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Spiegare il porrajmos a scuola.

Personalmente, ho iniziato ad occuparmi della questione del popolo romanì sei anni fa, dopo aver ascoltato una lezione alla Summer School della Regione Toscana propedeutica all’edizione del 2013 del Treno della Memoria.

La lezione era tenuta dal giovane ricercatore Luca Bravi, che ha trattato del porrajmos.

Da allora, questo sterminio dimenticato o taciuto è diventato oggetto di grande interesse per me e, attraverso la storia della liquidazione la notte fra l’1 e il 2 agosto dello Zigeunerlager di Auschwitz-Birkenau, mi sono appassionata alla storia di sinti, rom, camminanti, non solo leggendo saggi e  articoli su di loro, ma avvicinandomi (indimenticabile l’esperienza delle lezioni sull’integrazione dei rom fatte a Secondigliano, Scampia, Portici) e facendo amicizia con loro, soprattutto con Ernesto Grandini.

Come docente, ho iniziato a spiegare il porrajmos a scuola, soprattutto in occasione del giorno della Memoria o come preparazione per gli alunni che avrei portato al Treno della Memoria (a cui sto partecipando per la terza volta) e ho invitato anche Luca a tenere conferenze ai ragazzi di quarta e quinta, sia sul porrajmos sia sul più cocente e attuale problema dell’integrazione e della discriminazione. A tale proposito ho aderito (e poi ne sono diventata formatrice) al progetto europeo SPRYNG, Spreading Young Non-discrimination Generation in collaborazione con Poiein.lab, il Dipartimento di Sociologia dell’Università di Muenster, in Germania e con quello corrispettivo di Firenze.

Questo anno, con i miei studenti di quinta Liceo Linguistico (che lo scorso anno avevano partecipato al meeting transnazionale SPRYNG) abbiamo deciso di aderire alla XIX edizione del concorso “i giovani ricordano la Shoah”, indetto dal MIUR. Con i miei allievi abbiamo ideato e montato un filmato attinente alla frase della Senatrice a vita Liliana Segre, oggetto del concorso e, tra l’altro, il nostro elaborato contiene 6 video in cui ogni ragazzo, partendo da storie anche poco note, di chi non è tornato dai campi, racconta la sua vicenda, dando così voce a quella polvere muta; ognuno incarna una categoria: l’ebreo, la lesbica, l’oppositrice politica, la disabile, la zingara. Abbiamo deciso di girare i video in luoghi significativi, ad esempio a Palazzo della Signoria, all’associazione CREA per disabili e… in un campo rom.

Così, grazie alla mia amicizia con Ernesto Grandini, siamo andati a Prato, muniti di videocamera e macchine fotografiche. Il campo si trova ai margini della città, lungo uno stradone, viale Manzoni, dove le macchine corrono e si tuffano poco dopo nel nodo di viadotti che allaccia la zona di capannoni industriali all’autostrada Firenze-Mare. È uno dei quattro campi rom di Prato ed esiste da trent’anni. A Prato, infatti, vivono in totale 108 romanì: ci sono due campi di sinti residenti costituiti rispettivamente da 68 e 34 abitazioni in legno, container, roulotte, camper, e un campo dove vivono 6 bosniaci rom residenti. Ci accoglie l’infaticabile, solare, affabulatore Ernesto, che ci fa entrare in piccola unità abitativa adibita a cucina e salotto. Ernesto è anche Presidente dell’associazione Sinti Italiani di Prato e  membro dell’ U.N.A.R. (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali), l’ufficio deputato dallo Stato italiano a garantire il diritto alla parità di trattamento di tutte le persone, indipendentemente dalla origine etnica o razziale, dalla loro età, dal loro credo religioso, dal loro orientamento sessuale, dalla loro identità di genere o dal fatto di essere persone con disabilità.

Ernesto è un pozzo di conoscenza e una specie di divulgatore automatico di cultura sinta. Parla in continuazione come se fossimo a lezione, pone domande di cultura rom a cui i miei alunni non sanno come rispondere un po’ per ignoranza un po’ per imbarazzo.  Allora ci racconta cosa è stato nascere in Italia nel 1955, da padre italiano, eroe partigiano, e mamma sinta, conosciutisi alle giostre di Lucca, ed essere messo nelle scuole speciali, quelle dedicate ai bambini rom, che aprivano negli scantinati quando non era orario di lezione per gli alunni “ordinari”. Come è stato essere guardato sempre con sospetto e paura oppure sentir parlare della sua gente solo come spauracchio nelle campagne elettorali. Lui non ha problemi a dichiarare di essere un italiano di minoranza culturale sinta, perché è uno scafato e un chiacchierone, ma riconosce che per un sinto dire chi sei richiede coraggio, perché può voler significare perdere un lavoro. I miei alunni pendono dalle sue labbra. Poi mostra loro tutte le foto del suo cellulare: foto d’epoca di famiglie sinte, personaggi famosi sinti, incontri sulla storia dei sinti.

Mentre beviamo acqua e mangiamo i cioccolatini che abbiamo portato come dono ospitale, Ernesto (a malincuore, si vede) lascia la parola alle due sue nipoti (che saliranno con lui e con noi sul Treno della Memoria), Nancy, studentessa di 17 anni e Margherita, operaia di 24, affinché i miei alunni pongano loro domande, in una conversazione fra pari. A dire la verità, le mie studentesse son subito colpite dall’abbigliamento del tutto alla moda delle due ragazze, dal loro I-phone, dal loro parlare la lingua in maniera correttissima, insomma, dal fatto che non le distingueresti mai da un “gagé”, termine con il quale i rom definiscono “gli altri”, i “non rom”.

E così iniziano le domande:

CHI SONO l SINTI?

Margherita: Non siete abituati a chiamarci sinti, perché in Italia si usa la parola “zingari”, ma noi non la useremmo mai, perché significa nomade, ladro, asociale; in Italia ci sono soprattutto due gruppi: i rom ed i sinti; i rom con antica provenienza dalle terre dell’est (Nord dell’India e Pakistan) ed i sinti con antica provenienza dalle terre del Nord Europa come la Germania, l’Austria, la Svizzera, ma anche la Francia, il Belgio.

Nancy: infatti i sinti hanno gli stessi caratteri somatici degli europei e sono di pelle chiara, i rom hanno tratti più medio-orientali, ad esempio la carnagione olivastra o i capelli scuri. Io sono una “meticcia”, perché i miei genitori sono uno sinto e una rom, per cui spesso mi scambiano per sud americana o del vicino oriente (e ci mostra i suoi capelli ricci e scuri, che a noi sembrano bellissimi!).

Margherita: le nostre sono origini antiche, perché in Italia ci siamo almeno dal 1400. Qui in Italia siamo circa 170mila rom e sinti, più della metà sono di cittadinanza italiana. Le traiettorie partono intorno all’anno Mille dall’attuale Pakistan e poi si diramano e confondono, dando origine a vari gruppi (rom, sinti, manouches, kale, romanichals) con le loro specificità, ma che si riconoscono in uno stesso popolo, il popolo romaní. Il nomadismo è stato quasi sempre una risposta al fatto di essere perseguitati, scacciati o stigmatizzati.  Altri sono arrivati dopo la guerra, dall’Europa dell’Est. Ci sono due ondate più recenti, che corrispondono grossomodo alla guerra nella Ex-Jugoslavia, con rom di origine balcanica, e all’allargamento dell’Unione Europea, con rom di provenienza soprattutto rumena.

SIETE NOMADI?

Non siamo nomadi, ci siamo sempre dedicati tradizionalmente a lavori ambulanti. Alcuni di noi fanno ancora i giostrai, per esempio questo è stato il lavoro di Ernesto, ma non significa che non abbiamo radici in un luogo o in una nazione o che non vogliamo fermarci in un posto. In Italia i miei antenati sono stati pure partigiani (il padre di Ernesto è medaglia d’oro della Resistenza ed è inumato nel cimitero dei partigiani a Bologna), figuratevi se non ci sentiamo italiani. Il fatto che facessimo lavori ambulanti ci ha fatto guardare con sospetto e quando ci fermavamo o tornavamo nella nostra città natale, la gente si impauriva e ci cacciava. Siamo immaginati da tutti nomadi, ma non lo siamo. Oggi qualcuno fa ancora lavori ambulanti, i ragazzi, invece, seguono le scuole come tutti; io ho frequentato la scuola superiore qui. A Prato ci siamo dagli anni Cinquanta.

Nancy: anche io studio qui, frequento il quarto anno dell’istituto turistico.

COME VI TROVATE / SIETE TROVATE A SCUOLA?

Margherita: Io in seconda superiore ho commesso l’errore di dire che sono sinta. Da allora la mia vita scolastica è cambiata: sono diventata trasparente, mi hanno ghettizzata, in alcuni casi sono stata anche vittima di bullismo. Gli insegnati (beh, alcuni di loro, perché altri si sono rivelati razzisti come i miei compagni e hanno iniziato a guardarmi con occhi strani, alcuni con pietà, altri con disgusto) sono intervenuti. Anche il preside lo ha fatto, sospendendo uno studente. Ma la situazione non è migliorata.

Nancy: io, invece, memore della vicenda di Margherita, non ho detto niente a nessuno. Solo un mio compagno, amico fin dall’infanzia, sa che sono sinta. Però è triste non poter mai invitare gli amici a casa per una festa o semplicemente per fare i compiti insieme.

ALLORA, SE NON SIETE NOMADI, PERCHE‘ VIVETE IN UN CAMPO?

Margherita: Perché anche lo stato italiano ci ha considerati nomadi e tra gli anni Settanta e gli anni Novanta ha pensato che i campi nomadi potessero essere il posto dove farci abitare. Li hanno costruiti e ci hanno detto che dovevamo vivere lì dentro. Erano luoghi di emarginazione già allora e sono peggiorati ancora. Non siamo noi a volerci vivere e sappiamo che viverci significa far crescere il razzismo verso di noi. Alcuni dei sinti vogliono vivere in casa, altri ci vivono già. l rom dell’est, invece, hanno sempre vissuto in casa. Immaginate quando, profughi di guerra, sono arrivati qui e, venendo immaginati nomadi, sono messi nei campi. Alcuni di loro hanno pensato che fossero soluzioni transitorie, ma purtroppo non era così. Noi sinti, invece, facevamo lavori ambulanti ed abbiamo sempre vissuto in famiglia allargata in case mobili o in roulottes. E’ il nostro modo di vivere tradizionale, ma non vuol dire che siamo pericolosi per questo né che non vogliamo lavarci, vestirci bene, andare a scuola, vivere con gli altri. E‘ solo un modo diverso di vivere: non vogliamo vivere in un campo nomadi senza fogne, senza acqua calda, fuori dalle città. Chiediamo di poter acquistare dei campi privati, creare la nostra micro area, poterci allacciare alle fogne, avere dei bagni in muratura. Tutto questo costa meno di quanto si spende per i campi nomadi e noi vogliamo partecipare alla costruzione; non vivere in una casa non significa essere pericolosi.

Ernesto: proprio qui, dall’altro lato della strada, c’è un cascinale abbandonato, che sta diventando un rudere. Abbiamo chiesto un micro credito al comune di Prato per poterlo acquistare. Lo avremmo ristrutturato noi, con le nostre mani, a nostre spese…ma ce lo hanno negato.

SIETE LADRI?

Nancy: Il furto non è una caratteristica né dei rom né dei sinti, come l’essere mafiosi non è caratteristica degli italiani; le statistiche di delinquenza tra rom e sinti sono le stesse del resto della popolazione italiana. Certamente però i campi nomadi sono dei ghetti, ci sono povertà e miseria soprattutto in quei giganteschi campi delle grandi città ed allora in qualsiasi ghetto e più facile che attecchisca la delinquenza e che la criminalità organizzata si infiltri più facilmente. Ci sono rom e sinti che vengono arrestati per furto, ma questo non autorizza nessuno a dire che l’intero gruppo dei rom e dei sinti è fatto di ladri, come se fosse una caratteristica genetica. Una cosa simile l’hanno detta i nazisti quando hanno mandato i miei parenti nei campi di sterminio; spero siano concetti ormai superati.

E IL LAVORO?

Margherita: Io l’ho sempre cercato, come tanti altri ragazzi e ragazze e mi sono adattata a ciò che ho trovato. Ma quando devo andare a firmare il contratto e, dalla carta di identità, vedono dove vivo o trovano una scusa per non assumermi più o, alla scadenza del contratto, non me lo rinnovano. Adesso mi sono adattata a lavorare in una fabbrica. Lì mi hanno assunta perché sono tutti lavoratori stranieri ed io, pur essendo italianissima, sono percepita come una straniera.

Anche chi è nato in Italia e qui è vissuto, continua a convivere in questa forte contrapposizione tra sinto/rom e gagé, poiché, il paese natale (l’Italia) non ci riconosce come propria parte ma  ci identifica come qualche cosa di estraneo, da emarginare e allontanare; ecco allora il gruppo familiare, la comunità locale zingara che diventa la propria patria, il proprio stato. Si nasce in Italia ma si è zingari, si è stranieri.

MA E’ VERO CHE VI SPOSATE E FATE FIGLI MOLTO PRESTO?

Margherita: In passato era così, ma adesso no. Io, ad esempio, ho 24 anni e non ho neppure un fidanzato, quindi non penso assolutamente né a sposarmi né tanto meno ad avere figli! Ma penso che la stessa cosa fosse per voi “gagé”: anche la generazione dei vostri nonni, che non studiava, metteva su famiglia molto presto.

Ernesto: Io sono un’eccezione, perché sono diventato padre a 16 anni. Non perché lo volessi, ma perché ho messo incinta la mia ragazza di allora (sono divorziato) ed ho voluto assumermi le mie responsabilità. Fortunatamente vivevo in una famiglia con molte donne, mamma e tre sorelle, quindi mi hanno aiutato moltissimo a crescere mio figlio.

E COME FUNZIONA DA VOI IL MATRIMONIO?

Ernesto: (sorridendo) dice “siamo noi che abbiamo inventato le coppie di fatto!”.

Nancy: Non esiste una cerimonia ufficiale, in cui è necessario andare in comune e mettere una firma (certo, chi vuole, può farlo) ma il nostro matrimonio consiste essenzialmente in una “fuitina” (e ride), come credo che avvenisse in passato nel sud Italia se eri rimasta incinta e dovevi far accettare al paese il matrimonio.  I due innamorati fuggono e poi ritornano insieme, ottenendo il perdono delle famiglie. È quindi ormai generalizzato il cerimoniale, per così dire più economico, della fuga nuziale, che continua ad essere rispettato anche dai più giovani e nei casi di matrimoni tra appartenenti a famiglie residenti in campi diversi. Negli ultimi anni si sono registrati anche matrimoni tra appartenenti al popolo rom e gagé.

Il matrimonio celebrato con rito rom, non è riconosciuto dallo stato italiano, ma è l’unico che conta per la comunità, infatti, è da questo momento che ha inizio la vita matrimoniale.

Per noi è previsto anche il divorzio. Nel caso di divorzio alla presenza di figli, l’antica regola è che i figli maschi restino con la famiglia del marito. Per le figlie femmine, pur vigendo la stessa regola, ci sono margini di contrattazione.

VOI VIVETE IN FAMIGLIE ALLARGATE?

Ernesto: per noi la famiglia è molto importante. Ma non solo il nucleo familiare ristretto, ma tutta la comunità. Ad esempio ci aiutiamo molto fra di noi. Poco tempo fa un membro della nostra comunità si trovava in difficoltà economiche a causa di un figlio malato e tutti noi abbiamo fato una colletta e gli abbiamo dato i soldi affinché il bambino fosse operato e curato nei migliori centri specialistici. Le nostre comunità sono caratterizzate da una forte solidarietà tra i diversi nuclei familiari, che si manifesta concretamente con la condivisione, in caso di necessità, di guadagni ed eventuali perdite o danni.

Margherita: La tradizione prevede che con il matrimonio la donna transiti nella famiglia del marito.

Ernesto: (intervenendo) nel caso della mia famiglia è stato tutto il contrario. E’ stato, infatti, mio padre, che era una “gagé” a lasciare la sua vita sedentaria e scegliere di vivere nel campo rom di mia madre, a Lucca.

Margherita: Sempre secondo l’antica tradizione, i genitori vivono e sono accuditi dal figlio più piccolo e da sua moglie; questi devono prendersi cura di loro fino alla morte. Nella nostra società c’è un forte rispetto verso le persone più attempate. È l’anziano che con la sua saggezza indica ai figli la ‘strada giusta’. Il rispetto per gli anziani è un valore molto diffuso anche tra i giovani. Un aspetto della vostra cultura che a noi pare non accettabile è l’abbandono degli anziani, ad esempio in una casa di cura, dove sono lasciati a loro stessi.

E RIGUARDO ALLA DONNA? C’E’ SOTTOMISSIONE?

Ernesto: (che come sempre vuol parlare per primo): no, no, c’è un rapporto del tutto paritetico. Io però non cucino!

Notiamo però che è lui a chiedere alle nipoti di offrirci l’acqua e versarla. Lui non si alza a farlo.

Margherita: anche la donna ha una certa rilevanza e valore, soprattutto una volta divenuta anziana. Comunque a me nessuno ha mai detto chi devo frequentare o ha controllato la mia vita privata.

CHE NE PENSI DELLE ZINGARE, CHE VEDI IN GIRO CON LA GONNA LUNGA, A CHIEDERE L’ELEMOSINA?

Nancy: Si tratta non di sinti, ma di rom di recente immigrazione, che sono molto attaccati ancora alle loro tradizioni. Essi vengono, a differenza di noi sinti, dai Balcani. Sotto l’impero Ottomano del XIII-XIV secolo, i Rom furono sfruttati attraverso una gravosa tassazione. Svolgevano attività prevalentemente artigianali, erano sarti, orefici macellai, ma eseguivano anche attività immonde, come quelle di boia. In Valacchia e Moldavia, i Rom furono oggetto di schiavitù e impiegati nei lavori più svariati, dalla coltivazione della terra alla protezione dei padroni. In questo modello il Rom può mantenere la propria cultura poiché è questa diversità culturale che giustifica il suo inserimento in attività degradanti e immonde.

Coloro che noi vediamo a chiedere l’elemosina o a lavare i vetri sono quelli arrivati nel periodo fra le guerre balcaniche e l’ingresso della Romania nella UE. Arrivano e vengono messi in campi sporchi, privi di ogni decenza igienico sanitaria, vengono marginalizzati. Nessuno offre loro un lavoro, a meno che non lo faccia la criminalità organizzata che spesso si serve di queste persone.  Quindi è normale che, se vengono trattati come bestie, finiscano quasi per divenirlo.

Dopo un paio di ore (fosse stato per noi e per loro saremmo rimasti ben di più) salutiamo la popolosa famiglia di Ernesto; infatti alla spicciolata tutti i figli e nipoti passano dal nonno: c’è il figlio che ha avuto un incidente e ne porta ancora le tracce, c’è la figlia di 44 anni che è di ritorno con i suoi due bambini dal campetto di calcio dove avevano un torneo, c’è la sorellina di Nancy di tre anni.

Ci salutiamo invitandoli a venire a scuola, a raccontare anche agli altri alunni qualcosa sulla loro cultura, al fine di decostruire un pregiudizio fin troppo radicato. E verranno di sicuro! E poi ci rivedremo sul Treno della Memoria.