativa. Comportamenti che, così come l’ingresso in banda o la salita “ai monti”, traggono sempre però origine da una precisa scelta resistenziale.

Le storie qui raccontate, se ricostruite sul lungo periodo, come si è tentato di fare, mettono in evidenza le motivazioni molteplici alla base di quella scelta, siano esse politiche o di altra natura, e come esse talvolta proseguano nella lotta di classe, attraverso i ruoli politici assunti da talune nel dopoguerra, e si intersechino alle battaglie per i diritti delle donne, ma non solo.

In quei percorsi femminili, insomma, ritroviamo in parte la genesi dell’oggi, così come nella Resistenza ritroviamo l’origine della democrazia italiana, attraverso la Costituzione. Ma per poter parlare di queste donne spesso bisogna andare in cerca di loro fra le pieghe della narrazione, superando gli ostacoli rappresentati dall’assenza di fonti e soprattutto dall’assenza di memorie. Ecco cosa questo progetto ha tentato di fare, non come conclusione ma come inizio di un percorso.

Ofelia Giugni

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🟧 Coordinamento progetto:

Ilaria Cansella

🟥 Gruppo di lavoro:

Ilaria Cansella, Teresa Catinella, Francesca Cavarocchi, Laura Mattei, Matteo Mazzoni, Barbara Solari, Catia Sonetti

🟩 Istituti coinvolti:

Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea

 Istituto storico della Resistenza Apuana e dell’età contemporanea

Istituto storico aretino della Resistenza e dell’età contemporanea

Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’età contemporanea

Istituto storico della Resistenza e della Società contemporanea nella provincia di Livorno

Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea in provincia di Lucca

Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea in provincia di Pistoia

Biblioteca Franco Serantini di Pisa

Fondazione Museo e Centro di documentazione della deportazione e della Resistenza di Prato

Istituto storico della Resistenza senese e dell’età contemporanea

🟦 Con il sostegno di:

           




FIRENZE, 1° SETTEMBRE 1944

Terminata la battaglia per la liberazione, Firenze si sveglia non più oppressa dal macigno dell’occupazione nazifascista ma con una serie di problemi da risolvere nel breve periodo, al punto che la gioia di assaporare quel senso di libertà anelato da tanto tempo viene in parte strozzata da una realtà fatta di macerie, dove tutto è da ricostruire, e da una popolazione stremata che necessita nell’immediato dei bisogni primari. Case, strade, ponti che non esistono più, uomini, donne e bambini sfollati che hanno bisogno di un tetto e di piatti caldi quotidiani, e che per bere e lavarsi spesso sono costretti a stazionare in lunghe file davanti alle poche fontane funzionanti.

Una città che versava in condizioni critiche sotto il profilo annonario, igienico e abitativo, oltre che dal punto di vista della sicurezza e dell’ordine pubblico. L’emergenza annonaria era la più drammatica come risulta dai rapporti ufficiali britannici e dal diario di guerra della XIV armata germanica, i tedeschi avevano lasciato ai fiorentini il 9 agosto 1944 scorte alimentari per 22 giorni, più precisamente 125 tonnellate di farina, 25 di riso, 10 di pasta e 25 di pane, oltre ad una tonnellata e mezzo di latte condensato per il sostentamento delle madri e dei malati[1]. Si trattava di una minima parte di quanto i militari tedeschi, rimasti di fatto gli unici padroni della città, dopo la fuga delle autorità civili fasciste, avevano requisito e in molti casi razziato nelle ultime settimane. Ad ogni modo con queste scorte modeste ma provvidenziali la città riuscì a sopravvivere fino alla fine del mese. Con l’arrivo delle truppe alleate i benefici sperati furono disattesi, infatti la situazione annonaria nell’autunno-inverno ‘44 non migliorò, e nonostante le promesse delle autorità alleate gli alimenti base continuavano a mancare o a essere reperibili solo alla borsa nera.

Un problema altrettanto grave era costituito dall’emergenza abitativa, Firenze pur non avendo subito ferite paragonabili a quelle inflitte in altre città italiane, per il rispetto tributato al suo patrimonio artistico, per l’assenza di strategiche concentrazioni industriali o perché la guerra era finita otto mesi prima che al Nord, aveva avuto danni al suo tessuto urbano niente affatto trascurabili.

Dopo la liberazione la popolazione fiorentina, che era salita in poco tempo da 350.000 a 500.000 abitanti, trovò rifugio un po’ dovunque, in particolare nelle case requisite ai fascisti e nei centri per sfollati, organizzati nelle parrocchie, nelle case del popolo, nei locali del comune e soprattutto nelle scuole[2]. In accordo con gli alleati furono riorganizzate le strutture di accoglienza, e in molti si riversarono soprattutto presso l’Ente comunale di Assistenza, uno dei più attivi in città, che a fronte di questa situazione di estrema precarietà fu chiamato a rispondere con urgenza ed efficacia. Grazie all’opera del direttore Luigi Rondoni, del presidente Giorgio La Pira, e all’aiuto economico e logistico degli alleati, una delle prime azioni dell’Ente fu la riapertura delle mense già adibite in passato alla distribuzione dei “ranci del popolo” e la distribuzione di generi di prima necessità alla popolazione. Come refettori furono utilizzati i locali delle parrocchie, che crearono una rete capillare e diffusa in città, a cui si aggiunsero centri assistenziali, case del popolo e molte altre strutture di fortuna.

Dal punto di vista amministrativo, già nel pieno della battaglia, l’11 agosto, la guida della città fu subito assunta da una giunta comunale nominata direttamente dal Comitato toscano di liberazione nazionale (Ctln). Vi fu un lungo braccio di ferro con le forze alleate per la definizione dell’organico amministrativo, ma il Ctln ebbe la meglio e riuscì ad imporre alla carica un medico socialista, Gaetano Pieraccini, mentre alla carica di vicesindaco furono designati il democristiano Adone Zoli e il comunista Mario Fabiani. La scelta di Pieraccini non fu la più gradita agli Alleati, che avrebbero preferito come primo cittadino non un rappresentante del partito storico della sinistra, ma altri uomini come il conte Paolo Guicciardini, esponenti liberali come Dino Philipson e l’avvocato Gaetano Casoni, o anche Piero Calamandrei del Partito d’Azione. Alla base della loro opposizione vi era la consapevolezza del valore simbolico della figura del primo cittadino che avrebbe rappresentato Firenze a livello nazionale e mondiale; ma gli Alleati preferirono giustificare diplomaticamente le loro riserve con l’età avanzata del medico fiorentino[3]. Alla fine nonostante le infondate obiezioni sull’età, la scelta di Pieraccini risultò la più adatta “per un sindaco della Liberazione” che era sempre stato un tenace oppositore del regime, oltre che uno dei padri nobili del socialismo toscano[4].

Il problema dei profughi in una nuova legge governativa. Un provvedimento che non potrà risolvere i problemi di 2700 ospiti dei vari centri fiorentini, «La Nazione», 7 ottobre 1948.

Giunto alla guida della città quasi ottantenne, Gaetano Pieraccini fu chiamato a risolvere problemi di assoluta emergenza, con i quali nessun sindaco del capoluogo toscano si era mai dovuto misurare, come quel problema sorto a termine della guerra – ma che esisteva sia pure in misura ridotta dallo scoppio delle ostilità – dei profughi di guerra e dei sinistrati dai bombardamenti, che Firenze, al pari delle altre città italiane, si trovò ad accogliere, sistemare e sfamare. Fu un’emergenza abitativa che continuò per diversi anni e rappresentò uno dei problemi più drammatici dell’intera storia della città[5].

In città subito dopo la liberazione esistevano soprattutto due categorie di persone che dovevano essere assistite perché prive di vitto e alloggio: gli sfollati residenti in altri comuni d’Italia che avevano dovuto abbandonare la propria casa per la guerra e i sinistrati fiorentini a cui era stata distrutta o lesionata la propria abitazione. Molti di loro avevano trovato rifugio temporaneo in Palazzo Pitti e nell’adiacente Giardino di Boboli quando Firenze nella notte fra il 3 e il 4 agosto fu trasformata in un “teatro di paura e distruzione” da parte delle truppe tedesche in ritirata. Per rallentare l’avanzata degli alleati, che stavano risalendo la penisola, i tedeschi distrussero dietro di loro tutte le vie di comunicazione, compresi tutti i ponti ad eccezione del Ponte Vecchio.

A molti sinistrati successivamente fu trovata una sistemazione soprattutto nelle scuole dell’area fiorentina che velocemente furono adibite allo scopo, mentre molti altri sfollati trovarono rifugio soprattutto presso la caserma Cavani ex Genio di via della Scala, dove poterono rimanere fin quando non arrivarono migliaia di profughi provenienti da vari paesi, in particolar modo dalle ex colonie africane e dai territori esteri quali la Grecia, l’Albania e la Tunisia, che alla fine del ’45 si abbatterono come una valanga nel Centro stravolgendo quella già precaria sistemazione che avevano trovato gli sfollati ed i sinistrati fiorentini[6].

 

Archivio Storico del Comune di Firenze, Fondo Eca, Filza n. 7, Categoria IV, Inserto n. 22, Centro sinistrati e sfrattati, anno 1945 e seguenti.

 

Da quel momento in poi le Istituzioni si mobilitarono costantemente per trovare nuovi locali adatti ad accogliere tutti coloro che avevano bisogno di un tetto, soprattutto quando si sarebbe aggiunto quel nuovo flusso di esuli, provenienti dall’Istria e dalla Dalmazia, conseguente alla stipula del Trattato di Pace, del 10 febbraio 1947, che segnò una rinuncia definitiva alla sovranità italiana sui territori del confine orientale. Dal febbraio di quell’anno giunsero a Firenze, come in molte altre località della penisola, cittadini italiani, indotti ad abbandonare i luoghi nativi dal sentimento di appartenenza alla madrepatria, dalla politica persecutoria praticata dal regime titino nei confronti dell’elemento italiano, e in molti casi anche dal rifiuto di vivere sotto un regime comunista.

Firenze fu meta di un ampio flusso migratorio dal litorale adriatico e come nel resto d’Italia, l’esodo coinvolse esponenti di tutti i ceti sociali, «dal professionista e dal pubblico funzionario alla “sigaraia di Pola”, accomunati dal desiderio di tenere fede alla propria italianità anche a costo di abbandonare i loro beni»[7].

Come avvenuto per i territori della Venezia Giulia passati alla Jugoslavia, il Trattato di Parigi consentiva agli italiani residenti nel Dodecaneso la possibilità di esercitare il diritto di opzione. Iniziarono così i rimpatri di quanti avevano scelto la nazionalità italiana, e alcuni di essi, sbarcati a Bari, giunsero a Firenze e si sommarono ai “greci”, arrivati nel novembre del ’45, provenienti da Patrasso (la maggior parte), da Atene, Corfù e Salonicco.

I primi sintomi della gravità del problema si verificarono quando si cominciò a cercare i locali per sistemarli, in quanto quelli disponibili erano già tutti occupati dagli sfollati e dai sinistrati fiorentini. Furono individuati come edifici adatti ad ospitarli alcune scuole, alcune abitazioni private e soprattutto la caserma di via della Scala, la caserma Laugier, in via di Tripoli e il convento sconsacrato di Sant’Orsola in via Guelfa. Ma l’emergenza abitativa apparve presto evidente e le condizioni di questi italiani privati delle loro terre, delle loro case e dei loro beni dalla sconfitta militare si rivelarono drammatiche anche in un’epoca di privazioni generalizzate. Questi centri di raccolta rappresentavano una detenzione ingiusta e pesante per coloro che erano obbligati a subirla e al contempo costituivano un problema sociale per Firenze che doveva “sopportarli e in parte supportarli[8].

 

Archivio Storico del Comune di Firenze , Fondo ECA, Filza n. 7, Categoria IV, Atti e carteggio vario con l’ufficio provinciale per l’assistenza post-bellica, 1945 e seguenti.

 

I profughi giuliano-dalmati, appena arrivati alla stazione, ha raccontato la signora Liana Di Giorgi Sossi, esule da Pola[9], furono accolti da un signore che si era già stabilito a Firenze e sistemati nel fatiscente complesso dell’ex convento di Sant’Orsola, che accolse circa 580 istriani[10], nelle cui stanze vennero ricavati 272 ambienti familiari, senza il diritto ad un minimo di vita privata, con gli spazi riservati a ciascun nucleo familiare delimitati da semplici coperte appese ad un filo. Ma nonostante gli spazi ristretti e la promiscuità esistente erano riusciti a creare una sorta di Kibbutz con all’interno una scuola, uno studio medico, e addirittura avevano formato una squadra di pallavolo maschile e femminile e un’orchestra che si esibiva durante le feste. Liana Di Giorgi Sossi, allora bambina, in un’intervista ha raccontato alcuni episodi della sua infanzia:

Ricordo che, mentre stavo al campo ho fatto la prima comunione nella chiesa di Santa Reparata: è stato bello. Però noi lì eravamo isolati. Eravamo nel centro e uscivamo solo per andare a scuola oppure a lavorare[11].

 

Il Centro Raccolta Profughi di Via Guelfa, presso la ex Manifattura Tabacchi e, prima ancora, Monastero di Sant’Orsola. Fotografia di Elio Varutti.

 

Sant’Orsola, Firenze, Centro di accoglienza degli esuli istriani, fiumani e dalmati, Pasqua 1947 (archivio Liana Di Giorgi Sossi).

 

Firenze, CRP ex Manifattura Tabacchi, Comunione e Cresima, 15 giugno 1948.

 

Non tutti i profughi giuliano-dalmati passarono attraverso il Centro di Sant’Orsola, i più fortunati, che avevano trovato un lavoro, poterono contare sull’ospitalità di parenti o riuscirono ad ottenere un tetto dal Commissariato Alloggi, evitando così il passaggio dal campo profughi.

Una settantina di altri esuli adriatici invece trovarono posto nei locali di via della Pegola, che negli ultimi tempi erano stati utilizzati come magazzini dall’Università: «Il Genio civile, l’associazione degli industriali e il centro italiano femminile, hanno fatto il possibile per rendere abitabili e confortevoli i nuovi ambienti»[12]. Le 22 famiglie che compongono la piccola comunità hanno così trovato ospitalità in questa specie di “centro profughi”.

L’accoglienza che incontrarono gli esuli giuliano-dalmati ha rappresentato una brutta pagina della storia fiorentina, specie se paragonata all’atteggiamento molto più aperto di realtà locali spesso più povere, come la Sardegna, che ospitarono, con assai maggiore disponibilità i profughi. In molti casi pesò su di loro il pregiudizio che fossero “fascisti”:

C’era una gran malinconia, una tristezza diffusa nei nostri genitori, per il fatto di non essere accettati dagli altri, dai fiorentini, che ci consideravano fascisti e stranieri solo perché eravamo fuggiti da Pola. Per un periodo di tempo il controllo su di noi fu talmente forte che venne addirittura installato un corpo di guardia della Celere nella portineria e gli adulti dovevano esibire sempre un documento per entrare[13].

Solo a partire dalla metà degli anni Cinquanta i profughi scappati da Tito avrebbero raggiunto migliori condizioni di vita ottenendo l’assegnazione di case popolari di recente realizzazione, all’Isolotto, a Bellariva, in via Fanfani, o accedendo all’affitto di abitazioni realizzate nel 1953 per loro e per altri profughi nei complessi di via Niccolò da Tolentino (via delle Gore) e in via di Caciolle.

Non mancarono problemi anche per il rinserimento dei profughi provenienti dalle ex colonie africane e dall’Egitto che, pur non essendo una colonia italiana, aveva accolto, fin dall’Ottocento una folta e qualificata comunità di italiani, sessantaseimila all’inizio del secondo conflitto mondiale.

A Firenze arrivarono anche i rimpatriati provenienti dalla Tunisia e per loro venne requisito l’albergo Cavour in via del Proconsolo per alloggiarvi circa 220 profughi[14]. Un numero minore di “tunisini” trovò posto invece nel Centro profughi di via della Scala ormai quasi completamente occupato dai profughi “greci”.

Non riusciamo a ricavare un numero preciso di profughi che hanno alloggiato a Firenze, ci affidiamo a riguardo al quotidiano “La Nazione” che in data 12 dicembre 1945 riporta un numero di 2700 connazionali dall’estero alloggiati al Centro profughi di via della Scala e che sarebbe presto aumentato con l’arrivo di altri gruppi di profughi. Diventava così fondamentale per gli Enti incaricati di provvedere alla loro accoglienza organizzando nel migliore dei modi le strutture adibite allo scopo per “rendere l’ospitalità non uguale a quella dei lager![15]. E la città di Firenze, con un fragile apparato di emergenza, riunì tutte le forze per attrezzarsi al fine di offrire vitto e alloggio a questi sventurati diventando così un crocevia di razze, dialetti e lingue di tutto il mondo.

Nuovi ragguagli e chiarimenti sulle condizioni del centro profughi, «La Patria», 23 novembre 1945.

In questo movimento continuo di persone accadeva anche che il 23 novembre 1945 arrivasse a Firenze un treno carico di 700 profughi, di ignota provenienza e senza nessun preavviso né da Roma né da alcuna delle stazioni di transito. E neanche al ministero dell’Assistenza post-bellica sapevano dell’esistenza di questo treno in viaggio per Firenze… un vero treno fantasma. E mentre si cercava di correre ai ripari per trovare una sistemazione a queste persone, dalla stazione di Campo di Marte si annunciava l’arrivo di un altro treno: altri vagoni stracolmi di uomini donne e bambini che viaggiavano con il solo bagaglio della propria sofferenza, «senza neppure farli precedere da quell’avviso che si usava per le merci!»[16]. Fu avvisata dell’arrivo di questi treni la direzione del Centro profughi per provvedere all’accoglienza, ma in via della Scala tutti i locali disponibili erano già al completo. Lo sconforto e la rabbia di coloro che avevano viaggiato per giorni stipati all’interno di un vagone esplose quando, arrivati a destinazione, vennero a sapere che nessuno li aspettava, che lì non vi era posto per loro. Risolutivo fu l’intervento del direttore del Centro, che giunto alla stazione con gli addetti della mensa popolare ed un carico di buone pietanze alimentari, riuscì a calmare gli animi e convincerli ad accettare di rimettersi in viaggio verso Bologna (città da cui, di lì a poco, sarebbero tornati a Firenze!)[17].

Questo clima di caos e di incertezza, tipico di una situazione al collasso, era causato anche da difficoltà di comunicazione con gli organi centrali e dalla confusione creata dai movimenti degli eserciti insieme agli intralci provocati dagli organismi di controllo degli Alleati.

L’afflusso di profughi proseguì per tutto il 1945, soprattutto furono numerosi i rimpatri dalla Grecia (il nucleo più consistente di profughi a Firenze alloggiati nella ex caserma di via della Scala) che giunsero ininterrottamente per tutto il mese di novembre e l’inizio di dicembre, poi iniziò l’arrivo degli istriani che proseguì anche negli anni Cinquanta. Mentre il flusso di profughi “africani” nel capoluogo toscano si protrasse fino agli anni Settanta, quando, dopo il colpo di stato nel 1969 del colonnello Gheddafi, fu messa in atto la “cacciata” di tutti gli italiani dal territorio libico. Non solo, Gheddafi per appagare il suo sentimento di vendetta nei confronti dell’Italia, andò oltre ordinando la restituzione dei morti italiani che furono dissotterrati dai cimiteri e imbarcati sulle navi per tornare in patria.

 

NOTE:

[1] Enrico Nistri, La Firenze della Ricostruzione (1944-1957) dall’11 agosto all’anno dei tre ponti, Ibiskos, Empoli 2008, p. 56.

[2] Daniela Poli, Storie di quartiere. La vicenda Ina-Casa nel villaggio Isolotto a Firenze, Edizioni Polistampa, Firenze 2004.

[3] Cfr. Lelio Lagorio, Cronache di lotta socialista a Firenze, in Il socialismo a Firenze dalla Liberazione alla crisi dei partiti 1944-1994, a cura di Luigi Lotti, Polistampa, Firenze 2013, p. 119.

[4] E. Nistri, La Firenze della Ricostruzione (1944-1957), cit., p. 53.

[5] Negli anni ‘60, dopo la realizzazione di molti alloggi, erano ancora in attività 32 centri sfrattati con 779 famiglie alloggiate composte da 2696 persone, in Daniela Poli, Storie di quartiere, cit., p. 84.

[6] Il problema dei profughi in una nuova legge governativa. Un provvedimento che non potrà risolvere i problemi di 2700 ospiti dei vari centri fiorentini, «La Nazione», 7 ottobre 1948.

[7] E. Nistri, La Firenze della Ricostruzione, cit., p. 189.

[8] Elio Varruti, I diritti e le ortiche. Esuli dai campi profughi ai villaggi per rifugiati di firenze-1945-2009, https://eliovarutti.wordpress.com/2020/10/10/

[9] Intervista a Liana di Giorgi Sossi, in Daniela Tartaglia, Sant’Orsola. Fotografie da un monastero, Crowdbooks, 2019.

[10] Il Crp di Sant’Orsola operò dal 1945 al 1955 per i profughi istriani. Vi confluirono con le loro famiglie 580 dipendenti della manifattura tabacchi di Pola assegnate alla manifattura tabacchi di Firenze, che dall’Ottocento fino al 1941 aveva sede proprio a Sant’Orsola (Il Centro continuerà ad essere attivo fino alla fine degli anni Sessanta accogliendo sfrattati o senza tetto).

[11] Ibidem.

[12]Dopo le nostre segnalazioni. I profughi giuliani decentemente sistemati, «La Nazione», 13 marzo 1948.

[13] Intervista a Liana di Giorgi Sossi, in D. Tartaglia, Sant’Orsola, cit.

[14] Il problema dei profughi in una nuova legge governativa, «La Nazione», 7 ottobre 1948.

[15] E. Miletto, In fuga. Assistenza e accoglienza degli italiani di Grecia in Piemonte, in Convegno internazionale “Grecia e Italia 1821-2021: due secoli di storie condivise, Atene 2023, p.716.

[16] Nuovi ragguagli e chiarimenti sulle condizioni del centro profughi, «La Patria», 23 novembre 1945.

[17] Ibidem.

 

Articolo pubblicato nel marzo 2025.




Le bandiere multicolori delle donne. Una storia di pacifismo e resistenza

Nel secondo dopoguerra l’Italia fu uno dei paesi protagonisti del movimento dei Partigiani della pace, costituitosi a Parigi nel 1949. Nel suo alveo, tra gli anni ’40 e ’50, si sviluppò “dal basso” la pratica della realizzazione delle “Bandiere multicolori della pace”. Si tratta di una pratica autonoma e parallela rispetto a quella delle bandiere della pace arcobaleno.

Le bandiere sono un artefatto classico. Prima dell’avvento delle bandiere prodotte in serie si trattava di un oggetto singolo, “La bandiera”, simbolo identitario soggettivo di quella specifica organizzazione e potente strumento comunicativo. La bandiera attira lo sguardo, trasmette contenuti, unisce le persone, risveglia emozioni. L’uso della bandiera in scioperi e manifestazioni occupa lo spazio, crea collettività, anche attraverso una precisa grammatica dei colori.

La bandiera arcobaleno è oggi conosciuta globalmente. Un ruolo importante nella sua diffusione e standardizzazione pare averlo giocato Aldo Capitini, che portò una bandiera molto simile a quella che conosciamo, riprendendola da alcune che già circolavano, durante la prima Marcia per la Pace Perugia-Assisi nel 1961. Ma già agli inizi del ‘900 James Van Kirk aveva proposto la World Peace Flag. Nel 1897 ne era stata proposta un’altra da Cora Slocomb e qualche anno prima, nel 1891, un’altra versione ancora era stata proposta da Henry Pettit.

Poco note sono invece le bandiere della pace delle donne italiane, che nonostante la loro diffusione all’epoca restano quasi sconosciute al grande pubblico. Per le loro fattezze sono conosciute come bandiere multicolori. Venivano realizzate spesso a risparmio, con scampoli di tessuto, spesso arricchite con ricami di testo, di disegni o oggetti del lavoro. Sono arrivate a noi attraverso la memoria e gli archivi. Ne sopravvivono numerosi esemplari, a volte in bella vista, altre volte in cassetti e sgabuzzini.

La loro estetica pone un interrogativo: perché fare delle bandiere multicolori per simboleggiare la pace? Probabilmente l’idea che la pace andasse rappresentata con tanti colori si era già fatta strada, a partire dai primi prototipi, e veniva tradotta dallo spirito internazionalista dei movimenti socialisti e comunisti in una bandiera che con i suoi tanti colori rappresentasse i popoli del mondo uniti sotto le insegne della pace.

Furono soprattutto le donne dell’Unione donne italiane (UDI) ad impegnarsi maggiormente nella campagna pacifista e contro la minaccia atomica. Di conseguenza, le bandiere ebbero anche una caratterizzazione e grammatica di genere. La realizzazione delle bandiere era già una delle forme dell’attivismo delle donne. Le laboriose e infaticabili mani femminili cucivano da tempo i vessilli del movimento di emancipazione del lavoro. Le bandiere multicolori divennero così le bandiere della pace “delle donne”, un simbolo delle istanze di emancipazione, esibite e portate in piazza.

Le prime informazioni sulle bandiere multicolori risalgono alla fine del 1948, diventando subito un simbolo di lotta e di opposizione all’ingresso dell’Italia nella NATO, contro la guerra di Corea e la bomba atomica. Nel 1949 a Parma la bandiera, rimossa dalla polizia dalla torretta della fabbrica Bormioli (occupata dalle maestranze), venne portata in bicicletta in alcuni paesi, dove si costituirono i Comitati della Pace al suo passaggio e si raccolsero firme contro il Patto Atlantico. Lo stesso anno l’UDI invitò le donne a portare le bandiere alle manifestazioni dell’8 marzo. Le bandiere vennero utilizzate anche negli eventi delle ragazze dell’UDI, come gli Incontri di Primavera o le gare sportive, legandosi così alla gioventù e all’idea di futuro che incarna. Sono numerose le fotografie apparse sulle riviste del tempo in cui le ragazze sventolano le bandiere. A Siena presso le “Stanze della memoria” è esposta una bandiera dove si può leggere la scritta ricamata: «Le ragazze d’Anqua s’impegnano per la pace».

Ma nell’Italia di quel tempo queste bandiere erano un oggetto politico conflittuale. Dato che la campagna pacifista si contrapponeva alle politiche internazionali e di riarmo dei governi italiani, la bandiera della pace era di fatto uno strumento di opposizione e veniva considerata la manifestazione di un’ostilità politica ai governi, che ne perseguirono l’uso attraverso le forze dell’ordine. Le bandiere divennero così anche un simbolo e uno strumento di resistenza, e con questa declinazione furono incorporate nei repertori dell’azione sindacale. Le ritroviamo in piazza il Primo maggio, esposte ai convegni e ai congressi della CGIL, utilizzate in scioperi e manifestazioni. Capitava spesso che sulle bandiere venissero ricamate le rivendicazioni sindacali. Furono numerosi i mondi del lavoro che realizzarono le proprie bandiere, dalle fabbriche alle mondine, e non mancarono bandiere dallo spirito “confederale”.

Le bandiere divennero uno strumento di lotta a tutti gli effetti, come nell’occupazione della fabbrica Bormioli. Molte testimonianze della loro funzione in questo senso provengono dal mondo mezzadrile. Si affermò la pratica di portarle durante gli scioperi e di issarle sulla vetta dei pagliai e nelle aie durante la trebbiatura del grano. Le bandiere riempivano così lo spazio della conflittualità sociale. Le forze dell’ordine furono impegnate in una lunga battaglia per rimuovere le bandiere dai pagliai, in una ricorsa continua, da un pagliaio all’altro, da un’aia all’altra, che si risolveva nel rafforzamento della volontà delle famiglie mezzadrili di issarle, vedendovi un’espressione di emancipazione dai proprietari e della conquistata libertà politica. Sul la rivista della CGIL Lavoro del 1952 si legge sotto a una foto: «Dopo una combattuta lotta i contadini dipendenti degli agrari fratelli Sonnino di Chiaravalle, issano sull’aia la bandiera della pace. I Sonnino pensavano di poter imporre i loro sistemi antidemocratici, ma la lotta dei contadini ha avuto ragione di loro».

Oggi è in corso un movimento di riscoperta di queste bandiere, sull’onda del rinnovato protagonismo dei movimenti delle donne e del nuovo impegno pacifista oggi sempre più urgente. Nel semiottagono delle Murate, a Firenze, dal 5 marzo al 25 aprile 2025 sarà visitabile una mostra che ripercorre la loro storia in dialogo con le opere d’arte del collettivo Lediesis.

 

Stefano Bartolini è direttore della Fondazione Valore Lavoro, responsabile del Centro di documentazione archivio storico CGIL Toscana e direttore scientifico dell’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia (ISRPT).

Martina Lopa svolge attività di ricerca sulla storia delle donne, collabora con la Fondazione Valore Lavoro e fa parte del gruppo di lavoro “Paura non abbiamo” dell’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia (ISRPT).




La Resistenza in Valtiberina

La Valtiberina è una zona geografica soprattutto appenninica, soggetta alla provincia aretina, che si estende nella Toscana orientale comprendendo grosso modo l’alta valle del Tevere. L’intera area fu coinvolta nella primavera/estate del 1944 in quel fronte divisorio tra Ancona e Livorno, linea di scontro tra l’esercito anglo-americano che risaliva la penisola e le truppe tedesche costrette alla ritirata. In quella zona i nazisti appoggiati dai fascisti scorrazzavano per lungo e per largo prestandosi però all’insidia clandestina delle formazioni partigiane e conseguentemente mettendo in atto feroci rappresaglie e deportazioni delle popolazioni locali. Ma è proprio sui componenti di queste popolazioni, prevalentemente contadini – in tutta l’area il sostentamento e l’attività lavorativa si fondavano direttamente sulla terra – che la Resistenza ha potuto appoggiarsi per proseguire e portare a termine la Liberazione. Già dalla sera stessa dell’8 settembre, il primo e spontaneo atto di resistenza passiva, ma sostanziale, al tedesco che gettò le premesse dell’azione armata, fu l’assistenza agli sbandati dell’esercito, agli ex prigionieri alleati, agli ebrei, ai politici ricercati dalla polizia ed ai renitenti alla leva. Da quel giorno il ruolo svolto dal mondo contadino durante la Resistenza è stato determinante fino al punto che “…se i contadini non le fossero stati favorevoli, partecipandovi anche attivamente in gran numero, la Resistenza sarebbe stata impossibile[1].

Quando i tedeschi imposero la denuncia e la consegna degli ex prigionieri e l’iscrizione degli sbandati negli uffici comunali per il loro eventuale richiamo, automaticamente costrinsero tutti gli abitanti della campagna, nessun ceto escluso, a schierarsi o con i nazifascisti o contro di essi a favore dei perseguitati. La stragrande maggioranza scelse la seconda soluzione, preparando alla nascente resistenza politica e armata un territorio particolarmente favorevole.

Il Casentino e la Valtiberina come altre zone rurali della Toscana si trasformarono in un grande centro di raccolta, assistenza e transito di decine di migliaia di individui. Fu un’azione che coinvolse tanto i privati quanto il movimento resistenziale organizzato, con l’aiuto di diversi diplomatici stranieri che operavano per conto degli alleati e l’appoggio in denaro e mezzi fornito dal clero. Naturalmente il lavoro di assistenza ai prigionieri alleati e agli sbandati non passò inosservato ai tedeschi e ai collaborazionisti fascisti che fin dal 16 settembre intimarono: “Tutti i prigionieri di guerra dovranno consegnarsi al Comando tedesco… coloro che continueranno a dargli vitto e alloggio… saranno puniti secondo la legge tedesca[2]. Anche il capo della provincia di Arezzo, pensando di far leva su quello che riteneva l’anello più debole, ossia i proprietari terrieri, decretava “il sequestro della proprietà a chi dà ospitalità ad ex prigionieri e sbandati[3]. Ma entrambe le azioni intimidatorie non riuscirono a rompere quel fronte solidale che si era creato attorno alla Resistenza. L’importanza del contributo del mondo contadino alla lotta contro i nazifascisti era già stato manifestato dal “Fronte per la Liberazione Nazionale” di Firenze, futuro CTLN, con un volantino nel settembre del ‘43 quando elogiava i contadini per l’aiuto prestato agli sbandati dell’esercito e ai prigionieri alleati e li incitava a continuare nella lotta, invitandoli, al momento del raccolto, ad evadere gli ammassi per sottrarre il grano ai tedeschi e dare l’aiuto alle formazioni partigiane.

Ma la Resistenza in Valtiberina oltre al contributo di sostanza dato dunque dal mondo contadino, ha potuto contare anche sul forte sostegno della Chiesa caratterizzando la lotta per la Liberazione, in questa zona forse più che in altre, con uno sfondo prevalentemente cattolico. Si deve tener presente, infatti, che in questa vallata il parroco, nel tempo, per una complessità di cause, aveva finito per rappresentare in genere più che altrove l’incontrastata guida della sua gente: consigliere e confessore, uomo di fiducia e punto di riferimento in ogni occasione. In pratica la parrocchia diventava onnicomprensiva, luogo di culto, di riunione e di divertimento, era centro religioso, sociale e non ultimo luogo di istruzione scolastica. Infatti la Valtiberina, incastonata nell’Appennino, presentava diversi nuclei frazionali dispersi fra le montagne e molto disagevoli a raggiungere, cosicché l’istruzione scolastica negli anni era stata lasciata al clero, ed anche il fascismo dopo i Patti Lateranensi col suo programma di alfabetizzazione aveva preferito costituire le “scuole sussidiate” continuando ad affidarle ai parroci. In questo modo al clero montanaro di questa diocesi veniva affidato più dei due terzi dell’insegnamento elementare. Ogni parrocchia aveva la sua scuola dislocata nei locali della canonica, che dipendeva dal Provveditore agli Studi della Provincia, in cui si svolgevano gli stessi programmi, almeno teoricamente, delle elementari comunali[4]. Questo aspetto, non trascurabile, dell’istruzione scolastica lasciato nelle mani della Chiesa si sarebbe poi fatto sentire  più che mai durante la Resistenza tra quei giovani usciti dalle aule parrocchiali, soprattutto perché questi ragazzi, abitanti nella vallata, venivano consegnati all’istruzione scolastica impartita il più delle volte da preti con idee innovative, progressiste che per lo più erano stati inviati nelle zone più disagiate come in una sorta di confino, un po’ simile a ciò che avverrà poi negli anni Cinquanta con don Milani. Nelle diocesi di questo Appennino toscano, per esempio, avevano trovato rifugio vari sacerdoti romagnoli già aderenti alla prima Democrazia Cristiana murriana[5] come don Zanzi (parroco a Usciano) e don Savini (parroco a Palazzo del Pero), o come don Sante Tampieri e don Edoardo Cotignoli nel Montefeltro, o infine come Francesco Mari nella zona di Città di Castello. Anche se non vi era una posizione omogenea concordata preventivamente, perché entravano in gioco temperamenti individuali e altri fattori soggettivi, è possibile riscontrare nei sacerdoti della provincia d’Arezzo un orientamento abbastanza generalizzato e costante verso i valori democratici e di giustizia sociale a giudicare dall’alto prezzo di sangue pagato nei giorni della Resistenza, dove furono ventiquattro le vittime del mondo clericale cadute sotto i colpi dei nazifascisti[6]. Significativo anche il modo: in genere per essersi offerti quali ostaggi volontari per liberare la propria gente come don Fondelli a Meleto o don Lazzeri a Civitella di Chiana o indiscriminatamente rastrellati con la popolazione da cui non intendevano dissociarsi. E i nazifascisti quando se la prendevano con il clero parrocchiale dell’Appennino dimostravano di conoscere molto bene il ruolo dei parroci in queste zone, considerando la loro opera svolta, almeno all’inizio dell’offensiva, la principale se non l’unica guida dell’opposizione. Esisteva un forte legame, espressione di un tessuto comunitario compatto, fra la popolazione e il parroco che si era consolidato negli anni dalla comune convivenza, dalla scuola, dalla partecipazione nelle attività sociali, un legame che proprio nei mesi della Resistenza risultava non necessariamente e solo religioso ma andava oltre fino al punto che spesso era lo stesso parroco ad avvallare le decisioni collettive per l’appoggio alla lotta partigiana. In questa zona nei mesi dopo l’Armistizio del ’43 il parroco interpretava la comunità scegliendo il campo della lotta e implicitamente la comunità lo delegava in ciò a rappresentarla. Ed è per l’appunto questa presenza attiva del clero parrocchiale che va considerata come un fattore essenziale che spiega e qualifica la partecipazione collettiva della popolazione contadina nella Valtiberina in chiave cattolica nella lotta per la liberazione. Inoltre dobbiamo considerare che la diocesi aretina era guidata da Monsignor Emanuele Mignone, l’unico vescovo che in Toscana si era apertamente dichiarato antifascista contravvenendo in parte all’orientamento dettato dal cardinale Elia Dalla Costa, la più alta autorità religiosa toscana, che prevedeva “di rendersi estranei ad ogni competizione politica”, e di fatto obbedienza alla legittima autorità, cooperazione nella tutela dell’ordine pubblico e quindi legittimazione del fascismo…ma con neutralità[7]. Dopo l’8 settembre il Vescovo Mignone si attivò immediatamente nella lotta contro il nazifascismo cooperando con gli oppositori politici ed entrando in contatto con le formazioni partigiane, caso unico nell’alto clero toscano che volutamente ignorava il CTLN e i partigiani perché nutriva fortissime preoccupazioni per l’adesione del popolo all’ideologia comunista. Non è privo di significato, infatti, che il Vescovo Mignone sia stato proclamato cittadino onorario dal CTLN all’indomani della Liberazione, e può essere indicativo anche il fatto che nella diocesi aretina non ci sia stato un solo caso di cappellano militare della Repubblica Sociale Italiana. E non altrimenti si spiega la presenza dei parroci nei Comitati Nazionali di Liberazione (organismi nati dopo l’8 settembre e prima dei CNL) e poi nei Comitati provinciali di liberazione, né si comprenderebbe come il primo nucleo resistente nella zona di Anghiari fosse stato organizzato dal prevosto mons. Nilo Conti. Nella provincia aretina, dunque, un contributo essenziale e determinante, al pari di quello offerto dal mondo contadino, è stato dato dalla Chiesa coinvolgendo nella Resistenza sia i parroci che le cariche ecclesiastiche più alte della diocesi. Così la stragrande maggioranza del clero che prese posizione lo fece quindi a favore della Resistenza politica e spesso non esitò a entrare in quella armata.

 

NOTE:

[1] Lorenzo Bedeschi, La Resistenza in Valtiberina in La Resistenza dei cattolici sulla Linea Gotica, (a cura di) Silvio Tramontin, Edizioni cooperativa culturale “Giorgio La Pira”, Sansepolcro 1983, p. 158.

[2] Iris Origo, Guerra in Valdorcia, Vallecchi, Firenze 1968, pp. 65-67.

[3] Da un manifesto affisso nella Provincia di Arezzo in Libertario Guerrini, La Resistenza e il mondo contadino. Dalle origini del movimento alla Repubblica: 1900-1946, Contributo per il convegno “Mondo Contadino e Resistenza” Foiano della Chiana, 15 marzo 1975, p. 72.

[4] L. Bedeschi, La Resistenza in Valtiberina, cit., p. 159.

[5] Prende il nome da Romolo Murri, presbitero e politico italiano, tra i fondatori del cristianesimo sociale in Italia, propugnatore di un maggior impegno  politico dei cattolici, agì come voce critica nei confronti del conservatorismo delle gerarchie ecclesiastiche, cercando una conciliazione tra socialismo e dottrina sociale della Chiesa. Egli subì la sospensione a divinis nel 1907 e la scomunica nel 1909, revocata poi nel 1943. Cfr. Giampiero Cappelli, Romolo Murri: contributo per una biografia, Edizioni 5 lune, Roma 1965.

[6] Ivi, p. 160.

[7] L. Guerrini, La Resistenza e il mondo contadino, cit., p. 78.

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nel mese di novembre 2024.




Sempre per non dimenticare

Il nostro percorso storico, per mantenere viva la memoria, attraverso i luoghi che sono stati teatro della lotta per la Liberazione nella provincia aretina, iniziato con la città di Arezzo e proseguito via via con Molin dei Falchi, Pietramala, San Polo, Badicroce, Palazzo del Pero, Staggiano, Mulinaccio e Chiassa Superiore per giungere alla Valtiberina a Monterchi, Anghiari, Caprese Michelangelo e Badia Tedalda, si conclude, sempre in Valtiberina, con i comuni di Sansepolcro, Pieve Santo Stefano e Sestino, con gli ultimi due completamente rasi al suolo com’erano soliti fare i nazisti durante la loro ritirata verso nord, incalzati dall’avanzata degli Alleati, che costituiscono l’ennesima prova, se ce n’era ancora bisogno, dell’efferatezza e disumana azione messa in atto dai nazisti nelle vallate aretine. Vuoi per ostacolare l’arrivo delle truppe angloamericane, vuoi per vendicarsi di un paese ritenuto traditore, vuoi per la frustrazione che sentivano nel ritirarsi davanti al nemico o per ritorsione nei confronti della popolazione che appoggiava ed alimentava la Resistenza, i tedeschi quando si ritiravano facevano “terra bruciata” dei luoghi che si lasciavano dietro e spesso non solo dei luoghi ma anche di vite umane con stragi ed eccidi perpetrati senza alcuna pietà. E tutto ciò non era frutto di un’improvvisazione casuale, ma calcolato scientificamente dalle autorità germaniche: il famoso befehl di Kesserling del 17 giugno 1944 incitava le milizie tedesche ad uccidere senza ritegno e a mettere a ferro e fuoco tutti i paesi e le città che venivano lasciate alle spalle durante la ritirata.

 

Quest’ultimo itinerario che prende le mosse da Sansepolcro fino a giungere a Sestino percorre parte della Valtiberina toscana, una zona al confine con l’Umbria, le Marche e la Romagna, regioni con caratteristiche diverse che ne hanno influenzato la storia, la cultura ed il paesaggio, lasciando segni ancora tangibili. È un territorio a cavallo tra Tirreno e Adriatico, difficile da raccontare in poche parole poiché non è solo la valle dove è nato il Tevere, che ha designato per millenni la fertile pianura, ma è anche montagna, anzi possiamo dire che sia molto più montagna che pianura. Una specie di “terra di mezzo” ricca di contrasti e di diversità, di storia e di segni di una cultura rurale che in molte parti d’Italia è ormai scomparsa. Un territorio che in larga parte durante la seconda guerra mondiale è stato attraversato dalla Linea Gotica, quel fronte di fortificazioni che tagliava in due lo stivale, e che insieme a tutta la provincia aretina è stato in prima fila nella lotta di liberazione nazionale dalla dittatura fascista e dall’occupazione nazista.

 

SANSEPOLCRO

Iniziamo il percorso da Sansepolcro, paese più grande della Valtiberina, che si trova lungo la Superstrada E45, collegamento tra la Romagna e l’Umbria. È velocemente raggiungibile anche da Anghiari, solo 8 chilometri di strada completamente dritta. Si trova a 34 chilometri dalla città di Arezzo ed è situato ai piedi dell’Alpe della Luna.

Il Paese ha dato i natali al pittore rinascimentale Piero della Francesca, nato intorno al 1416. Fra le opere che Sansepolcro ha ricevuto in eredità dal pittore, la Resurrezione è diventata lo stemma della città: un affresco realizzato nel 1460 circa che si trova all’interno del museo civico, a due passi dal Duomo e dal Palazzo Comunale. Ed è grazie a la Resurrezione se furono evitati i bombardamenti e la conseguente distruzione della città nell’estate del ’44 per l’intervento di un uomo innamorato dell’arte.

In Valtiberina sono in molti a conoscere la storia del capitano Antony Clarke, un giovane ufficiale inglese comandante di una batteria di artiglieria dislocata sulle colline a sud di Sansepolcro, che salvò la città dai bombardamenti. Egli, secondo la ricostruzione storica, disobbedì all’ordine di aprire il fuoco sulla città pierfrancescana perché si ricordò della lettura fatta in gioventù del saggio di Aldous Huxley nel quale narrava di un viaggio da Arezzo a Sansepolcro che meritava di essere fatto perché lì in quel paese vi era la Resurrezione di Piero della Francesca, che Huxley descriveva come “la più bella pittura del mondo”. E Clarke pur di non distruggere l’opera disobbedì agli ordini e grazie a questo gesto la città fu salvata dal cannoneggiamento alleato, proprio mentre i partigiani locali riuscirono autonomamente a respingere i tedeschi e prendere il controllo del suo centro storico[1].

Clarke in occasione del ventesimo Anniversario della Liberazione della città fu invitato a Sansepolcro dove fu accolto con grandi festeggiamenti. Ma sedici anni dopo a seguito di una lunga malattia il salvatore della Resurrezione morì e l’anno seguente, nel 1982, la Giunta comunale di Sansepolcro gli intitolò una strada.

 

Sansepolcro dopo l’8 settembre fino al giorno della Liberazione:

Dopo l’8 settembre Sansepolcro visse il dramma dell’occupazione tedesca con i conseguenti rastrellamenti e sfollamenti[2], inoltre la città venne invasa da sbandati di ogni sorta ai quali si unirono i circa 5.000 internati slavi evasi dal Campo di Renicci nella vicina cittadina di Anghiari, molti dei quali si dettero alla macchia per sfuggire dai rastrellamenti tedeschi e molti si arruolarono nelle file della Resistenza.

A Sansepolcro il 19 marzo del ‘44 in seguito all’aggressione di un fascista, con un’improvvisa ordinanza prefettizia, venne decretato il coprifuoco su tutto il territorio comunale con inizio alle ore sei del pomeriggio. Era un giorno di festa, l’ordinanza venne affissa in ritardo e i cittadini per protesta contro l’ennesimo ingiustificato sopruso si riunirono in piazza Berta per protestare, mentre un nucleo corposo di partigiani, per lo più appartenenti alla banda di Eduino Francini[3], avuta notizia, discesero dall’Alpe della Luna e riuscirono ad infiltrarsi in città nella tarda serata. I partigiani approfittarono dell’occasione per effettuare un’azione dimostrativa: assalirono la caserma dei carabinieri, occuparono il telefono pubblico e si appropriarono di un autobus scorrazzando per la città, ma successivamente con l’intervento delle autorità fasciste, che avevano ottenuto i rinforzi da Città di Castello, i partigiani furono costretti a ritirarsi[4].

Gli eventi del 19 marzo – come scrive lo storico Alvaro Tacchini – «suscitarono vasto eco, soprattutto per il significato politico della spontanea protesta di massa contro il regime fascista»[5], e ancora oggi, ogni 19 marzo, la popolazione di Sansepolcro ricorda ciò che successe ottant’anni fa.

 

Monumento che ricorda l’insurrezione del 19 marzo inaugurato nel 2014 nella strada intitolata a tale data.

 

Dopo la giornata del 19 marzo le formazioni partigiane che operavano sul territorio si divisero in tre gruppi: Eduino Francini si mosse verso l’Umbria insieme ai suoi compagni e ad altri ragazzi che si unirono a loro presso la zona di Molin Nuovo, costituendo un gruppo di 18 partigiani; altri tornarono sull’Alpe della Luna, mentre un gruppo si spostò sull’Alpe di Catenaia. Il gruppo di Francini diretto verso Perugia, lungo il tragitto, sostò a Villa Santinelli. Questi occuparono per qualche giorno, con uno stratagemma, la villa qualificandosi inizialmente come militi della Guardia Nazionale Repubblicana e solo dopo, una volta entrati, dichiararono di essere partigiani che avevano bisogno di riposare e di rifocillarsi per qualche giorno. In pratica presero “in ostaggio” l’intera famiglia, ma una volta scoperta la loro presenza, furono assediati e costretti alla resa dalle truppe fasciste coadiuvate da un reparto corazzato tedesco. Dopo un eroico scontro durato oltre diciotto ore, il 27 marzo 1944, Eduino Francini insieme ad altri otto compagni furono barbaramente trucidati, mentre altri riuscirono a fuggire[6].

Nel cimitero comunale di Sansepolcro è presente un sacrario realizzato dal Comune e dalla locale sezione ANPI per dare onorata sepoltura e per ricordare i partigiani fucilati nei rastrellamenti nazi-fascisti a Villa Santinelli; mentre nel luogo dell’eccidio è stata posta invece una lapide commemorativa.

 

Monumento ai partigiani, cimitero di Sansepolcro.

 

Lastra rettangolare di marmo apposta lungo la parete esterna di Villa Santinelli. L’epigrafe, oltre alla comune data di morte, reca incisi i nomi dei nove partigiani caduti.

 

Nell’estate del ‘44 il territorio di Sansepolcro si trovò sulla linea del fronte bellico e gran parte della popolazione si diresse verso le campagne per sottrarsi ai bombardamenti. In città restò il vescovo Pompeo Ghezzi, punto di riferimento per quella parte di popolazione non sfollata, unico autorevole interlocutore degli ufficiali tedeschi, che tentò di ridare un minimo di organizzazione alla vita civile e salvare il borgo dai sabotaggi nazifascisti. Ma, ciò nonostante, i suoi tentativi furono vani: i nazisti distrussero la stazione ferroviaria e l’industria Buitoni che dava benessere e prestigio alla città e demolirono, prima di lasciare il centro abitato, la storica Torre di Berta, uno dei simboli della storia e dell’identità di Sansepolcro[7].

Le truppe tedesche lasciarono il paese prima dell’arrivo degli Alleati che entrarono in Sansepolcro il 3 settembre del 1944.

Una lastra apposta sul muro in piazza Garibaldi nel quarantesimo anniversario dalla Liberazione della città ne ricorda l’evento.

 

Lastra commemorativa 40° anniversario liberazione della città di Sansepolcro, Piazza Garibaldi.

 

Negli anni Settanta vennero istituiti per volere dell’ANPI locale il museo e la biblioteca della Resistenza di Sansepolcro con lo scopo di ricordare quei tragici fatti legati al passaggio del fronte, alla Resistenza e alla Liberazione del paese. La sede del museo si trova oggi in via Matteotti all’interno di un edificio di proprietà comunale.

Sempre negli anni Settanta a Sansepolcro venne realizzato, nel cimitero comunale, il Monumento Ossario che raccoglie gli slavi caduti durante la seconda guerra mondiale nel territorio dell’Italia settentrionale e centrale. Tra gli jugoslavi internati in Italia vi furono i quasi 8.000 che trascorsero mesi in condizioni proibitive nel Campo di concentramento internati civili di Renicci, nel comune di Anghiari.

Da questa iniziativa nacque un rapporto di amicizia con la Jugoslavia che si concretizzò negli anni Ottanta con un patto di gemellaggio con la città croata di Sinj.

 

Sacrario commemorativo dei caduti jugoslavi in Italia, cimitero comunale, Sansepolcro.

 

Sansepolcro negli anni Novanta è stata insignita della medaglia d’argento al valor militare per l’attività partigiana.

 

Percorrendo in direzione nord la Strada statale 3 bis Tiberina (SS3bis) si giunge a Pieve Santo Stefano dopo circa quindici minuti. A nord di Pieve (circa dodici chilometri), in direzione di Verghereto, sono conservate alcune permanenze territoriali legate all’intervento dei cantieri della società di costruzione TODT per l’apprestamento della Linea Gotica.

 

PIEVE SANTO STEFANO E LA CITTA’ DEL DIARIO

Il paese sorge sulla riva destra del Tevere a cinquanta chilometri da Arezzo, situato quasi al confine tra la Toscana, l’Umbria e la Romagna. La cittadina è famosa soprattutto per il suo Archivio Diaristico che si trova all’interno del Palazzo Pretorio, in piazza Plinio Pellegrini, dove sono raccolti diari, epistolari, memorie autobiografiche di vario genere scritti dalla “gente comune”. Non a caso Pieve è denominata la “Città del Diario[8]. L’archivio è stato fondato nel 1984 da Saverio Tutino e si configura quale “vivaio di memorie”, in quanto oltre alla sua attività museale di conservazione vuol far fruttare in vario modo la ricchezza che in esso viene depositata. A tale scopo l’Archivio ha istituito un premio letterario volto ad incentivare l’invio di materiali “nascosti nei cassetti” da coloro che amano scrivere. Da allora ad oggi il concorso continua a svolgersi ogni anno in autunno ed ha portato alla premiazione di oltre venti scritti e alla raccolta di numerosi testi pubblicati da vari editori. Nel 2001 è stata inoltre intrapresa una collaborazione con la casa di produzione di Angelo Barbagallo e Nanni Moretti, la Sacher Film, per trasformare alcuni scritti qui conservati nei “Diari della Sacher”, un film-documentario distribuito dalla Warner Bros.

(Per informazioni più dettagliate sulla storia di questo prezioso archivio si consiglia di contattare la Fondazione Archivio Diaristico Nazionale Onlus situata sempre a Palazzo Pretorio).

 

 

 Pieve 1944: Il Paese cancellato

L’8 settembre la popolazione di Pieve Santo Stefano, credendo fosse finita la guerra, si riversò esultante nelle strade e molti osannavano pregando la Madonna dei Lumi che aveva accolto le loro richieste di pace (proprio l’8 settembre ancora oggi il popolo pievano la festeggia ed onora)[9]. Ma purtroppo la guerra non era finita e il peggio doveva ancora arrivare… L’Italia era divisa in due, da sud premevano gli Alleati, mentre al centro-nord la presenza dell’esercito tedesco divenne sempre più opprimente, e anche Pieve Santo Stefano visse il dramma dell’occupazione nazista con i conseguenti rastrellamenti. In più nel dicembre del ’43 si insediò in luogo del podestà un commissario prefettizio della Repubblica Sociale Italiana che andò ad affiancare nel controllo della popolazione e nella repressione il comando tedesco. Nello stesso periodo iniziarono in questa zona i lavori di costruzione della Linea Gotica con il conseguente reclutamento di manodopera locale da parte della società di costruzione Todt. E con la disfatta di Monte Cassino, Pieve Santo Stefano si ritrovò in prossimità del fronte, con i tedeschi in ritirata che attuarono ogni sorta di violenze e saccheggi nei confronti della popolazione. Poi alla fine di luglio il comando nazifascista impartì l’ordine di sfollamento: tutti i residenti dovevano essere deportati a nord, oltre la Linea Gotica, verso Rimini e Cesena e da qui verso la Val Padana; furono fatti viaggiare con convogli notturni per sfuggire ai bombardamenti alleati. La deportazione fu eseguita con particolare brutalità e molte persone furono uccise: «Le famiglie furono smembrate e disperse e obbligate a lasciare tutti i loro averi. La soldataglia si fece padrona di tutte le case, ne forzò i nascondigli, distrusse o sfregiò quello che non poté asportare. Un’intera colonna di autocarri fu addetta a svuotare le case. […] Né l’Ospedale, né il Ricovero per i vecchi furono rispettati: fatti sfollare, vennero adibiti rispettivamente a stazione radio e a deposito di munizioni»[10]. Inoltre, vi fu la distruzione completa del paese, ripetendo quello schema tristemente noto della ritirata, che nell’estremo tentativo di rallentare l’avanzata degli Alleati verso nord, prevedeva lo sbarramento di tutte le vie di transito distruggendo case e ponti. Il paese distrutto faceva parte di quel piano efferato del generale Kesserling: fare “terra bruciata” di tutto il territorio, ordine che riecheggiava ogni qual volta le truppe tedesche erano costrette a ritirarsi verso il nord Italia.  Il 99 percento delle abitazioni del capoluogo fu ridotto ad un cumolo di macerie, si salvarono solamente gli edifici ecclesiastici e parte del Palazzo Pretorio. Alla fine di agosto prima di evacuare il paese i tedeschi fecero saltare tutti i ponti sulla strada nazionale Tiberina 3Bis e posero delle mine nel palazzo comunale e nella torre campanaria che saltarono in aria dopo una decina di giorni che i tedeschi si erano ritirati. “Tra le granate e le bombe degli aerei dell’esercito che avanzava, (…), la nostra Pieve tutta coperta da una coltre di polverone e fumo nero, avrebbe rappresentato benissimo l’immagine più tetra dell’Apocalisse”[11].

Il 23 agosto ciò che rimaneva di Pieve venne raggiunto dalle truppe inglesi; il Paese completamente distrutto dalla furia nazista dovette pagare anche un tributo di 35 persone trucidate e 76 dilaniate dalle bombe.

A dimostrazione delle sofferenze patite dalla popolazione locale, nel 1957 il Comune fu insignito della “Croce di Guerra al Valor Militare” con la seguente motivazione: «Durante la guerra di liberazione sopportò, con la fiera tenacia della sua gente, persecuzioni, deportazioni ed intense offese aeree e terrestri che causarono numerose perdite tra la popolazione e gravi e dolorose distruzioni. Tanto sacrificio, serenamente affrontato con indefettibile dedizione alla propria terra, contribuì ad esaltare e a rinsaldare la fede nei destini della Patria»[12].

Una lapide apposta sul muro del Palazzo comunale in piazza Plinio Pellegrini ne ricorda l’evento.

 

Lastra in ricordo della Croce di Guerra al Valor Militare, Palazzo comunale, Pieve Santo Stefano.

 

Mentre una lastra commemorativa sempre sul muro del Palazzo comunale è stata posta in occasione del ventennale della Liberazione della città per ricordare le numerose vittime che si sacrificarono per la riconquista della libertà.

 

Lastra alle vittime delle rappresaglie tedesche, Palazzo comunale, Pieve Santo Stefano.

 

Presso i giardini pubblici Collacchioni possiamo invece scorgere il monumento ai caduti di Pieve Santo Stefano. Due blocchi distinti, il primo è il vecchio monumento ai caduti della Grande Guerra spostato da piazza Santo Stefano, affiancato dall’opera che ricorda “le vittime militari e civili di tutte le guerre”.

 

Monumento ai caduti di Pieve Santo Stefano, Giardini Collacchioni.

 

Usciti da Pieve Santo Stefano si prosegue l’itinerario in direzione di Sestino, percorrendo la Strada Provinciale Nuova Sestinese (SP50), per poi continuare in direzione est sulla Strada Statale Marecchia (SP258) ed infine arrivare a destinazione dopo un tratto della Strada Provinciale 49 (SP49). Il tragitto da Pieve Santo Stefano a Sestino è lungo complessivamente 40 chilometri e prevede almeno cinquanta minuti di macchina. Per chi volesse compiere una breve pausa lungo il percorso è poi possibile potersi fermare a circa metà del viaggio nel comune di Badia Tedalda, dove è presente il Parco Storico della Linea Gotica, ricco di sentieri che testimoniano le tracce delle fortificazioni costruite dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale.

 

SESTINO

Sestino, paese all’estremo margine della provincia aretina, praticamente immerso nel Pesarese, che durante la seconda guerra mondiale si trovava a ridosso della Linea Gotica. Nella primavera del ’44 la presenza militare dei tedeschi si fece sempre più massiccia con la conseguente crescita del calvario delle popolazioni che dovevano subire limitazioni di libertà, un continuo coprifuoco, prestazioni d’opera coatte per i lavori di fortificazione e requisizione di case per l’acquartieramento delle truppe e di mezzi di trasporto di materiale bellico[13]. La situazione era resa pesante anche da quella numerosa presenza di fuggiaschi provenienti dal campo di Renicci di Anghiari e da sfollati qui rifugiati per sfuggire dai bombardamenti. Come tutta la Valtiberina anche questa zona fu interessata da una forte presenza di formazioni partigiane che, loro malgrado, ebbero dei risvolti negativi per la popolazione civile per le dure misure di repressione adottate dai tedeschi e dai fascisti in risposta agli attacchi subiti. Negli scontri che si verificarono nei paesi di Monterone, Monteromano, Montecese, Palazzi e Sestino vi furono numerosi giovani caduti con un’età media di vent’anni. Merita una menzione particolare il sacrificio del giovane Ferruccio Manini, diciannovenne di Cremona, fucilato a Sestino il 27 luglio del ’44, che per unirsi ai partigiani disertò da un reparto fascista repubblicano quando fu mandato nella zona della Linea Gotica[14]. Fu poi catturato dai fascisti durante uno scontro a fuoco nel Sestinate e rifiutandosi di collaborare venne fucilato presso il cimitero del paese. Il Tribunale militare di Milano nel 1947 acclarò che a comandare il plotone di esecuzione fu il sottotenente Giorgio Albertazzi, futuro attore e regista, che venne però assolto perché «aveva agito in stato di necessità».

E in suo ricordo è stata posta una lapide presso il cimitero comunale di Sestino.

 


Lapide in ricordo di Ferruccio Manini, cimitero comunale, Sestino.

 

Anche a Sestino con l’avvicinarsi degli Alleati, i tedeschi costretti ad abbandonare la Linea Gotica, come ultima rappresaglia, il 24 settembre del ’44, fecero saltare in aria tutti i ponti sulle vie di comunicazione, strade, acquedotti, edifici pubblici e seminarono nel territorio una ventina di campi minati. Le macerie lasciate dalla guerra furono immense e tali da fare di Sestino uno dei paesi tra i più martoriati della Valtiberina. Soltanto il 1° ottobre il paese fu liberato dagli Alleati.

Nella Cappellina dei Caduti, eretta nel 1923 sul colle di Carletto, che domina Sestino, campeggia una targa con i nomi dei soldati sestinesi caduti sul fronte nella seconda guerra mondiale.

Due Lapidi commemorative sono invece poste in piazza Garibaldi sul muro del Municipio ai “caduti di tutte le guerre”.

 

Municipio, Piazza Garibaldi, Sestino.

 

Sestino. Caduti in tutte le guerre, Piazza Garibaldi, facciata del Municipio.

 

 

E in Piazza dei Martiri all’incrocio con via Roma sulla facciata di un edificio troviamo una lapide dedicata ai caduti della Resistenza, che così recita: “La popolazione sestinese pone questa lapide a ricordo dei partigiani caduti durante la Resistenza del 1944-45: Arcaro Danilo, Bragori Fermamdp, Chiarabini Gioseppe, Guazzolini Secondo, Nannini Adelfo, Santi Laurini Roberto. Sestino 26-6-1974”.

 

 

 

Lapide commemorativa ai caduti durante la Resistenza, Via VI Martiri, Sestino

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTE:

[1] Ivan Tognarini (a cura di), 1943-1945, la Liberazione in Toscana: la storia, la memoria, Pagnini, Firenze 1994, p. 53.

[2] Cfr. il testo di Giovanni Ugolini, E’ passata la rovina a Sansepolcro. Cronaca cittadina dall’8 settembre 1943 al 3 settembre 1944, Boncompagni, Sansepolcro 1945.

[3] Eduino Francini: giovane partigiano di Sansepolcro, ma originario di Massa Carrara, che arruolatosi in marina nell’ottobre del ’42, dopo l’8 settembre rientrò a Sansepolcro e pochi giorni dopo ottenne dal Comitato provinciale di concentrazione antifascista di Arezzo l’incarico di organizzare una formazione di partigiani nell’Alta Valle del Tevere, nonostante la giovane età, non ancora ventenne.

[4] L’episodio è raccontato da G. Ugolini nel suo libro del 1945 È passata la rovina a Sansepolcro, cit., pp. 20-25.

[5]  Alvaro Tacchini, La banda partigiana “Francini” e la rivolta di Sansepolcro, in La battaglia di Villa Santinelli e la fucilazione dei partigiani, Quaderno n. 12 dell’Istituto di Storia Politica e Sociale “Venanzio Gabriotti”, Città di Castello 2017, https://www.storiatifernate.it/id/la-banda-partigiana-francini-e-la-rivolta-di-sansepolcro/

[6] Sulla fucilazione di Eduino Francini insieme agli altri otto partigiani a Villa Santinelli cfr. il libro di Antonio Curina, Fuochi sui monti dell’Appennino toscano, Tip. Badiali, Arezzo 1957, pp. 468-69.

[7]  I. Tognarini (a cura di), 1943-1945, la Liberazione in Toscana, cit. p.53.

[8] Ivan Tognarini, Da Pieve Santo Stefano a Poppi, in Paesaggi della memoria. Itinerari della Linea Gotica in Toscana, Touring Club Italiano, Milano 2005, pp. 105-6.

[9] I. Tognarini (a cura di), 1943-1945, la Liberazione in Toscana, cit. p.49.

[10] A. Tacchini, La distruzione di Pieve Santo Stefano, in Guerra e Resistenza nell’Alta Valle del Tevere 1943-1944, cit., https://www.storiatifernate.it/id/la-distruzione-di-pieve-santo-stefano/

[11] Onelio Dalla Ragione (a cura di), La guerra 1940-1945 a Pieve Santo Stefano. Deportazioni – Razzie – Devastazioni – Massacri, Amministrazione comunale di Pieve Santo Stefano, Pieve Santo Stefano 1996, p. 28.

[12] Ivi, p. 31.

[13] Giancarlo Renzi, Sestino. Quarant’anni di repubblica (1946-1986), Grafica Vadese, Sant’Angelo in Vado (PS), 1986, l’autore ripercorre la storia del comune dal dopoguerra ad oggi con un breve paragrafo dedicato proprio alle tragedie della guerra, pp. 11-20.

[14] Cfr. Biblioteca comunale di Sestino, 45° anniversario della fucilazione di Ferruccio Manini. Sestino – Domenica 23 luglio 1989, Stampa Artigrafiche, Sansepolcro 1989, p 4.

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nel mese di novembre 2024.




Nada. Tra Storia e Letteratura

Nada Giorgi

 

Nada da giovane

Nada Giorgi con Renato Ciandri

Nada Giorgi nacque il 25 gennaio 1927 a Pontassieve, in provincia di Firenze, da una famiglia di umili origini. Negli anni dell’adolescenza, durante la Resistenza, incontrò il partigiano Renato Ciandri, noto col nome di battaglia “Baffo”, modificato in Bube da Carlo Cassola nel romanzo La ragazza di Bube [1].  Dopo l”8 settembre 1943, lui, proveniente da Volterra, si era unito al gruppo di partigiani di Pontassieve. Era infatti sfollato a Torre a Decima, presso Molino del Piano, frazione di Pontassieve dove, tramite l’amico Pietro Verniani, conobbe Nada, anch’ella sfollata con la famiglia. Ciandri -durante la Resistenza- combatté infatti in varie formazioni (in special modo nel “Gruppo di Pontassieve” e nella “Ciro Fabbroni”) nella zona fra Pontassieve, Monte Giovi e Dicomano. Nel febbraio 1944, dopo essere riuscito a sfuggire all’arresto dei tedeschi, operava stabilmente sul monte Giovi con la formazione partigiana “Stella Rossa”. Pare abbia partecipato anche alla liberazione di Firenze rimanendo ferito nei pressi della stazione di Santa Maria Novella. Il 21 agosto 1944, quando le truppe alleate liberarono Pontassieve, Bube, come anche altri partigiani, rispose alla chiamata dei partiti antifascisti e si arruolò nel gruppo volontario 22° Fanteria “Cremona”. La disciplina e le regole militari però gli andavano strette, come viene raccontato nel libro di Massimo Biagioni; il suo temperamento e l’insofferenza per gli atti che non condivideva, gli fecero collezionare ben quattordici capi d’imputazione per insubordinazione; fu condannato poi amnistiato.

«Definito “ribelle fra i ribelli” per l’insofferenza verso la disciplina e i numerosi atti di insubordinazione, alla fine della guerra venne amnistiato di un totale di sedici anni di reclusione collezionati in pochi mesi come soldato nel “Cremona”[2]».

Dopo la guerra, la storia tra Renato a Nada proseguì e i due vissero per un periodo a Volterra, dove Renato trovò lavoro come guardia municipale.

Nel maggio 1945, tornarono a Pontassieve e per la Festa della Madonna del Sasso, evento molto atteso nella zona, dove avvenne il triste fatto che riportò nell’ombra della guerra e del dolore un’intera vallata, loro erano presenti.

I due giovani si dovettero presto separare: Renato venne, infatti, coinvolto nella sparatoria avvenuta il 13 maggio 1945, proprio in occasione di quella Festa. Al Santuario della Madonna delle Grazie al Sasso, non distante da Santa Brigida, sempre nel Comune di Pontassieve, furono uccisi un Carabiniere, il Maresciallo Carmine Zuddas e suo figlio Antonio. Il conflitto era da poco terminato, ma tra le macerie ancora visibili, la popolazione era divisa dalla guerra civile.

Ogni anno, la seconda domenica di maggio, veniva celebrata una solenne Messa cantata con l’offerta dei doni alla Madonna da parte dei vari compaesani dei paesi limitrofi, seguita dalla processione con la “benedizione della campagna”, e poi ancora, il pranzo. Seguiva nel pomeriggio la festa con musiche, danze e canti.

Processione della seconda domenica di maggio in Le Grazie e miracoli al Santuario https://www.conoscifirenze.it/toscana-firenze/517-le-grazie-e-miracoli-al-santuario.html

Una giornata di preghiera e di celebrazioni religiose, sfociò però nel caos. Fuori dalla chiesa, il Rettore del Santuario e tre giovani, ex partigiani, ebbero un acceso diverbio. Il motivo, apparentemente, pare fosse legato alle vesti succinte di questi, non adatte al contesto; stando, invece, ad altre testimonianze, i giovani avrebbero indossato il fazzoletto rosso al collo, simbolo inequivocabile e motivo di diverbio. Nella discussione intervenne il Maresciallo dei Carabinieri Zuddas, Comandante della Stazione dei Carabinieri di Molino del Piano, incaricato al servizio d’ordine, necessario per il regolare  svolgimento di una festività religiosa di ringraziamento per la fine della guerra, recatosi al Sasso con la moglie e il figlio diciassettenne. Chiese spiegazioni al prete, invitandolo a fare entrare i giovani, che avevano collaborato per liberare l’Italia dai tedeschi. Il figlio però, poco distante, non capendo forse bene cosa stesse succedendo e vedendo il padre accerchiato, seppur in modo innocui al momento, pare abbia estratto una pistola e abbia sparato, uccidendo uno dei giovani, il pollivendolo Luigi Panchetti. Stando, invece, ad altre ricostruzioni, pare che alcuni partigiani avessero tentato di disarmare il Carabiniere, dopo che questi aveva sparato un colpo in aria per ristabilire l’ordine, a causa del tafferuglio creatosi. Secondo la ricostruzione degli eventi, riportati in un dettagliato rapporto dell’Arma, coincidente con le notizie riportate dai giornali e con le testimonianze che hanno dato in seguito alcuni giovani incriminati, il figlio, visto il padre in pericoli, impugnata la pistola, avrebbe sparato in direzione di uno dei giovani, tale Panchetti, colpendolo a morte. Le persone attorno fermarono i due uomini, il Maresciallo e il figlio, rinchiudendoli in una stanza della canonica, fino all’intervento di alcuni partigiani, tra cui Renato Ciandri (Bube), presente assieme a Nada alla Festa e che -secondo le accuse- sparò contro il ragazzo, uccidendolo. Morirà assieme al figlio anche Carmine Zuddas [3].

Carmine Zuddas e la sua famiglia. Davide Batzella, Maresciallo Carmine Zuddas di Serramanna (dal libro di Cassola “La ragazza di Bube”), in ASerramanna, 22 Aprile 2013, https://www.aserramanna.it/2013/04/maresciallo-carmine-zuddas-di-serramanna-dal-libro-di-cassola-la-ragazza-di-bube-2/

Secondo Nada Giorgi, dopo che il diciassettenne Zuddas ebbe colpito a morte l’ex partigiano, gli altri membri della banda, che avevano nascosto precedentemente delle armi, al contrario di Ciandri, che era disarmato, correndo verso la chiesa, invitarono Bube a non tirarsi indietro, a restare fedele ai suoi ideali. Pare, perciò, che questi abbia tentato di disarmare il ragazzo e che, dopo una colluttazione, qualcuno abbia raggiunto il giovane con una raffica di mitra. Contemporaneamente, qualcuno aveva sparato anche al Maresciallo. A testimoniare l’innocenza del Ciandri, la Giorgi avrebbe presentato anche la deposizione della moglie del Carabiniere, Margherita Rotelli, unica sopravvissuta.

La vicenda non è tutt’oggi chiara: molte le versioni dei fatti, alcune delle quali vedono il Ciandri realmente coinvolto. Ogni protagonista di quel giorno ha raccontato dettagli diversi, che rendono difficile, oggi come allora, la ricostruzione di quella giornata di maggio [4].

I giovani trovati con le armi furono portati alle carceri a Firenze, in via Ghibellina. Renato e Nada tornarono invece a casa. Presto però, i compagni del Partito comunista, al quale Ciandri sarà sempre legato, lo invitarono a fuggire, a tornare verso Volterra, onde evitare di essere arrestato. Bube era infatti il più noto tra i ragazzi del Sasso. Inoltre, le elezioni del 2 giugno si stavano avvicinando e le tensioni politiche aumentavano.

Nonostante l’invito a consegnarsi, emersa anche la possibilità di esser scagionato, Bube si dette alla macchia. Dopo giorni passati in campagna, a Torre a Decima, sopra Molino del Piano, un amico camionista di Ellera lo aiutò a tornare verso Colle Val d’Elsa. Fu in quest’occasione che Nada e Bube conobbero Carlo Cassola, “comandante Carlino”, che era stato con i partigiani in montagna ed era il figlio del maestro di Ciandri. Si conobbero in un bar e i due raccontarono la vicenda del Sasso. Cassola ne rimase colpito e offrì a Bube una sistemazione momentanea a Volterra. Sembra che i tre abbiano passato anche la giornata del 2 giugno assieme [5].

Durante il viaggio verso quella cittadina, sul pullman (o meglio sulla sita), dove Ciandri si trovava con Nada, pare ci fosse Mons. Dolfi (Ciolfi nel libro), antipartigiano convinto. Alcuni passeggeri, inferociti, pare avessero addirittura minacciato il parroco, prima che, giunti a destinazione, Cassola e Bube non avessero portato il religioso in Caserma, salvandolo così dalle aggressioni della folla [6].

Bube riprese a vivere nel paese natio, ma presto i Carabinieri lo invitarono a presentarsi al tenente. Pareva convinto a consegnarsi, ma alcuni giovani dell’Anpi di Volterra, Ciaba e Niccolò, allertati dall’Anpi fiorentino, lo invitarono a non farlo. La notte una motocicletta andò a prenderlo: scappò prima verso Pisa, poi a Milano e infine in Francia, dove trovò lavoro come operaio tappezziere. Ottenne asilo politico come comunista, ma presto ebbe la condanna in Italia in contumacia a 19 anni di carcere. Per poter restare in Francia, doveva procurarsi i documenti: tentò così di arruolarsi prima nella Legione straniera, poi fuggì in Olanda e in Tunisia, per poi tornare in Francia e riprendere la sua attività di tappezziere. L’esilio di Ciandri durò fino al 1950, quando scoperto dall’Interpool, fu estradato in Italia. Rimarrà in carcere, prima a Torino, poi per un breve periodo a Pisa, poi ad Alessandria, a Bologna, all’Elba e, infine, a San Gimignano, dove rimase fino al 1961.

Il processo si era tenuto a Torino nel settembre 1946: alla difesa dei giovani contribuirono molti pontassievesi, con una raccolta fondi organizzata nella Casa del popolo di Santa Brigida. Il secondo giorno il processo verrà spostato negli ampi locali della Corte d’Assise, dove era presente anche una delegazione di operai della Fiat-Mirafiori.

Dopo il processo, infatti, erano state arrestate dieci persone, dopo le prime indagini, sette delle quali facenti parte del Corpo Volontari della Libertà. Tutti si dichiararono colpevoli, eccetto Bube, che si è sempre dichiarato innocente [7].

Nei giorni successivi alla Festa della Madonna, infatti, erano state molte le voci ad alzarsi. Membri del CLN si recarono sul posto. Molti capi delle formazioni partigiane tentarono di giustificare quanto era successo, come Romeo Fibbi, Lazio Cosseri, Giuseppe Maggi, commissario politico della brigata “Lavacchini” e futuro sindaco di Borgo San Lorenzo. L’evento, significativo di quel clima di passaggio, di tensione e di giustizia sommaria nel dopoguerra italiano, sconvolse un’intera comunità. Chiunque si riteneva portatore di giustizia, spesso in contrasto con altri. Qualcuno giustificò l’accaduto poiché il Carabiniere era stato antipartigiano e fascista, stando a certe voci. La vicenda stessa è caduta nell’oblio, già al tempo, complice il Partito Comunista di Pontassieve, reticente e forse -inconsciamente- desideroso di guardare al futuro nel clima di psicosi generale anticomunista, tipica degli ultimi anni Quaranta.

Il 26 agosto 1951, Ciandri e la Giorgi si sposarono nel carcere di Alessandria. Nada, infatti, gli era sempre rimasta accanto e aveva sempre cercato di mantenere i rapporti con il fidanzato prima e con il marito poi, tramite lettere, scambi di fotografie e, quando possibile, con i colloqui e le visite.

Intanto Renato in carcere frequentava la scuola, [8] mentre Nada lavora a Pontassieve come fiascaia.

Nel 1953 vennero scarcerati i compagni di Bube incriminati per i fatti del Sasso, ma con una condanna di minor durata. L’anno successivo Ciandri venne trasferito al carcere di Porto Longone, all’Isola d’Elba, a causa di un violento litigio con un altro detenuto [9]. Verrà poi trasferito a San Gimignano, dove Nada poteva andare più frequentemente. Come ricorda lei stessa nel libro di Biagioni, nessuno degli ex compagni di Partito, gli era rimasto vicino.

È in questo periodo che Bube, durante una visita in carcere, ricevette da Cassola la copia del libro. Alla storia di Nada e Renato, Carlo Cassola aveva dedicato le pagine del suo celebre romanzo, La ragazza di Bube, mettendo al centro della narrazione Nada, pur lasciando che nel titolo comparisse il nome del suo compagno, Bube appunto, rilegando la sua figura come secondaria. La Giorgi non apprezzerà perciò il romanzo, non sentendosi rappresentata dallo scrittore e non riconoscendo i suoi cari in quelle pagine. Dal libro emerge inoltre un Bube colpevole; per Nada, dunque, l’opera era un’eredità negativa dalla quale doversi liberare.

Potremmo dire che il romanzo non ricalca, infatti, la vera vita dei due protagonisti, sebbene prenda ispirazione dalle loro storie. La vicenda è ambientata in Valdelsa, poco dopo la Liberazione, e non nel Pontassievese, come nella realtà. I protagonisti sono due giovani, Mara Castellucci e Bube, ovvero Nada Giorgi e Renato Ciandri, detto Baffo. Mara è una ragazza di sedici anni che vive a Monteguidi insieme al padre, comunista militante, alla madre e a un fratello, Vinicio. La vera Nada il padre lo aveva conosciuto appena in quanto morì quando lei aveva solo tre anni.

In quel paese conosce Arturo Cappellini, detto Bube. Il giovane, amico e compagno di Sante, il fratellastro di Mara morto durante la Resistenza, si era recato nel paese dell’amico per conoscere la famiglia e in questo modo avviene il primo incontro con Mara. Tra i due nasce subito una simpatia e Mara, lusingata dall’interesse del ragazzo, inizia a scambiare lettere con lui. Tutta la trama, riproposta poi da Comencini nel celebre film, è un intreccio di fantasia e qualche riferimento reale.

Come lei stessa ha detto:

Non ho mai avuto un fratello nato fuori dal matrimonio: semplicemente non ho fratelli. Non ebbi mai amanti: tanto meno uno che si chiamava Stefano. Non feci l’amore con Bube nella capanna. So bene che Cassola scrisse un romanzo, una storia in parte inventata, ma la realtà sono io. La realtà è la mia famiglia, è mio figlio Moreno… Per lui, perché non avesse mai l’idea che suo padre fosse un assassino […] [10]

Secondo il libro, infatti, dopo il loro incontro, Bube e Mara si devono allontanare: Bube è, infatti, accusato di un delitto. Era accaduto che, mentre si trovava a San Donato con i compagni Ivan e Umberto, un prete aveva impedito loro di entrare in chiesa. Secondo i ragazzi, la ragione era il loro orientamento comunista. I giovani avevano allora iniziato a protestare, e un Maresciallo dei Carabinieri era intervenuto insieme al figlio a sostegno del prete. Bube e gli amici avevano inutilmente cercato di far valere le loro ragioni e, spinti dall’ira, avevano messo il prete contro il muro. Il maresciallo aveva perciò reagito sparando ad Umberto, uccidendolo. Per vendicare l’amico, Ivan, l’altro compagno di Bube, aveva ucciso il Maresciallo. A sua volta, Bube aveva rincorso fin su per una scalinata e ucciso il figlio del Maresciallo, mentre scappava.

Mara e Bube fuggono così verso Volterra, dove abita la famiglia di lui. A bordo della corriera si trova una donna che riconosce Bube e lo sprona a dare una lezione ad uno dei passeggeri: si tratta del prete Ciolfi, il quale durante la guerra aveva collaborato con i nazisti, causando così la morte del nipote della donna. Suo malgrado, dopo essere sceso, Bube viene praticamente costretto dai presenti a picchiare il prete per poter salvare la faccia: il suo ruolo nella zona era infatti quello del Vendicatore, appellativo con il quale viene talvolta ancora chiamato dagli abitanti del posto.

Arrivato a casa dai familiari, Bube viene avvertito dal compagno Lidori del rischio di essere arrestato per il delitto commesso e gli consiglia la fuga. Qualche giorno dopo, una macchina passa a prendere Bube per farlo rifugiare in Francia, mentre Mara ritorna a casa. Nel frattempo, qualcosa in lei è cambiato: non è più la ragazza spensierata di prima e si dimostra angosciata per la mancanza di notizie da parte di Bube.

Verso novembre, Mara decide di andare a lavorare come domestica in una famiglia a Poggibonsi. Qui stringe amicizia con una compaesana, Ines, con cui esce spesso e che le presenta Stefano. Mara, inizialmente fredda, lentamente comincia ad apprezzare la sua compagnia.

Dopo un anno, Bube, costretto al rimpatrio, viene arrestato alla frontiera ed è condotto a Firenze. Mara, accompagnata dal padre, si reca a sua volta nel capoluogo toscano per un colloquio con Bube. Durante l’incontro, la ragazza si accorge che il suo attaccamento a Bube era ancora molto forte, così decide che, da quel momento, sarebbe per sempre la sua donna. Bube viene condannato a quattordici anni di carcere. Mara, tornata a Poggibonsi, racconta a Stefano di aver preso una decisione: ha scelto Bube, che andrà spesso a trovare in carcere.  Il romanzo termina con Mara che attende la liberazione del suo amato.

«I primi tempi sono i più terribili, disse poi. Ma, in seguito, ci si fa quasi l’abitudine… sono passati questi sette anni , passeranno anche questi altri sette. E poi, io cerco di non pensarci. Conto solo i giorni che mi separano dal colloquio. Perché è tale una gioia quando lo rivedo [11]…»

Tale opera sarà un vero e proprio successo editoriale, che porterà Cassola a vincere il Premio Strega nel 1960. Venne tradotta in molte lingue, rendendo celebre la storia di Baffo e della Giorgi, divenuti Bube e Mara per i lettori, dove però la finzione supera la realtà [12].

Complici la fama del libro e l’eco ottenuta [13], grazie anche all’aiuto di Cassola stesso, che si mobilitò per aiutare Ciandri ad ottenere uno sconto di pena, il 22 dicembre 1961, Renato ottenne la libertà desiderata.

Entrambi i protagonisti, però, non si sentirono rappresentati dal libro di Cassola: Ciandri lamentava di essere stato dipinto come una figura a tratti negativa, che rinnegava i compagni, il Partito, gli ideali. La storia dei sentimenti, come affermò, non era in linea con la storia dei fatti, non fedele alla realtà. Neppure Nada si sentiva rappresentata, tanto che non riuscì nemmeno a finire il libro [14].

Pian piano i due ripresero una vita normale: Ciandri trovò finalmente un lavoro al Centro Carni e ne diventerà presto socio a tutti gli effetti.

Già pochi mesi dopo l’uscita del libro, Luigi Comencini, noto regista, aveva deciso di trarne un film dove apparirono come interpreti principali, attori della caratura di Claudia Cardinale e George Chakiris, rispettivamente nei panni di Nada (Mara) e Ciandri (Bube).

Claudia Cardinale e George Chakiris in una scena del film di Comencini

Anche le vicende attorno all’uscita del film sono controverse: Renato Ciandri non voleva che venisse proiettato, in quanto avrebbe contribuito a fissare, ancor più del libro, l’immagine già stereotipata che la gente si era fatta sulla sua persona. I produttori prima promisero ai Ciandri un ricco compenso per ottenere l’approvazione per la proiezione del film, poi – vista l’irremovibilità dei soggetti coinvolti- minacciarono Ciandri e la sua famiglia di querelarli. Non erano però le uniche querele: i Ciandri a loro volta ne firmarono una per non essere stati ascoltati, la sorella di Nada un’altra per informazioni false sulla figura del marito, scomparso durante la guerra, una, infine, da un figlio del Maresciallo Zuddas, critico sulla narrazione dei fatti, oltraggiosi per la memoria del padre e del fratello scomparsi e -a suo parere- poco fedeli ai fatti [15].

Nel frattempo, dall’unione di Nada e Renato nacque un figlio nel 1963, Moreno, autore, compositore e musicista.

Ciandri presto cambierà mansione e inizierà a lavorare in ufficio. Nel clima di rinnovata serenità, partecipa attivamente anche alle cerimonie degli eccidi della Seconda Guerra mondiale, agli anniversari e alle manifestazioni, continuando a coltivare gli ideali della Resistenza [16].

A metà degli anni Settanta, «Tuttolibri», il settimanale del quotidiano «La Stampa»,  rilegge il fortunato libro di Cassola. L’inviato Lamberto Furno incontra la coppia: è l’unica vera intervista di Ciandri [17].

Quando però la vita comincia a riprendere tranquillamente il suo corso, Renato scopre di avere un tumore, che il 6 novembre 1981 lo porterà alla morte [18]. Sentiti e partecipati i funerali. Venne sepolto presso il Cimitero di San Martino a Quona, a Pontassieve. Questa l’epigrafe sulla sua tomba [19]:

“Bube”

Renato Ciandri (3-3-1924/ 6-11-1981)

E voi imparate che occorre

vedere e non guardare in aria

questo mostro stava una volta

per conquistare il mondo

i popoli lo spensero

ma ora non cantiamo

vittoria troppo presto

il grembo da cui nacque

è ancora fecondo

Brecht

Alessandro Bargellini, 16-1-2009 https://resistenzatoscana.org/monumenti/pontassieve/sepolcro_di_ciandri/

La fama innescata dal libro non si arresta, anzi, ci saranno anche rappresentazioni teatrali sulla vicenda di Bube, come quella firmata dal registra Alessandro Gatto, di grande successo.

Nada, desiderosa di lasciarsi alle spalle gli anni della Guerra e della carcerazione del marito, ma volendone mantenere viva la memoria, comincerà a fare attività nelle scuole del territorio, per parlare ai ragazzi delle classi. Si spengerà il 24 maggio 2012 a 85 anni.

Negli ultimi anni di vita, Nada, per riabilitare la memoria del marito e per lasciare ai posteri la sua versione dei fatti, incaricò Massimo Biagioni, scrittore di Storia locale, giornalista pubblicista, oggi dirigente regionale di Confesercenti, con precedenti esperienze politiche, il compito di stendere in un secondo libro la sua biografia, da cui sono tratte molte delle informazioni qui riportate. Nada ha così scacciato la Mara del romanzo, e con Renato, è voluta tornare ad essere persona e non personaggio. «Ora posso anche morire!» disse a Biagioni, stringendo la prima copia uscita dalla Polistampa. Anche il figlio Moreno ha vinto il riserbo del padre che non ne aveva voluto parlare più, per dare spazio invece al volere della mamma [20].

 

Nada Giorgi, nominata cittadina onoraria del Comune di Pelago (FI) in News dalle Pubbliche Amministrazioni della Città Metropolitana di Firenze, http://met.provincia.fi.it/news.aspx?n=182704

Note

1.Sulla vita di Renato Ciandri e sulla sua attività di partigiano, prima del 13 maggio 1945, rimando alle pagine di Biagioni, pp. 27-46.

2. Giovanni Baldini, Renato Ciandri, “Bube”, in ResistenzaToscana, 14 luglio 2003, https://resistenzatoscana.org/biografie/ciandri_renato/ [consultato il 4 novembre 2024].

3. Per un’ulteriore ricostruzione della vicenda, si veda Dania Mazzoni, Attraverso la bufera: Pontassieve fra guerra, Resistenza e ricostruzione, 1943-1948, (con una nota introduttiva di Simonetta Soldani), Comune di Pontassieve, Pontassieve 1990, pp. 142-144.

4. Diversa la versione dei fatti esposta nell’articolo di Davide Batzella, Maresciallo Carmine Zuddas di Serramanna (dal libro di Cassola “La ragazza di Bube”), in ASerramanna, 22 Aprile 2013, https://www.aserramanna.it/2013/04/maresciallo-carmine-zuddas-di-serramanna-dal-libro-di-cassola-la-ragazza-di-bube-2/ [consultato il 5 novembre 2024]. Tale versione incolperebbe infatti Bube e la sua compagnia.

5. Massimo Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, Polistampa, Firenze, 2006, pp. 51-52.

6. Rimando alle pagine di M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, pp. 52-53, per la ricostruzione delle vicende antecedenti che vedono coinvolto Dolfi.

7. D. Mazzoni, Attraverso la bufera: Pontassieve fra guerra, Resistenza e ricostruzione, 1943-1948, pp. 144-144.

8.  M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, p. 85

9. Ivi, p. 93

10. Da Sandro Bennucci, «Io, Nada, vi racconto la vera storia della ragazza di Bube», «La Nazione», 13 aprile 2006 in LeonardoLibri, [consultato il 4 novembre 2024, https://www.leonardolibri.com/recensione.php?i=3314]

11. Carlo Cassola, La ragazza di Bube, Oscar Mondadori, Milano, 2010, p. 217.

12. M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, p. 100. Per la trama del libro, vedi anche pp. 98-100.

13. Ivi, pp. 100-103.

14. Ivi, p. 109.

15. Ivi, p. 129.

16. Ivi, pp. 133-137.

17. La minuta dell’intervista è riprodotta in M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, pp. 141-144.

18. Ivi, p. 145.

19. Cfr. M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, p. 150. Nella primavera del 2005 la salma di Ciandri venne traslata in un forno non distante dalla Cappella dei caduti e degli ex combattenti di tutte le guerre.

20. Michela Aramini, Cinque anni fa morì Nada, la “ragazza di Bube”: il ricordo di Massimo Biagioni, in il Filo – Idee e Notizie dal Mugello, 24 maggio 2017 [consultato il 4 novembre 2024, https://cultura.ilfilo.net/cinque-anni-fa-mori-nada-ragazza-bube-ricordo-massimo-biagioni/]

 

Bibliografia

Biagioni Massimo, Nada, la ragazza di Bube, Polistampa, Firenze, 2006

Cassola Carlo, La ragazza di Bube, Oscar Mondadori, Milano, 2010 [prima edizione, Einaudi, Torino, 1960]

Mazzoni Dania, Attraverso la bufera: Pontassieve fra guerra, Resistenza e ricostruzione, 1943-1948, (con una nota introduttiva di Simonetta Soldani), Comune di Pontassieve, Pontassieve 1990

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo scritto nel mese di novembre 2024.




L’ISRPT conclude riordino e digitalizzazione del “fondo manifesti”

Si è concluso il lavoro di riordino, inventariazione e digitalizzazione del fondo manifesti conservato presso l’archivio dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea in Provincia di Pistoia. Si tratta di un patrimonio ricco ed eterogeneo, che spazia su un’ampia spanna temporale e si caratterizza per la varietà di enti produttori e temi trattati o rappresentati. Il fondo conta un totale di 826 esemplari unici di vario formato (A0, A1, A2, A3).

Gran parte del materiale è originale; sono per lo più ristampe solo i giornali murali emessi da comuni, prefetture e altri organi pubblici fra gli anni ’10 e gli anni ’50 del ‘900. Fra i nuclei documentari più rilevanti e consistenti si segnala una raccolta proveniente dal fondo archivistico appartenuto all’ex sindaco di Pistoia Francesco Toni, con materiale risalente agli anni ’60, ’70 e ’80 che è riconducibile in parte ai movimenti per i diritti civili, per il disarmo, per la pace, per la cooperazione internazionale e per la solidarietà con i popoli del terzo mondo, in parte si lega a questioni inerenti alla politica locale quali elezioni, partiti e lotte sindacali.

La storia dell’Istituto, di altri istituti della rete Parri, della rete stessa e di molte altre organizzazioni assimilabili o prossime – quali, ad esempio, l’ANPI – è ampiamente documentata, con innumerevoli locandine riferibili a iniziative e attività, così come alle politiche memoriali elaborate dagli enti pubblici comunali, provinciali e regionali nella seconda metà del secolo scorso.

Non mancano infine serie di manifesti inerenti alla storia d’Italia, pubblicati a scopo divulgativo e propagandistico.

Si tratta dunque di un corpus di fonti primarie utili ai fini della ricerca relativamente alla storia del ‘900 e alla storia locale, rilevanti inoltre in un’ottica di conservazione della memoria storica dell’ISRPt.

L’opera di catalogazione e digitalizzazione ha richiesto l’impegno assiduo e prolungato nel tempo di professionisti, tirocinanti e ricercatori. I manifesti sono stati suddivisi per formato e disposti in un’apposita cassettiera metallica all’interno dei locali che ospitano l’archivio dell’ente. L’inventario è consultabile in formato excel sul sito dell’Istituto alla pagina “fondo manifesti” .
La consultazione è liberamente garantita in sede nei giorni di apertura dell’Istituto, segnatamente il lunedì, martedì e giovedì pomeriggio dalle ore 15:00 alle ore 19:00.

 

Emilio Bartolini è dottorando in scienze storiche presso l’Università del Piemonte Orientale. Collabora con l’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea in Provincia di Pistoia nella gestione della biblioteca dell’ente e in attività e progetti inerenti la didattica e la divulgazione storica. Il suo principale interesse di ricerca è la storia ambientale in età contemporanea.

Luca Cappellini è laureato in Scienze Storiche all’Università di Firenze ed è studioso dell’età contemporanea. È docente presso le scuole superiori Mantellate di Pistoia. Fa parte dell’Istituto Storico della Resistenza di Pistoia, dove è responsabile della biblioteca e con cui collabora come ricercatore e divulgatore. Ha pubblicato “Genova 2001. Una memoria multimediale” in «Farestoria», III, n.1, 2021; ha pubblicato con Stefano Bartolini e Francesco Cutolo Public History: laboratori partecipativi e memoria pubblica”, in «Clionet», Vol. VII, (2023).




Sui sentieri della Linea Gotica a Badia Tedalda

Badia Tedalda è un comune della Valtiberina in provincia di Arezzo situato nella zona appenninica al confine con le Marche e l’Emilia-Romagna. Con i suoi 1.463 abitanti Badia Tedalda è il principale centro dell’Alpe della Luna, un gruppo montuoso dell’Appennino settentrionale. Dalla fine del 1943 al settembre del 1944 il paese e le zone circostanti furono attraversati dalla Linea Gotica, l’approntamento difensivo costruito dai tedeschi lungo tutta la dorsale appenninica per bloccare le truppe alleate che risalivano la penisola.

Le montagne che circondano Badia Tedalda offrono un’eccezionale visuale sugli accessi di tre vallate, l’alta Valtiberina, l’alta Valmarecchia e l’alta Valle del Foglia. Questo segmento della difesa era dunque di importanza cruciale per i tedeschi poiché offriva la possibilità di poter bloccare l’avanzata alleata su Forlì, Rimini e Pesaro e danneggiare l’aviazione diretta sui principali centri del Mar Adriatico.

Seguendo un modus operandi ormai collaudato i nazisti in queste zone procedevano al reclutamento forzato degli uomini atti al lavoro per la costruzione delle opere difensive e mettevano in atto soprusi di qualsiasi genere come violenze, stupri e razzie. Questa impostazione veniva arricchita da quella politica della “terra bruciata” volta ad isolare i partigiani attraverso l’esecuzione di azioni efferate ai danni delle popolazioni locali[1].

A Badia Tedalda l’esercito tedesco arrivato nei primi mesi del ’44 vi stazionò per quasi un anno fissandovi la sede di comando di una delle sue divisioni, la 114ª Jäger-Division, deputata – insieme agli artiglieri della contraerea – alla difesa di quella zona. La 114 ª era una divisione nata nell’Europa orientale per combattere i partigiani ed era stata spostata proprio nella Valtiberina con il compito di difendere la Linea Gotica in quel tratto dal Passo dei Mandrioli (valico di crinale dell’Appennino tosco-romagnolo) fino a Sestino (il comune più orientale della Valtiberina).

Questi reparti una volta sistematisi lungo le fortificazioni della Linea si occuparono inizialmente del completamento dei lavori di fortificazione per controllare gli Alleati che stavano avanzando lungo la Valtiberina.  Ma tra il 20 e il 25 settembre con lo sfondamento della Linea Gotica sull’Adriatico e al Passo del Giogo di Scarperia il comandante delle forze tedesche in Italia, Kesserling, fece immediatamente retrocedere i reparti qui dislocati che abbandonarono le postazioni senza subire un vero e proprio attacco. Però al momento della ritirata i tedeschi, oltre ad interrompere tutte le vie di comunicazione, rasero al suolo diversi edifici, tra cui il palazzo comunale, l’attiguo mattatoio e le case circostanti[2].

Oggi la scoperta di una cospicua serie di resti di fortificazioni sui crinali di queste montagne, insieme alla raccolta delle memorie dei testimoni, ha portato alla nascita del Parco storico della Linea Gotica. È una realtà ancora in costruzione che rende fruibile ai visitatori questo luogo di storia e di memoria, con i percorsi guidati per gli escursionisti, con le proposte didattiche per le scuole e con la realizzazione di spettacoli e manifestazioni.

Il Parco storico della Linea Gotica, nato nel 2011 dalla collaborazione tra la Pro Loco di Badia Tedalda e la cooperativa sociale Costess – con il patrocinio della Provincia di Arezzo e della Regione Toscana -, è un museo open air delle fortificazioni belliche che valorizza un patrimonio storico conservatosi in un ambiente naturale intatto e suggestivo[3].

 

L’area del Parco Storico della Linea Gotica

 

Parallelamente alla valorizzazione delle postazioni difensive sparse per il territorio è stata allestita anche una “Sala della Memoria”, uno spazio culturale con installazioni multimediali, ricavata all’interno del Centro-Visite della Riserva Alpe della Luna (nei pressi della piazza del paese). La sala raccoglie reperti storici locali di varie epoche, ma soprattutto pannelli ed installazioni video relativi alla Linea Gotica e alla storia del periodo[4].

 

La Sala della Memoria

 

Per consentire ai visitatori di muoversi nel Parco sono stati creati una serie di itinerari a piedi e in bicicletta, grazie ai quali è possibile raggiungere pressoché tutti i principali siti in cui sono ancora presenti i resti delle fortificazioni (trincee, fortini in pietra in pieno bosco, casematte, postazioni antiaeree, postazioni radio, rifugi e ricoveri). Tali itinerari – le cui descrizioni sono in parte consultabili sul sito web della Pro Loco – possono essere percorsi con facilità grazie alle segnalazioni e alle tabelle informative sparse per il Parco[5].

Nel Parco sono stati individuati più di 250 siti con resti di fortificazioni e alcuni di questi, quelli più significativi, sono stati completamente restaurati.

Ed è proprio per recuperare la memoria della Linea Gotica nel territorio di Badia Tedalda che vogliamo dare questo contributo invitando ad andare a visitare quei luoghi per scoprire i segni di una storia recente, come quelle opere militari, ormai inserite nella natura e nel paese, che hanno reso possibile la formazione del Parco Storico.

Riportiamo qui di seguito alcuni dei sentieri presenti all’interno del Parco storico ripresi dagli itinerari della Pro Loco di Badia Tedalda: alcuni sono percorribili a piedi ed altri in bicicletta.

È consigliabile prima di iniziare un’escursione prendere informazioni aggiornate presso il Centro Visite sullo stato della rete sentieristica e sull’accessibilità dei luoghi.

 

Sentiero di Hinton Brown

 

  • Lunghezza percorso: 10.4 km
  • Dislivello: ± 840 m
  • Difficoltà: EE
  • Punto di partenza: Valico di Montelabreve
  • Ritorno: per lo stesso percorso

 

Pilota Hinton-Brown

 

Hinton Brown era un pilota sudafricano facente parte di una squadriglia dell’esercito britannico[6]. Durante la seconda guerra mondiale l’aviatore venne colpito dalla contraerea tedesca attestatasi sulle montagne dell’Appenino tosco-romagnolo e non ebbe altra scelta se non quella di lanciarsi con il paracadute atterrando nelle campagne attorno a Sant’Agata Feltria, in una zona presidiata dai tedeschi. Vedendolo scendere i contadini ed i partigiani del posto lo soccorsero e lo portarono al sicuro nella frazione di Monteriolo; da qui Hinton iniziò un lungo cammino che lo portò a ricongiungersi con i suoi compagni giunti dalle parti di Anghiari in Valtiberina. Grazie all’aiuto dei partigiani e dei contadini il pilota riuscì ad attraversare le montagne evitando i nazisti ed i repubblichini, trovando ospitalità in case coloniche e chiese. Il suo itinerario toccò molte località: Donicilio, Tavolicci, Pereto, Castelpriore, Fragheto, Casteldelci, l’Alpe della Luna, Val di Canali, il Condotto, Montagna, fino al Tevere. Grazie al ritrovamento del suo diario oggi possiamo ripercorrere i sentieri che Hinton Brown attraversò per ricongiungersi ai suoi commilitoni. Lungo il sentiero sarà possibile poter individuare diverse postazioni che i tedeschi costruirono nelle zone attraversate dalla Linea Gotica.

Questo sentiero percorre in parte una delle più antiche vie dell’Alpe della Luna percorsa fin dal Medio Evo dai pellegrini e dai pastori e utilizzata fino ai primi anni Cinquanta del secolo scorso dai contrabbandieri che trasportavano clandestinamente il sale della Romagna e il tabacco della Valtiberina per evitare i dazi: con pesanti sacchi sulle spalle risalivano fino allo sbocco del Bucine, percorrevano un pezzo di crinale e poi scendevano giù per altri sentieri segreti fino a Sansepolcro dove scaricavano il sale, caricavano il tabacco e nuovamente salivano su per lo stesso percorso a ritroso fino in Romagna.  Per questa ragione gli abitanti del posto lo chiamano ancora il “sentiero dei contrabbandieri”.

 

Pannello descrittivo del Parco Storico sul sentiero di Hinton Brown

 

ITINERARIO

(È possibile effettuarlo sia a piedi che in mountain bike)

Il sentiero ha inizio al Valico di Montelabreve (Badia Tedalda) in corrispondenza con il sentiero CAI n. 5 in direzione di Monte Maggiore. Dopo pochi metri seguendo le indicazioni si svolta a sinistra scendendo nella valle e toccando le località di Montelabreve e Gorgoscura fino al guado sul torrente Auro (circa 3 chilometri dalla partenza). Superato il guado il sentiero sale a destra sovrapponendosi al sentiero BT6 (che corrisponde alla “via dei contrabbandieri”) e risale la valle dell’Auro fino al crinale (1.002 m).  Da qui i due sentieri si dividono: il “sentiero dei contrabbandieri” scende verso il colle delle Quarantelle, mentre il sentiero di Hinton Brown percorre il crinale del Poggio dell’Oppione fino allo sbocco del Bucine (circa otto chilometri dalla partenza, 1.232 m). Dal crinale si attraversa il sentiero 00/E1 e si scende fino alla località Val di Canale nei pressi di un rudere (10 chilometri dalla partenza, 898 m). In questa zona durante la seconda guerra mondiale vi erano molti casolari e poderi che davano ospitalità agli sfollati e a tutti coloro che cercavano sicurezza e libertà oltre il fronte della Linea Gotica. In uno di questi, il Podere il Condotto, alloggiò il pilota Hinton Brown prima di passare il Tevere per ricongiungersi ai suoi compagni. Da qui volendo si intraprende a ritroso lo stesso sentiero per ritornare al punto di partenza.

 

Il sasso di Cocchiola

 

  • Lunghezza percorso: 3 km
  • Dislivello: ± 231 MT
  • Difficoltà: E
  • Punto di partenza: Parco della Memoria – Badia Tedalda
  • Ritorno: per lo stesso percorso

 

Il Sasso di Cocchiola

 

Il percorso comincia dal “Parco della Memoria” situato alle porte di Badia Tedalda. Inaugurato nel novembre del 2011 grazie al contributo della Pro Loco e del comune il parco è stato creato per ricordare i caduti civili e militari delle due guerre mondiali, a ciascuno dei quali è stato dedicato un albero della pineta all’ingresso sud del paese.

Dal Parco storico della Linea Gotica seguiamo la segnaletica giallo-blu e saliamo fino alla sommità del primo rilievo sovrastante Badia e la strada provinciale, dove è possibile rintracciare, anche se poco riconoscibili, i resti di una postazione di avvistamento. Da qui procediamo sempre seguendo i segnavia colorati del Parco fino a raggiungere una strada sterrata che originariamente collegava Badia a Pratieghi (località al confine con l’Emilia-Romagna). Seguendo il tracciato di questa strada in circa 45 minuti giungiamo al rilievo montuoso del Sasso di Cocchiola (929 m), un sito con rilevanti resti della Linea Gotica che sono stati ripuliti e restaurati. Il nucleo di fortificazioni ancora presenti è interessante perché possiamo trovarvi diverse tipologie di costruzione e la tabella esplicativa aiuta il visitatore a prenderne conoscenza. Questo luogo era di fondamentale importanza per la sua posizione panoramica che garantiva alla contraerea tedesca una visibilità ideale per intercettare l’aviazione alleata e al tempo stesso, essendo vicino al quartier generale della Divisione, fungeva anche da presidio difensivo per un eventuale attacco terrestre. Sul Sasso di Cocchiola sono ancora visibili e riconoscibili i resti di due casematte: adibite principalmente per il deposito di munizioni, ma che fungevano al contempo da riparo per i soldati tedeschi in occasione degli attacchi alleati. Oltre alle casematte sono inoltre visibili i resti delle postazioni da tiro della contraerea tedesca che completavano il sistema difensivo della zona e servivano a contrastare i bombardamenti angloamericani[7].

 

La “casamatta”, Sasso di Cocchiola

 

Postazione antiaerea, Sasso di Cocchiola

 

Pannello descrittivo del Parco Storico sul Sasso di Cocchiola

 

Il Monte dei Frati

 

  • Lunghezza percorso: 5 km
  • Dislivello: ± 631 M
  • Difficoltà: E
  • Punto di partenza: Poggio La Piazzuola
  • Ritorno: per lo stesso percorso

 

 

Il Monte dei Frati

 

Queste zone dell’Alpe della Luna prima dell’arrivo dei tedeschi videro la presenza di diversi raggruppamenti partigiani, più precisamente quelli della V Brigata Garibaldi “Pesaro[8] e quelli della XXIII Brigata Garibaldi “P. Borri”, e furono teatro di azioni partigiane, rastrellamenti nazifascisti, scontri a fuoco e fucilazioni.

Il percorso qui di seguito proposto ha inizio da Poggio la Piazzuola che è possibile raggiungere in auto da Badia Tedalda in dieci minuti seguendo le indicazioni per Monteviale. Una volta lasciata l’auto si intraprende il sentiero CAI n. 19 che sale dolcemente alla sommità boscosa del Monte dei Frati (1.453 m), la massima elevazione dell’Alpe della Luna. La cima, segnalata da una piramide di pietre e da un cartello, è completamente coperta da una faggeta fiabesca; poco sotto si trova il piccolo Bivacco Paolo Massi, una piccola costruzione in legno sempre aperta, e a poca distanza dalla vetta il fianco orientale del Monte dei Frati è squarciato dalla Ripa della luna, un salto impressionante di roccia chiara e verticale che precipita per circa 300 metri di dislivello, la cui vista ci lascia affascinati dalla bellezza della natura.

 

Cima del Monte dei Frati

 

Nella prima parte del percorso si possono notare diversi punti panoramici sulla Val di Bruci, che fu la “base logistica” per gli uomini impegnati nella costruzione delle fortificazioni della Linea Gotica sul Monte dei Frati: fino a questo punto i tedeschi riuscivano ad arrivare con i mezzi a motore, dopodiché procedevano fino a dove era possibile con i muli e successivamente a piedi.

Proseguendo lungo il percorso si può notare come i principali punti di fortificazione fossero, oltre che strategici, anche in “contatto visivo” tra loro.

Una volta giunti al Monte dei Frati, dopo circa due ore di cammino dal punto di partenza, i cartelli del Parco consentono di raggiungere un ampio sito storico, dove possiamo ammirare una sorta di “cittadella” fortificata destinata ad ospitare la contraerea tedesca.

Se proseguiamo invece verso il Monte Maggiore giungiamo nel luogo dove era posizionato uno dei principali osservatori di tutta l’area, di cui ad oggi non vi è praticamente più traccia se non alcuni resti delle postazioni di servizio, alcune “buche” e “piazzole”.

 

Monte Verde

 

  • Lunghezza percorso: 5.5. km
  • Dislivello: ± 472 M
  • Difficoltà: E
  • Punto di partenza: Passo di Viamaggio
  • Ritorno: per lo stesso percorso

 

L’itinerario ha inizio dal Passo di Viamaggio, dove sono ancora visibili alcune batterie della contraerea tedesca e pezzi di artiglieria. Lasciata l’auto nei pressi del Bar L’Alpe seguendo i segnali giallo-blu si intraprende il sentiero CAI n.00 che arriva dopo circa un’ora a Monte Verde. Lungo il cammino è possibile incontrare resti di postazioni di fucilieri e mitraglieri che erano destinate a difendere i tedeschi dagli attacchi terrestri. L’individuazione di queste fortificazioni non è sempre facile, talvolta si possono nascondere sotto il fogliame o nella folta vegetazione che contraddistingue queste montagne.

Giunti in cima al Monte Verde si può avvistare sia una postazione di tiro che il punto terminale di una trincea, seguendo il quale si arriva a tre grandi postazioni per il ricovero delle truppe.

Per chi volesse approfondire la conoscenza della Linea Gotica consigliamo di proseguire verso Monte Macchione, un promontorio di crinale a quota più bassa del Monte Verde, dove sono presenti numerosi resti delle fortificazioni tedesche. Sebbene non siano stati ancora recuperati sono visibili i resti di dodici postazioni di tiro in prevalenza utilizzate per fucilieri e mitraglieri e nella parte posteriore della cima del Monte i resti di un ricovero per la truppa e di una casamatta sotterranea.

Per gli amanti della bicicletta si consiglia La staffetta della memoria, un’iniziativa molto seguita e partecipata, che si snoda in una lunga pedalata appenninica nei giorni del 25 aprile e del 1° maggio, per mantenere sempre vivi nella memoria gli avvenimenti che hanno portato alla nascita della Repubblica Italiana e alla Costituzione. L’itinerario che ripercorre il tracciato storico della Linea Gotica attraversa anche il tratto della Linea che collega il Parco storico di Badia Tedalda al Parco nazionale delle Foreste Casentinesi[9].

 

La staffetta della memoria

 

Un altro percorso in bicicletta che riguarda invece solo il territorio di Badia Tedalda e ci consente di visitare i resti della Linea Gotica e di immergersi nell’area dell’Alpe della Luna è “il sentiero della Battaglia”.

 

Il Sentiero della Battaglia

  • Lunghezza percorso: 23. km
  • Dislivello: ± 625 M
  • Punto di partenza: Badia Tedalda
  • Ritorno: Badia Tedalda

 

Pannello descrittivo del Parco Storico sul Sentiero della Battaglia

 

Il sentiero parte da Badia Tedalda e segue una delle vie che nel giugno del 1944 i nazisti percorsero per compiere un accerchiamento ai danni della V Brigata Garibaldi “Pesaro”. La zona in questione fu teatro di uno scontro che contrappose i tedeschi provenienti da Sestino e Badia Tedalda e alcuni raggruppamenti partigiani appostati sui crinali di quelle montagne. I componenti della “Pesaro” riuscirono a resistere per tutta la giornata agli attacchi nemici senza subire gravi perdite e a respingere il nemico[10].

 

Il gruppo di comando della Brigata Garibaldi “Pesaro”

 

L’itinerario di questo percorso è circolare e si snoda per 23 km senza presentare particolari dislivelli proibitivi[11]. Da Badia Tedalda seguiamo le indicazioni per Moteviale e una volta giunti al bivio svoltiamo per Stiavola. Superata la cascata del Presale che troviamo alla nostra sinistra proseguiamo fino all’incrocio successivo seguendo le indicazioni per Montelabreve. Da qui si intraprende una strada in ascesa fino al Passo di Montelaberve (circa 9 km), poi si vira a destra e si prende il sentiero CAI n. 5 e lo si segue integralmente fino a superare il Poggio di Monterano. La strada risulta quasi interamente pedalabile ma vi sono alcuni punti in cui sono presenti delle ripide rampe che costringono a portare la bicicletta a mano. Lungo il cammino è poi possibile poter individuare alcune postazioni tedesche grazie alla segnaletica del Parco Storico; in questo caso sarà necessario compiere delle brevi deviazioni al percorso tradizionale ed addentrarsi per pochi metri nella boscaglia, dove potremo osservare le fortificazioni utilizzate dai nazisti durante la seconda guerra mondiale. Le trincee, i camminamenti e i luoghi adibiti all’artiglieria e all’osservazione sono in prevalenza situati lungo il crinale, ossia il punto che offre la miglior visibilità.
Giunti al bivio di Monterano il percorso scende a destra sul sentiero segnalato; chi invece volesse individuare altre fortificazioni tedesche dovrà procedere verso Monte Maggiore e poco dopo troverà alla sinistra del sentiero alcune postazioni  che erano state costruite per controllare gli eventuali movimenti nemici nella vallata. Al bivio di Monterano il percorso prosegue dunque verso destra: si abbandona il crinale e si scende sulla strada forestale che ci porterà in poco tempo alla Casa di Monterano, unico casolare sopravvissuto di una piccola frazione che all’epoca fu sede di un comando tedesco.
La strada forestale, ora ampia e senza deviazioni significative, attraversa la Val di Petra e con alcuni saliscendi giunge a Poggio la Piazzuola; qui, superata la sbarra, si prosegue verso destra su una strada sterrata. La discesa – inizialmente dolce ma successivamente più ripida – ci conduce prima a Monteviale e poi, tornati sull’asfalto, all’incrocio presso il ponte di Val di Brucia. Ora, svoltando a sinistra, risaliamo l’ultimo chilometro in salita e giungiamo al punto di partenza nella piazza di Badia Tedalda.

 

 

Un viaggio lungo i sentieri del Parco Storico di Badia Tedalda che ognuno può condurre in modo personale, con ritmi e scelte che ciascuno può fare tra le tante possibilità di visita che vengono proposte. Ognuno segue il proprio passo, più lento o più veloce a seconda delle passioni e dei giorni e ognuno… trova il suo senso.

 

NOTE:

[1] Ivan Tognarini, La Linea Gotica in provincia di Arezzo, in Paesaggi della memoria. Itinerari della Linea Gotica in Toscana, Touring Club Italiano, Milano 2005, pp. 34-37.

[2] Ivan Tognarini (a cura di), 1943-1945, la Liberazione in Toscana: la storia, la memoria, Pagnini, Firenze 1994, p. 22.

[3] Consulta il sito web della Pro Loco di Badia Tedalda https://www.prolocobadiatedalda.it/ e il periodico trimestrale online “Luna Nuova” di informazione e promozione dell’Alta Valmarecchia e Alpe della Luna in https://lunanuovaweb.home.blog/2019/10/16/il-parco-storico-della-linea-gotica-di-badia-tedalda-un-cantiere-aperto/

[4] Cfr.  Linea Gotica. Il Parco Storico di Badia Tedalda in https://blogcamminarenellastoria.wordpress.com/2022/05/10/linea-gotica-il-parco-storico-di-badia-tedalda/

[5] Cfr. Itinerari della Linea Gotica a Badia Tedalda in https://visitbadiatedalda.it/itinerari-e-escursioni/parco-storico-linea-gotica/

[6] I Sentieri della Memoria in https://lunanuovaweb.home.blog/2020/02/04/i-sentieri-della-memoria/

[7] Cfr.  Andrea Meschini e Doriano Pela, Il cammino della Linea Gotica. Un cammino civile sui luoghi dove è nata la Costituzione, Associazione Fuori dalle Vie Maestre.

[8] Alvaro Tacchini, La 5° Brigata Garibaldi “Pesaro”, in https://www.storiatifernate.it/id/la-5a-brigata-garibaldi-pesaro/

[9] Cfr. Il sito web Il cammino della Linea Gotica in https://www.camminolineagotica.it/staffetta-della-memoria/

[10] Alvaro Tacchini, Il rastrellamento del 3-6 giugno 1944 sull’Alpe della Luna, in https://www.storiatifernate.it/id/il-rastrellamento-del-3-6-giugno-1944-sullalpe-della-luna

[11] Cfr. il sentiero su https://www.prolocobadiatedalda.it/itinerari-ed-escursioni/

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nel mese di novembre 2024.