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Don Milani: ieri, oggi, domani

Sono passati cinquanta anni dalla scomparsa di don Lorenzo Milani, perciò è naturale che siano molte le iniziative, celebrative, pubblicistiche e di ricerca, che, nel corso del 2017, si sono proposte di ricordarne la figura e l’opera e di tracciare un bilancio della sua presenza nella storia recente della Chiesa e della società italiana in un’ottica, finalmente, meno condizionata da quei contrasti ideologici che hanno a lungo caratterizzato l’interpretazione della sua personalità e della sua azione pastorale ed educativa. Grazie ad un  approccio più “storico” alla sua vicenda spirituale, umana e culturale oggi possiamo quindi rileggere con più serenità ed oggettività il ruolo che egli ha svolto nell’arco di quei due decenni del ‘900 (gli anni sessanta e settanta) particolarmente densi di trasformazioni sociali e culturali e complessi dal punto di vista del consolidamento della nostra giovane democrazia.

Il mio ricordo di don Milani, tuttavia, seguirà necessariamente una logica diversa, non storica ma molto soggettiva,  in ragione del legame, emotivo e personale, che sento ancora vivo con la figura di questo prete e con la sua esperienza, perchè esse hanno pesato molto nella mia vita, nelle mie scelte professionali, religiose e politiche.

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Don ALfredo Nesi con i ragazzi della scuola di Corea (Archivio Fondazione Nesi)

Ho conosciuto don Milani nel 1965. In quell’anno era tornato sulle pagine dei giornali a causa del processo per l’obiezione di coscienza e della famosa “Lettera ai giudici”. Io  insegnavo nella scuola elementare e facevo volontariato nel doposcuola del quartiere Corea di Livorno, dove operava un prete fiorentino, don Alfredo Nesi, amico di don Milani e suo ex–compagno di studi in seminario. Anche lui col pallino della scuola come “strumento di emancipazione sociale per le classi deboli”. Frequentavo anche Pedagogia a Firenze nell’allora Magistero e molto sentivo parlare e discutere  in questi ambienti di Barbiana, di questa scuola diversa da tutte le altre. Perciò, spinta dalla curiosità, chiesi a don Nesi di portarmi con lui in una di quelle  visite periodiche che faceva a Barbiana, insieme a gli studenti della sua “casa” e a qualche collaboratore.

Eravamo all’inizio dell’estate, ma la scuola di don Milani non andava mai in vacanza; trovammo lui ed otto ragazzi fuori, sotto il pergolato, intorno al tavolone. Come sempre accadeva per i nuovi arrivati non c’erano particolari cerimonie: la misura dell’accoglienza corrispondeva alla disponibilità a stare dentro il “programma” che la scuola di Barbiana prevedeva per quel giorno. Ricordo di quella calda giornata di luglio un dom Milani, già malato ed affaticato, intellettualmente spigoloso ed affatto compiacente, imprevedibile nelle argomentazioni, duro e rigoroso nel metodo con cui affrontava ogni problema, ogni spiegazione, ma anche orgoglioso come una chioccia dei suoi ragazzi e di  come lavoravano.

Ricordo quei ragazzi così diversi da quelli “di città” che io conoscevo : diversi nelle domande che facevano, nel modo di lavorare con il libri, di discutere di grammatica e di sintassi, di storia o di astronomia. Così a loro agio in quella “scuola” spartana, lontana dai “programmi” e lontana dal mondo, ma non fuori dal mondo.

Ricordo la scritta “I care”, di cui i ragazzi stessi mi spiegarono la storia ed il significato.

Ricordo di aver cominciato a capire quel giorno che per me “fare scuola” non poteva essere  un mestiere come un altro; era piuttosto una sfida ed un dovere e che sul “come fare scuola” avevo ancora tantissimo da imparare perché le cose che avevo  visto ed ascoltato quel giorno avevano messo in crisi molte delle certezze pedagogiche e didattiche che pensavo di possedere.

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Don Alfredo Nesi a Barbiana (Archivio Fondazione Nesi)

Altre cose le ho capite leggendo, due anni dopo, “Lettere ad una professoressa”; altre ancora le ho capite insegnando per più di trent’anni nel Villaggio scolastico di Corea, le cui scuole hanno sempre cercato di mantenere un legame ideale con Barbiana e l’esperienza milaniana, pur con scelte di contesto diverse (scuola pubblica, insegnanti e programmi “normali”, ecc.).

Sono tornata a Barbiana nel ’70, tre anni dopo la morte del priore, e a maggio 2002 con tanti amici provenienti da ogni parte d’Italia in quella iniziativa, che da allora si ripete ogni anno, che non solo vuole ricordare la figura straordinaria di questo “educatore atipico”, ma vuole soprattutto dire, con la forza che viene dai simboli, che la scuola italiana di oggi e di domani, la scuola di un paese democratico ha lì una delle sue radici più vitali, da lì deve ancora trarre molto della propria identità.

Infatti ancora oggi la domanda è: cosa  resta di quella esperienza? cosa di quella idea di “scuola” è bene tenere vivo per l’oggi e per il domani? (visto che alcuni di questo prete dissero: “don Milani è più per domani che per oggi” e che lui stesso diceva di sé di essere “appassionatamente attento al presente ed ancor più al futuro” ).

Certo non il modello organizzativo; quella di Barbiana era una scuola non riproducibile ed anche un po’ assurda: 12 ore al giorno per 365 giorni; tutto in comune letture, pensieri, incontri… con un rapporto tra insegnante ed allievo del tutto particolare e nessuna distrazione rispetto a quello che era l’obiettivo fondamentale e totalizzante: imparare per essere liberi, passando attraverso una disciplina severa, uno studio ininterrotto. E tutto questo non evitava le bocciature perché quando andavano a fare gli esami nelle scuole “normali” spesso i ragazzi di Barbiana facevano fiasco. Hanno saputo scrivere collettivamente “Lettera ad una professoressa” ma di fronte al titolo “Davanti ad un’edicola” non riuscivano a scrivere uno straccio di “tema”…

Sicuramente, invece, vanno tenute vive le sfide culturali, piuttosto che pedagogiche su cui  quella scuola aveva scelto di cimentarsi. Prima fra tutte, ed anche  la più chiara e provocatoria, quella di essere strumento per liberare le coscienze. Siamo abituati a intrattenerci con molte definizioni di educazione, di formazione, di scuola che aggiorniamo via via, in cui però i termini “libertà” e “coscienza” sono elusi o minimizzati. “La buona scuola è quella che rende tutti uguali…”- diceva don Milani – ma dove sta  la misura dell’uguaglianza se non nella liberazione per ciascuno dai condizionamenti  sociali, economici,culturali, religiosi, consumistici, ecc. in modo che la coscienza personale possa esprimere fino in fondo il suo primato e ciascuno sia e si senta cittadino a pieno titolo di questo paese?”

Sta scritto anche nella nostra Costituzione che questa è la funzione della scuola, ma a distanza di 70 anni dalla sua proclamazione e a 50 dalla morte del priore, vedo ancora tanto bisogno di affermarlo e, quasi, di gridarlo.

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Don Milani a Barbiana

Un’altra sfida che il priore ci consegna è quella delle periferie. Il suo modo di essere uomo e  credente lo hanno portato inesorabilmente verso le “periferie” della società del suo tempo: periferie fisiche (S. Donato, Barbiana), e soprattutto periferie sociali e culturali (i lavoratori, contadini, gli analfabeti, i senza parola). La scoperta della scuola, della potenza della scuola avviene per lui in questi contesti così come lì matura la convinzione che il “sapere” è l’unico viatico con cui trarsi fuori dalla condizione di marginalità, di subalternità: uscirne insieme, perché questo è la politica.

Quali sono oggi le nostre periferie in cui  stanno i senza parola? Alcune sono facili da vedere (una per tutte: gli stranieri) altre sono più difficili da individuare, in un tempo in cui sembrano prevalere apparenti omologazioni, tutti sembrano uguali eppure mai come oggi sono forti le diversità, sono nuove e terribili le ingiustizie.

Una terza sfida è quella della parola. L’attenzione alla parola, ai linguaggi, alla comunicazione è stata centrale in tutta la pedagogia milaniana. Era quasi maniacale l’insistenza con cui sezionava quasi ogni parola, nella sua etimologia, nelle trasformazioni, nei significati, nelle sfumature, trasmettendo ai suoi ragazzi la consapevolezza che la parola è tutto ed esserne padroni è la chiave che apre ogni porta. Questo aspetto dimostra la grande modernità culturale di don Milani, che già negli anni ’60 aveva compreso il ruolo e l’importanza della comunicazione nella nostra società e come essa sarebbe potuta diventare, anche  in modo subdolo, la nuova padrona delle coscienze individuali.

Che ne è oggi della parola, nella nostra scuola e nella nostra società dove il numero degli “analfabeti di ritorno” si conta a milioni, nonostante che ormai quasi tutti abbiano frequentato la cosiddetta “scuola dell’obbligo” ed anche oltre ?

Fosse solo per questi tre elementi, la lezione di don Milani  conserva una grande attualità e non può che essere motivo di seria riflessione sia per chi fa scuola che per chi fa politica.