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Le sirene della grande fabbrica nell’Alta Maremma

Ancora negli anni Settanta, andare a Suvereto, era considerato dagli abitanti della vicina città industriale: Piombino, un viaggio quasi a ritroso nel tempo, dentro una zona povera contrassegnata paesaggisticamente da un’abbondanza di macchia mediterranea. Per i giovani che vi abitavano il desiderio più forte era quello di sfuggire da quei luoghi, da quei boschi ricchi di cinghiali e di istrici ma poco, anzi pochissimo, di prospettive di vita allettanti.

E vicino a quel comune rurale c’era la presenza di una realtà industriale forte e consolidata che attirava con le sue sirene, sia quelle vere e proprie, sia quelle più metaforiche, ma anche forse più avvincenti, che raccontavano un inserimento diverso dentro la “modernità”: la casa in città, la centralità nel dibattito politico e culturale del tema dei “metalmeccanici”, il lavoro nella grande industria a capitale pubblico, la sicurezza del salario mese dopo mese, anno dopo anno. Non erano certo quelli i decenni del lavoro interinale, a termine o a progetto. Il lavoro alle Acciaierie, così come alla Dalmine o alla Magona, sembrava senza fine, senza scosse, dava inquadramento alla propria vita e permetteva la costituzione di un nucleo familiare appoggiato su solide premesse.

Occorre però ricordare che quell’attrazione verso i grandi stabilimenti della costa si esercitava già da molti decenni e si realizzava soprattutto tramite le donne presenti nella casa contadina mezzadrile che, quando si profilava loro la possibilità, cercavano di scappare dalla fatica dei lavori in campagna, sposando un lavoratore dell’industria. Una scelta di vita che diventava anche un vero e proprio strumento di emancipazione dalla vecchia famiglia patriarcale.

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Fonte: L. De Nigris, “Suberetum, Sughereto, Suvereto”, Comitato di Valorizzazione e Comune di Suvereto.

Questa tradizioni di “partenza verso la città industriale” che talvolta oltre ad essere quella vicina di Piombino, poteva essere anche quella un po’ più distante di Rosignano con il polo chimico della Solvay, si erano mantenute e consolidate ma erano in qualche modo soprattutto partenza di donne. Gli uomini rimanevano in casa magari aggiungevano mogli provenienti talvolta da fuori e mandavano avanti il podere.

Ma la maggiore scolarizzazione seguita alla riforma della media, l’istituto professionale legato alla siderurgia pubblica, comportò per tutto il decennio Sessanta il richiamo e la partenza anche di elementi maschili dalle campagne vicine verso un destino urbano e industriale. E questo processo si sviluppa più o meno senza fratture fino alla seconda metà degli anni Settanta.

Ma verso la fine di quel decennio, qualcosa cominciò a scricchiolare. Da una parte il tema del “rifiuto del lavoro” e del movimento degli “indiani metropolitani”, dall’altra una maggiore coscienza ecologista si irrobustì, la magia del richiamo per il lavoro senza scadenza, a tempo indeterminato, cominciò ad essere percepita come una gabbia, una gabbia dalla quale uscire. Si cominciarono a cercare soluzioni fuori dal perimetro industriale, talvolta guardando ad un turismo improbabile come quello raccontato anni dopo da Paolo Virzì nel film La bella vita, talvolta provando a fare un viaggio a ritroso, un ritorno alla campagna e da lì reinventarsi una vita, un lavoro, un’attività.

Cominciarono i primi autolicenziamenti dalla grande fabbrica (i primi casi datano 1978-79), che lasciavano soprattutto senza parole l’allora addetto all’Ufficio personale delle Acciaierie. Non c’era memoria di una tale impudenza in nessuno dei decenni precedenti.

Eppure in qualche modo, anche se sicuramente non tutti, furono percorsi a lieto fine, quei giovani che scappavano dalla siderurgia, dal mondo industriale, fecero la scelta giusta. Il tempo gli avrebbe dato ragione. Oggi, abitare a Suvereto, magari all’interno di una azienda agricola proiettata nel mondo col suo sito internet, con il suo pacchetto di relazioni, significa prima di tutto stare dentro un contesto che privilegia la qualità della vita, ma dà anche la possibilità di ricavare reddito da questa.

Non ci fu però, come talvolta si cerca di far passare, una sostituzione di un’attività con un’altra. I numeri che l’agricoltura, anche quella di qualità, mettono in gioco come possibilità di lavoro, sono assolutamente irrisori rispetto all’occupazione offerta dalle attività industriali. E questo resta il problema aperto per tutti noi.