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“Scoprire” Auschwitz. Il Treno della Memoria 2019

Sono alle 8:30 di mattina del 22 gennaio quando arriviamo ad Auschwitz, al campo madre, costruito fuori dalla città per cercare di nascondere ciò che vi accadeva. Esso si estende per 7 ettari e contiene 28 blocchi, creato nel giugno del ‘40 nel luogo dove già esisteva una caserma dell’esercito polacco alla confluenza della Vistola. Dopo aver superato i controlli di sicurezza, degni di un aeroporto internazionale che ti danno subito l’idea di quanto questo luogo di memoria sia ancora sotto pericolo, entriamo dal cancello principale, famigerato per la cinica scritta “Arbeit macht Frei”. Infatti  Auschwitz era un campo di lavoro, dove i deportati venivano usati per faticare nelle miniere di carbone circostanti o nei campi. Così inizia la nostra visita. Ovunque silenzio, solo i nostri passi attutiti dalla suola di gomma dei nostri scarponcini. All’ingresso la temperatura è -9, percepita -12, ma sentiamo meno freddo anche perché forse ormai fa parte di noi o forse perché un pallido sole dà l’illusione della vita sul gelo della morte. Ci avviamo, superando il luogo dove si trovava l’orchestra che suonava delle marce allegre all’entrata e all’uscita dei lavoratori schiavi. Ci avviamo fra i vialetti di quello che oggi è un museo. Esso è stato creato già nel 1947, 2 anni soli dopo la liberazione del campo.

Il lager conteneva fra i 1200 e i 1500 prigionieri alloggiati in blocchi di muratura a due piani, sfruttati dalle cantine fino al sottotetto. La nostra prima tappa è il blocco 4 recante all’ingresso la scritta “sterminio”. A destra, una grande mappa con Auschwitz al centro, nel cuore dell’Europa, un grande snodo ferroviario; puntini neri invece segnano i ghetti e i campi di transito da cui sono partiti i treni diretti qui. Dal 1940 al 1945 sono stati deportati qua 1.300.000 persone,  prevalentemente ebrei, ma anche 55.000 prigionieri politici e altrettanti prigionieri di guerra russi (infatti la Russia non aveva firmato la convenzione di Ginevra) e 23.000 “zingari”. In quella stessa stanza si trova una urna con ceneri umane. I primi a fare ingresso nel lager furono 728 membri della intellighenzia polacca seguiti da alcuni ecclesiastici. Nella stanza successiva ci sono delle foto tratte dall’album Auschwitz che rappresentano l’arrivo di deportati dopo la sua sommossa del ghetto di Varsavia e alcune baracche dello Zigeunerlager, cioè la zona destinata agli zingari. La terza stanza prende il nome di strada della morte, infatti alle pareti campeggiano delle foto rappresentanti l’arrivo nel lager alla Judenrampe. Oltre alle SS vediamo raffigurati anche alcuni prigionieri. Essi cercavano di aiutare i nuovi arrivati suggerendo di non dire che facevano lavori da intellighenzia né che avevano meno di 14 anni,  (ciò li avrebbe condannati a una morte sicura ma questo non lo potevano rivelare). Accanto una foto rappresenta la divisione tra uomini da una parte, donne e bambini dall’altra, seguita da un’altra che raffigura le valigie ed altri oggetti ammucchiati sulla rampa mentre il convoglio se ne va, vuoto. Dall’altra parte della stanza c’è una copia dei biglietti ferroviari perché i deportati si devono pure pagare il viaggio! In fondo una grande mappa che rappresenta tutto il complesso concentrazionario di Auschwitz comprendente Birkenau e Monowitz, piccolo sottocampo importante per l’economia tedesca grazie alla presenza della Buna, una fabbrica di plastica, e della IG Farben, una fabbrica di vernici. Saliamo al primo piano, dove ci troviamo di fronte la stanza 4, intitolata “tecniche di sterminio”. Qui alle pareti ci sono le foto scattate di nascosto da membri del sonderkommando che rappresentano, sfocate per la fretta, donne nude che corrono e fosse di cadaveri che ardono. Al centro della stanza un plastico che riproduce una camera a gas e un forno crematorio, mentre in una teca sono contenute latte di zyklon b. Nella stanza 5, intitolata alla spoliazione dei corpi, ci troviamo di fronte ai resti più impressionanti di tutto il campo: 7 tonnellate di capelli umani (qui ne sono esposte due). Nella stanza 6, una immagina rappresenta l’incendio del Kanada durato 4 giorni. Infatti i Tedeschi, man mano che L’ Armata Rossa si avvicinava,  non solo avevano fatto saltare in aria i forni crematori, ma avevano cercato di distruggere altre prove come il Kanada.

Entriamo poi, ordinatamente e sempre silentemente, nel blocco attiguo, il 5, quello contenente gli oggetti, forse il più impressionante. Ci accolgono montagne di occhiali, 80.000 scarpe, anche di bambini, (e persino il lucido da scarpe), scialli degli ebrei ortodossi, oggetti di igiene quotidiana come spazzole e pennelli da barba. L’enormità della quantità e il pensiero che ad ognuno di quei reperti corrisponde una vita umana passata nel vento, lasciano sgomenti, senza fiato né parole. La stanza 3 contiene stoviglie e posate, insomma tutto ciò che avrebbe dovuto servire alla nuova vita che ai prigionieri era stata promessa dell’Europa orientale, come coloni. Saliamo al primo piano: valigie segnate con nome, cognome, data di nascita e indirizzo per poterle poi ritrovare. Passiamo poi nel blocco limitrofo, il 7, che ci parla della vita quotidiana dei prigionieri attraverso i disegni fatti da un sopravvissuto: Wladyslaw Siwek. In fondo alla sala, in una teca sono esposti i vestiti originali del campo, i cosiddetti pigiama a strisce con i numeri (gli stessi che prigionieri portavano tatuaggi sul braccio) e i triangoli di vari colori: rosso per i politici, rosa per gli omosessuali, viola per i testimoni di Geova, nero per gli asociali, verde per i criminali comuni, l’acronimo SU per i prigionieri sovietici e infine la stella di Davide gialla ovviamente per gli ebrei.  Triangoli, stelle, colori si potevano anche sommare perché poteva capitare, come ad esempio a Primo Levi, di essere sia ebreo sia deportato politico. La stanza successiva ci pone di fronte al volto terrorizzato e sgomento di bambini di 2, 10 e 14 anni scattate alla liberazione del campo. Il bambino di 2 anni sembra un neonato, gli altri sono scheletrici così come scheletriche sono le donne: abbiamo le foto di due di loro, una di 35 anni, l’altra di 37 che il giorno della liberazione pesavano rispettivamente 25 e 23 kg. Nei lager, infatti, si moriva letteralmente di fame: al mattino veniva distribuito ai prigionieri solo del latte con un caffè molto allungato, a pranzo pane duro diluito con sabbia e un po’ di margarina o marmellata, la sera una zuppa di erbe. Passiamo alla stanza numero 3 che contiene i disegni del prigioniero Mieczyslaw Kościelniak sulla vita quotidiana nei lager. Nel corridoio ci assalgono su entrambe le pareti i volti, gli occhi e gli sguardi silenziosi dei deportati. Infatti, quando si entrava nel campo, i nazisti facevano una foto con il prigioniero in tre posizioni: davanti, di profilo e di tre quarti. Le foto qui esposte sono tutte di persone uccise rappresentante di fronte e sotto ogni foto ci sono tre date: quella di nascita, quella di deportazione e quella di morte. Ci guardano spettrali, le donne rasate non si distinguono dagli uomini. La stanza 4 è dedicata al destino delle donne e dei bambini. Le prime, private dei loro figli, perdevano la voglia di vivere e morivano più in fretta degli uomini, nell’arco di un paio di mesi; talvolta si suicidavano gettandosi sul filo spinato. Quelle incinte venivano uccise direttamente all’arrivo. I bambini deportati ad Auschwitz furono 332.000 di cui si salvarono solo 650.

La sensazione di orrore continua in climax ascendente quando arriviamo al blocco 11, il cosiddetto blocco della morte, dove venivano incarcerati, torturati, uccisi i deportati. Si veniva condotti qui anche solo per aver rubato una mela da un albero o fatto i propri bisogni senza il permesso del Kapó. Per i reati più gravi vi si riuniva un tribunale fantoccio con due membri della Gestapo. Inutile specificare l’esito del processo. Scendiamo smarriti nel sotterraneo di questo blocco costituito da varie celle che venivano usate per la tortura e per la morte. Qui è stata fatta anche la prima prova di utilizzo dello zyklon b per tre giorni consecutivi ma è stata poi ripetuta perché non era andata a buon fine. In fondo al corridoio sulla destra c’è una stanza che contiene delle microcelle di 90 x 90 cm. per la punizione di 4 prigionieri per volta che devono passare là dentro da 1 a 10 giorni. Entravano da un piccolo pertugio ubicato in basso, strisciando sul proprio ventre e spesso non ne uscivano vivi. Dall’altro lato del corridoio c’è la cella numero 20 che veniva chiamata “cella segreta” perché qui si moriva per soffocamento. Vi venivano infatti rinchiuse 30-40 persone lasciate senza aria. Nel sotterraneo dovunque il senso di soffocamento attanaglia anche noi. Adiacente ad essa c’è la cella 18, in cui prigionieri venivano lasciati morire di fame. Qui è morto anche Padre Kolbe, poi santificato, per aver dato la propria vita in cambio di quella di un padre di famiglia. C’è poi la stanza per i fuggiaschi ma non veniva rinchiusa qui sono questa categoria di persone ma anche, per rappresaglia,  per ogni fuggiasco 15 membri della sua baracca.

Adiacente a questo blocco c’è il cortile con il muro della morte. Qui non si può parlare, per rispetto. In fondo ad esso il muro della morte in cui i prigionieri, nudi, venivano condotti a coppie e poi uccisi con un colpo alla nuca. In questo cortile avvenivano anche le punizioni e le torture: possiamo vedere i pilastri usati per legare i prigionieri con i piedi sollevati da terra, in modo tale da spezzare loro le braccia, renderli dunque inabili al lavoro e quindi da gassare. Altre punizioni avvenivano attraverso frustrate e bastonate che spesso i prigionieri si dovevano infliggere da soli contando in tedesco. Se perdevi il conto,  ricominciavi da capo. Sull’altro lato di questo cortile sorge un edificio con le finestre oscurate. È il blocco 10 e le finestre sono chiuse da nere assi di legno affinché non si vedesse ciò che accadeva all’interno, cioè esperimenti di sterilizzazione delle donne e mutilazioni genitali. È vero, non si vedeva,àa ma si sentivano le urla di dolore. Angosciati, ci dirigiamo verso la piazza dell’appello passando accanto all’edificio ospedaliero che di ospedaliero in realtà aveva solo il nome perché veniva chiamato anticamera della morte. Nel reparto di chirurgia varie ditte, tra cui la Bayer, facevano esperimenti sui prigionieri cavie, ad esempio sul tifo petecchiale. Di fronte, c’è una baracca di legno che era utilizzata come lavanderia delle SS;  ovviamente solo di quest’ultime, perché ai prigionieri non era mai consentito di cambiarsi il pigiama a strisce. Passiamo l’edificio fotografico e quello che latrine e arriviamo alla Appelplatz. Qui, come dice il nome stesso, ogni mattina all’alba e ogni sera dopo il lavoro avveniva l’appello dei prigionieri, ovviamente non nominativo ma urlando in tedesco il numero che aveva sostituito non solo la dignità ma anche l’identità umana. I nazisti erano precisi e i conti dovevano tornare: se mancava qualche prigioniero (anche solo perché deceduto) l’appello veniva prolungato. Il più lungo durò per 19 ore. Qui avvenivano anche appelli punitivi, in cui i prigionieri dovevano rimanete immobili, con le braccia in alto oppure fare inutili esercizi ginnici, insostenibili per uomini così pesantemente provati. Durante l’appello avveniva anche l’uccisione dei fuggitivi precedentemente torturati. Veniva messo al loro collo un cartello con la scritta “urrà, urrà, urrà, di nuovo sono qua”  e poi impiccati. Da Auschwitz vi furono 900 tentativi di fuga, di cui 160 ebbero successo (4 prigionieri addirittura fuggirono travestiti da SS dopo averne rubato l’automobile).

Usciamo dalla zona del campo destinata ai prigionieri ed entriamo in quella dedicata alle SS e ci troviamo di fronte alla forca dove fu impiccato il capo del campo, Rudolf Hoess, dopo il processo a Varsavia. La forca sorge a metà strada fra la casa di Hoess, fatta da lui costruita nel ’43, e il crematorio, usato dal 1941 fino alla fine del 1942, quando entrarono in funzione quelli di Birkenau. Dopo divenne un bunker per le SS, mai utilizzato però, perché il campo non venne mai bombardato. Ad Auschwitz la camera a gas si è conservata. Non è lecito parlare, ma a tutti noi manca il fiato quando vediamo le 4 fessure da cui era introdotto lo Zyklon B e percepiamo odore di cenere di fronte ai forni crematori. Scioccati e ancora in silenzio andiamo al blocco 18, il memoriale degli Ebrei ungheresi, in cui, al piano terra, è proiettato un filmato originale sulla deportazione, mentre al primo piano è collocata una esposizione multimediale (in linea con le nuove direttive per gli allestimenti) di foto. C’è anche una ricostruzione in plexiglass di un vagone ferroviario. E l’allestimento di questo memoriale mi porta a parlare agli studenti dello smantellamento del memoriale italiano, il blocco 21. Inaugurato nel 1980, è costituito in forma di un’ossessiva spirale, ideata da personalità importanti del Novecento, tra cui alcuni ex prigionieri nei lager: da Lodovico Belgiojoso a Primo Levi, da Pupino Samonà a Renato Guttuso. E verosimilmente sono proprio le immagini dipinte da Guttuso che, percorrendo la storia della Resistenza partendo da Marx, Gramsci e rappresentano anche una falce e martello, ad aver dato fastidio al precedente direttore del Campo, che ne ha ordinato lo smantellamento, con la scusa che non era in linea con le tendenze di modernità e multimedialità a cui si dovevano attenere i vari memoriali. Dopo essere stato in magazzino per anni, lo ha “adottato” la Toscana e troverà sistemazione a Gavinana, presso Firenze, in piazza Gino Bartali, il ciclista italiano “giusto tra le nazioni”, dove riprenderà la sua funzione museale. Guido poi il gruppo ad un altro blocco, il 13, anch’esso poco frequentato, perché costituisce il memoriale del Popolo romanés. È questa l’occasione per parlare del porrajmos, che nella loro lingua vuol dire inghiottimento, alludendo allo sterminio di questo popolo. Usando il censimento fatto dal prefetto di Monaco Dillmann nel 1905, il regime nazista inizia a deportare gli zingari in campi di concentramento, perché considerati, inferiori, con il quoziente intellettuale più basso e l’istinto al nomadismo. Segue poi la sterilizzazione forzata ed infine il lager. Gli zingari vengono portati a Birkenau e collocati in un settore speciale del campo, chiamato appunto Zigeunerlager , che viene liquidato la notte tra il primo e il due di agosto 1944. Nel porrajmos trovano la morte 23.000 persone. L’ultima parte del nostro percorso è costituita dal blocco 27, a destra delle forche per le impiccagioni comuni. Esso è intitolato all’olocausto e ripercorre la storia del popolo ebraico attraverso immagini e sottofondo musicale. La canzone, infatti, intona che non c’è posto né luogo in tutta la terra dove non si trova un uomo che prega. Entriamo nel buio di una stanza alle cui pareti vengono proiettate scene di vita di famiglie ebraiche mentre il piano superiore è dedicato al nazifascismo: video proiettano discorsi di Hitler, folle che inneggiano a lui, estratti di Mein Kampf, immagini di roghi di libri. In una stanza delle grandi pareti bianche si trovano piccole riproduzioni a matita di disegni fatti da bambini nel lager. Commoventi. Infine alle ore 12:30 ci riuniamo tutti di fronte al cortile della morte e la delegazione della Regione Toscana, gonfaloni in testa, deposita una corona di fronte al muro della morte. Poi il nostro corteo si snoda, sempre più silenzioso e toccato, per i vialetti di Auschwitz, ed usciamo, pieni di commozione e interrogativi irrisolti, da quello stesso cancello che i prigionieri avrebbero tanto voluto varcare da uomini liberi.