GIORNATA DELLA MEMORIA – Visita a Sant’Anna con il Circolo “G.E. Modigliani”

27 Gennaio 2019 – dalle ore 8:30
Partenza da: ritrovo Parcheggio adiacente a via Giotto Ciardi – le Due Torri Porta a Terra

 

Visita a Sant’Anna di Stazzema

Il Circolo Modigliani di Livornoe con il contributo dell’Associazione “Italia-Israele” e della Comunità Ebraica di Livorno, organizza una visita a Sant’Anna di Stazzema, una riflessione sull’immane tragedia che si abbatté nell’Agosto del 1944 sulla popolazione civile di Sant’Anna di Stazzema.
I partecipan saranno ricevu dal Sindaco di Sant’Anna di Stazzema, Maurizio Verona, che per la circostanza ha autorizzato l’apertura del Museo al mattino della domenica, dove i partecipanti potranno registrarsi formalmente all’Anagrafe Nazionale Anfascista.

Le prenotazioni terminano il 25 gennaio p.v.

Tutte le info utili in allegato.




GIORNATA DELLA MEMORIA – Cecina

GIORNATA DELLA MEMORIA nel Comune di Cecina

Sono tre le iniziative organizzate dal Comune di Cecina in occasione della Giornata della Memoria 2019.

1) Giovedì 24 gennaio verrà proiettato al cinema multisala Tirreno il film “Gli invisibili” di Oren Moverman: la mattina per le scuole all’interno del progetto “Lanterne magiche” e la sera per la rassegna cinematografica di qualità “Cine forum”, in collaborazione con UniCoop Tirreno, sezione Soci Donoratico-Cecina.

2) Lunedì 28 gennaio alle ore 10, invece, in piazza Iori verrà inaugurato un murales, realizzato dagli studenti dell’istituto professionale grafico “Marco Polo”, dedicato a Mauro Betti, l’ultimo testimone toscano della deportazione nei campi di concentramento tedeschi, scomparso lo scorso anno a maggio. All’evento, coordinato dalla scuola comunale di teatro Artimbanco, parteciperanno gli alunni delle scuole di Cecina. Di fatto, saranno presenti, attivamente, gli otto studenti del Liceo Fermi che stanno partecipando in questi giorni al Treno della Memoria e che racconteranno la loro esperienza, la classe 4C del liceo scientifico che ha lavorato alla realizzazione di un libro di memorie sul tema dei bambini vittime del razzismo, attualmente in concorso a Roma e la classe 2D dello stesso Liceo, che ha scritto dei racconti a partire da un testo letto in classe sui sogni degli ebrei. Ma anche alcune classi dell’Isis Marco Polo e alcune classi terze delle scuole medie Galilei.

3) La terza iniziativa, il “Violino della Shoah”, si terrà infine sabato 2 febbraio alle ore 10 in Comune Vecchio. Si tratta di un concerto curato da Eyal Lerner, autore del “Progetto Memoria” e aperto alle scuole medie e superiori del territorio, che vedrà il celebre violino della Shoah, ritrovato nel campo di concentramento di Buchenwald, suonato dal maestro Alessio Cercignani “dialogare” con il coro delle Voci bianche della scuola di musica “Sarabanda”, diretto da Meri Dani, due ensemble della stessa scuola (uno composto dagli allievi e l’altro formato dai maestri Alessio Cercignani, Corinne Pascucci, Francesco Genovesi, Federico Rovini e Federica Favilli) e con il Quartetto di Flauti Magici composto dalle quattro flautiste Michela Ciulli, Noemi Gaglio, Sara Capanna e Rita Ferrini. Durante la mattinata verranno inoltre lette ed interpretate delle testimonianze dai giovani attori della scuola di teatro comunale Artimbanco. Lo spettacolo sarà ripetuto anche alle 21.15, sempre presso il Comune Vecchio, a beneficio di tutta la cittadinanza.

Ufficio Informazione
e-mail: informazione@comune.cecina.li.it
mobile: +39 329 5398053




GIORNATA DELLA MEMORIA – “Lettera alla madre”

Sabato 26/1/2019 ore 21.15

LETTERA ALLA MADRE – In teatro

Torna “Storie in Con_fusione”, la stagione teatrale del Teatro Comunale di Laterina, e in occasione della Giornata della Memoria propone lo spettacolo “Lettera alla Madre” dal romanzo di Edith Bruck adattamento e regia Alessandra Bedino con Alessandra Bedino e la musica dal vivo di Claudia Bombardella.

La scrittrice ungherese Edith Bruck, nel 1988, al culmine della sua carriera di scrittrice e regista, inizia a scrivere una lettera a sua madre, morta ad Auschwitz nel lontano maggio 1944. Una donna ferita e allo stesso tempo invincibile, che ancora si interroga sul proprio destino di bambina ebrea trascinata a forza nel lager e sopravvissuta ai suoi cari, su un Dio che sembra essere sempre troppo lontano, su uno Stato, quello d’Israele, che sembra non aver imparato niente dalla sua stessa storia.

è una lunga impossibile lettera. Un atto d’accusa e una disperata richiesta d’amore. Lite e riconciliazione, ribellione e preghiera. Cinquant’anni dopo.

In scena Alessandra Bedino e Claudia Bombardella intrecciano parole, musica, canto,
lingue diverse, per un viaggio che dal passato arriva al presente attraversando le
contraddizioni dell’anima umana.

info e prenotazioni:
info@drittoerovescio.net
tel. 0553986471 – cell. 3382715639
whatsapp 3917333230

locandina 26.1.2019




GIORNATA DELLA MEMORIA – Il racconto di Elisabetta Salvatori

25 e 26 gennaio 2019

GIORNATA DELLA MEMORIA 2019 (1)




A PIEDI LUNGO IL SENTIERO DELLA MEMORIA – Passeggiata della Memoria

A PIEDI LUNGO IL SENTIERO DELLA MEMORIA

Un’iniziativa ormai consueta anche quest’anno aperta agli studenti delle scuole cavrigliesi affinché siano loro per primi a riflettere sull’insegnamento che il passato ci ha lasciato in eredità.

Nella mattinata di sabato 26 gennaio si rinnoverà l’appuntamento con la “Passeggiata nella Memoria”, evento promosso dall’Amministrazione Comunale in sinergia col Museo Mine e l’Associazione Culturale “Meleto vuole ricordare” che apre gli eventi promossi in occasione del “Giorno della Memoria”. La camminata prenderà in via dall’antico borgo di Castelnuovo dei Sabbioni con ritrovo fissato per le 9.

Il percorso si chiuderà a Meleto Valdarno dopo aver “toccato” alcuni dei luoghi dove vennero perpetrati gli eccidi nazifascisti che colpirono la comunità cavrigliese nel luglio del 1944. L’evento coinvolgerà le classi della scuola secondaria dell’Istituto Comprensivo “Dante Alighieri” per sensibilizzare i giovani sul significato degli eventi che il passato ci ha lasciato in eredità. La passeggiata sarà animata da alcune letture.

Percorso (lunghezza di circa 5 km):
Partenza dal borgo di Castelnuovo dei Sabbioni, si prosegue a piedi verso il Circolo Sociale, poi lungo la Provinciale delle Miniere fino a Località Pian di Colle, ingresso nell’area mineraria e successivo arrivo al monumento ai caduti di Meleto Valdarno.

Al termine della passeggiata pranzo al Circolo Sociale di Meleto.
Prenotazione obbligatoria entro giovedì 24 gennaio.
Costo 12 €
Per info 055 961073 – 055 9669733

Passeggiata nella memoria 2019




Europa: dal passato al futuro. Il Treno della Memoria 2019

23 gennaio: questa mattina inizia la nostra visita di Cracovia sotto la neve a meno 7 gradi, ma ci stiamo quasi abituando al freddo. Ironia della sorte si è invece ammalata la nostra guida con 39 di febbre! Trovata poi una nuova, comincia la nostra escursione. Cracovia, inserita nel patrimonio dell’Unesco (accoglie infatti 10 milioni di turisti all’anno) era stata la capitale della Polonia prima di Varsavia. Contando la popolazione studentesca, ha circa un milione di abitanti. È una città ricca di cultura, con ben 29 università. Durante l’occupazione nazista, Cracovia fu sede del governatorato tedesco, che si installò nel Wavel fino alla liberazione da parte dell’armata rossa il 18 gennaio 1945, anche se la nostra guida (cosa che nella Polonia attuale non stupisce) dice “siamo caduti dalla padella alla brace”, aggiungendo addirittura che si stava meglio sotto i nazisti! Poi inneggia a Papa Wojtyla, e a Solidarnosch che hanno portato la libertà e al governo attuale che ha ridotto la disoccupazione al 2%.
La nostra visita inizia sulla Vistola sotto la Fortezza del Wavel. Il fiume è stato frutto della ricchezza della città perché, sfociando presso Danzica, era mezzo di comunicazione commerciale : da qui partiva l’oro bianco, cioè il sale, e qui arrivava l’oro giallo, cioè l’ambra.
Il primo castello del Wavel è stato fondato alla fine del XI secolo e poi è stato ampliato dopo il 1320, quando Cracovia è diventata capitale, subendo ulteriori trasformazioni in epoca rinascimentale. Adesso è sede museale, che conserva anche la celeberrima Dama con l’ermellino di Leonardo da Vinci. Purtroppo non c’è tempo per visitarlo, così come non visitiamo neppure la cattedrale, che sorge su quella stessa collina.
Percorriamo la “via canonica”, e, come spesso accade visitando Cracovia con una guida, ci tocca una sorta di pellegrinaggio tra una foto del papa e l’altra che costeggiano la strada. Imbocchiamo poi una parte della Via Reale, chiamata via del Castello peri congiunge esdo con la piazza principale. Questa via è detta anche strada delle chiese, perché ve ne sorgono ben 10, la maggior parte costruite per volere dei gesuiti nel 1600, utilizzando anche architetti italiani. La guida ci tiene a farci vedere la chiesa dei Santi Pietro e Paolo dove si sono sposati i genitori del Papa! In tutta la città sono ben 130 chiese. Arriviamo nella piazza principale, la Piazza del mercato, grande ben 4 ettari, divisa a metà dal palazzo loggiato chiamato Palazzo dei tessuti (adesso pieno solo di souvenir). Tutti i monumenti di questa Piazza sono stati fatti saltare in aria dai nazisti che non volevano che si conservassero le vestigia della grandezza polacca. La nostra visita si conclude sotto la torre, l’unica traccia dell’ex municipio abbattuto dagli Asburgo nel 1800 per poter creare qui una piazza d’armi.

Quindi, presso l’università Jagellonica, la più antica della Polonia, si tiene il dialogo fra studenti italiani e polacchi e i testimoni sopravvissuti ad Auschwitz.
Partecipano il Magnifico Rettore dell’università, il vice sindaco di Cracovia, il direttore della commissione europea in Polonia, il presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi, ambasciatori e consoli dei due paesi e il vicepresidente della commissione europea, Frans Timmermanns.
Coordina l’incontro con i testimoni, due italiane -le sorelle Bucci- e una polacca – Lidia Maksymowicz- il professore Gozzini.
La prima parte dell’incontro verte sulle loro testimonianze.
Andra questa volta racconta anche ciò che accadde loro alla liberazione del campo: una jeep con un uomo che, in una lingua diversa, offre loro del cioccolato. Dopo un breve soggiorno in ospedale, vengono trasferite in una scuola di Praga, dove ricevono cure ma non amore. La loro rinascita avviene in un collegio inglese, nel Surrey, dove vengono trasferite dalla croce rossa insieme ad altri bambini ebrei. Tatiana si sofferma invece sul ricongiungimento con i genitori, iniziato con una fotografia che li ritrae nel giorno del matrimonio e terminato con un viaggio in treno, percepito da loro come noioso, da Roma a Trieste.
Oggi le sorelle parlano con voce limpida, con la consueta complicità, quella che ha contribuito a salvare loro la vita. È la volta di Lidia, una delle ultime testimoni polacche, anche lei deportata bambina. In comune con le sorelle Bucci sente il silenzio delle baracche, il dover imparare presto il tedesco, e l’interesse sadico del Dottor Mengele.
Lidia racconta l’estenuante viaggio in treno, alla fine del ’43, dalla Bielorussia ad Auschwitz, la selezione: il nonno e la nonna sono indirizzati verso le ciminiere, mentre lei e la mamma vengono mandate verso “la vita”. E fa effetto sentir questa parola, così come il fatto che lei non abbia riconosciuto la madre, vestita con il pigiama a righe e rasata. Con voce ferma racconta la vita nella baracca, fra insetti e diarrea, imparando a convivere con la morte. Pallida e trasparente, cercava di nascondersi quando veniva chiamata da Mengele, che utilizzava loro come cavie per creare “l’uomo nuovo”, il prefetto ariano. È bello sentire della solidarietà da parte di certi abitanti dei paesi limitrofi, che alla madre, che lavorava schiava lungo la Vistola, davano un po’di cibo. Già da bambina Lidia impara la lotta per la sopravvivenza e la mancanza di solidarietà: perfino fra bambini non si parlava.
Un altro dettaglio che la unisce ad Andra e Tatiana è il ricordo dell’arrivo di un soldato con la stella rossa, che le dà pane e margarina. Portata per qualche mese in una casa di Oswiecim, riscopre la normalità, anche se i segni del male assoluto sa che sono rimasti dentro di lei.
Adesso son gli alunni a fare domande: “quali pensieri vi hanno aiutato nel campo a sopravvivere?” Le Bucci rispondono il fatto di essere in due; Lidia cambia argomento e narra invece il ricongiungimento dopo anni, in Russia, con la madre, che ella credeva morta. Alla domanda “perché il male assoluto non è riuscito a cambiare l’umanità?” Tatiana sospira a lungo, poi dice di non capirne la ragione, perché gli uomini sono tutti uguali; secondo Lidia dipende dai giovani come sarà il mondo in futuro.
La seconda parte dell’incontro verte su quel grande guscio protettivo che è l’ Europa. Timmermanns asserisce che essa è nata sulle ceneri dei campi di concentramento nazisti. Invita poi i giovani a votare alle prossime elezioni europee, a maggio, in maniera consapevole.
Iniziano poi le domande del Citizen Dialogue. La prima verte sulla Brexit, che Timmermanns definisce la più grande ferita nella sua carriera politica. Una studentessa polacca domanda se si stanno prendendo provvedimenti a livello europeo contro le fake news che condizionano gli esiti elettorali. Timmermanns risponde che c’è stata una conferenza a Bruxelles su questo argomento e anche sulla propaganda alla violenza via internet. Ma la legislazione non sarà l’unica risposta, la principale sarà il pensiero critico. Uno studente polacco invita polemicamente Timmermanns a persuaderlo di seguire questo modello obsoleto di Europa. La risposta tuona energica e un po’ adirata: “non sopporto chi si lamenta senza agire. Fate voi in modo che l’Europa assomigli all’idea che avete di essa, plasmatela, cercate strumenti per combattere le recrudescenza di fascismo, l’aumento dei nazionalismi -bravi a paralizzare e distruggere, mai a costituire-, l’ascesa della Cina, la crisi nell’Europa meridionale”. Prende poi la parola il presidente del Parlamento giovanile toscano, che inneggia all’accoglienza e chiede come si fa per far tornare l’ Europa un valore, per far capire che la mescolanza etnica è una risorsa. Rossi risponde che la Toscana è già multietnica, con 100.000 rumeni, che si sono integrati e fanno in gran parte i muratori, altri 100.000 dall’Albania, la maggior parte dei quali fanno i vivaisti. E poi molti altri dall’est Europa, dalla Cina e dal Nord Africa. Bisogna combattere il razzismo, già concedendo a tutti i bambini nati sul suolo italiano la cittadinanza italiana. Ma figuriamoci se questo governo discuterà dello ius soli, penso fra me e me. “Dobbiamo combattere l’indifferenza e l’ignavia e non permettere che muoiano altre persone, ad esempio in mare, senza aiuto”. Timmermanns, grande conoscitore del nostro paese, dice che sa che l’Italia, così come la Grecia, si sono sentite abbandonate dalla Unione Europea di fronte al problema dei flussi migratori. L’UE, invece, deve fare sentire che i problemi del vicino sono i tuoi. La questione successiva verte sulle posizioni euroscettiche, sulla percezione che l’UE non sia più un’unione fra popoli ma fra banche. “L’Europa non è un’istituzione del passato, diciamolo con determinazione, non con aggressività.
È in gioco il futuro dell’Europa! parliamone. La commissione europea non è che un piccolo strumento nelle mani dei cittadini”. Con questa esortazione di Timmermanns si conclude il Citizen Dialogue sul futuro dell’Europa: imparare dal passato, capire il futuro.
Articolo pubblicato nel gennaio del 2019.



Dialogare con la memoria: gli ultimi testimoni. Il Treno della Memoria 2019

Dopo le visite ai campi, il viaggio prosegue in un cinema di Cracovia con un denso pomeriggio di formazione centrato sull’incontro con i testimoni, organizzato, come tutto il viaggio, impeccabilmente dal Museo della deportazione. Apre il pomeriggio al cinema Krilov, l’instancabile Ugo Caffaz, che con tono allarmato, afferma che stiamo attraversando di nuovo un periodo in cui l’Europa -la sua Unione- va a pezzi, in cui (notizia di oggi) si afferma che i protocolli dei Savi di Sion siano veri e che la banca degli Ebrei, cioè i Rothschild, stiano di nuovo mandando in crisi il sistema finanziario mondiale. Seguono i saluti istituzionali, che citano le parole di Liliana Segre contro l’indifferenza. Il Professor Gozzini  cita, invece, la lettera scritta da Hoess la notte prima di essere giustiziato nel 1947 “il mio errore è stato quello di credere ciecamente in ciò che mi è stato detto”. Poi invita a riconoscersi negli occhi degli altri -questa è l’humanitas- e conclude dicendo che come abbiamo il “librone” dei nomi dei morti di Auschwitz, oggi noi dovremmo prendere un librone bianco e raccoglievi i nomi di coloro che sono scomparsi nel Mediterraneo.

Poi salgono sul palco fra gli applausi Andra e Tatiana, figlie di famiglia mista, ebrea da parte di madre, la quale con la nonna era fuggita da un pogrom nell’est Europa a Fiume, città che, alla loro nascita, era Italiana. Nel ’38, per le leggi razziali, parte dei parenti perde il lavoro e il padre italianizza per sicurezza il cognome da Bucich a Bucci. Allo scoppio della seconda guerra, egli, che navigava per il Lloyd Adriatico, viene imprigionato in Sud Africa. Nell’estate del ’43 il resto della famiglia viene raggiunto dalla zia Gisella con il figlio Sergio con il quale loro, bambine, vivono una infanzia normale, fino a una notte del ’44 in cui delle SS e dei fascisti, in seguito a una delazione, si presentano alla loro porta e tutta la famiglia viene arrestata e deportata alla Risiera di San Sabba. Da lì inizia il lungo e doloroso viaggio in treno verso Auschwitz, dove arrivano il 4/4/44 Di esso Tatiana ricorda il secchio con gli escrementi. L’arrivo alla Judenrampe lo racconta Andra, così come la prima selezione, in cui nonna e zia vengono fatte salire su dei camion e scompaiono per sempre. Il suo ricordo di sposta poi nella sauna, dove vengono tatuate. Ma il racconto è interrotto dal pianto, coperto dagli applausi. Andra si riprende e narra la divisione dalla mamma e la collocazione nel Kinder Block. Così inizia una nuova vita, caratterizzata da un grande spirito di adattamento. Ciò che più ricorda è la ciminiera che sputa fumo e fiamma ed il freddo, la neve. Di giorno erano abbastanza liberi e vagavano nel campo fra cumuli di cadaveri. La loro blokowa un giorno le avverte di non fare un passo in avanti, qualora venisse loro chiesto di rivedere le loro mamme. Ma Sergio fa quel passo e, deportato a Neuengamme, muore da cavia di esperimenti medici.

Poi viene proiettato un video di Slomo Venezia,  che racconta la sua terribile esperienza nel sonderkommando. A seguire quello di Hugo Hoellnreiner, la cui storia si è tramandata grazie al prigioniero politico Tadeusz Joachimowski che ha nascosto in un secchio il nome dei deportati Sinti.

Sale poi sul palco Silvia Rusich, in memoria del padre deportato perché oppositore politico. Il babbo le raccontava della lotta  partigiana in modo gioioso, non nascondendosi. In pensione il padre, maestro elementare,  ha iniziato a scrivere ma lei non volle leggere i suoi scritti se non dopo la sua morte. Infatti, andando all’Arena di Pola,   per la quale lui scriveva, Silvia legge alcune parole del padre, che raccontano di Flossenbürg e delle marce della morte.

È la volta di Luca Bravi che ci introduce la testimonianza di Marcelli Martini, il più giovane deportato politico di Italia, a 14 anni. Dapprima incarcerato alle Murate, fu portato a Mauthausen, dal quale si chiede come abbia fatto a sopravvivere. Ricorda una decimazione durante un appello, poi esorta i giovani ad imparare “Perché quello che tu sai o che sai fare non te lo può levare nessuno”.

Sempre Bravi introduce, citando il paragrafo 175 che condannava gli omosessuali, la testimonianza di Hans F.,  che, intervistato nel 2000, non sa o ha ancora paura di dire il suo cognome. Hans racconta del suo arresto senza processo e dell’internamento prima a Dachau, poi a Buchenwald, e infine a Mauthausen. Complessivamente restò  nei campi per 8 anni e 4 mesi. Al ritorno non ne ha parlato con nessuno, neppure con la madre o il fratello, per vergogna.

Torna sul palco Caffaz, che introduce il tema degli IMI, gli internati militari italiani: 650.000, di cui solo 40.000 dalla Toscana, deportati per aver rifiutato di servire Hitler e Mussolini. Viene poi trasmessa la testimonianza di Antonio Ceseri, salvatosi per essere rimasto sepolto vivo sotto non una montagna di cadaveri. Dopo un anno dalla sua deportazione, tornato, deve rifare 8 mesi di servizio militare in marina, a sminare l’Adriatico e dice ironicamente con il suo accento toscano “sta’ a vede’ che so’ sopravvissuto a Hitler e ora muoi in Italia dopo che la guerra è finita”. Quando gli viene chiesto se lo rifarebbe, risponde “assolutamente sì”. Grande esempio di coraggio e di coerenza.

Infine sale sul palco Vera Vigevani Jarach, 90 anni, che con il suo incrollabile sorriso e fiducia nella vita, inizia dicendo “mai più il silenzio”. Poi racconta che due settimane fa le è stata recapitata una lettera del 1943 di suo padre, che dichiara di volersi arruolare per l’Italia libera e per salvaguardare la dignità degli uomini. Ciò dimostra il patriottismo ebraico. Dopo racconta un altro episodio accadutole qualche mese fa: a Venezia le è stata consegnata la pagella di suo marito. Il voto più alto era la condotta! Ciò richiama come contrappasso per opposizione la pagella di sua figlia Franca, che nella sua ultima pagella, aveva tutti 10 ma “male” a condotta, perché in Argentina c’era già la dittatura e lei, da studente, vi si opponeva, cosa che la porterà alla morte. Quando ci sono i sintomi, i prolegomeni della crisi della democrazia, dice Vera, bisogna prendere parte, cioè diventare partigiani. Definendosi un’ottimista, anche se non assoluta, dice che per farlo ci vogliono volontà (e qui cita Gramsci), speranza e testa, cioè il pensiero critico. E rammenta che ora bisogna ancora lottare contro la fame (dovuta al colonialismo), le guerre, il femminicidio. Conclude citando Dante, il terzo canto dell’inferno: mai per viltade fare il gran rifiuto!

La nostra serata è conclusa con la musica particolare e trascinante di Enrico Fink, attore, cantante, musicista, che fa una sorta di teatro canzone, fondendo correnti diverse e recuperando cultura ebraica e storia familiare. [Sullo spettacolo di Fink vedi file allegato]

Senza che si accendano le luci per non rovinare l’atmosfera, defluiamo lenti, dopo un lunghissimo applauso ad Enrico e a tutti coloro che hanno contribuito a questo memorabile incontro.

Articolo pubblicato nel gennaio del 2019.




“Scoprire” Auschwitz. Il Treno della Memoria 2019

Sono alle 8:30 di mattina del 22 gennaio quando arriviamo ad Auschwitz, al campo madre, costruito fuori dalla città per cercare di nascondere ciò che vi accadeva. Esso si estende per 7 ettari e contiene 28 blocchi, creato nel giugno del ‘40 nel luogo dove già esisteva una caserma dell’esercito polacco alla confluenza della Vistola. Dopo aver superato i controlli di sicurezza, degni di un aeroporto internazionale che ti danno subito l’idea di quanto questo luogo di memoria sia ancora sotto pericolo, entriamo dal cancello principale, famigerato per la cinica scritta “Arbeit macht Frei”. Infatti  Auschwitz era un campo di lavoro, dove i deportati venivano usati per faticare nelle miniere di carbone circostanti o nei campi. Così inizia la nostra visita. Ovunque silenzio, solo i nostri passi attutiti dalla suola di gomma dei nostri scarponcini. All’ingresso la temperatura è -9, percepita -12, ma sentiamo meno freddo anche perché forse ormai fa parte di noi o forse perché un pallido sole dà l’illusione della vita sul gelo della morte. Ci avviamo, superando il luogo dove si trovava l’orchestra che suonava delle marce allegre all’entrata e all’uscita dei lavoratori schiavi. Ci avviamo fra i vialetti di quello che oggi è un museo. Esso è stato creato già nel 1947, 2 anni soli dopo la liberazione del campo.

Il lager conteneva fra i 1200 e i 1500 prigionieri alloggiati in blocchi di muratura a due piani, sfruttati dalle cantine fino al sottotetto. La nostra prima tappa è il blocco 4 recante all’ingresso la scritta “sterminio”. A destra, una grande mappa con Auschwitz al centro, nel cuore dell’Europa, un grande snodo ferroviario; puntini neri invece segnano i ghetti e i campi di transito da cui sono partiti i treni diretti qui. Dal 1940 al 1945 sono stati deportati qua 1.300.000 persone,  prevalentemente ebrei, ma anche 55.000 prigionieri politici e altrettanti prigionieri di guerra russi (infatti la Russia non aveva firmato la convenzione di Ginevra) e 23.000 “zingari”. In quella stessa stanza si trova una urna con ceneri umane. I primi a fare ingresso nel lager furono 728 membri della intellighenzia polacca seguiti da alcuni ecclesiastici. Nella stanza successiva ci sono delle foto tratte dall’album Auschwitz che rappresentano l’arrivo di deportati dopo la sua sommossa del ghetto di Varsavia e alcune baracche dello Zigeunerlager, cioè la zona destinata agli zingari. La terza stanza prende il nome di strada della morte, infatti alle pareti campeggiano delle foto rappresentanti l’arrivo nel lager alla Judenrampe. Oltre alle SS vediamo raffigurati anche alcuni prigionieri. Essi cercavano di aiutare i nuovi arrivati suggerendo di non dire che facevano lavori da intellighenzia né che avevano meno di 14 anni,  (ciò li avrebbe condannati a una morte sicura ma questo non lo potevano rivelare). Accanto una foto rappresenta la divisione tra uomini da una parte, donne e bambini dall’altra, seguita da un’altra che raffigura le valigie ed altri oggetti ammucchiati sulla rampa mentre il convoglio se ne va, vuoto. Dall’altra parte della stanza c’è una copia dei biglietti ferroviari perché i deportati si devono pure pagare il viaggio! In fondo una grande mappa che rappresenta tutto il complesso concentrazionario di Auschwitz comprendente Birkenau e Monowitz, piccolo sottocampo importante per l’economia tedesca grazie alla presenza della Buna, una fabbrica di plastica, e della IG Farben, una fabbrica di vernici. Saliamo al primo piano, dove ci troviamo di fronte la stanza 4, intitolata “tecniche di sterminio”. Qui alle pareti ci sono le foto scattate di nascosto da membri del sonderkommando che rappresentano, sfocate per la fretta, donne nude che corrono e fosse di cadaveri che ardono. Al centro della stanza un plastico che riproduce una camera a gas e un forno crematorio, mentre in una teca sono contenute latte di zyklon b. Nella stanza 5, intitolata alla spoliazione dei corpi, ci troviamo di fronte ai resti più impressionanti di tutto il campo: 7 tonnellate di capelli umani (qui ne sono esposte due). Nella stanza 6, una immagina rappresenta l’incendio del Kanada durato 4 giorni. Infatti i Tedeschi, man mano che L’ Armata Rossa si avvicinava,  non solo avevano fatto saltare in aria i forni crematori, ma avevano cercato di distruggere altre prove come il Kanada.

Entriamo poi, ordinatamente e sempre silentemente, nel blocco attiguo, il 5, quello contenente gli oggetti, forse il più impressionante. Ci accolgono montagne di occhiali, 80.000 scarpe, anche di bambini, (e persino il lucido da scarpe), scialli degli ebrei ortodossi, oggetti di igiene quotidiana come spazzole e pennelli da barba. L’enormità della quantità e il pensiero che ad ognuno di quei reperti corrisponde una vita umana passata nel vento, lasciano sgomenti, senza fiato né parole. La stanza 3 contiene stoviglie e posate, insomma tutto ciò che avrebbe dovuto servire alla nuova vita che ai prigionieri era stata promessa dell’Europa orientale, come coloni. Saliamo al primo piano: valigie segnate con nome, cognome, data di nascita e indirizzo per poterle poi ritrovare. Passiamo poi nel blocco limitrofo, il 7, che ci parla della vita quotidiana dei prigionieri attraverso i disegni fatti da un sopravvissuto: Wladyslaw Siwek. In fondo alla sala, in una teca sono esposti i vestiti originali del campo, i cosiddetti pigiama a strisce con i numeri (gli stessi che prigionieri portavano tatuaggi sul braccio) e i triangoli di vari colori: rosso per i politici, rosa per gli omosessuali, viola per i testimoni di Geova, nero per gli asociali, verde per i criminali comuni, l’acronimo SU per i prigionieri sovietici e infine la stella di Davide gialla ovviamente per gli ebrei.  Triangoli, stelle, colori si potevano anche sommare perché poteva capitare, come ad esempio a Primo Levi, di essere sia ebreo sia deportato politico. La stanza successiva ci pone di fronte al volto terrorizzato e sgomento di bambini di 2, 10 e 14 anni scattate alla liberazione del campo. Il bambino di 2 anni sembra un neonato, gli altri sono scheletrici così come scheletriche sono le donne: abbiamo le foto di due di loro, una di 35 anni, l’altra di 37 che il giorno della liberazione pesavano rispettivamente 25 e 23 kg. Nei lager, infatti, si moriva letteralmente di fame: al mattino veniva distribuito ai prigionieri solo del latte con un caffè molto allungato, a pranzo pane duro diluito con sabbia e un po’ di margarina o marmellata, la sera una zuppa di erbe. Passiamo alla stanza numero 3 che contiene i disegni del prigioniero Mieczyslaw Kościelniak sulla vita quotidiana nei lager. Nel corridoio ci assalgono su entrambe le pareti i volti, gli occhi e gli sguardi silenziosi dei deportati. Infatti, quando si entrava nel campo, i nazisti facevano una foto con il prigioniero in tre posizioni: davanti, di profilo e di tre quarti. Le foto qui esposte sono tutte di persone uccise rappresentante di fronte e sotto ogni foto ci sono tre date: quella di nascita, quella di deportazione e quella di morte. Ci guardano spettrali, le donne rasate non si distinguono dagli uomini. La stanza 4 è dedicata al destino delle donne e dei bambini. Le prime, private dei loro figli, perdevano la voglia di vivere e morivano più in fretta degli uomini, nell’arco di un paio di mesi; talvolta si suicidavano gettandosi sul filo spinato. Quelle incinte venivano uccise direttamente all’arrivo. I bambini deportati ad Auschwitz furono 332.000 di cui si salvarono solo 650.

La sensazione di orrore continua in climax ascendente quando arriviamo al blocco 11, il cosiddetto blocco della morte, dove venivano incarcerati, torturati, uccisi i deportati. Si veniva condotti qui anche solo per aver rubato una mela da un albero o fatto i propri bisogni senza il permesso del Kapó. Per i reati più gravi vi si riuniva un tribunale fantoccio con due membri della Gestapo. Inutile specificare l’esito del processo. Scendiamo smarriti nel sotterraneo di questo blocco costituito da varie celle che venivano usate per la tortura e per la morte. Qui è stata fatta anche la prima prova di utilizzo dello zyklon b per tre giorni consecutivi ma è stata poi ripetuta perché non era andata a buon fine. In fondo al corridoio sulla destra c’è una stanza che contiene delle microcelle di 90 x 90 cm. per la punizione di 4 prigionieri per volta che devono passare là dentro da 1 a 10 giorni. Entravano da un piccolo pertugio ubicato in basso, strisciando sul proprio ventre e spesso non ne uscivano vivi. Dall’altro lato del corridoio c’è la cella numero 20 che veniva chiamata “cella segreta” perché qui si moriva per soffocamento. Vi venivano infatti rinchiuse 30-40 persone lasciate senza aria. Nel sotterraneo dovunque il senso di soffocamento attanaglia anche noi. Adiacente ad essa c’è la cella 18, in cui prigionieri venivano lasciati morire di fame. Qui è morto anche Padre Kolbe, poi santificato, per aver dato la propria vita in cambio di quella di un padre di famiglia. C’è poi la stanza per i fuggiaschi ma non veniva rinchiusa qui sono questa categoria di persone ma anche, per rappresaglia,  per ogni fuggiasco 15 membri della sua baracca.

Adiacente a questo blocco c’è il cortile con il muro della morte. Qui non si può parlare, per rispetto. In fondo ad esso il muro della morte in cui i prigionieri, nudi, venivano condotti a coppie e poi uccisi con un colpo alla nuca. In questo cortile avvenivano anche le punizioni e le torture: possiamo vedere i pilastri usati per legare i prigionieri con i piedi sollevati da terra, in modo tale da spezzare loro le braccia, renderli dunque inabili al lavoro e quindi da gassare. Altre punizioni avvenivano attraverso frustrate e bastonate che spesso i prigionieri si dovevano infliggere da soli contando in tedesco. Se perdevi il conto,  ricominciavi da capo. Sull’altro lato di questo cortile sorge un edificio con le finestre oscurate. È il blocco 10 e le finestre sono chiuse da nere assi di legno affinché non si vedesse ciò che accadeva all’interno, cioè esperimenti di sterilizzazione delle donne e mutilazioni genitali. È vero, non si vedeva,àa ma si sentivano le urla di dolore. Angosciati, ci dirigiamo verso la piazza dell’appello passando accanto all’edificio ospedaliero che di ospedaliero in realtà aveva solo il nome perché veniva chiamato anticamera della morte. Nel reparto di chirurgia varie ditte, tra cui la Bayer, facevano esperimenti sui prigionieri cavie, ad esempio sul tifo petecchiale. Di fronte, c’è una baracca di legno che era utilizzata come lavanderia delle SS;  ovviamente solo di quest’ultime, perché ai prigionieri non era mai consentito di cambiarsi il pigiama a strisce. Passiamo l’edificio fotografico e quello che latrine e arriviamo alla Appelplatz. Qui, come dice il nome stesso, ogni mattina all’alba e ogni sera dopo il lavoro avveniva l’appello dei prigionieri, ovviamente non nominativo ma urlando in tedesco il numero che aveva sostituito non solo la dignità ma anche l’identità umana. I nazisti erano precisi e i conti dovevano tornare: se mancava qualche prigioniero (anche solo perché deceduto) l’appello veniva prolungato. Il più lungo durò per 19 ore. Qui avvenivano anche appelli punitivi, in cui i prigionieri dovevano rimanete immobili, con le braccia in alto oppure fare inutili esercizi ginnici, insostenibili per uomini così pesantemente provati. Durante l’appello avveniva anche l’uccisione dei fuggitivi precedentemente torturati. Veniva messo al loro collo un cartello con la scritta “urrà, urrà, urrà, di nuovo sono qua”  e poi impiccati. Da Auschwitz vi furono 900 tentativi di fuga, di cui 160 ebbero successo (4 prigionieri addirittura fuggirono travestiti da SS dopo averne rubato l’automobile).

Usciamo dalla zona del campo destinata ai prigionieri ed entriamo in quella dedicata alle SS e ci troviamo di fronte alla forca dove fu impiccato il capo del campo, Rudolf Hoess, dopo il processo a Varsavia. La forca sorge a metà strada fra la casa di Hoess, fatta da lui costruita nel ’43, e il crematorio, usato dal 1941 fino alla fine del 1942, quando entrarono in funzione quelli di Birkenau. Dopo divenne un bunker per le SS, mai utilizzato però, perché il campo non venne mai bombardato. Ad Auschwitz la camera a gas si è conservata. Non è lecito parlare, ma a tutti noi manca il fiato quando vediamo le 4 fessure da cui era introdotto lo Zyklon B e percepiamo odore di cenere di fronte ai forni crematori. Scioccati e ancora in silenzio andiamo al blocco 18, il memoriale degli Ebrei ungheresi, in cui, al piano terra, è proiettato un filmato originale sulla deportazione, mentre al primo piano è collocata una esposizione multimediale (in linea con le nuove direttive per gli allestimenti) di foto. C’è anche una ricostruzione in plexiglass di un vagone ferroviario. E l’allestimento di questo memoriale mi porta a parlare agli studenti dello smantellamento del memoriale italiano, il blocco 21. Inaugurato nel 1980, è costituito in forma di un’ossessiva spirale, ideata da personalità importanti del Novecento, tra cui alcuni ex prigionieri nei lager: da Lodovico Belgiojoso a Primo Levi, da Pupino Samonà a Renato Guttuso. E verosimilmente sono proprio le immagini dipinte da Guttuso che, percorrendo la storia della Resistenza partendo da Marx, Gramsci e rappresentano anche una falce e martello, ad aver dato fastidio al precedente direttore del Campo, che ne ha ordinato lo smantellamento, con la scusa che non era in linea con le tendenze di modernità e multimedialità a cui si dovevano attenere i vari memoriali. Dopo essere stato in magazzino per anni, lo ha “adottato” la Toscana e troverà sistemazione a Gavinana, presso Firenze, in piazza Gino Bartali, il ciclista italiano “giusto tra le nazioni”, dove riprenderà la sua funzione museale. Guido poi il gruppo ad un altro blocco, il 13, anch’esso poco frequentato, perché costituisce il memoriale del Popolo romanés. È questa l’occasione per parlare del porrajmos, che nella loro lingua vuol dire inghiottimento, alludendo allo sterminio di questo popolo. Usando il censimento fatto dal prefetto di Monaco Dillmann nel 1905, il regime nazista inizia a deportare gli zingari in campi di concentramento, perché considerati, inferiori, con il quoziente intellettuale più basso e l’istinto al nomadismo. Segue poi la sterilizzazione forzata ed infine il lager. Gli zingari vengono portati a Birkenau e collocati in un settore speciale del campo, chiamato appunto Zigeunerlager , che viene liquidato la notte tra il primo e il due di agosto 1944. Nel porrajmos trovano la morte 23.000 persone. L’ultima parte del nostro percorso è costituita dal blocco 27, a destra delle forche per le impiccagioni comuni. Esso è intitolato all’olocausto e ripercorre la storia del popolo ebraico attraverso immagini e sottofondo musicale. La canzone, infatti, intona che non c’è posto né luogo in tutta la terra dove non si trova un uomo che prega. Entriamo nel buio di una stanza alle cui pareti vengono proiettate scene di vita di famiglie ebraiche mentre il piano superiore è dedicato al nazifascismo: video proiettano discorsi di Hitler, folle che inneggiano a lui, estratti di Mein Kampf, immagini di roghi di libri. In una stanza delle grandi pareti bianche si trovano piccole riproduzioni a matita di disegni fatti da bambini nel lager. Commoventi. Infine alle ore 12:30 ci riuniamo tutti di fronte al cortile della morte e la delegazione della Regione Toscana, gonfaloni in testa, deposita una corona di fronte al muro della morte. Poi il nostro corteo si snoda, sempre più silenzioso e toccato, per i vialetti di Auschwitz, ed usciamo, pieni di commozione e interrogativi irrisolti, da quello stesso cancello che i prigionieri avrebbero tanto voluto varcare da uomini liberi.

Articolo pubblicato nel gennaio del 2019.