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“Corradino” contro Hitler

Adolf Hitler cominciò ad organizzare i primi campi di concentramento subito dopo la presa del potere: il primo fu quello di Dachau, vicino a Monaco, che aprì i battenti nel marzo del 1933, seguito da numerosi altri (Buchenwald fu costituito nel 1937, Mauthausen l’anno successivo). Nei campi vennero rinchiusi gli oppositori del regime (socialdemocratici e comunisti in primo luogo, contraddistinti da un triangolo rosso), gli ebrei (triangolo giallo), gli zingari, gli omosessuali e via discorrendo. La sorveglianza dei campi era affidata alle SS: il trattamento era durissimo e tutti i prigionieri erano costretti a lavorare nelle cave o nelle industrie che producevano armi. Con lo scoppio della seconda guerra mondiale affluirono nei campi anche i soldati e gli operai catturati nel corso delle operazioni belliche o delle retate fatte nei paesi occupati, ed il numero dei campi stessi crebbe in misura esponenziale. Durante il conflitto vennero creati dai nazisti trenta campi principali ed un centinaio di campi sussidiari, dove vissero all’incirca un milione di persone (i morti venivano subito sostituiti dai nuovi arrivati). I primi campi di sterminio, destinati a realizzare la “soluzione finale” del cosiddetto “problema ebraico”, furono istituiti in Polonia: tra questi figurano anche i campi di Auschwitz e quello di Treblinka, noti per la loro fama particolarmente sinistra.

I prigionieri di guerra godevano dei diritti previsti dalle convenzioni dell’Aia (1907) e di Ginevra (1929), ed in particolare essi avevano diritto ad essere trattati con umanità, a ricevere cure mediche e razioni alimentari sufficienti, corrispondenza e pacchi. Tutto questo non valeva però per i soldati italiani catturati dai nazisti dopo il “tradimento” dell’8 settembre, il cui stato giuridico non era quello di prigionieri di guerra, ma di internati militari. La qualifica di internati venne loro attribuita dai tedeschi proprio allo scopo di privarli delle tutele previste per i prigionieri di guerra, a cominciare dall’assistenza della Croce rossa. Tale decisione fu presa facendo strame del diritto internazionale, in base al quale si può parlare di internati militari soltanto “quando l’appartenente alle Forze Armate di uno Stato belligerante sconfina in territorio neutrale” (Resistenza senz’armi. Un capitolo di storia italiana, 1943-1945, dalle testimonianze di militari toscani internati nei lager nazisti, [a cura dell’] Associazione nazionale ex internati, Firenze, Le Monnier, 1984, p. 388): in tal caso lo stato neutrale ha il dovere di internare i militari rifugiatisi nel suo territorio per impedire che tornino a combattere.

Corrado Capecchi (detto “Corradino”) è stato uno dei tanti internati militari italiani (IMI). Capecchi nacque a Carmignano, che apparteneva allora alla provincia di Firenze, da Tito e da Imola Cartei il 15 aprile 1921. Cattolico praticante, non si schierò apertamente contro il regime, ma non ne condivise nemmeno le parole d’ordine (più volte si rifiutò di prendere parte al sabato fascista e venne per questo richiamato): Corrado fece insomma parte di quell’Italia apolitica che, con la sua indifferenza, rimase sostanzialmente impermeabile alla penetrazione della cosiddetta “mistica fascista”.

Nel 1941 Capecchi partì per il servizio militare: incorporato nel 6. Reggimento dei bersaglieri ciclisti, venne in seguito trasferito alla Legione carabinieri ausiliari di Roma. Nel dicembre dello stesso anno raggiunse l’Albania col 4. Battaglione dei carabinieri. Il 9 settembre 1943 fu catturato dai tedeschi a Pristina, l’odierna capitale del Kosovo, e deportato in Germania.

Nella vita di Corrado l’esperienza fatta in Germania come internato militare rivestì grande importanza: ne fanno fede le pagine di diario che vengono oggi pubblicate. Il diario in cui Capecchi racconta la sua vita nel lager restò chiuso in un cassetto per più di sessant’anni, fino al 2011, quando il figlio Alessandro lo trovò per caso in una vecchia scatola di ricordi. Il campo dove Corrado venne internato era un campo per ufficiali e per reparti scelti, fra i quali rientravano i carabinieri, ma il trattamento riservato ai prigionieri, anche se meno duro rispetto a quello in uso negli altri campi, era comunque pessimo. Il diario comincia il 25 settembre 1943 e si conclude il 12 aprile 1945. Gli appunti di Capecchi si riferiscono però soltanto ad una ventina di giorni. Il quaderno si compone quindi di poche pagine, ma tutte sono ben scritte e dense di pathos. La fiducia in Dio ed il pensiero costante per i familiari e per la futura moglie ne sono i motivi ricorrenti.

Il 25 settembre 1943 Corrado arrivò dunque nel campo di concentramento di Wietzendorf, nella Bassa Sassonia (il suo numero di matricola era il 1045). La sensazione da lui provata fu di profonda afflizione: “Tutto è triste. Piove – egli annotò – Malinconia e sconforto […] Da tre giorni non si mangia: ieri sera (finalmente) un poco di brodaglia di patate e rape […] e niente più […] Incomincia il nostro martirio. Dio, abbiate pietà di noi”. Sul problema del cibo insufficiente, un problema centrale per tutti gli internati, Capecchi tornò anche il giorno successivo, scrivendo: “oggi un po’ di acqua calda con qualche patata, un pezzetto di pane e un grammo di margarina”. Migliore era la condizione dei prigionieri di guerra che ricevevano i pacchi dalla Croce rossa e da casa: a distanza di cinquant’anni Corrado conservava ancora nitido il ricordo dei francesi che, dal campo contiguo, lanciavano del pane agli italiani. Ma, nonostante gli stenti ed i patimenti, che dopo pochi giorni avevano già reso “irriconoscibili” i prigionieri, Capecchi, come la stragrande maggioranza dei suoi compagni non tradì mai i valori che riteneva giusti. Sotto la data del 2 ottobre 1943 si legge infatti: “un ‘corvo fascista’ è venuto a cercare volontari […] Preferisco morire di fame che combattere per questi mostri inumani di tedeschi” (ed il rischio di morire di fame era tutt’altro che teorico se è vero, com’è vero, che ogni mattina mancava all’appello qualche internato, morto durante la notte nella branda consunto dagli stenti). Il giorno dopo cominciarono per Corrado i lavori forzati: “oggi mi hanno portato a lavorare lontano da qua, pala e piccone, questo sarà il mio impiego”. Ed il 4 ottobre: “Sono al campo di lavoro 6024 […] Guardiani feroci e inumani che bastonano per niente. Ma cosa hanno […] al posto del cuore?”. Il 25 dicembre 1943, primo Natale di prigionia, fu – come si può ben capire – una giornata mesta, in cui si fece più acuta la nostalgia della famiglia lontana (“come passeranno i nostri cari questo Natale senza di noi e senza nostre notizie?”) e l’inizio dell’anno non fu migliore. Il 1° gennaio 1944 Capecchi annotava: “ed eccoci nel nuovo anno. Una triste fine ed un peggior principio […]. Solo malinconia e sconforto. Fame, tanta fame”. Nel febbraio del 1944 Corrado, stremato dalla fatica, dovette essere ricoverato. Rimase in ospedale fino al mese di settembre, quando fece ritorno al campo di lavoro. La sorveglianza era rigidissima ed il morso della fame continuava a farsi sentire: “andiamo a rubare le patate la notte per mangiare – scrisse il 4 settembre –. La Gestapo e le SS seminano terrore e morte”. L’incubo volgeva però al termine. Nell’aprile del 1945 il campo di Wietzendorf venne liberato dalle truppe alleate. Capecchi conclude così il suo diario: “Dopo lunghi mesi di indicibili sofferenze fisiche e morali è arrivata l’ora in cui possiamo finalmente lanciare il grande grido: “Libertà” […] Se potessi […] esprimere tutta la felicità, tutta la gioia che sprizza dalla mia persona inonderei di lacrime […] questa pagina […] Viva la libertà santa e bella”.

Fatto ritorno a casa il 26 luglio 1945, Corrado venne posto in congedo illimitato il 30 novembre: in quel torno di tempo pesava meno di quaranta chili. Nel 1947 si sposò con Maria Bernardina Bellini (che nel diario è indicata affettuosamente come “Bibi”) e due anni dopo ebbe l’unico figlio. Morì a Carmignano il 20 novembre 2007, all’età di ottantasei anni. Il 14 dicembre 2012 il prefetto di Prato consegnò ad Alessandro Capecchi la medaglia d’onore concessa al padre in quanto deportato ed internato nei lager nazisti.

Questa, in estrema sintesi, è la storia di Corrado Capecchi, una storia non dissimile da quella di molti altri suoi coetanei, la cui esistenza – segnata dal dramma della guerra e della prigionia, subìta fino all’ultimo giorno pur di non schierarsi dalla parte sbagliata – può a buon diritto dirsi eccezionale perché rappresenta una prova di grande coraggio. Quasi nessuno era al corrente della sua vicenda, ed è stato quindi giusto riproporla in un momento in cui nel Paese riaffiorano pericolosi sentimenti razzistici ed il senso della solidarietà verso i deboli sembra appannato: la pubblicazione del diario di Capecchi intende portare a conoscenza del pubblico (ed in primo luogo dei giovani) una storia esemplare: quella di un uomo che, a rischio della vita, si è rifiutato di venire a patti con la propria coscienza. Grazie dunque a Corrado ed a tutti gli internati che si rifiutarono di combattere e di collaborare con i nazifascisti per l’esempio che hanno saputo darci.