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Fare i lavoratori?

Trascurate dalla legge Casati – che non le aveva previste -, introdotte in silenzio nel 1878, con una circolare emanata dal Ministro di Agricoltura, Industria e Commercio Benedetto Cairoli, ancora all’inizio del XX secolo le scuole industriali e artistico-industriali conservavano la dimensione informe di una disordinata galassia educativa. Designate le prime per i futuri capi-officina e le seconde per gli artigiani, analogamente agli altri tre indirizzi dell’istruzione professionale (agrario, commerciale e professionale femminile) erano state affidate, diversamente dalle altre scuole, alle cure delle amministrazioni locali e private, che fino al 1913 poterono autonomamente definirne fondazione, organizzazione e curricula.

Quando ottennero nel 1907 l’ambito riconoscimento statale con la legge Cocco-Ortu, le scuole industriali e artistico-industriali stavano conoscendo da più di dieci anni un’espansione di tutto rispetto. La Toscana, dal 1900 la quarta regione con più iscritti, pur avendo assistito tra 1891 e 1902 a un buon incremento degli studenti (che aumentarono da 2948 a 3505), nei sei anni successivi era stata protagonista di un’inattesa contrazione, che aveva riportato gli studenti a 2855 proprio quando a livello nazionale aumentavano senza sosta le iscrizioni a questo nuovo tipo di istruzione.

Eppure, proprio in quegli anni la regione aveva assistito alla fondazione di numerosi istituti: la scuola per i piccoli laboratori forestali di Stia (Arezzo), le scuole industriali “Leonardo da Vinci” di Firenze e “Antonio Pacinotti” di Pisa e Pistoia e la riapertura della scuola di disegno di Cascina (Pisa) arricchirono un panorama in cui già operavano le scuole di disegno di Seravezza (Lucca), Lucca, Empoli, Pescia e Sesto Fiorentino, quelle industriali di Siena e Colle Val d’Elsa e la scuola per le arti tessili e tintorie di Prato, foggiata sulle orme del più famoso istituto biellese. Le numerose scuole di disegno fiorentine, ruotanti intorno alla prestigiosa Scuola superiore d’arti applicate all’industria cittadina, completavano il quadro.

La portata del rinnovamento è evidente: il reticolo regionale delle scuole di disegno serali e domenicali, rivolte soprattutto a operai e artigiani semianalfabeti, fu arricchito in pochi anni da quattro scuole industriali diurne, i cui macchinari erano destinati alla formazione di una nuova classe di capi-operai. Anche il curriculum, che oltre al disegno prevedeva le materie tecnico-scientifiche (fisica, tecnologia, meccanica, la nuova e sperimentale elettrotecnica) e la pratica dell’officina, era più ambizioso rispetto a quello delle scuole serali, incentrate sulla pratica del solo disegno. Nelle intenzioni dei fondatori, le nuove scuole erano istituti congeniati per i figli della piccola borghesia e degli operai specializzati, che, secondo la diffusa opinione di politici e docenti, dovevano essere distolti dai ginnasi-licei e dalle scuole tecniche. Furono tuttavia questi gli obiettivi raggiunti?

I dati sul collocamento e sulla provenienza sociale degli allievi per i primi anni del XX secolo sono discordanti. Non vi sono informazioni sulle scuole toscane di disegno; sono disponibili però quelle su Prato e Pistoia, che indicano, tanto nel primo quanto nel secondo caso, una netta prevalenza dei futuri industriali e dirigenti, in consonanza con quanto accadeva nelle altre regioni.

Ancora tutta da scrivere, invece, è la storia degli studenti nelle scuole di disegno serali e domenicali: i dati disponibili per le altre regioni (come quelli di Padova, di Luino, provincia di Como, e di Viggiù, vicino Varese) evidenziano la loro vicinanza ai bisogni e agli obiettivi degli operai e dei piccoli artigiani, effettivamente attratti da un corso di studi che, a differenza dei nuovi e costosi istituti diurni, erano frequentabili anche da chi non poteva posticipare l’ingresso nel mondo del lavoro dopo le prime classi elementari.