1

«Verso le 1,30 di stanotte ho udito…»

Il 30 maggio 1924 Giacomo Matteotti nel suo ultimo intervento alla Camera dei deputati denuncia le violenze e i brogli elettorali effettuati dai fascisti durante le ultime elezioni politiche, quelle che si erano svolte il 6 aprile, chiedendo «l’annullamento in blocco delle elezioni della maggioranza» e mettendo di fatto in crisi il risultato politico che più sta a cuore a Mussolini e ai fascisti: la parvenza di legalità, che con la realizzazione della legge Acerbo volevano perseguire.
La riforma elettorale approvata prima dalla Camera, il 23 luglio, e poi dal Senato il 3 novembre 1923, istituiva il collegio unico nazionale e la scheda di Stato, abolendo il sistema proporzionale e stabilendo la regola dell’attribuzione di due terzi dei seggi alla lista che avesse raccolto la maggioranza dei voti validi, senza fissare in origine alcun tipo di quorum. I votanti sono il 63% del corpo elettorale e il «listone» ottiene 4.305.936 voti[1], ai quali si aggiungono i 347.552 voti delle «liste bis» raggiungendo così il 56,54% dei voti su un totale di quelli validi di 7.021.551. Al Nord Italia, a dispetto delle pressioni e delle violenze, le forze dell’opposizione raccolgono più voti di quelle fasciste, ma nonostante questo il plebiscito ottiene un notevole successo. Nella provincia pisana al «listone» vanno 72.163 voti a fronte dei 14.792 raccolti dall’opposizione[2].
Matteotti denuncia con audacia le violenze e le manipolazioni del voto effettuate dalle squadre fasciste con la collaborazione di numerose prefetture e apparati dello Stato, ma questa coraggiosa presa di posizione gli vale solo la condanna a morte. Il 10 giugno è rapito e ucciso dalla banda fascista dei sicari di Dùmini[3].
Le violenze degli squadristi perpetuate nei mesi e nelle settimane precedenti il voto elettorale spesso si tramutano in veri e propri attacchi criminali: ad esempio, il 28 febbraio 1924, i fascisti uccidono a Reggio Emilia a colpi di pistola il candidato socialista Antonio Piccinini, tipografo e sindacalista, mentre in altre località feriscono altri esponenti dell’opposizione come i riformisti Enrico Gonzales, Giovanni Battista Canepa e Bruno Buozzi.
L’uccisione di Antonio Piccinini avviene con una dinamica ben precisa, la stessa che i fascisti utilizzano in altri casi. L’esponente socialista è prelevato al suo domicilio da alcuni fascisti, che si sono fatti aprire la porta con uno stratagemma: gli squadristi si presentano come socialisti esibendo una tessera sottratta a veri iscritti, aggrediti in precedenza. Piccinini è poi trucidato da lì a poco nella casa di due dei sequestratori, che dopo averlo stordito di bastonate lo appendono a dei ganci in un locale per la lavorazione dei maiali e lo finiscono con quattro colpi di rivoltella sparati a bruciapelo. Il corpo straziato è fatto trovare all’alba sotto un albero lungo la ferrovia Reggio-Ciano d’Enza, non lontano dalla sua abitazione, affinché i lavoratori che arrivano in città col treno locale per recarsi al lavoro possano constatare la fine che i fascisti fanno fare ai dirigenti operai.

Ugo Rindi

Anche la provincia pisana è attraversata da numerosi episodi di violenza e intimazioni: il 20 marzo una squadra di fascisti a Pontedera devasta la casa del comunista Antonio Romboli bastonando l’intera famiglia e ferendo il figlio con un colpo di pistola; nello stesso giorno è aggredito e ferito l’ex sindaco di Bientina, Annibale Iacopetti; il 24 marzo a Nodica i fascisti feriscono un socialista; il 29 marzo a Latignano gli squadristi picchiano un invalido di guerra iscritto al Partito popolare; il 4 aprile viene bastonato un ex consigliere del Partito popolare e a Ponsacco un gruppo di iscritti al Partito di Don Sturzo sono percossi selvaggiamente.
L’episodio più grave, sempre legato alle tensioni nate intorno alla data delle elezioni, è quello dell’uccisione di Ugo Rindi, tipografo, segretario della locale Federazione italiana del libro (il sindacato dei tipografi)[4], che avviene a Pisa nella notte tra l’8 e il 9 aprile 1924[5].
Recentemente l’Archivio di Stato di Pisa ha ricevuto un consistente fondo di documenti provenienti dall’archivio del Tribunale di Pisa che sono stati oggetto di un primo ordinamento e che contribuiscono a chiarire ancora meglio la dinamica dell’assassinio[6].

L’8 aprile, intorno alle 20, Emilio Gnesi, ufficiale della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, si reca insieme al console Francesco Adami dal questore Pace e dal prefetto Renato Malinverno per denunciare il grave ferimento di un fascista. Il presunto responsabile è Ulico Caponi, colono abitante in località Villa Filippi a circa un chilometro e mezzo da Porta a Lucca sulla via per San Giuliano Terme. Nel frattempo, la notizia viene fatta girare ad arte in città[7].
Il racconto degli squadristi afferma che un’auto guidata dallo squadrista Dino Poli, con a bordo Gualtiero Bacci e Ruffo Lester e i militi della MVSN Emilio Gnesi, Giulio Susini, Ruffo Monnosi e Guido Marradi, aveva raggiunto «Villa Filippi», la casa colonica abitata della famiglia Caponi per dare una lezione a Ulico, che il giorno delle elezioni ha dichiarato, all’uscita del seggio, la propria fede antifascista di fronte agli squadristi presenti. Evitato il linciaggio grazie all’intervento di un ufficiale dei carabinieri il Caponi si è rifugiato a casa sua. Secondo i fascisti quando Caponi li vede entrare nel proprio cortile si dà alla fuga nei campi sparando e ferendo gravemente lo squadrista Poli[8]. Il ferito è immediatamente trasportato in ospedale ma le sue condizioni, nonostante l’intervento dei sanitari, peggiorano rapidamente nella notte e intorno alle 14 del 9 aprile spira tra le braccia della moglie[9].
Il Prefetto e il Questore di Pisa credono ai fascisti e si prodigano immediatamente per dare ordini affinché il presunto assassino venga assicurato alla giustizia e chiedendo agli stessi squadristi di collaborare alle ricerche. Questi ultimi non si fanno ripetere la richiesta una seconda volta e immediatamente si mobilitano attivando quattro squadre che perlustrano Pisa e dintorni, colpendo tutti coloro che gli capitano a tiro, compreso, come ricorda il Procuratore generale della repubblica di Firenze, «persone indifferenti e innocue»[10].
Tra le due e trenta e le tre del 9 aprile due barrocciai, Riccardo Cioni di Empoli e Armando Matteucci di Firenze, sotto un’incessante pioggia escono da Porta a Lucca con i loro carri dirigendosi a sinistra verso Viareggio per la via del Marmigliaio quando i loro cavalli all’improvviso si bloccano perché qualcosa impedisce loro di procedere. Scesi dai loro carri i due barrocciai si accorgono che in mezzo alla strada giace insanguinato il corpo di un uomo. Subito si dirigono verso la vicina stazione daziaria avvisando gli impiegati presenti, due dei quali si recano sul posto e riconoscono immediatamente il corpo di Ugo Rindi, una persona molto nota nel quartiere e in città[11].
Avvertite le autorità, i carabinieri e il commissario di PS giunti sul posto confermano il riconoscimento di Rindi, ucciso da due pugnalate, una delle quali gli ha reciso l’aorta. Il corpo viene rimosso dal selciato intorno alle 9 di mattina[12].

Alessandro Carosi

In poco tempo la notizia della morte di Rindi fa il giro della città. Il sindacalista aveva seguito le orme paterne sia dal punto di vista professionale che ideale[13]: da giovane era stato affascinato delle idee libertarie ed era una persona molto amata e impegnata nel sociale, tanto che le stesse autorità durante l’inchiesta più volte sottolineano nei loro rapporti che Rindi era una persona «idealista» e «proba e innocua», ricordando come si fosse distinto nel settembre del 1920 negli aiuti ai terremotati della Garfagnana e Lunigiana. Come scrive il Procuratore generale di Firenze, anche il parroco di Porta a Lucca, don Angelo Petrini, ne «esalta le virtù e i meriti sebbene il Rindi non accettasse la religione cattolica»[14].
Le indagini vengono espletate velocemente e le autorità ben presto comprendono la reale dinamica dei fatti grazie anche alla collaborazione fondamentale e inaspettata del capitano Bruno Santini, leader di una delle fazioni del fascismo locale, che fin dalle prime ore del 9 aprile si prodiga, facendo visita anche alla famiglia Rindi, per comprendere la dinamica della brutale aggressione e individuare i responsabili. È grazie proprio alla denuncia di Santini e di altri suoi commilitoni alle autorità che vengono identificati gli assassini di Rindi[15].
L’11 aprile è arrestato il sindaco di Vecchiano, il già allora famigerato Alessandro Carosi[16], che come ricorda il Procuratore generale di Firenze amava presentarsi come «Tenente Carosi, sette volte omicida». Un personaggio che è animato al pari di altri sicari fascisti, sempre in base alle parole del Procuratore di Firenze, da «un istinto ferino» con assoluta mancanza di «moralità», che ha l’abitudine di ferire e uccidere per «brutalità, spavalderia e intimidazione»[17]. Carosi fa parte, dunque, di quella genia di «squadristi famigerati, accaniti e sanguinari, espressione di ceti e ruoli sociali ben definiti e tutt’altro che marginali e spostati»[18].

Filippo Morghen

Nei giorni e nelle settimane successive vengono arrestati anche i complici di Carosi: Antonio Sanguigni[19], segretario del fascio di Avane, Ranieri Cola[20], Giuseppe del Pellegrino[21] e Giulio Malmusi[22]. Sono arrestati anche il presunto mandante, Francesco Adami, console della MSVN[23] e il suo padrino, Filippo Morghen[24], segretario provinciale della Federazione e presidente del consiglio provinciale, oltre ai suoi più stretti collaboratori, gli squadristi Girolamo Grimaldi[25], segretario del fascio di San Giuliano Terme, Giuseppe Biscioni[26] e Ovidio Chelini, segretario del fascio di Nodica[27].
Vasta è l’eco dell’efferato assassinio sulla stampa locale e nazionale, Rindi è, come già ricordato, un personaggio assai conosciuto nella città, da tutti indicato come «uomo mite e onesto»[28]. Una grande sottoscrizione popolare nei confronti della famiglia del tipografo assassinato è lanciata dal periodico cattolico «Il Messaggero toscano»[29]. I funerali e le molte testimonianze dell’affetto della Pisa popolare e antifascista sono la prova di un’unanime condanna del delitto. La morte di Rindi ha lasciato nella disperazione la famiglia: la moglie Nella e i figli Emilio e Vera, la madre Rosa, la sorella Lavinia, che, subito dopo che Rindi è uscito di casa con i «fascisti», hanno cercato in città il proprio congiunto rivolgendosi invano anche alla Questura[30].
È molto probabile che Santini colga al volo l’occasione dell’assassinio di Rindi per cercare di liberarsi una volta per tutte

Giulio Malmusi, squadrista complice di Carosi nell’omicidio Rindi.

del gruppo legato a Filippo Morghen che, dall’autunno del 1922 ai primi mesi del 1924, si è distinto nell’occupazione di tutti i posti di potere chiave del territorio[31]. Questa occupazione di poltrone, una vera e propria ingordigia di potere, ha aperto delle fratture e «una furiosa e selvaggia lotta di gruppi» nelle file fasciste lasciando una parte degli squadristi della prima ora senza un corrispettivo adeguato di riconoscimenti e palesando un tradimento degli «ideali» del fascismo sansepolcrista[32].
Il 10 aprile giunge in città Luigi Freddi, responsabile dell’ufficio stampa del PNF, squadrista milanese della prima ora e «fedelissimo» di Mussolini, inviato a Pisa come commissario straordinario per rimettere ordine in una Federazione locale ormai profondamente dilaniata dai contrasti interni. Tutti i vertici della Federazione sono obbligati alle dimissioni e anche il prefetto Malinverno, troppo accondiscendente verso alcuni dei ras locali è sostituito da Giovanni Battista Rossi.
In giugno poi la notizia del rapimento dell’on. Giacomo Matteotti, con la sua eco emotiva, ha l’effetto, anche nel pisano, di un’ulteriore onda d’urto nelle file del fascismo e dell’opinione pubblica. Il clima politico è caratterizzato dall’incertezza, le autorità sono disorientate e gli stessi fascisti sembrano per un istante più indecisi e confusi sul da farsi.
Una lettera del capitano Santini alla redazione de «Il Messaggero toscano» della fine di agosto fotografa con chiarezza il clima politico di Pisa di quell’estate:

La situazione della città di Pisa è angosciosa, terribile, e non è soltanto una situazione del partito, ma l’imposizione di un sistema che offende la cittadinanza e gli onesti di tutte le tendenze, poiché mira all’apologia della delinquenza che ogni partito deve saper distruggere in se stesso se vuole vivere e prosperare. Pisa vive da tre mesi una tragica ora che non si vuol comprendere. Pisa ha visto l’8 aprile commettere nelle sue mura un assassinio obbrobrioso davanti al quale impallidisce un fatto come quello di Matteotti e i delinquenti furono consegnati alla giustizia dai fascisti stessi che non potevano ammettere nella loro buona fede che il fascismo si imbastardisse convivendo con l’inutile e deleteria delinquenza[33].

Nel frattempo nei primi giorni di luglio Freddi è sostituito nel suo incarico di commissario straordinario dall’on. Ezio Maria Gray che cerca di riportare alla «normalità» la vita della Federazione, ma in realtà alla fine chi paga maggiormente è il gruppo di Santini che l’anno successivo, non senza aver ricevuto minacce e pressioni di ogni tipo, decide di abbandonare Pisa e la militanza per trasferirsi a Milano.
La figura che si afferma in questo periodo di transizione è quella di Guido Buffarini Guidi, decorato di guerra, avvocato, massone e sindaco di Pisa, dal 1923 al giugno 1924, quando lascia l’incarico perché eletto in Parlamento. Noto per il motto «Ci penso io», ripetuto più volte a fronte di problemi e richieste di interventi, Buffarini non abbandona a se stessi gli esecutori dell’assassinio di Rindi, garantendo loro sussidi, assistenza e coperture.
La violenza del fascismo pisano ha un’altra occasione di mettersi in mostra il 2 gennaio 1925, il giorno prima del noto discorso di Mussolini al Parlamento sulle responsabilità del delitto Matteotti, quando sono assaltate le sedi delle organizzazioni dell’opposizione che ancora sopravvivevano e della massoneria. Viene tentato anche un assalto alle Carceri giudiziarie di S. Matteo al fine di liberare Carosi e Adami ma il tentativo fallisce per l’intervento massiccio di carabinieri e guardie di P.S. Sono devastate anche la redazione e la tipografia del «Messaggero toscano», che vengono distrutte da una forte esplosione, le abitazioni e gli studi di vari «notabili», rei di aver abbandonato il sostegno al fascismo, come Alfredo Pozzolini e Arnaldo Dello Sbarba, mentre gli squadristi non riescono ad entrare nello studio di Adolfo Zerboglio, noto giurista e senatore, perché sulla porta trovano un capitano degli alpini che impedisce armi alla mano alla squadra fascista di eseguire l’ordine di distruzione[34].
Il Procuratore generale di Firenze alla fine dell’anno conclude la sua istruttoria rinviando a giudizio Carosi, come esecutore dell’assassinio di Rindi, Malmussi e Grimaldi come complici, Adami e Biscioni come mandanti, mentre Morghen, Sanguigni, Cola e Del Pellegrino sono prosciolti dalle accuse per insufficienza di prove[35].
Il processo si svolge al Tribunale di Genova nel settembre del 1925, in un clima totalmente diverso rispetto a quello dell’anno precedente: nonostante le prove raccolte durante l’inchiesta, la sentenza finale è di assoluzione piena per tutti gli imputati. La corte di Genova ha subito forti pressioni politiche, proveniente anche da Roma, al fine di impedire una condanna che in quel contesto avrebbe significato una sconfessione piena di tutta l’organizzazione fascista locale. Il processo è anche l’occasione per la resa dei conti tra le due fazioni del fascismo a Pisa che nei mesi trascorsi hanno continuato a darsele di santa ragione, anche a colpi di revolver. In settembre un fascista seguace di Santini, Pilade Fiaschi, ingaggia a Marina di Pisa uno scontro a fuoco con un fascista «ufficiale», Gino Salvadori, entrambi rimangono feriti sul selciato ma ad avere la peggio è il secondo, che muore poco dopo[36].
Gli imputati assolti a Genova ricevono calorose accoglienze sia nella città ligure che a Pisa, dove i loro camerati li portano in «trionfo» per le vie delle città come dei «vincitori» di una gara sportiva[37].

Nel 1945, quando la guerra ancora non è terminata la Cassazione annulla la sentenza del 1925 e il caso viene riaperto ma nel frattempo uno dei principali esecutori dell’omicidio, Alessandro Carosi, si è dato alla macchia. Verrà condannato in contumacia a 21 anni di reclusione, come gli altri due imputati, ma non farà mai un giorno di carcere per il delitto Rindi, continuerà a vivere e lavorare a Roma, con la complicità di amici potenti, sotto il falso nome di Filippo Filippi[38]. Morirà nella capitale il 29 gennaio 1965 e la sua scomparsa avrà una vasta eco sui maggiori quotidiani italiani[39].
Carosi in carcere in precedenza ci era finito per un’altra tragica storia. Nel 1931 a Viareggio, dove risiedeva, uccide Assunta Beneforti (Tina), la sua amante e madre del figlio Sergio nato nel 1927. Per questo omicidio verrà condannato dalla Corte d’Assise di Firenze ad una lunga pena detentiva. Il 9 aprile 1943 inspiegabilmente Carosi è liberato con la condizionale e posto in regime di libertà vigilata. Decide di stabilire la propria residenza a Guardistallo dove viveva e lavorava la figlia Liliana avuta da una precedente relazione. Qui il 1° agosto 1943 sposa Cesarina Cesari la madre di Liliana. Il Prefetto preoccupato della presenza di Carosi e temendo le sue attività lo fa arrestate proponendolo per l’internamento in un campo di concentramento. Dopo l’8 settembre Carosi è liberato e nominato triumviro della Federazione pisana del nuovo Partito fascista repubblicano. Nei mesi seguenti collabora attivamente con la RSI e con gli occupanti nazisti.
Il 24 giugno 1944 si perdono le sue tracce, pare che si sia diretto al Nord insieme ai reparti e autorità fasciste della provincia. Secondo alcune testimonianze sembra che Carosi sia coinvolto nella denuncia alle autorità tedesche dell’antifascista e membro del CLN, Sisto Longa, che aveva retto il municipio di Guardistallo nei giorni seguenti la caduta di Mussolini. Longa il 29 giugno viene trucidato insieme ad altri 51 civili e 11 partigiani dalla Quarta compagnia della 19ª divisione da campo della Luftwaffe[40].

Il 14 maggio 1965, il senatore Umberto Terracini presenta un’interrogazione al Ministro dell’Interno, il senatore Paolo Emilio Taviani – democristiano ed ex membro del CLN ligure –, chiedendo come il ricercato Alessandro Carosi avesse potuto vivere e lavorare indisturbato a Roma nonostante la pesante condanna ricevuta. A Terracini rispose il sottosegretario all’interno, Crescenzo Mazza, con argomentazioni generiche e inconcludenti[41].
La vicenda Carosi mostra bene come l’eredità del fascismo abbia pesantemente condizionato la vita della giovane Repubblica italiana e come i suoi fantasmi si siano di volta in volta materializzati lasciando ferite profonde e aperte nella società civile del nostro Paese.
Il delitto Rindi è per Pisa quello che l’assassinio di Matteotti rappresenta per l’Italia: una svolta decisiva nell’evoluzione del fascismo, dove un partito politico da solo, il partito fascista, si autoproclama unico rappresentante di tutta la nazione. Un secondo effetto di questi episodi ricade soprattutto sulla tenuta dell’ordine pubblico e sulla gestione della giustizia. È evidente come in ambedue i casi lo Stato abdica a gruppi di potere locali e nazionali che si ergono in modo violento e spiccio, a volte in forme contraddittorie, a gestori della sicurezza nazionale.
Mussolini con il discorso del 3 gennaio 1925, assume la responsabilità storica di aver condotto il fascismo attraverso l’illegalità e la violenza al potere, mettendo al bando le residue forme democratiche del vecchio sistema monarchico/liberale, verso la costruzione di uno stato totalitario.
Pisa antifascista ricorderà Ugo Rindi nel secondo dopoguerra con varie manifestazioni e con l’intitolazione della strada che costeggia l’Arena e che partendo da via L. Bianchi arriva fino alla via del Marmigliaio.

NOTE:

1 La Lista nazionale nota comunemente come Listone oltre al Partito nazionale fascista (PNF), che l’anno prima aveva assorbito l’Associazione nazionalista italiana, comprendeva la maggioranza degli esponenti liberali come Vittorio Emanuele Orlando, Antonio Salandra e, inizialmente, anche Enrico De Nicola (che però ritirò la sua candidatura prima delle elezioni), ex popolari espulsi dal partito, demosociali e sardisti filofascisti, oltre a numerose personalità della destra liberale e cattolica italiana.
2 Si v. gli art. La elezione politica è stata un plebiscito nazionale e La Votazione di Pisa, «Il Ponte di Pisa», 12-13 aprile 1924.
3 Cfr. G. Mayda, Il pugnale di Mussolini: storia di Amerigo Dùmini, sicario di Matteotti, Bologna, Il mulino, 2004; M. Canali, Il delitto Matteotti, Bologna, Il mulino, 2004; M.L. Salvadori, L’antifascista: Giacomo Matteotti, l’uomo del coraggio, cent’anni dopo (1924-2024), Roma, Donzelli, 2023.
4 All’anagrafe Ugo Gustavo Ruffo Rindi nasce a Pisa il 21 maggio 1882 da Emilio e Rosa Lorenzetti. Per un inquadramento generale sulla storia del lavoro e sindacale di Pisa nel periodo cfr. A. Marianelli, Eppur si muove! Movimento operaio a Pisa e provincia dall’Unità d’Italia alla dittatura, Pisa, BFS edizioni, 2016.
5 Archivio di Stato di Pisa (d’ora in poi ASPi), Tribunale di Pisa, Corte d’Assise, aa. 1922-1946, Carosi Alessandro … [et al.], Il funzionario di servizio della Questura di Pisa al Procuratore del Re, 9 aprile 1924. Il quotidiano dei socialisti il giorno dopo la notizia della morte di Rindi riporta il fatto con il titolo esemplificativo: L’esecuzione capitale di un tipografo a Pisa, «L’Avanti!», 10 aprile 1924. Nell’articolo si fa riferimento alla similitudine del caso Rindi con quella del socialista Piccinini assassinato a Reggio Emilia in febbraio. 6 6 Per la cronaca pisana si v. anche Misterioso assassinio a Pisa. Un tipografo ucciso a pugnalate, «La Nazione», 10 aprile 1924 e Il tipografo ucciso, «Il Ponte di Pisa», 12-13 aprile 1924.
7 Il progetto di riordino è stato realizzato grazie ad un contributo della Fondazione Pisa e della Biblioteca Franco Serantini e realizzato dalla dr.ssa Giulia Vierucci. Ringrazio la direttrice dell’Archivio di Stato di Pisa, dr.ssa Jaleh Bahrabadi, per la disponibilità e la collaborazione e per l’autorizzazione alla consultazione dei materiali.
8 ASPi, Tribunale di Pisa, Corte d’Assise, aa. 1922-1946, Carosi Alessandro … [et al.], Il Procuratore generale presso la Corte d’Appello di Firenze, Rinvio a giudizio Carosi Alessandro … [et al.] per omicidio premeditato, 13 febbraio 1925 (d’ora in poi Procura generale di Firenze, Rinvio a giudizio …)
Caponi si eclissa ma raggiunto dalle notizie delle minacce fatte alla famiglia decide il giorno dopo di costituirsi alle autorità rimanendo in carcere per circa due mesi. La «falsa» notizia dell’agguato nel quale sarebbe rimasto ferito Poli propagata dai vertici della Federazione pisana del fascio è immediatamente ripresa dalla stampa nazionale. Cfr. “Chauffer” ferito da uno sconosciuto mentre attende a una riparazione, «Il Corriere della sera», 9 aprile 1924.
9 La moglie accorsa in ospedale ebbe il tempo di ascoltare dalla voce del marito morente la nuda e tragica verità dei fatti. Poli nell’inseguire il Caponi attraversò un fosso e risalì la sponda opposta mentre i suoi iniziavano a sparare. Nella concitazione degli avvenimenti gli squadristi non si accorsero che sparavano nella sua direzione ed un colpo da fuoco «amico» lo prese in pieno. Alla moglie furono fatte molte pressioni da parte dei «camerati» di suo marito e gli venne garantito un vitalizio da parte della Federazione pisana del fascio e al processo Rindi dell’anno successivo confermò la versione «ufficiale» sulla dinamica dei fatti contribuendo all’assoluzione degli imputati. Solo dopo vent’anni, alla riapertura del procedimento contro i responsabili dell’omicidio di Ugo Rindi la vedova Poli racconterà la verità. Va qui ricordato che all’epoca la magistratura non aprì nessun fascicolo per perseguire i responsabili della morte dello squadrista, nonostante dopo pochi giorni fosse a conoscenza di tutti i nomi dei presenti al fatto. Poli venne sepolto con tutti gli onori del caso entrando nell’albo dei «martiri» del fascismo.
10 ASPi, Tribunale di Pisa, Corte d’Assise, aa. 1922-1946, Carosi Alessandro … [et al.], Procura generale di Firenze, Rinvio a giudizio …, cit.
11 Ib.
12 Archivio di Stato di Pisa (d’ora in poi ASPi), Tribunale di Pisa, Corte d’Assise, aa. 1922-1946, Carosi Alessandro … [et al.], Verbale di visita di località e rimozione di cadavere, Pisa, 9 aprile 1924 e Legione territoriale dei Carabinieri reali di Livorno, Stazione di Portanuova, Verbale di omicidio in persona di Rindi Ugo ad opera di 5 sconosciuti, Pisa, 9 aprile 1924. Carosi, accompagnato da Malmusi e da altri tre squadristi, si è presentato intorno all’1,30 a casa della famiglia Rindi, annunciandosi come commissario di P.S. si è fatto aprire la porta e ha chiesto a Rindi di seguirlo perché indiziato di omicidio.
13 Il padre Emilio, nato a Pisa il 30 giugno 1858, operaio tipografo è stato un attivo militante internazionalista nelle Pisa post-unitaria. Cfr. M. Bacchiet, Malfattori e birrri nel fosco fin del secolo morente. Pisa 1872-1900, Ghezzano, BFS edizioni, 2023, pp. 86-88.
14 ASPi, Tribunale di Pisa, Corte d’Assise, aa. 1922-1946, Carosi Alessandro … [et al.], Procura generale di Firenze, Rinvio a giudizio …, cit.
15 ASPi, Tribunale di Pisa, Corte d’Assise, a. 1922 e sgg., Carosi Alessandro … [et al.], Comando della Legione territoriale dei carabinieri di Livorno, Compagnia di Pisa, Verbale della denuncia di Bruno Santini … [et al.] in ordine all’omicidio volontario in persona Rindi Ugo, Pisa, 10 aprile 1924.
16 Alessandro Carosi nato a Roma il 9 febbraio 1899 da Emilio e Pia Antilli, commerciante, arrestato l’11 aprile 1924. Cfr. L’arresto d’un sindaco fascista per l’uccisione del tipografo pisano, «Il Corriere della sera», 12 aprile 1924.
17 ASPi, Tribunale di Pisa, Corte d’Assise, aa. 1922-1946, Carosi Alessandro … [et al.], Procura generale di Firenze, Rinvio a giudizio …, cit.
18 M. Palla, I fascisti toscani, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. La Toscana, Torino, Einaudi, 1986, pp. 473.
Antonio Sanguigni nato a Pisa il 12 febbraio 1896 da Giuseppe e Assunta Del Rosso, residente a Vecchiano, possidente, detenuto dal 23 aprile 1924. Sanguigni verrà poi «giustiziato» dai partigiani nella notte tra il 4 e 5 agosto 1944 in località Faeta.
19 Ranieri Cola nato a Vecchiano il 18 maggio 1899 da Luigi e Teresa Pardi, terrazziere, detenuto da l’11 giugno al 22 ottobre 1924.
20 Giuseppe Del Pellegrino nato a Vecchiano il 16 settembre 1900 da Amadio e Zoraide Bartelloni, orticultore, detenuto da l’11 giugno al 22 ottobre 1924.
21 Giuseppe Malmusi nato a Modena il 21 maggio 1897 da Giuseppe e Margherita Malmusi, studente, arrestato il 21 luglio 1924.
22 Francesco Adami nato a San Paolo in Brasile il 7 settembre 1893 da Pio e Maddalena Stefani, residente a Pisa, studente, detenuto dal 19 aprile 1924. Adami durante gli anni del fascismo continuerà la propria militanza, dopo la caduta del fascismo sarà tra i fondatori del Fascio repubblicano. Nominato il 1° ottobre 1943 Prefetto di Pisa, carica che mantiene fino alla fine del mese, seguirà poi Buffarini Guidi al nord. La sua nomina a Prefetto è contraddistinta da continui arresti di molti antifascisti e una gestione dell’ordine pubblico violenta e arrogante.
23 Filippo Morghen nato a Castellina Marittima il 22 febbraio 1882 da Antonio e Margherita Werner-Debeauvert, residente a Pisa, avvocato, arrestato e detenuto dal 19 aprile al 24 ottobre 1924.
24 Girolamo Grimaldi nato a Livorno il 27 luglio 1888 da Ernesto e Argia Cappelli, capostazione ferroviario, residente a San Giuliano Terme, detenuto dal 19 aprile 1924.
25 Giuseppe Biscioni nato a Calci il 3 marzo 1900 da Gino e Marianna Malanima, studente, detenuto dal 21 aprile 1924. Biscioni la sera dell’8 aprile ha l’incarico di guidare una seconda squadra verso Porta Nuova alla ricerca della famiglia Bucchioni, ben noti esponenti antifascisti e libertari della zona. Trovati a casa il padre Ferruccio e i figli, Azelio e Libertaria, non passa a vie di fatto solo perché i membri della sua squadra si rifiutano di eseguire l’ordine di uccidere i malcapitati. ASPi, Tribunale di Pisa, Corte d’Assise, aa. 1922-1946, Carosi Alessandro … [et al.], Procura generale di Firenze, Rinvio a giudizio …, cit.
26 Ovidio Chelini verrà arrestato a fine aprile del 1924 anche per un altro tentativo di omicidio nei confronti di Alfredo Gemignani, antifascista, ferito a colpi di rivoltella la sera del 23 marzo. Cfr. Un altro delitto scoperto presso Pisa, «L’Avanti!», 1° maggio 1924.
27 Per la cronaca si v. i nn. del «Messaggero toscano» del 10 e 23 aprile e 3 maggio 1924. Inoltre gli art. Nuovi particolari sui fatti di Pisa, «L’Avanti!», 25 aprile 1924 e Rivelazioni sui misfatti di Pisa. Il Rindi ucciso con due pugnalate, «L’Avanti!», 1° maggio 1924.
28 La sottoscrizione raccolse nelle settimane successive una quota considerevole, circa undicimila lire, poi venne bloccata su pressione del commissario straordinario Freddi timoroso che questo gesto di solidarietà si tramutasse in un affronto al potere locale del fascio. Venne ripresa in autunno raggiungendo le dodicimila lire per poi essere immediatamente chiusa. 29 Si v. «Il Messaggero toscano», nn. del 30 aprile, 10 giugno e 29 ottobre 1924.
30 ASPi, Tribunale di Pisa, Corte d’Assise, aa. 1922-1946, Carosi Alessandro … [et al.], Legione territoriale dei Carabinieri reali di Livorno, Compagnia di Pisa, Dichiarazione resa da Rindi Lavinia in merito all’uccisione del proprio fratello Ugo, Pisa, 10 aprile 1924.
31 Il caso Rindi mette in luce una radice leggermente diversa sulla natura delle divisioni tra i fascisti in città, di genere più personale e legata strettamente al controllo del potere, rispetto alla narrazione fino ad ora accreditata sul piano storiografico e cioè di un dissidio politico nato tra la componente, più in linea con alcuni dei valori originari del primo squadrismo, radicale, ancorato agli ideali dell’interventismo e del mito della guerra nazionale, e quella di origine agraria, con una matrice nel conservatorismo antidemocratico delle classi medie della provincia e dichiaratamente più violento. Emerge dalle biografie personali dei protagonisti, in gran parte di estrazione piccolo borghese, un «ceto» e una «generazione», con un profilo psicologico e antropologico di uomini che aspirano ad un benessere e ad un prestigio che credono acquisito di diritto con la partecipazione alla guerra e bramano un potere rivendicato manu militari attraverso un breve periodo di stragi e baldoria. Va ricordato che il problema della violenza dello squadrismo pisano, spesso espressione di una rabbia sorda e furiosa, che si mantiene anche dopo gli anni caldi del 1921-’22, è un tema che viene dibattuto anche nel 5° congresso provinciale del PNF del dicembre 1923, che approva una risoluzione di condanna dei continui abusi, soprattutto nel capoluogo, esercitati da squadre provenienti anche da altre località. La risoluzione afferma: «Se gli atti commessi nella giurisdizione del fascio pisano da fascisti appartenenti a qualunque fascio, saranno considerati reato, il direttorio denuncerà all’autorità competente i fautori assumendone piena e completa responsabilità» («Il Messaggero toscano», 15 dicembre 1923).
32 E. Ragionieri, Il partito fascista (appunti per una ricerca), in La Toscana nel regime fascista (1922-1939), t. 1, Firenze, L.S. Olschki, 1971, p. 68.
33 «Il Messaggero toscano», 30 agosto 1924.
34 L’episodio è ricordato da Piero Zerboglio, figlio di Adolfo. Il capitano degli alpini, forse lo stesso Santini, si presenta agli astanti «camerati» affermando che non avrebbe permesso a nessuno di entrare nello studio di Zerboglio, padre di un eroe della Prima guerra mondiale. Infatti il figlio Enzo era caduto combattendo valorosamente alla fine dell’ottobre del 1918 e per questo era stato decorato con la medaglia d’oro al valore. Cfr. Biblioteca F. Serantini, sez. Archivio, P. Zerboglio, [Memorie familiari], pro manuscripto.
35 ASPi, Tribunale di Pisa, Corte d’Assise, aa. 1922-1946, Carosi Alessandro … [et al.], Procura generale di Firenze, Rinvio a giudizio …, cit.
36 Cfr. Conflitto tra fascisti a Pisa, «Il Popolo», 20 settembre 1924. Fiaschi verrà poi condannato a 5 anni e 10 mesi di carcere, Giudici, Giudizi e Giudicati, «Il Ponte di Pisa», 5-6 settembre 1925.
37 Cfr. La fine del processo per l’assassinio del tipografo Rindi. Tutti gli imputati assolti, «La Stampa», 27 settembre 1925.
38 Cfr. G. Ghislanzoni, La doppia vita dell’ex squadrista Carosi, «Corriere dell’informazione», 1-2 febbraio 1965.
Tra i numerosi articoli si v. ad esempio quelli pubblicati dal quotidiano «La Stampa» di Torino: Scoperto dopo la morte l’uccisore di due socialisti vissuto sotto falso nome a Roma, e 39 L’ex squadrista ricercato per due omicidi aveva anche ucciso e bruciato l’amante, «La Stampa», Torino, 31 gennaio e 2 febbraio 1965. Cfr. anche Chi ha aiutato il fascista pluriomicida?, «L’Unità», 1° febbraio 1965.
40 Cfr. P. Pezzino, Anatomia di un massacro. Controversia sopra una strage tedesca, Bologna, Il mulino, 1997, ad indicem.
41 Senato della Repubblica, IV Legislatura, 296a seduta pubblica, Resoconto stenografico, venerdì 14 maggio 1965, pp. 15594-15598.




Il contributo di Edoardo Lombardi alla ricerca storica

Il 4 aprile sarà il trentesimo compleanno di Edoardo Lombardi. Vogliamo ricordarlo come lo abbiamo conosciuto: curioso, pieno di interessi, di ricerche da compiere e da progettare. Per questo motivo, riproponiamo l’articolo “In circostanze mai chiarite”, da lui pubblicato su TN il 29 Agosto 2022, con l’introduzione di Luca Cappellini. 

Introduzione (di Luca Cappellini)

Quando si è palesata l’opportunità di introdurre il lavoro di ricerca di Edoardo Lombardi su Toscana Novecento mi sono immediatamente proposto per svolgere questo compito. Edoardo era un caro amico prima che uno stimatissimo collega, e un grande esempio di acume, intraprendenza e competenza. Il compito che mi viene qui richiesto risulta perciò particolarmente semplice, poiché la passione e il lavoro di Edoardo sono da sempre stati assolutamente evidenti, e sebbene riassumere in poche righe ciò che per lui era un minuzioso lavoro quotidiano sia sempre in qualche misura opera indegna, in questo caso evidenziarne i notevoli pregi scientifici è davvero stato semplice e gratificante.
Come ricercatore Edoardo ha continuato a coltivare la sua prima grande passione, maturata durante gli anni universitari, ovvero gli studi germanici. In particolare la sua attenzione era andata progressivamente soffermandosi sulla DDR (Deutsche Demokratische Republik), la cui breve ma densa storia nazionale, a cavallo tra la fine del secondo conflitto mondiale e i prodromi della Guerra Fredda, ha costituito il fulcro della sua tesi di laurea magistrale, poi subito rimodellata per diventare la prima pubblicazione di Edoardo: Uno stato senza nazione: l’elaborazione del passato nella Germania comunista (1945-1953). In questa monografia egli affronta la spinosa questione della creazione ad hoc della storia e della memoria storica nella Germania Est: tramite numerosi fonti primarie – in special modo lo studio di quotidiani come «Neues Deutschland», – e una nutrita bibliografia, Edoardo ricostruisce minuziosamente il difficile tentativo del regime comunista tedesco di forgiare a tavolino un’identità pubblica sincretica.
Accanto alla sua longeva passione per la storia tedesca, Edoardo aveva sviluppato e tradotto nel campo della ricerca storica un altro suo interesse di lungo corso (per altro condiviso col sottoscritto): il gioco di ruolo e i videogiochi. Al culmine di una serie di riflessioni e collaborazioni con AIPH – Associazione italiana di Public History, Edoardo ha curato insieme ad Igor Pizzirusso un numero della rivista «Farestoria» dell’IsrPt: “E’ in gioco la storia. Giocare il passato nel tempo presente”. Il pionieristico obiettivo era quello di portare al centro della discussione della rivista uno dei temi principali nella public history, ovvero la divulgazione storica attraverso il medium ludico.

In ultimo, ma non per importanza, Edoardo aveva approfondito anche temi fondamentali della Resistenza in Toscana, in particolare alcune controversie sulla morte di Silvano Fedi. Dopo un attento studio sui documenti militari negli archivi tedeschi di Friburgo, Edoardo aveva infine proposto le sue tesi nell’articolo “In circostanze mai chiarite”, offrendo nuovi importanti stimoli di riflessione sul tema.

 

Edoardo Lombardi – “In circostanze mai chiarite” – I documenti tedeschi e nuovi appunti sull’uccisione di Silvano Fedi 

Silvano Fedi è con ogni probabilità il partigiano più noto e discusso dalla letteratura storica locale, nonché uno dei personaggi di maggiore spicco nella memoria collettiva della città di Pistoia. Il suo riconoscimento pubblico si ebbe nell’immediato dopoguerra, prima con il conferimento della medaglia d’Argento al Valor Militare, poi con l’intitolazione di un istituto scolastico, di un’associazione sportiva, infine di una piscina e di un corso centrale. Negli ultimi anni, un film (Pistoia 1944. Una storia partigiana) e uno spettacolo teatrale (Una vita per un’idea. La storia di Silvano Fedi) hanno raccontato i suoi ultimi mesi di vita e il suo impegno nella Liberazione. A poca distanza, il riconoscimento del titolo di cittadino illustre, disposto dal consiglio comunale di Pistoia nel 2020, e la recente costruzione di una tomba monumentale (2022) hanno riacceso l’interesse generale per sua persona.

Allo stesso tempo, attorno a Silvano Fedi si è sedimentata una sorta di aura mitica, alla quale ha contribuito la ricostruzione storica e memoriale basata sulle circostanze «mai chiarite» della sua uccisione. Queste ultime, ad oggi, possono essere riassunte come segue: più o meno alle 14:00 del 29 luglio 1944, in località Montechiaro (tra Serravalle e Pistoia) le Squadre “Franche” comandate da Fedi furono coinvolte in uno scontro a fuoco da ingenti forze del Pionier-Bataillon 60, un reparto del Genio che dipendeva dal vicino comando del 14. Panzerkorps (localizzato nei pressi di Marliana). I tedeschi uccisero Fedi e altri due membri dello Stato maggiore delle Squadre, uno dei quali venne fatto prigioniero e giustiziato in un secondo momento. Da qui in poi hanno inizio i problemi.

Per molti tra i partigiani e i civili testimoni di quei fatti e gli studiosi che si interessarono alla vicenda nel dopoguerra, quello tra le unità di Silvano Fedi e i tedeschi non fu un incontro casuale, bensì frutto di una delazione; nacque così la teoria di un vero e proprio «agguato», congegnato ai danni della formazione partigiana e del suo comandante. L’idea di una “soffiata” ai danni di Fedi è stata, a un tempo, attribuita a un gruppo di ladri che si erano finti membri della sua formazione oppure, secondo un’altra ipotesi, a «persone che contavano, probabilmente interne alla stessa Resistenza [pistoiese]», che avevano creduto di potersi sbarazzare di «un personaggio scomodo [e] protagonista indiscusso della lotta partigiana». La letteratura storica pistoiese ha avallato ognuna di queste possibili teorie nel corso degli anni e con esse le numerose – e spesso non contestualizzate coi metodi propri della storia orale – testimonianze oculari di chi era presente il giorno in cui Fedi veniva ucciso dai tedeschi. I rapporti che egli aveva intrattenuto con una figura di grande ambiguità come Licio Gelli, il cui peso nella storia italiana successiva ha contribuito a far crescere l’alone di mistero, hanno fatto il resto. Le numerose ipotesi e la relativa sovrapproduzione di materiale secondario hanno così finito col precludere una qualsiasi ricostruzione efficace e scientificamente corretta dell’uccisione del partigiano pistoiese.

Una lacuna particolarmente sensibile in questo quadro generale è quella della documentazione tedesca, che fino a ora è stata utilizzata in modo molto scarno o approssimativo. Un modo per rimettere “in ordine” l’intera vicenda potrebbe essere proprio quello di ripensare l’attacco tedesco a Montechiaro prendendo in esame uno spettro più ampio di fonti e provando a ricostruire i fatti dall’inizio, tenendo come punti fermi genealogia e contesto degli eventi. La domanda iniziale e centrale che ci dobbiamo porre è la seguente: può una delazione essere l’unica ragione logica in grado di spiegare la presenza di un battaglione tedesco a Montechiaro il 29 luglio 1944?

Il 25 luglio la formazione di Fedi aveva iniziato lo spostamento delle Squadre Franche verso il Montalbano per compiere azioni di disturbo e sabotaggio contro le truppe che si stavano ritirando sotto la pressione alleata. Il piano era stato concordato il giorno precedente nel corso di un incontro con esponenti del CLN locale, in particolar modo del Partito comunista italiano e del Partito d’Azione. Dunque le premesse sono quelle di una operazione di guerriglia contro l’occupante, in linea con quanto stava accadendo nelle «aree vicine al fronte», dove i tedeschi avevano notato un incremento sensibile dell’attività partigiana. Questa situazione, nel corso dell’estate, aveva già spinto i comandi militari a dare il via a tre grosse operazioni «contro le bande» (nomi in codice «Wallenstein») sull’Appennino tra la Garfagnana e il Modenese e ad intensificare la pressione sulle retrovie con tutti i reparti della Wehrmacht e della polizia disponibili. La prima ipotesi che sembra logico prendere in considerazione è perciò quella di un rastrellamento preventivo, i presupposti per il quale, anche con l’utilizzo di numeri non indifferenti di uomini da parte dei Comandi superiori, ci sarebbero tutti: il fronte arretrava rapidamente e l’attività partigiana nei pressi della Linea Gotica stava aumentando; c’è poi da tenere conto del dilagare della cosiddetta «psicosi delle bande», che da sola stava mettendo in seria difficoltà i nervi delle truppe tedesche, ossessionate e convinte che «alle [loro] spalle ci fosse un esercito partigiano» e di essere costantemente «in trappola. Come a Stalingrado». A questo proposito, va però aggiunto che la lotta antipartigiana in Italia può essere solo parzialmente ricondotta a un fenomeno di isteria da parte nei confronti della Resistenza in armi. La «psicosi delle bande» è uno dei tanti fattori che possono contribuire a contestualizzare la vicenda e, nel nostro caso, non è comunque l’elemento predominante.

La ricerca sulle mappe del fondo «RH 2-KART/OKH» del Bundesarchiv-Militärarchiv di Friburgo ha finora portato alla luce un solo nuovo elemento, ancorché molto significativo. A fine luglio, un’intera divisione meccanizzata tedesca (la 90. Panzer-Grenadier-Division) aveva ricevuto l’ordine di trasferirsi dal fronte alle retrovie, per l’esattezza nei pressi di Modena. L’intero reparto raggiunse la Valdinievole proprio la mattina del 29 luglio 1944, per poi attraversare il Serravalle e cominciare risalire l’Appennino nelle ore successive. Al momento non è possibile stabilire se qualche reparto della divisione abbia partecipato o meno ai combattimenti di Montechiaro, ma la sua presenza servirebbe a spiegare una maggiore attenzione dei comandi militari per le aree limitrofe.

Va poi preso in esame un altro dettaglio, forse tra i più esacerbati da parte delle ricostruzioni sull’uccisione di Fedi proposte finora. Nel dopoguerra, in molte delle testimonianze rilasciate dagli ex-partigiani pistoiesi si può riscontrare un certo accordo sul fatto che quella dei tedeschi fosse stata un’imboscata preparata in modo tale da colpire il nucleo delle Squadre. Questa osservazione però non è mai stata vagliata criticamente, sebbene ci sia tanto da dire su di essa, a partire dal fatto che chiunque venga colto di sorpresa in un conflitto a fuoco abbia quasi sempre la percezione di essere stato messo in trappola. Né si è tentato di elaborare ulteriormente uno dei bollettini dell’Armeeoberkommando 14, già noto, nel quale si legge che il 29 luglio furono le truppe tedesche a subire un attacco dai partigiani e non il contrario. Cosa non difficile da credere, se si pensa che nelle relazioni delle Squadre Franche si fa menzione di un altro conflitto a fuoco, avvenuto quella stessa mattina e che ebbe come protagonista una delle pattuglie poste da Fedi a copertura del centro della formazione. Il comandante partigiano non era stato messo a conoscenza di questa prima schermaglia, ma se assumiamo che questo scontro abbia effettivamente avuto luogo (fatto del quale ci danno conferma sia la relazione delle Squadre Franche che i documenti tedeschi), ciò potrebbe anche suggerire un’altra spiegazione ai fatti di quel giorno. In breve, l’incontro tra i pionieri e la formazione partigiana potrebbe essere avvenuto a seguito della battaglia mattutina, la quale avrebbe poi spinto le unità del Pi. Batl. 60 a indagare più a fondo nelle zone a sud di Pistoia. Un altro dettaglio a questo proposito è costituito dalle operazioni alle quali era stata originariamente destinata l’unità responsabile dell’uccisione di Fedi: il 29 luglio 1944, infatti, i pionieri del 14. Panzerkorps dovevano minare un tunnel ferroviario nei pressi di Serravalle insieme a una unità del Genio ferroviario, la Eisenbahn-Pionier-Kompanie 84. In questo documento non si parla né di rastrellare una precisa area, né tantomeno di dare la caccia a una specifica squadra partigiana, il che alimenta l’ipotesi (pur senza confermarla) di un incontro avvenuto per caso o a seguito di un attacco della pattuglia di Fedi a una delle due formazioni nemiche (se non a entrambe).

Le testimonianze di chi era presente quel giorno a Montechiaro concordano poi su un altro dettaglio, ovvero che i tedeschi sapessero «senz’altro dove andare» e che quindi avessero puntato direttamente sul luogo dove si trovava il grosso della formazione partigiana. Tuttavia, anche questo racconto dovrebbe essere analizzato in maniera più critica alla luce di due considerazioni: la prima è che le truppe di occupazione, soprattutto i reparti del Genio, conoscevano e avevano cartografato la zona periferica di Pistoia da circa un anno (lo stesso Pionier-Bataillon 60 era già stato di stanza a Pistoia nell’autunno del 1943, alle dipendenze della 44. Infanterie-Division); in secondo luogo, non si è mai presa in esame la possibilità che la zona tra Vinacciano e Serravalle potesse avere una qualche importanza strategica per i tedeschi. A questo proposito, vale la pena ricordare la presenza della tratta ferroviaria che da Pistoia conduce ancora oggi a Montecatini e il fatto che le medesime unità della Eisenbahn-Pi. Kp. 84 avevano sondato più volte quell’area nei mesi di giugno e luglio. Quello che è certo, dunque, è che nell’estate del 1944 quella zona possedeva ancora una grande importanza per le forze armate dell’occupante.

Alcuni appunti finali. Il giorno successivo all’uccisione di Fedi, il 30 luglio 1944, il Pionier-Bataillon 60 venne inviato a rastrellare tutto il territorio compreso tra Vinacciano e la zona a sud di Prato. Il risultato complessivo di questa azione fu di settanta uomini catturati, tra i quali «otto noti capibanda» e, nel solo Pratese, di 146 persone. Al momento non è dato sapere se questo tipo di operazione fosse o meno una risposta ai fatti di Montechiaro e, più precisamente, al rinvenimento dei famosi «documenti importanti» sul corpo di Silvano Fedi. Tuttavia, come si è avuto modo di leggere, l’utilizzo di un ventaglio più largo di fonti fa già assumere alle «circostanze mai chiarite» un significato diverso: unite alle testimonianze orali del periodo, che dovranno essere esaminate di nuovo e con criteri diversi, e alla letteratura che finora è stata prodotta su Fedi e sulle sue Squadre Franche, le carte tedesche possono apportare un contributo nuovo e determinante alla ricostruzione di un quadro storicamente corretto delle vicende del 29 luglio 1944.

Note: Sono stati consultati i seguenti fondi: Aisrpt, Fondo Relazioni, Relazione delle Squadre Franche a carattere patriottico, Gruppo “Silvano”; Aisrt, microfilm (US-NARA) T-312, Roll 491, f. 8.084.451, Armeeoberkommando 14, Pi. Tagesmeldungen 1 Jul.-30 Sep. 1944; BA-MA, RH 2/663, fo. 0128, Oberbefehlschaber Südwest, bollettini mattinali dell’Ufficio operazioni Ia e bollettini dell’Ufficio informazioni Ic, giugno 1944; BA-MA, RH 2/9693 K, Morgenmeldungen, Lagerkarte (mappa) del 29 luglio 1944; BA-MA, RH 24-14/153: Armee-Pionierführer (A.Pi.Fü.). Pionier-Tagesmeldungen, messaggi e bollettini delle truppe del Genio, 1° luglio-30 settembre 1944.

Edoardo Lombardi (1994-2023) è stato dottore magistrale in Scienze storiche presso l’Università degli Studi di Firenze. Dal 2018 ha collaborato con l’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea di Pistoia (Isrpt), per il quale ha svolto attività di ricerca e di didattica sul territorio. Nel 2020 è entrato a far parte della redazione del periodico dell’istituto, «Farestoria. Società e storia pubblica». I suoi interessi di studio hanno riguardato soprattutto la storia culturale della Germania e dell’Italia in Età contemporanea. Per conto dell’Isrpt ha svolto una ricerca sull’occupazione tedesca di Pistoia. Tra i suoi lavori, segnaliamo “Uno stato senza nazione. L’elaborazione del passato nella Germania comunista” (Unicopli, 2022). 

Luca Cappellini è laureato in Scienze Storiche all’Università di Firenze ed è studioso dell’età contemporanea. È docente presso le scuole superiori Mantellate di Pistoia. Fa parte dell’Istituto Storico della Resistenza di Pistoia, dove è responsabile della biblioteca e con cui collabora come ricercatore e divulgatore. Ha pubblicato “Genova 2001. Una memoria multimediale” in «Farestoria», III, n.1, 2021; ha pubblicato con Stefano Bartolini e Francesco Cutolo “Public History: laboratori partecipativi e memoria pubblica”, in «Clionet», Vol. VII, (2023).




Le Scuole Leopoldine, scenario di violenze e anticamera della deportazione nei lager nazisti.

Nei resoconti che parlano della secolare storia delle Scuole Leopoldine di piazza Santa Maria Novella a Firenze, dove oggi si trova il Museo Novecento, difficilmente si scopre ciò che vi accadde nel 1944, quando l’edificio fu requisito dalle truppe germaniche di occupazione. Pochi sanno che qui, come reazione furente allo sciopero generale dei primi di marzo del 1944 indetto dal Comitato di Liberazione nazionale, furono concentrati, interrogati, registrati e quindi deportati nel lager nazista di Mauthausen le lavoratrici e i lavoratori scioperanti, arrestati dai militi della Repubblica Sociale Italiana insieme a persone rastrellate per strada in modo indiscriminato a Firenze e in provincia, in particolare nel pratese e nell’empolese[1].
Prima esplicita opposizione di massa al fascismo, questo sciopero è considerato dagli storici, per le sue dimensioni e ripercussioni, uno degli eventi più straordinari della resistenza civile europea. Alcune fonti stimano circa 500.000 aderenti. Gli organizzatori parlarono di un milione di partecipanti, le autorità nazifasciste di circa 200.000[2]. Le reazioni dei nazisti e dei fascisti repubblicani furono immediate. Nonostante la rinuncia ad eseguire l’ordine di Hitler di deportare il 20% degli scioperanti, derivante dalle condizioni in cui si trovavano le forze occupanti e dalla volontà di evitare azioni che avrebbero prodotto sollevazioni popolari ancora maggiori[3], i costi umani furono elevati, anche a causa della complicità e fattiva collaborazione della milizia fascista e di una parte dei dirigenti d’azienda.
Per i nazisti, ogni occasione di repressione e pretesto di rappresaglia era utile per deportare in massa uomini e donne in grado di lavorare a favore dell’industria bellica del Reich. Oltre a costituire un forte deterrente da possibili ulteriori azioni di lotta o resistenza civile, le deportazioni avevano infatti anche l’obiettivo di trasferire in massa manodopera da ridurre in schiavitù.
In Toscana[4], come nel resto dell’Italia centro-settentrionale, la repressione fu dura: i rastrellamenti furono indiscriminati, si arrestarono gli operai che avevano scioperato ma anche quelli che non avevano scioperato, nonché impiegati, professionisti e perfino ignari passanti[5]. I fascisti effettuarono i rastrellamenti a Empoli, a Prato e nel centro di Firenze, soprattutto nel rione di San Frediano. Del rastrellamento e «invio in Germania di alcune centinaia» troviamo traccia nel rapporto della Militärkommandantur (Comando militare) di Firenze del 13 marzo 1944, in cui si parla dell’arresto di «elementi perturbatori pericolosi» e si sottolinea «l’energico intervento delle autorità italiane». Inquietante è inoltre il riferimento alla preparazione di «liste»[6], che furono in effetti messe a punto da molte aziende in cui erano avvenute astensioni dal lavoro[7].
Centinaia furono i fermati in provincia, arrestati per strada, prelevati da casa o direttamente dalle fabbriche e rinchiusi in luoghi di raccolta (spesso nelle caserme dei Carabinieri o nelle Case del Fascio, a Prato nella Fortezza medievale del Castello dell’Imperatore, sede della Guardia Nazionale Repubblicana), dove avvennero le prime selezioni. Gli arrestati in provincia furono poi portati a Firenze con i pullman o con degli autocarri, e «scaricati» davanti al grande edificio delle Scuole Leopoldine in Piazza Santa Maria Novella, centro di raccolta regionale dove erano state già condotte le persone rastrellate in città. Molti sopravvissuti al loro ritorno dai lager hanno riferito del grande beffardo cartello che era affisso sul palazzo: «Operai volontari per la Germania».
Documenti originali che si trovano all’Archivio Storico del Comune di Firenze, emersi solo molto recentemente grazie alla collaborazione dell’Archivio stesso, attestano che le autorità tedesche di occupazione che avevano requisito l’edificio, lo avevano classificato come «Sammellager», cioè letteralmente ‘campo di raccolta’[8], facendo sì che anche questo edificio entrasse a far parte dell’articolato sistema concentrazionario nazista. Alle Scuole Leopoldine si svolsero nei giorni 7 e 8 marzo 1944 le prime schedature e i primi interrogatori da parte delle SS, aiutati da un interprete. Ebbe un ruolo importante anche il Reparto Servizi Speciali della RSI comandato dal criminale fascista Mario Carità, che molti testimoni dicono di aver visto in quei giorni nei corridoi e nelle aule dell’edificio. Alcuni fermati furono rilasciati grazie ad interventi vari, altri ancora riuscirono a fuggire. La mattina dell’8 marzo 1944 la piazza era gremita di persone alla ricerca di notizie dei propri familiari. Le donne, pur avendo partecipato in gran numero allo sciopero, vennero escluse dalla deportazione[9] e rilasciate, mentre 338 uomini furono portati nel pomeriggio alla stazione ferroviaria di Santa Maria Novella poco distante e, stipati nei vagoni piombati già predisposti, deportati nel lager di Mauthausen (dove arrivarono l’11 marzo) e nei suoi sottocampi, tra i più terribili dell’intero sistema concentrazionario nazista. Sopravvissero in 64, cioè il 19%.
Poco è pubblicato nei libri di storia locale sull’argomento delle Scuole Leopoldine come centro di raccolta degli arrestati nel marzo 1944, la cui vicenda è documentata al Museo della Deportazione e Resistenza di Prato[10]. Molto si trova però nella memorialistica, in particolare all’interno del corpus di interviste ad ex-deportati raccolte dal Prof. Andrea Devoto alla fine degli anni ’80 in collaborazione con l’ANED[11], l’Associazione Nazionale Ex-Deportati nei campi nazisti, nelle sezioni di Firenze, Prato, Empoli e Pisa, che si adopera da decenni per conservare la memoria della deportazione politica.
Il 6 marzo 2017, la Fondazione Museo della Deportazione e Resistenza di Prato, in collaborazione con l’ANED Toscana, l’Istituto Storico della Resistenza in Toscana, il Comune di Firenze/Museo Novecento e la Regione Toscana, ha realizzato per la prima volta negli spazi del Museo Novecento (Ex Scuole Leopoldine) un evento di approfondimento storico dal titolo La memoria di un luogo: marzo 1944, arresti e deportazione, cui è seguita la lettura teatrale, a cura del Teatro d’Almaviva, di brani di interviste a testimoni sopravvissuti ai lager. Tra queste si ricorda quella di Roberto Castellani, per molti anni presidente della sezione ANED di Prato:

Noi (di Prato) ci presero e ci portarono in Fortezza, lì dai repubblichini, poi ci prese un pullman e ci portarono in piazza Santa Maria Novella alle Scuole Leopoldine, la sera; s’arrivò lì e trovai altre persone che erano già state prese a Prato e tra questi ci trovai anche il Pitigliani, che lui era ebreo, pensi che situazione! Lo conoscevo. Disse «Oh Castellani, ci sei anche te?» E io ebbi un po’ di paura e dissi: «Icché ci fanno?» «Eh, non ci fanno nulla, stai tranquillo domani ci mandano via tutti, o forse, dice, ci manderanno a fare dei fossati a fare delle trincee». Viene la mattina presto un maresciallo delle SS e ci fanno un interrogatorio, persona per persona. Mi chiamano, e mi domandano «Te che hai fatto lo sciopero?» «Sì», I’avevo fatto, non avevo mica nulla da nascondere, dice «Che mestiere tu fai?» «Lavoro alle filande» «Va bene, lo sai, dice, che è proibito fare lo sciopero?» «Mah, io non lo so, mi dissero di fare festa e feci festa, ecco», e basta. Mi dissero «Vai via» e mi mandonno via; suppergiù le solite domande le fecero a tutti. La mattina dell’8 marzo arrivarono tanti altri, tanti tanti, più che la sera, furono presi nelle fabbriche…[12] .

Fiorello Consorti, altro testimone, ricorda:

E invece la mattina dissero: «Mettetevi lì!» Ci si mise lì, ce n’era degli altri: s’aspettò e poi ci portarono via. Fui uno degli ultimi ad essere preso, e ci portarono in fortezza … poi ci portarono a Firenze, in questa scuola qui, c’era scritto «Lavoratori volontari», un cartellone di propaganda … fanno come tutti, vede: loro fanno uguale: mettono i cartelli per far credere quello che vogliono ma invece non è in quella maniera. Ci scaricarono tutti lì, perché gli autobus li appoggiarono a quegli scalini, aprivano gli sportelli, un repubblichino fuori col mitra, e ci scaricarono tutti sul sagrato e ci misero dentro, e dentro c’era un cortile col loggiato[13].

Anche Alberto Ducci, per molti anni presidente della sezione ANED di Firenze, era stato portato alle Scuole Leopoldine. Questi i suoi ricordi:

E così la mattina ci han fermato in piazza Dalmazia a Firenze e ci hanno chiesto i documenti a tutti e tre: gli altri due li hanno rimandati, e me mi hanno detto che dovevo seguirli perché il prefetto mi doveva parlare. Questi documenti li han controllati in un elenco che avevano questi repubblichini, dopo di che mi han fatto salire su un camion militare, dove ho trovato altri repubblichini con tanto di mitra, e altri sventurati, una decina o 12, ci hanno portato giù alle Scuole Leopoldine in piazza Santa Maria Novella. C’erano tantissime persone, mi ricordo questo: di un certo Ballerini, di Campi, che fin dall’inizio cercò di farci un po’ di coraggio. Ricordo ci trovai un repubblichino di Bagno a Ripoli, un certo Calosi, e mi permisi di dirgli, «Guardi, la mi conosce, io non ho fatto nulla» e lui mi gridò che ero un traditore, insomma, e roba del genere, e quindi non ci fu nulla da fare: anzi, poi dissero che ci avevano messo nel gruppo delle facce sospette, giù, mentre si scendeva dalle aule che eravamo ai piani superiori, ci sistemarono a gruppi giù in questa specie di giardino al piano terra, e di lì dissero che eravamo delle facce sospette, ci fecero partire a gruppi, non mi ricordo, di 15, di 20, per farci salire sui camion, e quando passavamo davanti ci sputavano addosso, insomma, ce ne facevano di tutte[14].

Questo invece il racconto di un altro presidente della sezione ANED di Firenze, Mario Piccioli:

Fui preso, perché il giorno avanti presero mia madre che lavorava alla cartiera Cini in via Arnolfo. Lì c’era una grande fabbrica di cartotecnica e grafica, e appunto per gli scioperi che fecero furono prese diverse, che erano quasi tutte donne. E difatti la sera noi s’era a casa, e questa donna la ‘un tornava. E allora, che si fa, che non si fa? Dopo la mia zia ci avvisò che queste donne erano state portate alle Scuole Leopoldine in Piazza Santa Maria Novella. […] Quando siamo dentro alle scuole (un repubblichino) mi porta su; queste donne l’erano tutte in un’aula, no? e quelle altre erano piene di uomini che avevano preso da Prato, da Empoli, dalle fabbriche. Mi buttarono dentro un’aula con loro. Dopo un poco, gli fo a un carabiniere. «Per piacere, sento piangere, c’è una stanza dove ci sono delle donne, ci deve essere anche la mi’ mamma, sicché già che sono qui …». M’accompagnò. Difatti c’erano tutte le donne della fabbrica e c’era anche mia madre ma passarono solo due minuti perché mi sentii riacchiappare per il colletto e portare via. Poi mi portarono da una signorina a una macchina da scrivere, era tedesca, ma parlava un poco d’italiano, e ci chiedeva i connotati e scriveva. Verso mezzogiorno ci dettero, a quell’epoca c’era i filoncini lustri di 300 grammi, un filoncino per uno e un pochino di formaggio. Allora si cominciò a dire, non ci lasciano andare, perché ci danno da mangiare! E difatti dopo un po’ venne uno della milizia: «Voi traditori della patria pagherete caro!». Chiamarono 20 di noi, io non c’entrai fra questi, loro andarono via e noi si aspettò. Dopo quello della milizia ritorna, la solita musica: altri 20 e io entrai in questa mandata. La piazza era piena e c’era preparato un camion con quattro Tedeschi, uno per lato, e noi 20 ci buttarono sopra; imboccarono da piazza Santa Maria Novella, quella stradina lì, Via degli Avelli, poi al bagagliaio della stazione dalla parte di dietro, di via Alamanni. Salirono su con questo camion e s’andette proprio dentro alla stazione. E lì c’era un mare di Tedeschi, una tradotta bell’e preparata, tutto il convoglio, e ci buttarono dentro un vagone bestiame[15].

Tra gli arrestati c’era inoltre Piero Scaffei, che a proposito delle vicende del marzo 1944 ricorda:

Ecco, una volta entrato nelle Scuole Leopoldine, dove c’è gli archi, dove ora c’è la nostra lapide, non si riuscì più. Mi presentai lì, c’era una signorina a un tavolo, tedesca, non so, o italiana che parlava il tedesco, questo non lo so. Dalle Scuole Leopoldine montai sul camion anch’io e mi portarono alla stazione di Santa Maria Novella […]. C’era i carri bestiame già tutti pronti, brum. Carri bestiame, niente, nudi e crudi. Tutti s’aspettava, tutti pensavano, «Ci manderanno a Cassino a fare trincee” perché il fronte era a Cassino in quel momento. Poi quando vidi che si andava verso Prato dissi “ma qui si va in su, si va al nord»[16].

È importante che cittadini, turisti e studenti conoscano questo luogo della memoria, poco noto come tale. Nonostante una piccola targa, posta sulla parete interna del loggiato, renda il giusto omaggio alle vittime, occorre spiegare cosa avvenne al suo interno. La memoria passa infatti anche attraverso la conoscenza di edifici che, come questo, furono scenario di persecuzione e anticamera dell’estrema violenza e della morte nei lager.

 

Note

1. Si veda sul tema il saggio da cui sono tratte parti del presente contributo: C. Brunelli e G. Nocentini, La deportazione politica dall’area Firenze, Prato ed Empoli, in Il libro dei deportati. Volume II. Deportati, deportatori, tempi, luoghi, a cura di B. Mantelli, Mursia, Milano 2010, pp. 620-658.
2. L’importanza dello sciopero fu compresa già allora dalla stampa statunitense. Il 9 marzo 1944 il “New York Times” (che parlò di svariati milioni di scioperanti) scrive: «In fatto di dimostrazioni di massa non è mai avvenuto nulla di simile nell’Europa occupata che possa somigliare alla rivolta degli operai italiani». Anche il giudizio degli storici dei nostri tempi non differisce molto da questa analisi: «Come dimostrazione politica, lo sciopero generale ebbe una grandissima importanza. Fu la più grande protesta di massa con la quale dovette confrontarsi la potenza occupante: attuata dimostrativamente senza aiuti dall’esterno, senza armi ma con grande energia e sacrifici. Fu il più grande sciopero generale compiuto nell’Europa occupata dai nazionalsocialisti». Si veda L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia 1943-1945, Bollati Boringhieri, Torino 1996, p. 225.
3. Ivi, pp.221-222. Si veda anche, a questo proposito E. Collotti, L’occupazione tedesca in Toscana, in Storia della Resistenza in Toscana, vol. I., a cura di M. Palla, Carocci, Roma 2006, pp. 85-146.
4. Per maggiori informazioni sugli scioperi in Toscana si rinvia a: F. Taddei, Il Pignone di Firenze 1944/1954, La Nuova Italia Editrice (Toscana Sindacato), Firenze 1980; in particolare L. Malgalaviti, Il Pignone tra Resistenza e ricostruzione, pp.119-144, che a p.128 testimonia come alle famiglie dei deportati il Pignone avesse inviato il 27 marzo 1944 lettere di licenziamento per «assenza arbitraria dal lavoro». Si vedano inoltre: L. Mancini, Le sigaraie: lavoro e organizzazione produttiva nella Manifattura tabacchi di Firenze fra Resistenza e dopoguerra, in Ricerche storiche, Edizioni Polistampa, Firenze gennaio-aprile 2004; Era la Resistenza. Il contributo di Empoli alla lotta contro il fascismo e per la liberazione, a cura di P. L. Niccolai e S. Terreni, Giampiero Pagnini Editore, Firenze 1995; M. Carrai, Lotte sindacali e democrazia: 1919-1948, p. 122, in La tradizione antifascista ad Empoli 1919-1948, atti del convegno (Empoli, 23 aprile 2004), a cura di P. Pezzino, Pacini Editore, Pisa 2005; M. Di Sabato, Il sacrificio di Prato sull’ara del Terzo Reich, Editrice Nuova Fortezza, Livorno 1987.
5. Gli stessi occupanti, nel rapporto della Militärkommandantur di Firenze del 13 aprile 1944 a poco più di un mese dal giorno della deportazione, ammisero che «un notevole numero (…) di italiani, del tutto innocenti, è stato deportato in Germania senza ragione». Toscana Occupata. Rapporti delle Militärkommandanturen, introduzione di M. Palla, Leo S. Olschki, Firenze 1997, p.143.
6. «Incitati dalla propaganda nemica e inaspriti dalla penuria di generi alimentari i lavoratori hanno tentato di scioperare anche nella provincia di Firenze, particolarmente a Prato, ad Empoli e nella stessa Firenze in diverse fabbriche. L’energico intervento delle autorità italiane, sollecitate dal Comando militare, e in particolar modo l’invio in Germania di alcune centinaia tra gli elementi perturbatori più pericolosi hanno fatto sì che l’agitazione ben presto rientrasse e il lavoro venisse ripreso. Attualmente nelle aziende nelle quali si è scioperato si preparano liste di nominativi degli scioperanti e tra questi si segnalano in particolar modo i sobillatori, allo scopo di poter disporre di materiale per arresti per future occasioni». Ivi, p. 116.
7. Esempi di liste con nomi di operai scioperanti sono conservate in copia al Museo e Centro di documentazione della Deportazione e Resistenza di Figline di Prato.
8. Si veda presso l’Archivio Storico del Comune di Firenze (ASCFi), Fondo Scuole Leopoldine, Affari spediti 1944, coll. SL 91, in particolare il documento a firma del tenente colonnello della Wehrmacht Gieseke del Comando germanico di Piazza di Firenze riguardante la «Requisizione di edifici per scopi di impiego nel lavoro» (Arbeitseinsatzzwecke). Di seguito la traduzione testuale della lettera datata 2 marzo 1944: «Le Scuole Leopoldine a Firenze Piazza Santa Maria Novella n. 10 sono da subito requisite per la Wehrmacht tedesca. La scuola è a disposizione della sezione amministrativa militare del lavoro come campo di raccolta (Sammellager) per manodopera italiana destinata al trasferimento in Germania».
9. Si veda il racconto di Mario Piccioli, contenuto in M. Piccioli, Da San Frediano a Mauthausen, a cura di B. Confortini, comune network, Firenze 2007.
10. Il museo, voluto fortemente dai sopravvissuti pratesi ai lager di Mauthausen ed Ebensee e inaugurato il 10 aprile 2002, è una delle poche strutture in Italia ad essere dedicata in modo specifico alla memoria della deportazione nei campi di concentramento e di sterminio nazisti.
11. cfr. La Speranza Tradita. Antologia della deportazione politica toscana, a cura di I. Verri Melo, Pacini Editore, Giunta regionale Toscana, Firenze 1992, con un’appendice inserita nella seconda edizione del febbraio 2014, a cura della Fondazione Museo della Deportazione e Resistenza di Prato con le biografie dei testimoni intervistati, tra cui quelle che seguono nelle note.
12. Operaio al lanificio San Martino di Prato, fu arrestato in piazza San Francesco a Prato il 7 marzo 1944 nell’ambito di una retata effettuata in seguito agli scioperi. Come molti altri pratesi, Castellani si era recato nel centro cittadino per verificare gli effetti di un bombardamento alleato che si era abbattuto sulla città. Detenuto nella Fortezza di Prato (sede della Guardia Nazionale Repubblicana) e alle Scuole Leopoldine di Firenze, a Mauthausen fu classificato come deportato politico (Schutzhaft), ricevendo il numero di matricola 57.027. Il 25 marzo 1944 venne trasferito al sottocampo di Ebensee dove fu assegnato ad una squadra che curava i giardini delle SS. Successivamente, dopo aver disertato il lavoro per restare accanto ad un amico malato, fu inviato per punizione a lavorare nelle gallerie. Liberato ad Ebensee il 6 maggio 1945 dall’esercito americano, è stato un testimone instancabile, prodigandosi per l’istituzione del gemellaggio della pace tra Prato ed Ebensee e per la creazione del Museo della Deportazione di Prato. R. Castellani, Intervista del 20 aprile 1988, in Fonti, 4. 9. 14. 16. 20. 28.
13. Rivedibile alla visita di leva, Fiorello Consorti lavorava come operaio in una ditta tessile a Prato. Arrestato da un carabiniere e dai militi della Guardia Nazionale Repubblicana l’8 marzo 1944 in via Mazzoni, fu detenuto nella Fortezza di Prato (sede GNR) e alle Scuole Leopoldine di Firenze. Arrivato a Mauthausen, fu classificato come deportato politico (Schutzhaft), ricevendo il numero di matricola 57.076. Trasferito al sottocampo di Ebensee, dove fu assegnato al lavoro nelle gallerie come operaio semplice, fu liberato il 6 maggio 1945 dagli americani. F. Consorti, Intervista del 24 giugno 1988, in Fonti, 4. 9. 14. 16. 20.
14. Ducci, che al momento dell’arresto lavorava come operaio, fu classificato come deportato politico (Schutzhaft) a Mauthausen, dove ricevette il numero di matricola 57.101. Il 25 marzo 1944 venne trasferito ad Ebensee, dove lavorò dapprima all’ampliamento del campo e successivamente nelle gallerie. Liberato il 6 maggio 1945 dall’esercito americano, si è adoperato attivamente per tenere viva la memoria della deportazione. A. Ducci, Intervista del 22 marzo 1988, in Fonti 4. 9. 16. 19. 20.
15. Commesso in una pizzicheria, Piccioli fu arrestato la mattina dell’8 marzo 1944 da un agente in borghese della Guardia Nazionale Repubblicana in piazza Santa Maria Novella, dove si era recato per cercare la madre, arrestata la sera prima per aver partecipato allo sciopero e reclusa nel centro di raccolta alle Scuole Leopoldine. La madre fu rilasciata insieme alle altre donne. Mario invece fu deportato lo stesso giorno nel campo di concentramento di Mauthausen. Numero di matricola 57.344, fu classificato come deportato politico (Schutzhaft). Il 25 marzo 1944 venne trasferito ad Ebensee, dove fu assegnato al lavoro nelle gallerie come operaio semplice. Il 10 settembre 1944 venne trasferito nel sottocampo di Linz III e impiegato in lavori esterni, soprattutto nel trasporto merci. Durante un bombardamento alleato alla fine del 1944 il rifugio della sua squadra di lavoro venne colpito. Di trentadue uomini se ne salvarono solo quattro, tra cui Mario, che, ferito ad una gamba, fu trasferito in infermeria. Liberato il 5 maggio 1945 dall’esercito americano, si è adoperato attivamente per tenere viva la memoria della deportazione. M. Piccioli, Intervista del 28 gennaio 1988, in Fonti 4. 8 n.3-5/2010. 9. 16. 20. 23. 28.
16. Arrestato l’8 marzo 1944 in piazza Santa Maria Novella, Scaffei fu deportato lo stesso giorno. Classificato come deportato politico (Schutzhaft), ricevette il numero di matricola 57.399. Il 25 marzo 1944 venne trasferito ad Ebensee, dove lavorò come manovale all’esterno delle gallerie. Il 16 maggio 1944 fu ricoverato in infermeria in seguito ad un’infezione alla mano e successivamente trasferito nel Sanitätslager (infermeria) di Mauthausen. Probabilmente a metà agosto 1944 venne nuovamente trasferito a Linz III. Liberato il 5 maggio 1945 dall’esercito americano, si è adoperato attivamente per tenere viva la memoria della deportazione. P. Scaffei, Intervista del 21 gennaio 1988, in Fonti 4. 9. 16. 20.




La Repubblica sociale italiana e il primo neofascismo toscano

Il recente convegno «Le fiamme dal basso». Neofascismo e destre estreme in provincia: protagonisti, strutture, prospettive di ricerca, organizzato il 19-20 ottobre 2023 dall’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea “Vittorio Meoni” di Siena, ha riportato al centro del dibattito storiografico l’importanza della dimensione locale nello studio dei neofascismi, evidenziando le potenzialità di questo approccio per meglio indagare, nella loro concretezza, culture, prassi politiche e classi dirigenti dell’estrema destra italiana[1]. Il presente contributo, sintetizzando la relazione discussa in quella sede, cerca quindi di riflettere su come l’esperienza combattentistica ed esistenziale di Salò abbia contribuito a definire, nei primi anni del dopoguerra, i tratti identitari e la cultura politica del neofascismo toscano e, in special modo, del neonato Movimento sociale italiano (MSI), che dell’ultimo fascismo avrebbe raccolto l’eredità materiale oltre che ideale.

Il caso toscano appare in tal senso un terreno d’indagine particolarmente fecondo, tanto per il peso storico assunto dal fascismo nella regione quanto poi per le oggettive difficoltà ambientali che avrebbero caratterizzato la ripresa neofascista in un contesto sociale e politico ben diverso da quello del Centro-Sud Italia, principale bacino di voti e di affermazione del MSI. Un aspetto, quest’ultimo, che ha fortemente condizionato la disponibilità odierna di fonti interne al partito, pressoché assenti per le province toscane, e che ha costretto a rivolgersi primariamente verso fonti di polizia, non prive di limiti e criticità ma rivelatesi, specie in taluni contesti, estremamente preziose e in parte ancora inesplorate (Parlato 2020, pp. 15-21).

Ciò detto, va altresì notato come l’esperienza del fascismo repubblicano abbia assunto nella regione tratti per molti versi peculiari: dettati non solo e non tanto dalla folta presenza di gerarchi toscani nella compagine di governo saloina, capaci a loro volta di mobilitare una fitta rete clientelare locale, quanto piuttosto perché in questo spazio si impongono e sovrappongono, tra il 1943 e il 1944, contesti di occupazione, guerra civile e scontro aperto tra eserciti in lotta, che dilaniarono un tessuto sociale già duramente colpito dallo stragismo fascista e nazista. Lo sfollamento di migliaia di fascisti toscani al di là della linea Gotica, fuggiti nell’estate del 1944 dinanzi all’avanzata alleata, avrebbe infine reso ancor più dolorosa e traumatica la prospettiva di una sconfitta ormai imminente (Mazzoni 2006; Rossi 2000).

All’indomani della Liberazione, lo straniamento per la perdita di ogni riferimento politico e ideale si associava quindi, per molti fascisti di Salò, alla difficile prova del carcere e dell’internamento così come all’apertura di procedimenti giudiziari ed epurativi che avrebbero indelebilmente segnato – al di là degli esiti contradditori di tale processo – il vissuto e la memoria dei vinti. Parallelamente, il brusco rientro alla vita civile verrà poi a caratterizzarsi per l’ostracizzazione delle proprie comunità, talvolta sfociata in forme di giustizia sommaria volte a sfogare la rabbia della popolazione per le privazioni e i lutti subiti durante il conflitto (Dondi 1999, pp. 91 sgg.; Martini 2019, pp. 77-95).

È in questo contesto che maturava quindi l’esigenza quasi istintiva di «ritrovarsi», di «riconoscersi» tra ex-commilitoni, tentando di reagire di fronte a un paese ormai percepito come estraneo. Già nei mesi a cavallo tra il 1945 e il 1946, le carte di polizia testimoniano anche in Toscana l’attivarsi di alcune prime cellule neofasciste, spesso animate da giovani e giovanissimi legati all’esperienza della RSI e impegnate, solitamente, in azioni poco più che dimostrative quali imbrattamenti con scritte murarie, apposizione di emblemi fascisti e diffusione di manifestini esaltanti il fascismo repubblicano – il “vero fascismo” non inquinato dai compromessi imposti dal regime – e prospettanti la punizione verso i “traditori”, padroni ora del campo. Iniziative incapaci di superare la «soglia della testimonianza» ma non per questo prive di significato per la più amplia platea di nostalgici e reduci (Mammone 2005, pp. 263-269, Tonietto 2019, pp. 95 sgg.).

Particolarmente interessante è il ricercato simbolismo che in diversi casi assumono queste prime manifestazioni: colpisce, per fare un esempio, l’operato di una presunta cellula delle Squadra d’Azione Mussolini (SAM) attiva a Firenze, che nella notte tra il 27 e il 28 aprile 1946, primo anniversario della morte del duce, riusciva ad apporre una bandiera tricolore recante il fascio repubblicano sulla torre di Maratona dell’odierno stadio Artemio Franchi – già intitolato al martire fascista Giovanni Berta – laddove nel marzo 1944 erano stati fucilati cinque renitenti alla leva condannati dal tribunale militare di Firenze. Altrettanto esplicite erano le scritte rinvenute nel luogo dell’eccidio, che si richiamavano alla dimensione mitopoietica del martirologio fascista quale esempio per i superstiti e le future generazioni[2].

 

 

Ci muoviamo, com’è evidente, entro un immaginario nel quale la memoria bruciante della guerra civile e della disfatta avrebbe alimentato un pervasivo «culto della vendetta», rappresentando al contempo un tenace strumento identitario per lo sparso universo neofascista, incapace di rassegnarsi alla sconfitta politica e morale patita dal fascismo (Panvini 2017, pp. 156-158). Solo in taluni casi tuttavia, l’attività di questi primi gruppi clandestini avrebbe assunto una qualche consistenza numerica: è il caso di Pisa, dove un gruppo di studenti universitari, diversi dei quali reduci dal campo di prigionia di Coltano, veniva a riunirsi agli inizi del 1946 attorno alla carismatica figura di Rutilio Sermonti, già ufficiale della divisione SS italiana e destinato a una lunga militanza tra le fila del MSI e quindi nelle formazioni dell’estrema destra extra-parlamentare. Interessante soffermarsi sulle dinamiche aggregative del gruppo e sull’autorappresentazione fornita da questi giovani reduci, particolarmente importante per i futuri sviluppi politici dell’organizzazione neofascista.

 

Tutti furono concordi nell’affermare – riferiva il prefetto di Pisa – che, ritornati dopo la liberazione del Nord […], si erano sentiti accumunati nello stesso sentimento di unirsi, considerandosi ormai dei relitti di una società travolta dalla disfatta e che lo scopo delle loro riunioni si concretava nella necessità di sorreggersi scambievolmente, di trovare un partito che […] potesse […] permetter loro di concorrere alla resurrezione del Paese.

 

Posizione ribadita dallo stesso Sermonti, che in sede di interrogatorio chiariva come

 

a Pisa continuai a coltivare le amicizie con i miei compagni d’arme e di fede politica. La nuova politica fatta dai partiti di sinistra contro i fascisti aveva accumunati noialtri che […] ci sentivamo estraniati completamente dalla vita politica italiana. Fu così che sorse in me il proposito di riunire, in qualche […] movimento la maggior parte dei fascisti da me conosciuti[3].

 

Non a caso, i primi tra cui si cerchi di fare proselitismo erano proprio ex-commilitoni già internati a Coltano, sfruttandone poi la rete di conoscenze per tentare di ampliare il raggio d’azione del gruppo nelle province limitrofe. Indizi questi che confermano l’importanza che tanto la traumatica prova della guerra civile quanto quella, altrettanto sofferta, della prigionia o dell’internamento avrebbero rappresentato per i reduci di Salò e, più in generale, per l’immaginario neofascista, rinsaldando il senso di «continuità» con il recente passato e cementando, al contempo, forti sentimenti anticomunisti e antidemocratici (Parlato 2006, pp. 117 sgg.)

In questo scenario, la nascita del MSI verrà quindi a svolgere un importante ruolo di catalizzatore e di aggregazione per gli ex-fascisti, rappresentando in un contesto ambientale particolarmente ostile una nuova prospettiva politica entro cui far coesistere, pur non senza attriti, i diversi volti del neofascismo. Siamo di fronte, anche nel caso toscano, a una comunità inizialmente formata per la gran parte da reduci del conflitto mondiale e dell’esperienza di Salò; un vissuto che avrebbe rappresentato una tappa qualificante nella socializzazione politica dei quadri intermedi e inferiori del MSI, spesso costituiti da uomini relativamente giovani – nuovi quindi a qualche un impegno politico – o, laddove già attivi nelle organizzazioni del fascismo, confinati in posizioni defilate e in tal senso più facilmente spendibili nello scenario politico postbellico (Borri 2013, pp. 83-84).

Si pensi al caso senese, dove il movimento missino si strutturava attorno a Giovanni Viti, già fascista repubblicano fuggito nel Nord Italia e circondatosi da numerosi ex-commilitoni a loro volta attivi tra le schiere del PFR. Ma anche a Livorno i primi «organizzatori» e «aderenti» al MSI erano «tutti ex fascisti ed ex appartenenti alla Repubblica di Salò», nella cui sede, perquisita dagli agenti della Questura, campeggiava accanto all’effige del duce un ritratto del maresciallo Graziani, già ministro delle Forze armate della RSI e tra i “padri nobili” del partito della fiamma. Parallelamente, la sezione pistoiese vedeva tra i suoi primi animatori diversi ex-prigionieri di guerra, tra cui lo stesso segretario Alix Fiaschi, rimpatriato agli inizi del 1947 e spesosi immediatamente per l’organizzazione del nuovo partito. Un’esperienza, quella della prigionia e della “non collaborazione” con gli Alleati che avrebbe segnato – non a caso – il destino politico di altre figure di spicco del MSI toscano, quali Danilo Ravenni, per molti anni ispettore regionale e tra i fondatori del partito in Lucchesia, e Giuseppe Niccolai, dirigente di punta del MSI a Pisa e quindi deputato dal 1968[4].

Nei primi mesi del 1947 muoveva i primi passi anche la federazione fiorentina, inizialmente guidata dal colonnello in congedo Mario Fani. In questo caso, il tentativo di uscire dall’anonimato si concretizzata con l’organizzazione del cosiddetto “giornale parlato”, trasmesso ogni domenica mattina a partire dal 4 maggio 1947 dagli altoparlanti posti presso la sede del MSI, nel centro storico cittadino. Un appuntamento presto trasformatosi in occasione di scontri, anche piuttosto violenti, con gli oppositori e il cui risalto mediatico era abilmente sfruttato dagli organizzatori missini per “rioccupare” un pur marginale spazio politico e testimoniare a un più ampio pubblico i propri sforzi, denunciando al contempo le spinte antidemocratiche e antinazionali del partito comunista. Le trascrizioni degli interventi letti in queste occasioni, conservate nei fascicoli della Questura fiorentina, offrono importanti elementi per indagare l’orizzonte politico-culturale del primo neofascismo toscano. In particolare, nel testo letto in apertura del primo “giornale parlato”, l’oratore esordiva ricordando come «il MSI è nato dopo l’aspra prova della guerra e della disfatta», resa possibile da coloro che «ponendosi contro il proprio Paese in guerra, ne ha sabotato lo sforzo e […] ha voluto assassinare la propria Nazione». All’opposto, i militanti neofascisti si presentavano ribadendo come «noi siamo dei soldati, reduci, ex combattenti dei vari fronti [di guerra]», e dunque «uomini d’onore» che con la propria coerenza ideale avrebbero posto «sopra ogni altra Idea, […] il culto e l’idea di Patria» [5].

Quello che si presenta ai fiorentini ad appena due anni dalla fine del conflitto è dunque un partito dichiaratamente ancorato all’esperienza della guerra e della guerra civile, mosso da un immaginario venuto a radicalizzarsi di fronte al fallimento militare del fascismo, al cedimento del fronte interno e quindi nelle cupe atmosfere della RSI. Una retorica attraverso la quale i confini tra guerra e dopoguerra finivano per annullarsi e che pur rivolgendosi, in prima battuta, a coloro che quella guerra avevano combattuto e perso, tentava al contempo di gettare un ponte tra le diverse anime del neofascismo, difendendo le ragioni della guerra, agitando lo spettro anticomunista e richiamandosi alla «rivoluzione» in campo sociale tentata dal fascismo repubblicano.

Sintomatico inoltre il fatto che di fronte all’offensiva governativa imbastita a partire dal 1950 contro il partito della fiamma, le federazioni toscane tornassero a fare appello a questo patrimonio simbolico e identitario, anche nel tentativo di rinsaldare un’organizzazione partitica segnata da crescenti contrasti interni che – semplificando – vedevano contrapporsi la compagine più “istituzionale” legata alla segreteria di De Marsanich a quella “intransigente”, solitamente rappresentata dalle componenti giovanili e reducistiche (Tonietto 2019, pp. 203-259). In una serie di manifesti affissi in diverse città toscane, i dirigenti missini locali difendevano quindi la legittimità politica del proprio partito, richiamandosi all’eredità del «sangue versato» nella «sfortunata guerra perduta»: nel partito della fiamma, ribadiva con orgoglio il segretario della sezione pratese, militavano infatti «tutti i soldati [dell’]onore, i reduci di tutte le guerre, quindi i Combattenti di Spagna e di Russia» che avevano combattuto per «difende[re] la civiltà occidentale», al contrario di coloro – primi fra tutti gli esponenti della Democrazia Cristiana – che avrebbero «diserta[to] il campo» tradendo così la causa italiana, nel tentativo di «ingraziar[si] le belve scarlatte per avere, in un probabile futuro, […] salva la pellaccia»[6].

La memoria della RSI, della guerra civile e più in generale della sconfitta – di una disfatta militare ma non morale – avrebbe dunque rappresentato nel dopoguerra un collante importantissimo per tenere assieme la comunità politica e umana del MSI, fornendo una risorsa identitaria estremamente tenace e pervasiva cui ancorare la sopravvivenza della comunità dei vinti, specie in quei contesti – quali appunto la Toscana – dove il partito missino avrebbe sperimentato un’esistenza a lungo marginale e certamente precaria. In tal senso, la dimensione locale da modo di scandagliare nuovi percorsi d’indagine capaci di ampliare il nostro sguardo tanto sulle traiettorie di più lungo periodo del neofascismo, durante e dopo la guerra mondiale, ma anche sulla “riproduzione” e gli adattamenti che l’immaginario della RSI avrebbe avuto nella cultura politica dell’estrema destra italiana.

 

Riferimenti bibliografici:

 

– M. Borri, Il movimento sociale italiano in Toscana, dalla nascita al congresso di Viareggio. Appunti per una ricerca, in «Società e storia», (2023), n. 179, pp. 63-89.

 

– M. Dondi, La lunga liberazione. Giustizia e violenza nel dopoguerra italiano, Editori Riuniti, Roma 1999.

 

– A. Mammone, Gli orfani del duce. I fascisti dal 1943 al 1946, in «Italia contemporanea», (2005, b. 239-240, pp. 249-274.

 

– A. Martini, Dopo Mussolini. I processi ai fascisti e ai collaborazionisti (1944-1953), Viella, Roma 2019.

 

– M. Mazzoni, La Repubblica sociale italiana in Toscana, in M. Palla (a cura di), Storia della Resistenza in Toscana, Vol. I, Carocci, Roma 2006, pp. 147-187.

 

– G. Panvini, L’altro dopoguerra: i neofascisti e la legittimazione della violenza politica nell’Italia repubblicana, in E. Acciai, G. Panvini, C. Poesio, T. Rovatti (a cura di), Oltre il 1945. Violenza, conflitto sociale, ordine pubblico nel dopoguerra europeo, Viella, Roma 2017, pp. 153-166.

 

– G. Parlato, Fascisti senza Mussolini. Le origini del neofascismo in Italia, 1943-1948, Il Mulino, Bologna 2006.

 

– G. Parlato, Destra e neofascismo in Italia. Il contributo della storia locale, in L. La Rovere (a cura di), I “neri” in una provincia “rossa”. Destre e neofascismo a Perugia dal dopoguerra agli anni Settanta, Foligno, Editoriale Umbra, 2020, pp. 15-21.

 

– A. Rossi, Fascisti toscani nella Repubblica di Salò 1943-1945, BFS, Pisa 2000.

 

– N. Tonietto, La genesi del neofascismo in Italia. Dal periodo clandestino alle manifestazioni per Trieste italiana. 1943-1953, Le Monnier, Firenze 2019.

 

Note

 

[1] Gli atti del convegno sono in corso di pubblicazione. Per la registrazione dell’evento vedi la sezione “Multimedia” presente in questa pagina.

[2] Sull’episodio vedi la documentazione raccolta in Archivio centrale dello Stato, Ministero dell’Interno (ACS, MI), Gabinetto, 1944-46, b. 188, fasc. 21017.

[3] Ivi, b. 203, fasc. 21856, Relazione del prefetto di Pisa, 10 aprile 1946 e Interrogatorio di Rutilio Sermonti, 14 marzo 1946. Ai primi di marzo 1946, molti dei componenti del gruppo erano individuati e arrestati dalla questura pisana prima di poter intraprendere una qualche concreta attività.

[4] Sulla prima organizzazione del MSI toscano si vedano in particolare i fascicoli raccolti nelle serie annuali del Gabinetto del ministero dell’Interno e della Direzione generale per la Pubblica sicurezza, conservati presso l’Archivio centrale dello Stato.

[5] Archivio di Stato di Firenze, Gabinetto di Questura (vers. 1963), ctg. A4b, b. 54, fasc. Movimento sociale italiano-Manifestazioni varie, Chi siamo e cosa volgiamo, s.d. [ma maggio 1947].

[6] Le citazioni sono tratte da alcuni manifesti affissi nel 1950 a Prato e a Pisa, conservati in ACS, MI, PS 1951, b. 36, fasc. K12-Firenze e Ivi, PS 1953, b. 40, fasc. K12-Pisa.




La solitaria impresa di Mario Bonacchi

La figura del comandante è spesso decisiva per la vita di una formazione partigiana. Un capo autorevole e carismatico che unisce all’abilità di condurre la guerriglia anche qualità di natura etica come il coraggio e lo spirito di sacrificio può fare la differenza. Un uomo con queste caratteristiche è sicuramente il primo comandante delle squadre armate lucchesi, Roberto Bartolozzi, che però, alla fine di giugno 1944, viene ucciso dai fascisti in un agguato. Proprio la consapevolezza dell’importanza per un capo di dare l’esempio ai suoi uomini, così come per mesi ha fatto Bartolozzi, spingerà il suo successore a essere protagonista di un’iniziativa tra le più audaci nella storia della Resistenza armata a Lucca.

Castelnuovo di Garfagnana, domenica 20 agosto 1944.

Silla Turri, da alcuni giorni a capo del locale distaccamento della XXXVI Brigata nera “B. Mussolini” e commissario prefettizio del Comune, si trova nella sala consiliare della Rocca ariostesca. Non sa che nel corso della notte alcuni partigiani della Brigata garfagnina della Divisione Garibaldi Lunense hanno piazzato una bomba a orologeria sotto la pedana del tavolo riservato al podestà. Tuttavia, Turri non è seduto al suo posto. Così, quando l’ordigno esplode, a rimanere ucciso è il sergente della Brigata nera Giovanni Battaglini. Turri rimane ferito e con lui altre due Camicie nere, Giulio Tamburi e Antonio Broglio detto “Zacchia”, oltre all’impiegato comunale Francesco Simonetti.

Vengono subito arrestate e tradotte al carcere di San Giorgio a Lucca diverse persone, tra cui un manovale quarantunenne appartenente al III Battaglione della Brigata garfagnina della Lunense, Giorgio Giorgi, e un’impiegata del Comune, Luciana Bertolini, accusata di aver dato le chiavi della sala ai partigiani. Il giorno successivo ai due si aggiunge anche Gina Gualtierotti: è fidanzata con Michele Bertagni, fratello di Giovanni Battista comandante proprio del III Battaglione. È in realtà quest’ultimo il vero obiettivo dei fascisti: ventitré anni, di Pieve Fosciana, ha combattuto sul fronte balcanico e dopo l’armistizio è rientrato in Garfagnana. A metà giugno 1944 si aggrega a una neonata formazione armata che si è costituita a Careggine e che sarà l’embrione della futura Garibaldi Lunense. In meno di due mesi, egli trova il modo di portare a termine diverse azioni di sabotaggio e, per la fantasia e il clamore che esse suscitano, il gruppo da lui comandato diventa ben presto noto anche tra la popolazione civile come “Battaglione Casino”. Così, quando c’è da trovare un responsabile dell’attentato a Turri, le indagini puntano subito nella direzione di Giovanni Battista Bertagni.

Lucca, mercoledì 23 agosto 1944

Il CLN di Castelnuovo informa degli arresti Pietro Mori, del Comitato Militare del CLN comunale di Lucca e questi coinvolge il Plotone Questura: già da alcuni mesi si è formato, in seno alla Questura di Lucca, un gruppo di effettivi e ausiliari che partecipa alla lotta partigiana cittadina come una sorta di quinta colonna, soprattutto controllando l’attività delle truppe tedesche e delle autorità repubblicane e informandone il CLN. Ne è a capo il tenente Luigi Giusti che, peraltro, proprio quel giorno sta sostituendo il questore Carlo Alberto Gusmitta: grazie a questa circostanza viene a sapere che Bertolini, Giorgi e Gualtierotti sono in procinto di essere fucilati. Capisce che non c’è tempo da perdere: qualcuno deve agire prima che qualcuno dei tre catturati parli o che la sentenza di morte sia eseguita.

Il Plotone Questura è inquadrato nella formazione partigiana comandata, da un mese e mezzo, da Mario Bonacchi. Ventisette anni, reduce dalla campagna di Russia, dai primi mesi del 1944 guida il gruppo del quartiere di Sant’Anna. Dopo l’uccisione di Roberto Bartolozzi, il CLN lucchese ha affidato a lui la riorganizzazione e il comando dei partigiani lucchesi. Pertanto, Giusti si rivolge a Bonacchi per organizzare in poche ore una spedizione che liberi le persone catturate e a rischio uccisione. Il piano è tanto semplice quanto rischioso e si basa su un finto ordine di scarcerazione a scopo di interrogatorio con tanto di timbro della Brigata nera e firma falsa del tenente Carlo Dinelli. Ci vuole però qualcuno che entri in carcere travestito da milite della Brigata: sarà Bonacchi stesso.

Lucca, giovedì 24 agosto 1944, ore 18

Il capo partigiano, procuratosi una divisa da brigatista, la camuffa sotto una giacca blu, nasconde il mitra e l’elmetto in una borsa di paglia e si avvia in bicicletta verso San Giorgio. Una volta arrivato vicino al carcere, incontra Anna Maria Nardi: le lascia la borsa e la giacca blu e la trasformazione in milite fascista è completata; un’altra partigiana, Wilma Franceschini, è appostata in via San Giorgio, mentre Enzo e Guglielmo Bini (padre e figlio) sono davanti al carcere per segnalare eventuali pericoli.

Bonacchi entra dunque con il suo mitra in carcere e presenta il documento di scarcerazione: il secondino, dopo avergli ordinato di deporre l’arma, lo accompagna nell’ufficio competente. Bonacchi esegue, ma il timore di trovarsi disarmato di fronte a qualche vero milite della Brigata nera è forte. È fortunato: prima che qualcuno si accorga dell’inganno, i tre detenuti vengono portati da lui. Il quartetto si può dirigere ora verso l’esterno, con il capo partigiano che ancora non può svelare la sua vera identtià e sempre con il timore di venire scoperto. Ancora una volta tutto va bene e gli viene restituito il mitra. Una volta fuori dal carcere, Bonacchi svela chi è veramente  raccomandando ai tre liberati di far finta di niente: Bertolini e Gualtierotti vengono affidate a Wilma Franceschini, che le nasconde nel convento di Santa Zita in piazza Sant’Agostino (e lì rimarranno fino all’arrivo degli Alleati), a poche centinaia di metri da San Giorgio, mentre Giorgi fugge con i Bini: il giorno successivo ripartirà per la Garfagnana.

Lucca, venerdì 25 agosto

Dinelli si presenta al carcere e chiede dei prigionieri. Saputo che sono stati liberati dietro presentazione di un documento recante la sua firma, vengono passati in rivista tutti i militi della Brigata nera, quelli veri. Nessuno di loro è quello visto dai secondini del carcere. I sospetti si dirigono su uomini della Questura, perché solo lì possono avere carta intestata e timbri, e tutti sono sottoposti a una prova calligrafica, per capire chi può essere stato a falsificare la firma. Il principale indiziato è Giusti, ma il perito grafologo non avvalora tale ricostruzione.

Lucca, domenica 27 agosto, mattina

Idreno Utimpergher, comandante della XXXVI Brigata nera, è furioso per lo smacco subìto e, nonostante non siano state raccolte prove, ordina l’arresto e la consegna ai tedeschi di Ferdinando Lucchesi, professore di disegno caposquadra del plotone Questura, dello stesso Giusti e di tutti gli ausiliari di polizia. Alcuni di loro verranno deportati in Nord Italia e torneranno a Lucca soltanto a guerra finita, mentre Giusti e altri riescono a sfuggire alla cattura.

 

Il motivo per cui è Bonacchi stesso a eseguire la liberazione in prima persona verrà da lui spiegato in un articolo pubblicato un anno dopo sul quotidiano La Nazione:

Gli Alleati si avvicinavano a Lucca; il giorno dell’insurrezione era prossimo. I componenti le squadre di città dovevano avere la prova definitiva che [il comandante, NdA] non sarebbe rimasto in preda a timori o esitazioni.




Una giornata della Tecnica

4 Maggio 1941. É un giorno che cade di domenica, ma le scuole sono aperte, i laboratori funzionanti, i corridoi percorsi da torme di visitatori. Non è una situazione che si verifica dappertutto: chiusi sono i licei, e così le scuole elementari e le nuove scuole medie. Ad aprire le porte sono soltanto istituti tecnici, scuole d’avviamento e scuole tecniche. Così infatti il governo fascista, e soprattutto il Ministro dell’Educazione Nazionale Giuseppe Bottai, avevano programmato di celebrare la ricorrenza della neonata “Giornata della Tecnica”, che varata nel novembre 1939, aveva conosciuto la sua prima celebrazione il 2 Giugno 1940. A sancirne la nascita, un radiodiscorso del Ministro, pronto a evidenziare il ruolo che la manifestazione avrebbe dovuto assumere nel convincere giovani e famiglie a preferire
l’istruzione tecnica e professionale a quella liceale verso cui, asseriva, troppo alto continuava a essere il numero di iscritti.
Se istruzione tecnica e professionale appaiono unite in questa manifestazione, questo non vuol dire che non costituissero, oggi come allora, due percorsi nettamente divisi. Più lunga e consolidata la vicenda temporale dell’Istituto tecnico: sorto con la riforma Casati del 1859, era stato riformato dalla Legge Gentile che aveva previsto, come collegamento tra scuola elementare e Istituto tecnico superiore, un corso intermedio (denominato Istituto tecnico inferiore) di quattro anni dove centrale appare lo studio del latino. Frastagliato appare invece il percorso dell’istruzione professionale, che fino al 1928 fu sempre prerogativa di Ministeri di carattere industriale ed economico: basti qui sapere che le scuole di avviamento propriamente dette sorsero nel 1929 dalla fusione tra il corso post-elementare (sesta, settima, ottava elementare), le scuole complementari e le scuole professionali gestite fino ad allora dal Ministero dell’Economia Nazionale.
Lungi dal rivelarsi come un cruccio di natura esclusivamente fascista, le preoccupazioni ministeriali, così simili a quelle che avevano motivato il varo della riforma Gentile, traevano le proprie radici da un sostrato primo-novecentesco e liberal-conservatore – che, già in età giolittiana, innalzava alti lai contro la pur moderata crescita di iscritti che le scuole post-elementari, allora frequentate da un selezionatissimo numero di studenti (mai più del 7% delle coorti di età corrispondente), registrarono in quegli anni. Erano ansie destinate a saldarsi, e a giustificare, molti punti della “Carta della scuola” che proprio in quei mesi, dopo aver ottenuto l’approvazione del Gran Consiglio, Bottai si stava apprestando a concretizzare – invero con conseguenze assai limitate, se pensiamo che di tutta l’architettura prospettata solo la scuola media vide la luce, con il Regio Decreto 1° luglio 1940. Proprio l’istruzione media, e in particolare quella tecnico-professionale, era il principale oggetto delle attenzioni della “Carta”. Da una parte, infatti, la nuova scuola media avrebbe unificato i primi tre anni del ginnasio, dell’istituto tecnico inferiore e
dell’istituto magistrale; caratterizzata dalla corposa presenza dello studio del latino, si presentava come una scuola destinata alle élite, come dimostrava anche la presenza di un esame di ammissione tutt’altro che formale. Dall’altra, la scuola di avviamento professionale, teoricamente destinata alle fasce socialmente ed economicamente più deboli della società, sarebbe stata “sdoppiata” da due nuove scuole, entrambe di durata triennale: la scuola professionale, da fondarsi nelle città medio-grandi, e la scuola artigiana, che sarebbe stata invece inaugurata in tutti gli altri centri urbani e rurali. Più limitate erano le prospettive che questi due istituti, in confronto alla scuola di avviamento professionale, aprivano: mentre i licenziati dalla scuola professionale potevano proseguire i propri studi soltanto iscrivendosi alla biennale scuola tecnica, gli iscritti alla scuola artigiana non disponevano di ulteriori canali di formazione. Passati, come documentano gli Annuari Statitici Italiani del 1932 e del 1943, da 67224 iscritti nel 1930 (dato comprensivo delle scuole soppresse nel 1929 per dar luogo agli avviamenti) a 288558 iscritti nel 1941, gli avviamenti erano diventati, in quegli anni, l’istituto di istruzione media maggiormente frequentato in terra italica. Proprio per questo motivo, il disegno assumeva una caratura politica e sociale marcatamente conservatrice, che andava a intaccare la (pur ridotte) potenziale mobilità sociale assunta dalla scuola di avviamento professionale, che, attraverso la frequenza di un anno di corso integrativo oppure di un esame, consentiva l’iscrizione all’Istituto tecnico – e, in misura nettamente minoritaria, all’Istituto magistrale e persino al Liceo scientifico.
L’istituzione della “Giornata della Tecnica” coincideva dunque con un periodo delicato per il Ministero, coinvolto, nonostante le contingenze belliche, nell’attuazione di una riforma prima procrastinata, poi accantonata in misura definitiva. È sotto la luce di questa contingenza che possiamo leggere il corposo fondo che, nel 1941, i Provveditorati, dietro impulso governativo, produssero, editando monografie incentrate sullo sviluppo dell’istruzione tecnico-professionale nella propria provincia. Un corpus bibliografico che, nella generale carenza di informazioni disponibili per questo segmento scolastico, si rivela inaspettatamente prezioso: l’intento propagandistico, chiaramente evidente e anzi rimarcato anche dai documenti ufficiali e dalle riviste di Regime, consente infatti di vagliare quali, secondo Provveditori e Presidi, costituivano le caratteristiche più salienti delle scuole professionali da loro dirette, e soprattutto quale ruolo dovevano giocare nell’assetto socio-economico italiano: quello di preservare un ordine sociale da tutelare nella sua fissità? Oppure quello di favorire, nel caso di alunni particolarmente meritevoli, la
prosecuzione degli studi? Non derogano a questa diade le monografie dei Provveditorati toscani. Corsi integrativi di collegamento tra scuole di avviamento e istituti tecnici, innanzitutto, sono segnalati soprattutto negli istituti agrari, spesso privi, a differenza dei loro omologhi, di un corso inferiore: corsi integrativi sono infatti in funzione presso gli Istituti agrari di Pescia e Grosseto. Anche gli episodici accenni al collocamento dei licenziati e alla provenienza sociale degli studenti sembrano tradire un quadro socialmente composito: degli ex- studenti che avevano frequentato negli ultimi dieci anni la scuola di avviamento “Margaritone” di Arezzo, il 20,8% degli studenti continuava gli studi; tra gli iscritti alla scuola di avviamento di Foiano della Chiana, il 20% proviene da famiglie di commercianti e industriali e il 15% da nuclei di impiegati. È un quadro composito che convive con le dissonanti sfaccettature con cui, nel presentare a famiglie e funzionari ministeriali le loro scuole, i Presidi toscani, similmente ai colleghi del resto d’Italia, mostrano di nutrire concezioni differenti, a volte dissonanti, sulle prospettive che le scuole di avviamento avrebbero dovuto aprire ai loro licenziati. Se infatti a Chiusi della Verna il Preside afferma che «Numerosi sono gli alunni usciti da questi tre soli anni di avviamento i quali non interrompono i loro studi, ma li proseguono, frequentando le Scuole Tecniche e gli istituti Tecnici Industriali, animati dal desiderio di perfezionare le loro conoscenze, desiderio sorto in parte accanto alle macchine di questa scuola», per converso, il collega della scuola di avviamento “Giuseppe Giusti” di Pescia rimarca come «tale scuola della durata di tre anni ha carattere eminentemente popolare, ed accoglie, subito dopo la quinta elementare, i figli dei lavoratori e della piccola borghesia per avviarli ad un mestiere o ad un impiego s’intende di natura modesta». Emerge qui, nuovamente, la dimensione di contenimento sociale che l’istruzione professionale, fin dalla metà del XIX secolo, ha assunto negli occhi e nella mente di classi dirigenti per le quali le occasioni di mobilità sociale inducevano a preoccupazione e spavento.

Chiara Martinelli è docente a contratto in Storia dell’educazione presso l’Università degli studi di Firenze, dove collabora con il Laboratorio di Public History of Education. Membro della segreteria editoriale di “Rivista di storia dell’educazione” e della redazione della rivista “Farestoria”, è, dal 2016, parte del direttivo dell’Istituto storico della Resistenza di Pistoia. Ha all’attivo numerose pubblicazioni in storia dell’istruzione professionale, memorie scolastiche e letteratura per l’infanzia. Tra le sue ultime pubblicazioni, segnaliamo “Educare alla Tecnica. Istituti tecnici e professionali alla “Giornata della Tecnica” (McGraw Hill, 2023).




Il massacro dei minatori di Niccioleta, 13-14 giugno 1944

Niccioleta è un villaggio minerario nel comune di Massa Marittima, al centro delle Colline Metallifere. La storia di Niccioleta è legata all’attività estrattiva della pirite i cui giacimenti furono acquisiti, agli inizi del secolo scorso, dalla Società Montecatini. Nel 1935 la scoperta di un grosso quantitativo di minerale dette un nuovo impulso alla miniera e la Società iniziò l’edificazione di un villaggio costruito su livelli altimetrici separati per classe sociale: i palazzi occupati dalle famiglie degli operai si trovavano in basso e circondavano la piazza, al livello superiore erano disposte le abitazioni degli impiegati e sulla sommità si ergeva la villa del direttore. I dipendenti provenivano in gran parte dal monte Amiata, dove le miniere di cinabro si erano esaurite, in particolare da Santa Fiora e Castell’Azzara, ma ve ne erano anche provenienti da altre località o regioni come Veneto e Sicilia: forza lavoro specializzata, che si trasferiva da un ambito minerario all’altro, in cerca di occupazione. Al personale impiegato nella miniera non era richiesta l’iscrizione al partito fascista, ma è probabile che i dipendenti vi fossero iscritti d’ufficio al momento dell’assunzione[1]. Le mansioni particolari dei minatori, non così facilmente sostituibili, concedevano loro il vantaggio di conservare le proprie opinioni politiche senza dover necessariamente rischiare la prigione o il confino. Si andava così costituendo sottotraccia, una base di opposizione al fascismo tutt’altro che risibile: «le famiglie contrarie al fascismo erano tante, più del 60% senz’altro, ma gli esponenti diciamo quelli più in vista, saranno stati una dodicina»[2].

La Direzione ne era senz’altro a conoscenza e ad ogni visita da parte delle autorità fasciste, si procedeva all’arresto preventivo dei più facinorosi, rilasciati all’indomani della manifestazione. Dopo l’8 settembre 1943, con la costituzione della Repubblica Sociale, a Niccioleta si contavano circa una quindicina di famiglie di fascisti, su una popolazione di circa ottocento persone. Il direttore Mori Ubaldini che aveva aderito convintamente al PNF, all’affermarsi del secondo fascismo se ne discostò, in particolare quando, dalla primavera del ‘44 nel villaggio si stagliò nettamente una maggioranza antifascista ed i fascisti iniziarono a chiudersi in difesa, nel timore che le forze partigiane potessero prendere il sopravvento e vendicarsi dei loro abusi (alcuni fascisti come Aurelio Nucciotti, segretario politico, avevano partecipato a rastrellamenti di partigiani).

I partigiani dell’area erano in contatto con il villaggio attraverso fiancheggiatori che li rifornivano di dinamite, chiodi a tre punte ed altri manufatti utili al sabotaggio. Alla fine di maggio i fascisti percependo il crescente isolamento, iniziarono ad apostrofare gli antifascisti e le loro famiglie minacciandoli dell’arrivo in loro aiuto di qualcuno che “avrebbe messo a posto la Niccioleta”. Il 5 giugno gli ufficiali tedeschi del presidio di Pian di Mucini in prossimità del villaggio, chiesero al direttore di poter interrogare cinque operai accusati di essere sostenitori dei partigiani. Si presentarono in tre, uno fuggì dalla finestra e gli altri furono redarguiti e rilasciati. Si trattò di una prima avvisaglia che denunciava la presenza di delatori al villaggio. Tre giorni dopo, mentre quegli stessi ufficiali si dirigevano in auto verso Boccheggiano, caddero in un’imboscata tesa dai partigiani e i soldati rimasti al presidio si diedero alla fuga.

Il 9 di giugno del 1944 alcuni antefatti, collegati tra di loro, determineranno le sorti del villaggio e della sua popolazione. Nel pomeriggio una squadra di partigiani della formazione “Camicia Rossa” giunse a Niccioleta; i giovani, accolti dalla popolazione festante, bruciarono qualche camicia nera e dopo aver disarmato i carabinieri e chiesto ai fascisti di restare in casa, se ne tornarono alla loro base, lasciando il paese nelle mani di un comitato pubblico costituito da vecchi antifascisti che organizzarono turni di guardia agli impianti e al paese. All’alba di quello stesso giorno, il III Freiwilligen Batallion Polizei Italien, partiva da San Sepolcro con destinazione Castelnuovo di Val di Cecina, ove giunse all’alba del giorno successivo, seguendo una logica poco comprensibile visto il contingente di reparti tedeschi in ritirata che transitavano in quei giorni sulla via Aurelia, o sulle strade più interne, verso la linea Gotica.

Il battaglione, costituito da truppa italiana e ufficiali tedeschi e italiani, era comandato dal maggiore Kruger che da subito si assentò, lasciando gli uomini sotto la guida tenente Emil Block. La mattina del 10 giugno il battaglione, al suo ingresso in Castelnuovo, catturava tutti gli uomini incontrati per strada e li conduceva presso il municipio in qualità di ostaggi. La popolazione, memore che il 7 giugno una squadra di partigiani della XXIII brigata aveva catturato e passato per le armi Pietro Palmerini, impiegato comunale fascista, al giungere del battaglione pensò ad una rappresaglia legata a quel fatto. In realtà accadde qualcosa di assolutamente indecifrabile. Durante la mattina del 10 giugno una squadra del battaglione in avanscoperta si scontrava presso Monterotondo Marittimo con una squadra di partigiani: cinque di loro persero la vita, ma furono colpiti anche numerosi militi. Il tenente Block, nonostante le perdite, non effettuerà alcuna rappresaglia su Monterotondo e neanche contro gli ostaggi di Castelnuovo che nel pomeriggio furono tutti rilasciati, tranne quattro giovani in età di leva deportati in Germania. Tuttavia, il 12 giugno il comandante chiedeva che fosse approntato un locale in grado di ospitare almeno 150 uomini; la notte stessa un reparto di circa 70 uomini lasciava Castelnuovo per Niccioleta e accerchiava il villaggio, prelevando tutti gli uomini dalle case.

Gli uomini del turno di notte fuggirono nascondendo le note con i turni di guardia nel rifugio antiaereo, gli altri furono trascinati nella piazza con le mitragliatrici puntate contro, sei di loro su indicazione di fascisti locali furono prelevati, percossi a lungo e poi passati per le armi quella stessa mattina: Ettore Sargentoni con i due figli Ado, che era in contatto con i partigiani, e Alizzardo; Bruno Barabissi, a cui fu trovato un fazzoletto rosso; Rinaldo Baffetti, noto antifascista, e Antimo Chigi che aveva un lasciapassare partigiano utilizzato per raggiungere i cantieri della Todt dove lavorava. Una volta trovate le note dei turni di guardia, gli uomini furono rinchiusi nel rifugio antiaereo e alla sera condotti a Castelnuovo Val di Cecina con i fascisti del paese e le loro masserizie.

Partirono con un moderato ottimismo, pensando che la fucilazione dei sei uomini al mattino avesse in qualche modo soddisfatto il desiderio di vendetta dei nazifascisti. Fu loro ordinato di prendere un cambio per tre giorni poiché sarebbero stati condotti a scavare trincee anticarro e a minare la centrale elettrica. Furono condotti a Castelnuovo e rinchiusi nei locali del cinematografo. Il giorno dopo avvenne la selezione: ventuno giovani nati tra il 1914 e il 1927 non presenti nelle note, pur avendo partecipato ai turni, furono condotti a Firenze e da qui in Germania ai lavori forzati; gli uomini di età superiore ai cinquant’anni furono inizialmente trattenuti, poi rilasciati successivamente alla strage dove perirono molti dei loro figli. Durante la selezione il fascista Calabrò ricevette il “privilegio” di salvare sei uomini, ma ne salvò solo due dal gruppo destinato alla fucilazione.

In settantasette furono quindi condotti in prossimità della centrale elettrica e qui uccisi da mitragliatrici occultate.

Il processo che seguì alla strage si concluse con una condanna dopo due gradi di giudizio ed un ricorso in Cassazione a 20 anni per Calabrò e Nucciotti, accusati di aver chiamato il battaglione a Niccioleta, e a 10 anni per Aurelio Picchianti, un milite riconosciuto da un giovane del villaggio. Un indulto nel 1952 liberò definitivamente i condannati. Gli uomini che fecero parte del plotone di esecuzione, denunciati inizialmente da un commilitone, saranno prosciolti in seguito al ritiro della denuncia. Il segretario del direttore, un ex capitano dei servizi segreti militari, tale Nicola Larato, si era allontano da Niccioleta ai primi di giugno e vi ritornò il giorno stesso in cui il battaglione aveva accerchiato il villaggio. Fu riconosciuto da un milite ed era atteso dal comandante; dunque, era precedentemente stato in contatto con il battaglione, forse attraverso il tenente medico Domenico Fracchiolla, pugliese come il Larato. Larato fu catturato dal CLN di Niccioleta nel dopoguerra e consegnato agli Alleati, che lo tratterranno due anni nel campo di concentramento di Padula; tuttavia non fu mai imputato al processo. Il tenente medico, invece, non fu mai ritrovato perché all’epoca si ignorava il suo nome. Molti anni dovettero passare prima che gli storici si interessassero all’eccidio e ritrovassero i documenti utili all’individuazione dei responsabili tedeschi, che tuttavia restarono impuniti.

Note

  1. Presso l’Istituto Storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea a Firenze sono conservati i registri contenenti l’elenco di tutti i dipendenti della Società Montecatini iscritti al PNF, tra questi anche oppositori al fascismo, e da un riscontro presso le famiglie risultava che nessuno ne fosse a conoscenza.
  2. Si veda l’intervista a Mario Fatarella, in Katia Taddei, Coro di voci, Il Ponte Editore, Firenze 2003, p. 310.

Per approfondimenti: https://memoriavittimenazismofascismo.it/ nel quale si possono consultare le interviste a Siliano Sozzi, Mario Fatarella, Bruno Travaglini, accessibili previa registrazione gratuita.




La scelta di vita di Guido Battista Galeotti

Quando salì sul treno per Firenze e, via Bologna, arrivò alla stazione centrale del Milano da poco più di un anno le armi avevano cessato di sparare nelle martoriate contrade del nord d’Italia. Nel capoluogo lombardo si respirava un’aria che già sapeva di rinascita e la politica la incontravi dietro a ogni angolo di strada. Nella piazza principale, sovrastata dall’imponenza del Duomo, ogni sera si formavano capannelli di persone, uomini di tutte le età che discutevano sulle novità della giornata. Mescolato tra la gente, qualcuno più avveduto provava a immaginare il domani, il futuro del paese. Un giovane, un ragazzone diciassettenne, alto e magro, ascoltava ogni parola e non perdeva una battuta. Arrivato dalla periferia toscana, ascoltava e apprendeva. Ascoltava e ricomponeva nella sua mente il complesso mosaico del dopoguerra italiano. Ma cosa ci faceva in piazza Duomo a Milano quel toscano ancora imberbe e un po’ spaesato? E soprattutto chi era?

Tre anni prima.
Per uno scherzo della storia ai primi del 1944 furono proprio i tedeschi a dare a Guido Battista Galeotti il suo primo lavoro quando lungo la costa tirrenica bisognava allestire fortificazioni d’ogni tipo in previsione di sbarchi del nemico. Un lavoro per i nazisti, proprio a lui che in casa, dallo zio Beppe e dal padre Giannino, aveva sempre sentito parlare di antifascismo e alle adunate della gioventù fascista mai aveva partecipato. Ben presto, però, ancora adolescente avrebbe conosciuto la durezza della guerra.
Dopo la liberazione di gran parte della Versilia e di Pietrasanta, sua città natale, dalla fine di settembre del ’44 l’abitazione dei Galeotti venne a trovarsi da un giorno all’altro a poche decine di metri da una batteria americana che sparava colpi verso le ultime propaggini delle Alpi Apuane dove terminava (o iniziava) la linea Gotica, la fortificazione tedesca che tagliava in due l’Italia e giungeva, attraverso tutto l’Appennino tosco-emiliano, fino alla costa adriatica. Guido Battista, con la curiosità dei ragazzi, si intrufolò subito nel campo allestito dai soldati alleati. A comandarli era un certo Peter, unico bianco del battaglione, che tutte le sere andava a dormire nella cucina dei Galeotti, ritenendola la stanza più sicura perché più a sud e, dunque, meno esposta ai tiri dei tedeschi. Una convivenza con i soldati americani che per la famiglia Galeotti e in particolare per Guido Battista significò razioni extra di pane, alimenti in scatola e cioccolate. Cosa non da poco per quei tempi.
Dalle stragi nazifasciste di Sant’Anna e di numerose altre località versiliesi i Galeotti ne restarono fuori avendo deciso di non allontanarsi dalla loro abitazione del Verzieri, poco fuori le mura di Pietrasanta. Subito dopo il 25 Aprile 1945 Guido Galeotti si avvicinò e poi si iscrisse al Partito Comunista Italiano. La voglia di gettarsi in prima persona nel gorgo della politica lo spinse alla militanza attiva. Un passo che gli avrebbe cambiato la vita. Ma questo ancora non poteva saperlo. In un primo momento si dedicò all’organizzazione del Fronte della Gioventù (così si chiamava allora quella che sarà la Federazione Giovanile Comunista Italiana). Poco tempo dopo il suo impegno lo rivolse al partito impegnandosi nel popolare quartiere di Porta a Lucca, a due passi dalla sua casa, dove partecipò al comitato per l’assistenza invernale ai disoccupati maggiormente bisognosi. Un organismo inizialmente formato da soli comunisti che, in accordo con la Cooperativa di Consumo di Pietrasanta, gestì la somministrazione giornaliera e gratuita di quattrocento minestre calde ad altrettante bocche da sfamare. La cellula comunista del quartiere, attraverso la capillare rete organizzativa del Pci, doveva redigere gli elenchi di chi aveva diritto a quel tipo di assistenza. Regole rigide e severi controlli incrociati supportavano il lavoro giornaliero dei militanti comunisti e chi rientrava nei requisiti richiesti riceveva il buono pasto col quale recarsi alla mensa della Cooperativa. Galeotti visse in prima persona quello straordinario immediato dopoguerra. E ne fece tesoro.

Con Togliatti alla scuola comunista.
L’attivismo di Guido Battista Galeotti fu notato da un operaio marmista, Dino Fracassini, dirigente della locale sezione del Pci. Fracassini frequentava la federazione di Lucca e segnalò al segretario Fulvio Zamponi quel giovane comunista di Pietrasanta che, tra tutti gli iscritti affluiti al partito dopo la liberazione, si stava distinguendo per passione e capacità. Non passò molto tempo e la federazione mandò a chiamare Galeotti.
Senza troppi giri di parole mi venne proposto di partecipare a un corso di formazione di cinque mesi che si sarebbe svolto alla scuola di partito a Milano” ricorda Guido Battista. Le lezioni stavano per iniziare e una risposta doveva essere data molto presto.
La famiglia non si oppose a questa opportunità e così, dopo qualche giorno, Guido Battista in piena notte si trovò a bussare al portone di una grande villa, forse requisita a qualche gerarca fascista, in piazzale Libia a Milano. Spaesato, un po’ confuso, timoroso per quello che l’attendeva aveva fatto la sua scelta di vita.
Il paese stava vivendo una formidabile stagione. A marzo era iniziata la più lunga tornata elettorale della storia d’Italia, conclusasi solo in autunno per via di una mobilità viaria ancora ridotta o resa impossibile dalla guerra in certi comuni della penisola. Pertanto, le elezioni amministrative slittarono in alcune parti del territorio nazionale. Le donne votarono per la prima volta e poterono anche essere elette. Una grande conquista. In giugno, col referendum istituzionale, l’elettorato fu chiamato a scegliere tra monarchia e repubblica e contemporaneamente a eleggere l’Assemblea costituente.
Con Galeotti partecipavano al corso una quarantina di allievi, di età diverse e provenienti da varie regioni. “Vi trovai compagni che avevano combattuto in Spagna contro i franchisti, nelle Brigate internazionali e da quella presenza, per me come per altri, partì lo sforzo per una più approfondita presa di coscienza. Ero il più giovane di tutti. In quelle stanze scoprì lo studio approfondito della storia, un modo nuovo di guardare agli uomini e ai fatti accaduti e a quelli in corso”.
Per Guido Battista la permanenza a Milano non significò soltanto studiare e seguire con atten-zione le lezioni alla scuola di partito. Appena ambientatosi prese a uscire ogni sera. Ai capannelli di gente in piazza Duomo lo accompagnava con la moto Giulio Seniga, un partigiano di diversi anni più grande di lui che poi diventerà segretario di Pietro Secchia, il numero due del Pci, e causa del suo allontanamento dai vertici del partito. Altre volte Guido Battista visitò alcune fabbriche nel vi-cino comune di Sesto San Giovanni. Durante la sua permanenza a Milano ebbe anche la possibilità di andare alla Scala, subito ricostruita dopo le distruzioni dei bombardamenti, e dal loggione vide la “Bohème” di Puccini. Così i cinque mesi trascorsi alla scuola comunista furono un tutt’uno con il contesto urbano e con la società milanese, in un orizzonte che generosamente si allargò alle conoscenze di quel giovanissimo allievo.
Nella villa di piazzale Libia una mattina arrivò, inatteso, Palmiro Togliatti. L’emozione di Galeotti e di tutti i presenti fu grande davanti al capo dei comunisti italiani, il leggendario Ercoli, l’uomo della “svolta di Salerno” nella primavera del ’44 appena giunto da Mosca.
Il caloroso ma breve saluto di Togliatti agli allievi della scuola di Milano non consentì approfondimenti né tantomeno di parlare della novità del “partito nuovo”, delle sue caratteristiche ideolo-giche, politiche e organizzative. Temi sui quali Togliatti tornerà qualche giorno dopo nella sede della federazione in un rapporto ai quadri dirigenti milanesi. Anche in quella occasione Galeotti fu presente. “Ascoltare Togliatti era un piacere” ricorda Guido Battista Galeotti.

A Lucca, al lavoro in federazione.
Rientrato dalla scuola comunista, Galeotti venne chiamato a lavorare in Federazione per saggiarne sul campo le qualità e il grado di maturazione raggiunta. L’operazione però si rivelò prematura. Fu un’esperienza breve e tutto sommato sofferta come ricorda lui stesso. Da quel momento avrà inizio un intermezzo lungo una decina di anni, con l’attività politica e sindacale portate avanti prevalentemente nella sua città e nell’ambito del suo primo vero lavoro, l’impiego nella Cooperativa di Pietrasanta, grande complesso commerciale che si collocava ai vertici nazionali nel ramo del consumo. La costituzione della federazione comunista della Versilia, a fine 1958, si presenterà per Galeotti come seconda occasione per iniziare la carriera di “rivoluzionario di professione”. E questa volta sarà colta senza ripensamenti.

* * *

Guido Battista Galeotti l’11 ottobre 2023 ha festeggiato il novantacinquesimo compleanno. Con una memoria e una lucidità non frequenti per quell’età è tornato di recente con una riflessione sui tempi lontani che segnarono la sua adolescenza e i primi anni della maturità. Lo ha fatto con un libro, pubblicato, in relazione alla sua scelta di vita, col titolo emblematico di “Un amore così grande”.