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Quando i piatti erano vuoti

La minestra di castagne secche che unisce alle ben note virtù nutritive anche un effetto emolliente delle vie respiratorie; una pasta asciutta condita con ricotta fresca a cui amalgamare l’acciuga e qualche cucchiaino d’acqua calda; le patate in crema rossa senza condimento o il «super brodo di guerra» – tale per l’abbondanza di ortaggi a lungo bolliti e generosamente insaporiti – consigliato per convalescenze e speciali stati di indebolimento grazie al suo straordinario potere nutritivo, tanto da renderlo degno sostituto del suo omologo a base di carne. Sono solo alcune delle ricette che un corposo volumetto, edito a Firenze dalla Salani nel 1942, La cucina del tempo di guerra, invitava a sperimentare. L’autrice, Lunella De Seta, spiegava alle massaie come ingegnarsi per rendere meno mesta e spoglia la tavola; il tutto tenendo fede alla morale patriottica del «nulla vada perduto!».

Del decennio 1940-‘50 nel nostro Paese si ricordano le bombe, la fine del fascismo, la difficile ricostruzione e, soprattutto, la fame. La lunga autarchia imposta dal regime aveva da subito messo alla prova gli Italiani, ma le avvisaglie di una penuria, presto tramutatasi in miseria, erano state evidenti fin dalla vigilia della guerra. L’Italia non era ancora entrata nel conflitto e già, nel 1939, veniva diffuso il primo provvedimento che limitava la somministrazione del caffè, assenza a cui si era cercato di supplire con l’uso di orzo, insaporito da ceci tostati o dalla soia; anche il , di importazione inglese, era stato bandito e i negozi lo avevano sostituito con karkadè, un infuso amarognolo che aveva il merito di giungere direttamente dalle nostre colonie; e ancora, nel settembre dello stesso anno era stato emanato il divieto di vendere carni per due giorni a settimana.

A guerra in corso, poi, le restrizioni e privazioni erano aumentate progressivamente. Alla fine del 1940, il pane iniziava a essere miscelato con farina di granoturco e la pasta erogata per un massimo di due chili al mese a persona (quantità che in Toscana era stata ridotta presto a un solo chilo). A Pasqua era stato fatto divieto di distribuzione di dolci e con l’autunno il pane era finito tra i prodotti “tesserati” e fornito in una quantità di 200 grammi a testa al giorno (divenuti poco dopo 150). Sempre più introvabili carne, burro, olio e zucchero, mentre per il latte era necessario iscriversi al “registro del lattaio”. L’unica alternativa, per supplire alla penuria alimentare, era ben presto diventata quella di acquistare al “mercato nero”, a prezzi spesso insostenibili.

 In fatto di alimentazione la Toscana parve, inizialmente, cavarsela meglio di altre regioni. In particolare, la Provincia di Firenze, autosufficiente in tempi di libertà economica solo rispetto a pochi prodotti come l’olio e il vino, la frutta e la verdura ma, al contrario, importatrice di farina, pasta, carne, latte, formaggi, legumi e zucchero, aveva comunque continuato a ricevere rifornimenti anche dopo l’instaurazione del sistema controllato degli scambi commerciali, fino a quando l’intensificarsi delle incursioni aeree (la costa toscana fu colpita dai bombardamenti fin dalla primavera 1943, mentre su Firenze le bombe caddero per la prima volta contro la stazione di Campo di Marte il 25 settembre dello stesso anno) e l’interruzione di alcuni tratti delle linee ferroviarie avevano rallentato il flusso dei prodotti provenienti dall’Emilia e dalla Lombardia, impedendo la formazione di depositi alimentari.

La situazione aveva iniziato a peggiorare progressivamente con l’avanzata degli Alleati e le pagine dei quotidiani erano presto diventate il mezzo più comune per diffondere avvertimenti e consigli ai cittadini al fine di aiutarli a sopportare le penurie del momento. Così, il 7 luglio 1944, su «La Nazione», comparivano suggerimenti su come conservare il pane affinché durasse più a lungo; qualche giorno più tardi vi si leggevano indicazioni per «trasformare un comune fornello in cucina economica»; e ancora, si invitava la popolazione a tenere provviste di acqua in casa. In quei mesi, poi, l’annona distribuiva in abbondanza piselli secchi, farina vegetale, riso, concentrato di pomodoro, fagioli, tutti prodotti a lunga conservazione. Segno che l’attesa sarebbe stata lunga.

Migliore la condizione alimentare nelle campagne che, soprattutto dopo l’armistizio, avevano accolto sfollati, ebrei, renitenti, disertori e prigionieri alleati, offrendo loro cibo e riparo, talvolta in modo solidale e gratuito, altre scambiando l’ospitalità con beni “urbani” quali denaro e informazioni.

Nonostante la produzione agricola si fosse ridotta notevolmente a causa della scarsa disponibilità di fertilizzanti, macchinari e manodopera maschile (in assenza degli uomini erano le donne e i ragazzi non in età adulta a occuparsi dei campi) e fossero costanti razzie e distruzioni, le periferie rurali avevano di certo beneficiato di quell’antica capacità di saper fare e produrre tutto “in casa”. Tra le pareti domestiche, infatti, si abbrustoliva l’orzo per il caffè, si pigiava l’uva per ricavarne il vino, si spaccavano i semi di ricino per realizzare il sapone, si producevano pane e pasta, si raccoglievano e cucinavano i prodotti dell’orto e del maiale «non si buttava via nulla». Un’autosufficienza che in quegli anni aveva posto il mondo rurale, ambiente tradizionalmente povero ed umile, in una posizione di superiorità rispetto a quello cittadino, ancor più fiaccato e immiserito dagli eventi bellici.

A fine luglio ‘44, come testimoniava una relazione presentata dal Comitato Alimentare al Ctln [Comitato Toscano di Liberazione Nazionale], la situazione alimentare sembrava essere, nella provincia di Firenze, sempre peggiore. Il problema più grave era rappresentato dalla scarsezza delle scorte: totalmente assenti quelle di grano, pane e pasta. Conigli, polli e animali da cortile erano praticamente scomparsi. Se buono si profilava il raccolto del granturco e discreto quello dei fagioli, perduto era quello di patate e piselli. Non vi erano scorte di olio, dal momento che 2.000 quintali erano stati consegnati ai tedeschi. «Un quadro realistico della situazione che si riassumeva in una parola: fame». E non stupisce che, qualche mese più tardi, alla vigilia dell’ennesimo Natale in guerra, l’intervista su «La Nazione del Popolo» a “un macellaio onesto” – tale perché disposto ad ammettere con franchezza di praticare il mercato nero e pronto a spiegarne i meccanismi – aveva ben presto acquisito i toni di una nostalgica chiacchierata a due sui bei tempi andati, quelli in cui era facile e possibile l’acquisto di bestiame, bistecche e altra roba ancora «che, qui, in un Natale magro come questo non è il caso di rievocare».