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“Sognavo una vita romantica e felice”

Quale effetto un conflitto esercita sulla psiche infantile? Quali le conseguenze, i traumi, le ricadute successive?
Queste domande, così frequenti nei reportage che di recente si sono soffermati sulle “infanzie rubate” dalle guerre, sono poco presenti nei saggi di storia sociale sulla seconda guerra mondiale. Ma uno studio sull’argomento, oltre ad aiutare a comprendere le sofferenze dell’oggi, servirebbe anche a cogliere i nessi tra quel vissuto e i successivi eventi della Prima Repubblica. Lungi dal colmare questa lacuna, questo contributo vuole gettare una luce su un argomento – la memoria infantile della Resistenza – tanto più importante quanto necessario da ricordare in una regione – la Toscana – dove il numero di vittime è stato inferiore alla sola Emilia.

Innanzitutto: quali fonti usare? La più parte delle testimonianze è stata raccolta anni dopo la guerra, quando non solo il tempo trascorso aveva affievolito il ricordo, ma quando i bambini di allora si erano ormai trasformati in adulti con il proprio vissuto e con altre esperienze alle spalle. Mediata già in tempo di pace dagli adulti, la voce infantile diventa perciò più flebile nei tempi convulsi di guerra. Gli appunti che il quattordicenne aretino Almo Fanciullini raccoglie sistematicamente tra l’8 settembre e la liberazione di Arezzo appaiono quindi come una particolare eccezione.

Tracciare alcune linee comuni nelle esperienze belliche di bambini e adolescenti toscani è però possibile. La prima è l’avvento della precarietà, di luoghi e di persone. Il conflitto, prima colto vagamente dalle conversazioni degli adulti, irrompe con il primo bombardamento o la carestia. «Anche se si sentiva parlare di guerra» ricorda Feralda Giovannetti di San Martino ad Empoli, dove nel ’43 frequentava la seconda elementare «per la giovane età, non ci rendevamo conto di quello che poteva essere. Cominciammo ad accorgercene quando iniziò la carestia dei viveri». «Sognavo una vita romantica e felice: gli orrori della guerra mondiale mi distolsero da questi sogni» scrive ad esempio Anna Taiuti, che dopo il bombardamento di Milano sfollò dai nonni in Toscana.
Alla devastazione dei luoghi familiari succede spesso lo sfollamento in campagna per i cittadini o, per chi vi abitava, l’arrivo di nuove persone – spesso più colte, più ricche o semplicemente più informate sugli ultimi avvenimenti – rivoluzionava la routine quotidiana, apriva nuovi orizzonti. La novità è ad esempio sottolineata da Luciana Franceschini, nata nel 1935 nelle campagne del pistoiese: «ricordo molto bene gli sfollati perché … vedevo gente nuova … per me era tutto una sorpresa e anche un divertimento quando mi invitavano a giocare».

La crescita precoce che la guerra induce nei bambini e negli adolescenti è però il tratto che maggiormente accomuna queste testimonianze. Il processo è però difforme, e varia a seconda della classe sociale di provenienza. È la fine precoce dell’infanzia per i bambini delle classi popolari, che, mentre gli adulti si asserragliano in casa per sfuggire ai rastrellamenti, lavorano nei campi e nelle officine, svolgono commissioni, girano armati. «[Noi ragazzini] andavamo a prendere il grano perché i contadini avevano paura dei tedeschi… Noi eravamo piccoli e avevamo più possibilità di stare allo scoperto» riporta Sergio Capecchi, nato a Cantagrillo (Serravalle P.se) nel 1930. Ed è invece una scoperta della libertà per i giovani delle classi sociali superiori, che, grazie alle preoccupazioni di genitori altrimenti indotti a una stretta sorveglianza, si scoprono liberi di gestire il proprio tempo. «Eppure» riassume infatti Isabella Dauphinè, sfollata da Firenze, «ricordo quel lontano 1943 come un anno veramente straordinario. Là in campagna eravamo molti ragazzi:… e ci sentivamo veramente liberi, perché le donne adulte presenti… piene di ansie e preoccupazioni, avevano ben altro da fare che occuparsi di noi».