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Emozioni e politica. Alle radici del mito Pietro Gori

La figura di Pietro Gori (1865-1911) ha avuto di recente un nuovo sussulto di notorietà per la controversa scelta della giunta di Portoferraio di modificare la toponomastica cittadina andando ad incidere su uno dei luoghi simbolicamente più forti del mito goriano. Le polemiche accese, le discussioni, le lettere di protesta e i presidi di manifestanti che hanno accompagnato la decisione di cancellare l’intitolazione della piazza nei pressi del municipio all’autore di Addio Lugano Bella testimoniano, al di là dell’episodio di cronaca, forme di sopravvivenza di una memoria popolare verso un uomo politico singolare che nel tempo è stata certificata da seri studi storici e demoantropologici. Morto come tutti gli eroi giovane e bello, l’8 gennaio 1911, Gori fu salutato fra l’Elba, Piombino e Rosignano da uno dei più imponenti funerali mai visti all’epoca, che hanno concorso a rafforzarne l’aurea mitica, e spesso quasi sacrale, che lo ha a lungo circondato.

Capace di suscitare forme di identificazione in grado di sconfinare nella dimensione della vera e propria celebrità politica e della venerazione popolare, ben oltre il perimetro dei militanti libertari, si impose certamente come uno dei più amati leader politici italiani dell’epoca. Se l’esistenza del mito è largamente documentata, meno poco sappiamo però delle ragioni e dei motivi che ne stanno alla base e che ne favorirono la popolarità.

Ritratto di profilo di Pietro Gori, s.d.

Ritratto di profilo di Pietro Gori, s.d.

Pietro Gori è stato un personaggio pirotecnico, ricco di inventiva e di risorse, grazie a un’abilità e a uno stile comunicativi che meritano di essere approfonditi e che si avvalsero dell’ampio ricorso a canali, linguaggi e contesti all’apparenza non strettamente politici (teatro, poesia, musica, letteratura); modello di leadership per tanti propagandisti del proprio movimento, Gori fu il campione di un anarchismo sentimentale a forte tasso emotivo. Artefice di un propria strategia di “andata al popolo”, agì su molteplici piani per alimentare un immaginario dotato di una propria forza persuasiva, con stratagemmi retorici e di altra natura in grado di funzionare soprattutto in relazione al proprio pubblico di riferimento.

Per rendersi credibile ai suoi interlocutori, lui, nato borghese e benestante, sposò un’etica di vita ascetica, profetica e votata al sacrificio, divenendo non a caso noto a tutti col sopranome biblico di Apostolo dell’Anarchia o dell’Ideale, incorporando fino in fondo nell’esperienza quotidiana le virtù anarchiche e proletarie.

In secondo luogo, sul piano retorico si dotò di un discorso frutto di un’abile opera di recupero e di rifunzionalizzazione in chiave libertaria e di criticismo sociale di immaginari e tradizioni discorsive a cui il popolo era già ampiamente socializzato. Dalla religione cristiana al risorgimento democratico-popolare, Gori presentò in maniera disinvolta Gesù Cristo e Garibaldi, i primi perseguitati cristiani o i martiri del 1848 come i primi anarchici della storia. Una disinvoltura che si estese abilmente a tradizioni popolari di segno folklorico come quella del Maggio, le cui antiche feste erano da sempre collegate in molte comunità contadine a immagini e significati di rinascita e rigenerazione; esse furono espressamente ricondotte da Gori alla nuova festività politica del 1 Maggio, di cui a cavallo fra due secoli divenne il principale mediatore e propugnatore italiano, radicandola nel paese attraverso un profluvio di poesie, bozzetti teatrali e canzoni a tema (Primo Maggio, Maggio ribelle, Maggio redentore, Tempesta di maggio, La leggenda del Primo Maggio, Calendimaggio).

Oltre alla capacità di sfruttare temi e figure già largamente diffusi fra le classi subalterne, l’opera di conquista e di risignificazione del mondo popolare lo spinse a investire anche l’ambito dei modi e dei registri della comunicazione. Nella realtà dell’epoca composta in larga parte di analfabeti o semianalfabeti in cui dominava ancora la dimensione dell’oralità e una pratica della lettura fortemente intensiva (come nella tradizione religiosa della ripetizione delle parole evangeliche della Bibbia mandate a memoria), Gori prestò particolare attenzione alle forme e ai generi espressivi della cultura e dell’estetica popolari. E fu così che divenne il fondatore della canzone politica popolare italiana, molto spesso recuperando note e arie tradizionali, nonché prolifico interprete della poesia estemporanea. Ciò a prezzo anche di stridenti contrasti fra retaggi tradizionalisti sul piano formale e un incendiario criticismo socio-politico nei contenuti che gli valsero una nota e colorita accusa di convenzionalismo nei quaderni gramsciani.

Ma il disegno comunicativo ad ampio raggio di Gori non si fermò qui, mostrandosi attento ad ogni particolare, nel quadro di una più generale sensibilità alla costruzione della propria immagine. Il suo proverbiale magnetismo oratorio si alimentava, nella testimonianza di militanti e dirigenti anarchici che ne rimasero affascinati, di una studiata modulazione dei gesti e della voce; un’attenzione derivantegli anche dal lungo tirocinio svolto come avvocato in diverse cause celebri, in un momento in cui i tribunali divennero, fra Otto e Novecento, palestre di oratoria investite da un forte processo di teatralizzazione della professione forense esemplificato dalla figura di Enrico Ferri, fra i maestri di Gori. Un cortocircuito fra aule di giustizia e palcoscenico testimoniato nella vicenda goriana sia dalla scrittura di numerosi bozzetti teatrali ma ancor più dalla loro frequente recitazione in prima persona da parte del loro stesso autore.

Un carisma che si alimentava infine di altri segni esteriori in grado, come si direbbe oggi, di fare moda o tendenza e di amplificarne la leggenda. Un anarchismo “banale”, fatto di pratiche minori, di cui è esempio la scelta di un abbigliamento che creò o diffuse uno stile fortemente identitario. Giocando soprattutto con il colore “sinistro” per antonomasia associato all’anarchismo e da esso fatto provocatoriamente proprio, contribuì a radicarne la simbologia attraverso il cappello nero a falde larghe, l’immancabile sciarpa e il grande fiocco o svolazzo, sempre del medesimo colore, noto anche come «fiocco a la Gori», ricordato da numerosi contemporanei ed eternato con grande evidenza nella sua ritrattistica e persino nei monumenti funebri.

Busto di Pietro Gori nell’atto di parlare, Capoliveri, Piazza Matteotti, 1921

Busto di Pietro Gori nell’atto di parlare, Capoliveri, Piazza Matteotti, 1921

A completarne le performance comunicative concorsero poi supporti o dispositivi poco convenzionali, tesi a creare un’aura di spettacolarità, come il frequente utilizzo della chitarra, che che in una lettera a un amico avrebbe definito uno strumento «inseparabile» e che divenne uno dei simboli del grande tour di propaganda nordamericano del 1896 condito da oltre trecento comizi; o ancora il ricorso, alla “lanterna magica” nelle conferenze, ossia di un ingegnoso macchinario per immagini che aveva il suo maggiore tratto di modernità nell’essere parte di quelle nuove «macchine della visione», diffusesi nel corso dell’Ottocento a partire dalla Francia dove costituirono forme di precinema preparatorie al cinematografo.

Questo quadro riccamente popolato di suggestive immagini, emozioni e colori, in cui una molteplicità di profili e aspetti finivano per intrecciarsi, faceva della sua opera di propaganda un’esperienza capace di sollecitare più sensi e di incidere in più modi sulla sensibilità popolare, tanto da rendere difficile per lo storico farla rivivere appieno attraverso le fonti. Si spiegano però forse così gli episodi di ammirazione collettiva, se non di vero e proprio divismo, descritti da amici e compagni di partito riguardanti donne, uomini e vecchi che dopo le conferenze circondavano in gran folla la vettura di Gori per protendergli i figli e baciargli la mano, o si stendevano sui binari per impedirne la partenza quando in treno raggiungeva qualche lontana località per un improvvisato comizio. Reazioni analoghe a quelle che, al momento dell’arrivo del suo feretro al cimitero di Rosignano, costrinsero l’ufficiale sanitario a cedere alle insistenti preghiere della folla e ai vincoli delle norme sanitarie praticando un’apertura sulla parte di zinco della bara per consentire a tutti di «vedere, salutare, baciare» un’ultima volta la salma dell’Apostolo dell’anarchia.

*Marco Manfredi, dottore di ricerca, è attualmente docente a contratto in Storia contemporanea presso l’Università di Pisa e collaboratore dell’Istituto della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Livorno. Si è occupato di storia italiana del primo Ottocento, pubblicando saggi e articoli su protagonisti e vicende della Restaurazione e del Risorgimento; negli ultimi anni si è avvicinato agli studi di storia dell’anarchismo italiano. Fra le sue pubblicazioni più recenti su quest’ultimo tema: Italian Anarchism and Popular Culture: history of a Close Relationship, in I. Favretto, X. Itcaina (eds.), Protest, Popular Culture and Tradition in Modern and Contemporary Western Europe (Palgrave Macmillan, 2016), Il neutralismo anarchico, in F. Cammarano (a cura di), Abbasso la guerra! Neutralisti in piazza alla vigilia della Prima guerra mondiale in Italia (Le Monnier, 2015)