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Giulia Faldi: un’antifascista nelle carte del Casellario Politico Centrale

Nato a Pescia nel 1901, Zamponi si era distinto dopo la Grande Guerra come attivo propagandista tra la Lucchesia e la Valdinievole: fu qui che, con ogni probabilità, conobbe la futura moglie. Dopo l’adesione al PCd’I seguì un peregrinare tra Pescia e Asti, prima di tornare a Monsummano, reduce da due importanti esperienze a Torino (dove collaborò all’Ordine Nuovo) e a Milano (esponente del Comitato sindacale nazionale comunista). In Valdinievole, tuttavia, la situazione iniziava a farsi sempre più complessa: la cultura contadina aveva fornito alla politica fascista ampi spazi di movimento, guardando con sospetto ai primi processi di sviluppo industriale e promuovendo istanze di economia morale legate alle forme di sussistenza garantite dai ceti localmente dominanti. Il 30 marzo 1921, una spedizione di camice nere a Monsummano aveva imposto ai carabinieri il rilascio di tre fascisti in arresto. In aprile si registrò invece un nuovo tentativo di aggressione ai danni di due cittadini, mentre il 22 luglio dello stesso anno una trentina di squadristi partirono dalla città termale per distruggere il circolo socialista di Pieve a Nievole. Il culmine della tensione fu poi raggiunto a novembre, quando il deputato socialista Lorenzo Ventavoli venne aggredito nella sua abitazione da quattro carabinieri che avrebbero dovuto garantirne la sicurezza15. Braccato dalla polizia fascista e senza lavoro, alla fine del 1922 Zamponi decise così di emigrare a Marsiglia, soluzione comune a molti antifascisti per sfuggire al crescendo di arresti e proseguire il proprio impegno politico: cinque mesi dopo, sulla costa francese, fu raggiunto dalla compagna.

Da quel momento, la Faldi iniziò ad essere seguita. Venne interrogato il padre, anziano e ritenuto poco pericoloso per «non essersi mai allontanato da Monsummano». Date le difficoltà nel rintracciare gli spostamenti della coppia, il 4 ottobre 1925 la polizia arrivò persino a fare irruzione nella casa di famiglia e a perquisire ogni stanza. Dopo aver trovato supporto nella rete del Soccorso Rosso, Zamponi (con il falso nome di Luciano Fabbri) si era intanto iscritto alla sezione del Partito comunista francese di Rue Sambre et Meuse e aveva proseguito la sua attività politica nei circoli parigini legati al fuoriuscitismo italiano: i suoi spostamenti proseguirono ininterrottamente, soprattutto dopo l’iscrizione alla Confédération générale du travail. Nel frattempo Giulia era rientrata in Italia per alcuni mesi (il 3 aprile 1927) e, una volta ottenuto il passaporto per l’America del Sud, aveva segretamente fatto rotta verso Parigi. Nella capitale la Faldi ritrovò il marito – segretario regionale a Nancy – e ne affiancò l’attività politica, anche dopo le forti tensioni che quest’ultimo ebbe con il partito, scambiato per una potenziale spia nel corso del 1926-1927: stando ad un rapporto del Regio console d’Italia a Nizza, ella era ritenuta «anche in Francia una pericolosa propagandista comunista, capace di organizzare riunioni per i nostri connazionali e di coadiuvare lo Zamponi nelle sue funzioni di segretario regionale dei gruppi italiani di lavoro».

Abili nel muoversi all’interno della rete antifascista, i due continuarono ad eludere la sorveglianza. Dopo una segnalazione – giustificata con motivi occupazionali – nella zona mineraria tra il Belgio (con passaggi documentati a Bruxelles e Marchienne-au-Pont) e il Lussemburgo, sulla scia di ulteriori avvistamenti la polizia fascista tentò di agganciare contatti con le ambasciate di Berlino (28 gennaio 1928), Lione e Ginevra, ma sempre senza successo: come recitava una velina firmata il 14 giugno 1929 dal prefetto di Pistoia, Mauro Di Sanza, «malgrado le diligenti indagini esperite con il massimo impegno, non [era] stato possibile accertare il comportamento politico dei coniugi Zamponi, né il loro preciso recapito». Con ogni probabilità, la coppia – che nel frattempo aveva avuto un figlio, Bruno – si trovò a vivere separata per un lungo periodo. Dopo l’arresto di Zamponi nel ristorante parigino del comunista Lazzaro Raffuzzi (1928) e la successiva fuga, peraltro, la casa della Faldi venne nuovamente perquisita dall’arma di Monsummano. Ciononostante, malgrado dalla scoperta di una lettera clandestina fosse emersa l’esistenza di un punto di appoggio a Villerubane-Lione a nome di Antonietta Radeschi (forse pseudonimo della stessa Faldi), per il regime fu ancora una volta complesso intercettare una rete di spostamenti sempre più fitta. L’ipotesi di una residenza a Ginevra, ad esempio, venne presto scartata nel timore che la Faldi avesse deciso di indirizzare le proprie corrispondenze in Svizzera per poi farle ritirare da una persona di fiducia; cadde nel vuoto anche la soffiata di una sosta a Berlino, constatato – il 16 giugno 1931 – che in città «non erano mai stati presenti Zamboni (o Zambon) di nome Fulvio» e che «la Faldi Giulia non [era] stata rintracciata né conosciuta presso il locale presidio di Polizia Ufficio Anagrafe».

Ad ogni modo, le problematiche della latitanza cominciavano a farsi sentire. Pressati dalla polizia fascista e segnati da una situazione occupazionale resa ancora più gravosa dell’onda lunga della crisi economica del 1929, dopo una nuova tappa a Parigi i due coniugi decisero così di presentarsi al consolato di Lione per chiedere il rimpatrio (12 settembre 1933). Nelle settimane successive, Zamboni – che dopo il fermo si era mosso sotto un’altra falsa identità, quella di Piovani – fu munito di certificato di nazionalità, mentre la prefettura di Pistoia chiese di mutare lo status della Faldi da «comunista da fermare» in «comunista da perquisire e segnalare». Ciò che i funzionari fascisti non avevano capito, in realtà, era che quella soluzione costituiva solo un nuovo tentativo di depistaggio. Alla frontiera, infatti, i due si erano improvvisamente separati: rientrata in Italia dal valico di Bardonecchia e subito fermata, la Faldi provò a convincere la polizia che il marito non si era dato alla fuga, ma che, dopo averla accompagnata alla frontiera, si era recato a Ginevra da un amico – il pisano Filippo Falaschi – che si era offerto di trovargli un lavoro. Una versione supportata anche dalla nota rilasciata il 22 novembre 1933 alla questura di Bologna dall’ispettore generale di Pubblica Sicurezza, il commendator D’Andrea:

Con riferimento alla nota a margine, ho il pregio di comunicare all’E.V. quanto mi riferisce in proposito il Commissario Capo Cav. Aloisio dirigente la sotto-zona di Firenze: “Il sovversivo in oggetto [Zamponi] non risulta sia rientrato nel Regno. Ha rimpatriato invece il 14 settembre u.s. dal valico di Bardonecchia proveniente dal Belgio la moglie Faldi Giulia, la quale ha dichiarato che il marito l’ha accompagnata fino a Lione da dove si sarebbe recato a Ginevra presso un suo amico, certo Foloschi Filippo da Pisa, che gli avrebbe trovato colà del lavoro. Successivamente, e, cioè, il 28 ottobre decorso, lo Zamponi inviava da Lione un telegramma alla moglie chiedendo sua notizie e il 5 novembre le scriveva dandole il seguente indirizzo: Rita Gambotto, Rue Roposte 16 Lione. Comunico, infine che il nome dello Zamponi figura nel noto elenco degli espulsi del P.C. sequestrato all’emissario Fontana Angelo.16

Eppure, il 19 dicembre dello stesso anno Zamponi fu arrestato a Ventimiglia e ricondotto a Pistoia. Interrogato a lungo, riuscì a convincere il questore di non voler «esplicare in nessun modo attività politica contraria al regime», fornendo alle autorità solo le informazioni meno compromettenti. Il 10 aprile 1938, poche settimane prima della visita di Adolf Hitler a Roma, sia Zamponi che la Faldi vennero comunque inseriti nell’elenco delle «persone che, pur non ritenendosi opportuno comprendere tra quelle da arrestarsi in determinate contingenze», si riteneva potessero «costituire un pericolo in occasione del viaggio del Führer in Italia».

Da lì in poi, su quella donna di «statura media, pallida, con capelli castani folti, corporatura piccola, fronte alta, viso lungo, occhi castani e naso rettilineo» e sul marito cadde il silenzio. Sappiamo però che, dopo l’8 settembre 1943, quest’ultimo riallacciò i contatti con il partito e che, assieme alla moglie, prese parte all’attività del Cln. Non a caso, il 9 settembre 1944 venne eletto dallo stesso organo sindaco di Monsummano, partecipando alla rinascita democratica della vita provinciale con il ruolo di segretario della Federazione pistoiese del Pci: nel 1946, dopo le dimissioni di Pieruccioni, le sue capacità dirigenziali gli valsero inoltre una chiamata alla guida di una delle federazioni comuniste più deboli della Toscana, quella lucchese, prima di essere eletto deputato nelle fila “togliattiane” dal 1953 al 1958.

In tutto questo, Giulia Faldi non giocò mai il mero ruolo di spalla attribuitole dal fascismo. La sua biografia, capace di intrecciare gran parte dei nodi storiografici accennati nell’introduzione di questa breve disamina, mostra a tutti gli effetti le forme e le istanze di un impegno diretto che – nelle pieghe dell’antifascismo storico – vide protagonista un numero di donne ben superiore rispetto a quello estraibile dal Cpc. Quello della Faldi fu un percorso segnato da un forte impeto politico e ideologico, costruito attraverso le fitte trame della rete antifascista europea e caratterizzato da una contrapposizione costante e solidaristica al regime.

Una storia che, passando da un’analisi ermeneutica della carte del CPC, riesce a  fornire uno sguardo più dettagliato sui processi politici e sociali – collettivi, individuali e di genere – che animarono la provincia di Pistoia nella prima metà del Novecento, oltre a creare nuovi margini di dialogo tra la dimensione locale dell’antifascismo e quella internazionale.

 

Federico Creatini si è laureato all’Università di Pisa nel 2015 e ha conseguito il dottorato in Storia contemporanea presso l’Università di Bergamo nel 2019. Attualmente è borsista post-doc presso l’Università di Pisa, dove svolge anche la funzione di cultore della materia. Ha all’attivo numerosi articoli e contributi; nel 2019 è stata pubblicata la sua prima monografia, «Dalla fabbrica alla città. Conflitto sociale e sindacato alla Cucirini Cantoni Coats di Lucca (1945-1972)», Maria Pacini Fazzi Editore, Lucca.